Convegno di Mito&Realtà Milano 25 settembre 2015 “L’alleanza terapeutica nelle comunità residenziali. Tra dipendenza istituzionale e appartenenza sociale” ABSRACT INTERVENTI DEL MATTINO Seconda relazione “L’alleanza terapeutica, relazione in cerca d’Autori?” Relatori: Patrizia Giannini Antonello Angelini Luca Gaburri Titolo con cui, parafrasando Pirandello, vorremmo mettere in risalto un processo che a nostro avviso, più che mai in una Comunità terapeutica si declina su di un sistema con soggetti plurimi, e che ci permette di affrontare in particolare i temi dei nostri interventi, che, oltre al soggetto centrale, il residente, sono relativi agli invii, all’uso dei farmaci, alla relazione con i familiari… inoltre la parola Autori rimanda ad un processo di autodeterminazione, ad una Autorità di Sé di tutti i soggetti in causa… il punto interrogativo toglie la perentorietà di una affermazione, lasciando il senso (anche un po’ provocatorio) di una dialettica/questione aperta. Primo Intervento preordinato L’alleanza con i familiari Relatore: Antonella Cammarota In questo breve intervento vorrei riflettere su alcune delle ragioni che possono portare ad incomprensioni e conflitto oppure ad alleanze e collaborazioni tra comunità terapeutica e familiari a partire da una ricerca1 realizzata in alcune comunità terapeutiche e CSM di Roma e dall’esperienza maturata nell’Associazione di familiari Solaris onlus2 .La ricerca è durata quattro anni, abbiamo conosciuto le Comunità e i CSM attraverso gli sguardi con cui psichiatri, psicologi, assistenti sociali e infermieri guardano i familiari. Familiari che non sono una categoria omogenea e che possono essere percepiti come una risorsa o un ostacolo alla cura, ma che, in ogni caso, sono coinvolti nella grande sofferenza provocata dalla malattia psichiatrica. Abbiamo incontrato quelli che considerano i familiari come uno dei tre poli del progetto di cura e quelli che tendono a vederli strumentalmente come risorsa solo se rispondono alle richieste dell’operatore, e fra questi due poli tante altre situazioni differenti. Abbiamo provato a capire come la visione “negativa” che gli operatori a volte hanno dei familiari possa essere, in alcuni casi, giustificata dall’atteggiamento dei familiari stessi. Può accadere che i familiari pongano una richiesta impossibile, quale una pronta guarigione, richiesta a cui gli operatori non sono in grado di rispondere e questo può provocare incomprensioni e colpevolizzazioni, magari non esplicitate, che possono finire con l’alimentare atteggiamenti ostili e chiusure. Per affrontare queste ambivalenze occorre confrontarsi con il problema di come trasformare il rapporto di potere tra operatori, familiari e pazienti. Sia l’operatore che il familiare, nella relazione, possono trovarsi di fronte a enormi difficoltà. Da una parte può accadere che, accanto all’operatore disponibile alla collaborazione e all’ascolto si trovi un familiare che non ha fatto un percorso verso la consapevolezza, anche se questo può essere dovuto al fatto che i servizi non si sono potuti o voluti occupare di lui, e l’operatore si trova comunque ad affrontare una certa ostilità da parte del familiare. Dall’altra i familiari che sono disponibili a collaborare 1 Donatella Barazzetti, Antonella Cammarota, Silvia Carbone, Incolpevoli...però. La famiglia nelle rappresentazioni degli operatori dei servizi di salute mentale, Aracne, Roma 2014 2 Donatella Barazzetti, Antonella Cammarota (a cura di), I Funamboli. Lasciare la comunità terapeutica tra difficoltà e speranze, Altreconomia, Milano 2014 1 si possono trovano di fronte un operatore che li vede come parte in causa nella malattia e fa di tutto per allontanarli. Il nodo centrale è che sia gli operatori sia i familiari devono accettare che il paziente è un soggetto in grado di pensare e di partecipare attivamente alla scelta del progetto di cura. Un’effettiva collaborazione tra familiari e operatori ci può essere solo se i soggetti del discorso sono tre: pazienti, familiari e operatori. L’esperienza dell’Associazione Solaris con il progetto “le chiavi di casa” ci permette di vedere con un esempio concreto come si può sviluppare una collaborazione ed alleanza tra operatori, familiari e pazienti. ABSTRACT RELAZIONE E INTERVENTI DEL POMERIGGIO Quali fattori promuovono realmente l’inclusione sociale? Relatore: Antonio Maone La polarità inclusione/esclusione caratterizza varie condizioni di diversità, ma rivela implicazioni del tutto peculiari nel caso della disabilità psichiatrica. Con lo spostamento dell’asse dell’assistenza dalle vecchie istituzioni alla comunità, e con l’evoluzione delle politiche della salute mentale, tale polarità ha assunto una rilevanza ancora più evidente e centrale. All’esclusione, come effetto “naturale” dell’interazione fra disabilità (inerente all’individuo) e stigma (agito dal contesto ambientale), si contrappone l’obiettivo dell’inclusione, intesa quale traguardo tangibile e credibile del successo della cura e della riabilitazione. E questo traguardo deve essere perciò raggiunto attraverso un’azione combinata, sul piano politico e terapeutico: sull’individuo, promuovendo le sue le sue capacità di inclusione, e sulla comunità, combattendo la sua tendenza all’esclusione. Ma si tratta in realtà di un processo complesso e controverso. Intanto va ricordato che si declina su almeno tre versanti, tutti e tre necessari affinché si realizzi: l’inclusione fisica (il grado in cui un individuo, di sua iniziativa, impiega il suo tempo nella comunità, partecipa ad attività, ottiene beni e servizi); l’inclusione psichica (il grado in cui l’individuo percepisce se stesso come membro della sua comunità di appartenenza); l’inclusione sociale (il grado in cui un individuo è coinvolto in relazioni interpersonali nella comunità). Gli aspetti controversi dei processi di inclusione sociale si rivelano a partire dal rischio immanente e ubiquitario che, dietro le definizioni, si nascondano soluzioni di compromesso, in cui l’inclusione si traduce di fatto in una “convivenza”, più o meno prolungata, fra il soggetto “incluso”, altri soggetti con lo stesso status di disabile, e gli operatori dei servizi, in “nicchie” ambientali con diverse definizioni e tipologie, ma ugualmente presidiate e separate dalla comunità. Per far chiarezza, si pone quindi il problema di valutare il grado di effettiva inclusione sociale. Ma quando si applicano sistemi di misurazione in questo campo, ci si imbatte in una serie di problemi metodologici, e le valutazioni risultano aleatorie, contraddittorie o poco significative. Il paradigma della Recovery, da venti anni a questa parte, sembra porsi come costrutto chiarificatore del significato e del valore dell’inclusione sociale, mettendo a fuoco i processi che la favoriscono, poiché riconduce il concetto alle sue radici soggettive, a cosa realmente conta per l’individuo. In questa nuova luce, emerge innanzitutto l’importanza della human agency, ovvero dell’esercizio dell’autodeterminazione, come base del senso di sé, del senso di auto-efficacia e della motivazione; 2 o, in altri termini, riprendendo ad esempio le idee di Lichtemberg, Tolpin, Fonagy e altri in campo psicodinamico, della tendenza, inerente all’individuo, a riprendere (rebound) spontaneamente un processo evolutivo che si era interrotto o era stato ostacolato. Più che promuovere nell’individuo l’apprendimento di abilità sociali o esporlo a esperienze correttive o educative (processi in cui si suppone che le capacità di integrazione sociale vengano sviluppate grazie alle competenze professionali degli operatori), si tratterebbe quindi, piuttosto, di creare le condizioni, fornire le opportunità materiali, sostenere con continuità gli sforzi autonomi, garantire la scelta e il controllo personale. Ciò si traduce, sul piano politico, nel garantire l’accesso alle risorse e ai diritti fondamentali che caratterizzano un individuo incluso nella società (indipendenza abitativa, opportunità di contribuire alla vita della propria comunità, reddito); e, sul piano terapeutico e della pratica dei servizi, nella rinuncia preliminare ad orientare le scelte del paziente in base alle nostre valutazioni e convinzioni, ma piuttosto nel sostenere gli spunti autentici di autodeterminazione e il tipo e l’intensità del sostegno necessario, per come emergono e sono vissuti ed espressi come propri dal paziente. INTERVENTI PREORDINATI 1) Comunità Alisei (doppia diagnosi) Parco Lambro CEAS Milano Relatori: D. Catullo e G. Valera “QUANDO SONO I PESCI CHE PESCANO TE” L’alleanza terapeutica in comunità messa alla prova da un’inondazione “Stanotte ho sognato che ero a pescare con un mio amico sulla riva di un fiume, ad un tratto un pesce ha abboccato alla canna del mio amico e lo ha tirato in acqua, io mi sono spaventato e sono andato in ansia”. Questo sogno è stato raccontato da L. (l’ospite più giovane e grave della comunità) durante il primo gruppo di psicoterapia dopo l’esperienza dell’evacuazione dalla struttura causata dalla piena del fiume Lambro del novembre 2014. In questo “capovolgimento” delle coordinate, fotografato così nitidamente dal sogno di L. in cui sono i pesci a pescare gli esseri umani, quel clima gruppale tanto importante per la creazione e il mantenimento di un’alleanza terapeutica, come sottolineato da Luca Gaburri, è stato pesantemente investito da forti turbolenze. Gli operatori insieme agli ospiti (con i quali ci si è trovati davvero per certi versi sulla stessa barca emotivamente) si sono trovati improvvisamente a navigare a vista in un mare con delle condizioni atmosferiche pesantemente cambiate ed una visibilità molto scarsa. Quello che stava “sotto”, nel seminterrato della casa, è stato pesantemente danneggiato dalla doppia inondazione del novembre 2014: l’archivio storico (le storie degli ospiti), la caldaia, la dispensa alimentare, le porte “antipanico” sono state spazzate via dall’acqua. Tre notti sono state passate in una situazione estrema, sfollati in una palestra di una scuola. Poi la comunità è stata ospitata in un convitto infermieri di una struttura sanitaria dall’altra parte della città con caratteristiche totalmente diverse rispetto alla casa colonica situata nel parco Lambro nella quale solitamente risediamo: un lungo corridoio ospedaliero con camere spoglie, assenza di una vera cucina e mancanza di spazi all’aperto. Se pensiamo alla premessa per la quale, come sostenuto da Correale e sottolineato da M. Vigorelli per quanto riguarda i fattori terapeutici del setting comunitario: 3 “sembrerebbe esistere una corrispondenza fra la funzione dell’abitare intesa come capacità di utilizzare un luogo per deporvi aspetti quotidiani, in forma affettiva e sensoriale, della propria personalità e il fondo psichico del sé di ognuno, inteso a sua volta, come la modalità con cui ogni individuo sperimenta in modo globale la sensazione della propria esistenza e del funzionamento complessivo del proprio corpo e della propria mente come una totalità”. Possiamo cogliere meglio e più in profondità quello che ha potuto rappresentare la perdita ed il danneggiamento improvviso del luogo dove prendeva corpo l’esperienza comunitaria degli ospiti, degli operatori ed anche il lavoro amministrativo dell’ente che sovraintende la comunità stessa. L’impressione è che in questa situazione ci sia stata una polarizzazione tra chi ha reagito attivamente rischiando però di sfociare in una negazione delle emozioni spiacevoli connesse all’esperienza che si stava attraversando e chi è entrato più in contatto con gli aspetti depressivi con una conseguente tendenza alla paralisi. Durante una supervisione a questo proposito si è affacciata l’immagine del paziente che riceve una diagnosi di una grave malattia e che può reagire in modi opposti. Fortunatamente la coesione dell’equipe ha permesso un dialogo tra le due posizioni che ha permesso al gruppo di lavoro un’oscillazione elaborativa tra queste modalità di reazione entrambe necessarie per poter superare questa situazione traumatica e per modulare in modo adeguato gli interventi con gli ospiti. Il rischio da un lato è stato quello di trattare espulsivamente come capro espiatorio l’ospite più lamentoso che si faceva portavoce degli aspetti depressivi che una parte del gruppo sentiva di dover tenere lontano per non disperarsi e perdere la fiducia di potercela fare; da un altro quello di farsi contagiare da visioni catastrofiste sprofondando in una condivisa visione passivamente depressiva. Il gruppo di lavoro, cercando di mantenere il più possibile una continuità dei suoi riti, ha dovuto fornire (per quello che ha potuto) uno spazio di contenimento dell’angoscia generata dall’assenza del contenitore reale che normalmente funziona, come ben descritto da Bleger, da deposito di una parte (normalmente muta) delle angosce degli ospiti e degli stessi operatori. Dopo un mese siamo rientrati in una struttura che ancora portava pesanti segni di quello che era accaduto, piano piano lo sguardo si è abituato ai cambiamenti e al contempo è proseguito il lavoro di ricostruzione; naturalmente non è tornato tutto come prima. Credo che questo discorso valga anche per la realtà interna (individuale, gruppale ed istituzionale) che è stata attraversata da turbolenze sicuramente traumatiche ma forse anche parzialmente rigeneratrici. Le ragioni e l’entità di quello che è successo (e che sta succedendo) è difficile da valutare precisamente in questo momento, la sensazione è che alcuni anelli problematici del sistema sotto la pressione degli avvenimenti si siano rotti definitivamente consentendo dei tentativi (tuttora in corso) di trovare nuovi equilibri. Durante il periodo emergenziale nessun ospite ha lasciato la comunità, solo una delle persone più fragili è ricaduta nell’uso delle sostanze in modo non particolarmente distruttivo, sicuramente ci sono stati dei costi emotivi che a qualcuno hanno poi forse presentato il conto, però è stata un’occasione in cui gli ospiti hanno potuto condividere, prendendone parte attiva, all’attraversamento di una situazione traumatica questa volta però emotivamente condivisa e con degli operatori/adulti che hanno saputo “tenere il timone” a differenza delle vicende infantili nelle quali in modi diversi si sono trovati tutti coinvolti nelle loro vite. Crediamo che l’alleanza terapeutica in comunità, se da una parte si poggi su quella parte capace di fidarsi ed entrare in relazione che almeno in parte deve essere ancora contattabile (e quindi riscopribile) dall’ospite, da un'altra trovi nuova linfa nella possibilità di vivere e superare momenti difficili individuali e gruppali in un clima di condivisione affettiva dove la rabbia, la depressione e 4 la paura possano essere contenute ed elaborate prima di tutto dal gruppo allargato (operatori e pazienti) e poi dagli individui che lo compongono a differenti livelli. 2) CT MAIEUSIS per psicosi e disturbi di personalità (Roma) Relatore: Saverio Caltagirone Come sappiamo l’Alleanza terapeutica è uno strumento fondamentale della terapia. Essa assume funzioni diverse durante il processo terapeutico; così, potremmo parlare di come si crea l’alleanza terapeutica; del giusto coinvolgimento nella relazione; delle resistenze alla terapia; dell’elaborazione del transfert; dell’alleanza terapeutica dopo il programma residenziale e alla dimissione. Insomma le cose da dire sarebbero tante. Qui si accenna solo a come si crea, come si sviluppa e come si preserva l’alleanza terapeutica: - per creare l’alleanza terapeutica, la Maieusis attua un programma di Inserimento in CT; - per sviluppare l’alleanza terapeutica, sono contemplati alcuni elementi strutturali come: il Setting, la Continuità terapeutica, Operatori psicoterapeuti; - per preservare l’alleanza terapeutica è importante prevedere, dopo un comportamento distruttivo, una Riparazione; cioè il paziente deve anzitutto spiegare il motivo del suo agito; poi deve ripagare, simbolicamente e materialmente, l’oggetto danneggiato. 3) Comunità Educativa “Comunità Alloggio Victorine le Dieu” (Catania) Comunità Terapeutica “Gruppo Calimero”, CdR Villa Angela Relatore: Simone Bruschetta Lo scenodramma nelle comunità per minori. Un dispositivo di sostegno all’alleanza terapeutica La vita in una comunità per minori e la sua regolazione funzionale al raggiungimento degli obiettivi evolutivi (terapeutici e/o educativi), si struttura su due assi: l’organizzazione degli spazi e l’organizzazione dei gruppi che la costituiscono. Il concetto di alleanza terapeutica in queste comunità passa quindi dalla condivisione delle “regole che regolano”, appunto, le relazioni all’interno di questi spazi e di questi gruppi, proprio come il concetto di processo terapeutico passa dall’interiorizzazione delle stesse. “Alleanza terapeutica” e “processo terapeutico”, quindi, vanno intesi come due facce della stessa medaglia e non come due fasi in successione logica e/o cronologica. L’alleanza si rafforza man mano che i processi terapeutici prendono forma, ed il processo terapeutico diventa più efficace man mano che l’alleanza si instaura tra le parti. L’istallazione di un dispositivo di un piccolo gruppo di scenodramma nei programmi di accoglienza e di sostegno alla convivenza in comunità permette di sostenere contemporaneamente tutti i processi fondamentali alla co-costruzione dell’alleanza terapeutica tra ogni utente e il dispositivo comunitario residenziale nel suo complesso. Viene qui presentata l’esperienza di piccoli gruppi, chiusi ed a termine, condotti periodicamente e ciclicamente, sia in comunità terapeutiche che comunità educative per minori, con la tecnica del tavolino da gioco denominata appunta Scenodramma, da uno psicoterapeuta esterno alla comunità, in staff con tre operatori ed in gruppo con altri tre utenti della stessa. In questo resoconto verrà necessariamente tralasciata, anche se la considero fondamentale, la descrizione della dinamica istituzionale di selezione dei tre operatori e dei tre utenti da coinvolgere 5 nel gruppo di scenodramma, per evidenti finalità espositive. Mentre verrà invece focalizzata l’attenzione sugli effetti dello scenodramma nei processi di adesione al programma della comunità e di progettazione terapeutica individualizzata, in sostanza sulla costruzione dell’alleanza terapeutica in comunità. In particolare presenterò una veloce descrizione del dispositivo dello scenodramma, alcune riflessioni sull’esperienza e delle immagini esplicative delle dinamiche psichica sviluppatesi specularmente tanto nel gruppo di scenodramma quanto nella comunità terapeutica. 4) CT EIMI per adolescenti (Roma) Relatore: Claudio Bencivenga Adolescenti, famiglie, Tribunale e Comunità : una sinergia possibile. Come premessa, per inquadrare l’intervento, va detto che le trasformazioni della famiglia mononucleare sono andate in parallelo con i mutamenti storico culturali secondo un processo osmotico reciproco e dove la figura del padre e della madre hanno attenuato di moltissimo quel “gap” che li caratterizzava. Allo stesso tempo il ruolo dei figli ha perso quella subalternità e riverenza che caratterizzava le famiglie di allora e dove col tempo il loro ruolo a tutti gli effetti si è elevato sul “tavolo della concertazione”. Alla luce di ciò risulta più chiara la ragione per la quale il minore è considerato protagonista attivo in tutti i procedimenti che lo interessano (sia in campo civile, che amministrativo, che penale). Si ricorda, per inciso, che prima della modifica del diritto di famiglia (del 75) erano impensabili concetti quali l’“ascolto del minore”, di “responsabilità genitoriale”, giacché il concetto allora vigente era quello di “patria potestà” di matrice romanistica (pater familias). In coerenza con questo processo multifattoriale anche le manifestazioni sintomatologiche del malessere psichico hanno seguito un mutamento, spostandosi - potremmo dire in breve scusandomi per l’estrema sintesi – dall’alveo della colpa, del peccato, della sessualità negata, del tabù (dove il conflitto si giocava sulla polarità “autorità/soggezione”) sempre più all’area dei disturbi narcisistici, ovvero della competizione tra i pari, dell’emulazione, dell'apparire e con il tenere il passo con standard di prestazione elevate molto connesse alla sfera dell'Ideale dell’Io3. Per ritornare a quello che si diceva poc’anzi si possono richiamare i numerosi studi di stampo sociologico che hanno evidenziato il processo di liquefazione del concetto di autorità. Ogni epoca, quindi, ha prodotto forme diverse di malesseri, ma anche nuovi modelli e approcci di intervento (clinico) e tali mutamenti emergono chiaramente anche nel campo legislativo/normativo secondo un andamento isomorfico. Come entra tutto questo con l’argomento odierno? Considerato che tratterò di minori, del loro inserimento in Comunità e di un almeno iniziale scarsissima adesione al trattamento ancor più se c’è una prescrizione da parte del Tribunale? Ma si può lavorare nel costruire un’ alleanza, un’adesione senza prevedere un lavoro con le famiglie? Come va fatto il lavoro con i genitori e qual è la “forma mentis” dell’intervento? Ma se oggi i minori rispetto ai propri genitori sono saliti sul tavolo della concertazione (per le trasformazioni culturali di cui si accennava), ha ancora senso trattare le famiglie con un benevolo paternalismo o ha più senso pensare loro come dei cocostruttori di ipotesi o una sorta di “coterapeuti” per costruire con loro – e quindi anche con i figli - una motivazione? In mancanza di quei “garanti (meta-sociali)” esterni 3 Tutta la sfera dei disturbi depressivi è l’altra faccia della medaglia: laddove non si riesce a stare al passo con lo standard e la richiesta di performance dell’ideale dell’io. 6 che un tempo orientavano i genitori su 'cosa fare e non fare', 'dire o non dire', 'permettere o non permettere' - le famiglie per uscire dal disorientamento sono chiamate ad 'autodefinire', volta per volta, le proprie regole costitutive proprio perché non più date a priori … e ciò per mezzo dell’unico elemento prezioso che hanno , ossia la relazione , lo scambio , e l’ascolto attento tra i propri membri. Certamente ciò si può fare se ci sono professionisti preparati, occasioni, e luoghi deputati ad accompagnarli in questo difficile percorso e dove tutti sono da considerarsi con un ruolo non più così ìmpari . Alla stessa stregua non esiste un’antinomia Tribunale/Comunità ma anzi un rapporto sinergico. Infatti, nella realizzata sintonia tra Tribunale e Servizi ai fini della valutazione della recuperabilità di una situazione disfunzionale, il ricorso alla magistratura da parte dei Servizi fa sì che il Tribunale con il suo provvedimento operi come strumento del cambiamento (Occhiogrosso, 2009). Va considerato difatti che talvolta un decreto del Tribunale ha un suo effetto “terapeutico” (Galli et al., 2007) capace di mobilitare risorse in situazioni dove lo stallo e meccanismi di negazione del malessere o della sofferenza hanno preso il sopravvento. Chiaramente compito dei Servizi territoriali, delle Comunità, ecc., a seguito di questo input (a valenza forte) del Tribunale – finalizzato come detto a smuovere una situazione disfunzionalmente omeostatica - dovranno utilizzare tutta la loro competenza per trasformare una motivazione inizialmente “etero indotta” in una motivazione, possiamo dire, il più possibile intrinseca. E ciò lo si può fare se cambia il modo di porsi nei confronti dei familiari non più con posizioni aprioristiche giudicanti, famiglie “schizofrenogene” o “criminogene”, ecc. D’altra parte il Tribunale quando si occupa dei minori pur con il suo valore simbolico prescrittivo, di limite, oggi aderisce, “al passo coi tempi”, ai principi così conosciuti del “diritto mite” come teorizzato dai maggiori costituzionalisti e magistrati (Zagrebelsky, Occhiogrosso, Pazè): “il diritto mite tende a sostituire al sì e al no imposti dall’autorità una procedura di accompagnamento che lascia però la parola ultima all’autodeterminazione delle persone coinvolte. Diciamo , il primo obiettivo è l’accordo, il consenso, la soluzione meno traumatica. E quindi l’intervento del giudice avviene in seconda battuta, o in terza , in quarta non in prima … Naturalmente – aggiunge Zagrebelsky - anche questo spostamento di attenzione non risolve il problema di evitare l’autoritarismo nel senso che alla fine il giudice della bilancia e della spada non è escluso. “Ecco il diritto mite parte dalla scommessa che le pene non devono consistere in un percorso rieducativo imposto ma nel creare delle condizioni , nel promuovere delle condizioni di salute. Il diritto deve usare mezzi radicali come l’asportazione oppure promuovere le energie interiori , fornire le condizioni per? Occorre un diritto che promuova l’autopromozione dell’individuo , quindi che non sia né paternalistico , perchè non vuole imporre un modello , né freddo e meccanico , ma un diritto che crei spazio per la crescita”. All’interno di questa cornice entrano i Servizi. Ponendoci pertanto nella prospettiva che anche la giustizia è parte di un sistema di cura, si comprende come - in occasione di un procedimento giudiziario - possano prendere il via delle attività parallele più propriamente a contenuto e con una “mission” di cura: come ad esempio l’attivazione sul territorio di risorse sociali e sanitarie, l’affidamento familiare, finanche le accoglienze nelle strutture comunitarie. 5) CT Casa Godio per psicosi (Pesaro) Relatore Maurizio Carta L’alleanza terapeutica nelle comunità residenziali: 7 tra dipendenza istituzionale e appartenenza sociale L’autore in questo contributo cerca di descrivere come l’invito a partecipare ad un convegno permetta ad una giovane equipe il confronto con concetti ancora poco digeriti. Quando mi venne chiesto di portare al convegno di settembre di Mito & Realtà un contributo sull’alleanza terapeutica mi confrontai con l’equipe, chiedendo intanto loro come l’avrebbero definita. Alcuni cercavano di abbozzare una definizione altri non avevano chiaro si facesse riferimento ad un concetto definito. Casa Godio è una struttura ancora giovane, non solo il progetto Casa Godio è di recente avvio, ma anche l’èquipe è anagraficamente e professionalmente giovane. Ciò porta con sé elementi propulsivi e di innovazione, ed allo stesso tempo aspetti legati all’inesperienza che possono manifestarsi come senso di inadeguatezza e dubbio immobilizzante o all’opposto eccessiva sicurezza nelle proprie idee anche quando queste sono decisamente soggettive e poco supportate da riferimenti teorici. Siamo quindi partiti dai classici. Freud individuò questo aspetto della relazione analista paziente come parte del transfert, l’elemento che consente di cogliere e utilizzare le interpretazioni dell’analista. L’alleanza terapeutica fa riferimento a quel movimento affettivo che lega il paziente alla terapia, creandoquel clima di fiducia e collaborazione che consente di affrontare il lavoro terapeutico anche nelle fasi più delicate. Calando questo concetto sul lavoro comunitario si evidenziavano subito alcune questioni, tipo l’alleanza terapeutica rappresenta l’esito di un lavoro che permette un trattamento o piuttosto è da intendersi come un processo che accompagna il trattamento? O ancora, esiste il rischio che l’alleanza terapeutica da strumento trasformativo ed evolutivo del trattamento diventi strumento di controllo? Non dare per scontate le cose ha permesso di riscoprire insieme il senso di assunti ormai consolidati, e di evidenziare meglio le proprie posizioni. 8