Le sette spie del mobbing La Corte di cassazione ha

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Sabato
06/06/2015
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Pierluigi Magnaschi
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Le sette spie del mobbing La Corte di cassazione ha dettagliato i
criteri per stabilire quando il lavoratore ha il diritto ad ottenere il
risarcimento dei danni subiti dal suo datore di lavoro
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Dalla Corte di cassazione arrivano le linee guida
per riconoscere d mobbing Una sentenza
individua infatti il «metodo» certo per scoprire se
d lavoratore ricorrente ha diritto a ottenere
un risarcimento da parte del proprio datore di
vessazioni, la frequenza, d tipo di azioni ostdi e
lavoro II tutto, individuando sette parametri che l'escalation del fenomeno a pag. . 29
devono essere provati dal soggetto che si dice
mobbizzato Tra questi, la durata delle
LE LINEE GUIDA FISSATE DALLA CORTE DI CASSAZIONE Sette parametri per provare il mobbing
Linee guida certe per riconoscere il mobbing dalla Corte di Cassazione. I giudici di legittimità, infatti, con la sentenza n.
10037/2015, offrono oggi il «metodo» certo per scoprire se il lavoratore ricorrente ha diritto a ottenere un risarcimento da
parte del proprio datore di lavoro. In sostanza si tratta del riconoscimento da parte della giurisprudenza di un già noto
metodo scientifico di valutazione del danno lavorativo. I parametri che, secondo l'autorevole pronuncia, devono essere
provati dal soggetto che si dice mobbizzato concernono puntualmente i seguenti aspetti: ^^^ 1) l'ambiente di lavoro (nel
<«""*" senso che le vessazioni devono avvenire sul luogo di lavoro); 2) la durata (con contrasti avvenuti in un congnio
periodo di tempo); 3) la frequenza (le provate attività vessatorie devono essere reiterate e molteplici nel tempo); 4) tipo di
azioni ostili (le azioni poste in essere devono rientrare in almeno due delle categorie di azioni ostili riconosciute: attacchi
alla possibilità di comunicare; isolamento sistematico; cambiamenti delle mansioni lavorative; attacchi alla reputazione;
violenze o minacce); 5) dislivello tra gli antagonisti (provando l'inferiorità del soggetto mobbizzato); 6) andamento secondo
fasi successive (almeno alcune tra, conflitto mirato; inizio del mobbing; sintomi psicosomatici; errori e II principio La
Suprema corte afferma che perché possa ritenersi provato il tipico mobbing in danno di un lavoratore, e il conseguente
diritto a un risarcimento economico, occorre che i giudici di merito, esaminata la vicenda lavorativa e le risultanze
processuali, compresa la perizia eventualmente eseguita, abbiano riscontrato la presenza contestuale di tutti e sette i
parametri tassativi di riconoscimento della fattispecie, che sono: l'ambiente, la durata, la frequenza, il tipo di azioni ostili, il
dislivello tra gli antagonisti, l'andamento secondo fasi successive, l'intento persecutorio abusi; aggravamento salute;
esclusione dal mondo del lavoro ecc); 7) intento persecutorio (ossia la prova di un disegno vessatorio coerente). Perché si
abbia mobbing, a giudizio della Cassazione, devono ricorrere tassativamente e contestualmente tutte e sette le predette
condizioni. Nel caso trattato, dei predetti profili, i giudici di merito, in fase istruttoria, avevano avuto prova certa,
argomentando di conseguenza le proprie motivazioni. La vicenda traeva origine dalla vicenda di un dipendente pubblico
che lamentava di avere sofferto mobbing a causa di un conflitto con il proprio diretto superiore gerarchico, senza che il
datore di lavoro intervenisse per evitare la situazione di vessazione. Già i giudici di merito, a seguito di prove testimoniali e
perizie, nonché sulla base della documentazione prodotta, erano venuti a riconoscere che il dipendente aveva sofferto «la
sottrazione delle proprie mansioni, la conseguente emarginazione, lo spostamento senza plausibili ragioni da un ufficio
all'altro, l'umiliazione di essere subordinati a quello che prima era il proprio sottoposto, l'assegnazione a un ufficio aperto al
pubblico senza possibilità di poter lavorare, così rendendo più cocente l'umiliazione». Ora, in sede di giudizio di legittimità,
confermano l'ineccepibilità delle decisioni di merito che già avevano dato ragione al lavoratore. Da osservare come, a
conforto delle tesi espresse nelle pronunce di merito, la S.C. richiami più volte la sostanziale e, si direbbe, quasi dirimente,
rilevanza dell'autorevole perizia eseguita in sede penale «da uno dei massimi esperti di mobbing». Sempre nell'annosa
attesa di una disciplina normativa del mobbing, la sentenza n. 10037/2015 segna un decisivo e ulteriore passo verso un più
definito assetto della nozione di vessazioni sul luogo di lavoro. Da un lato, disincentivando azioni avventate (o comunque
poco meditate) da parte dei lavoratori. Dall'altro, offrendo, a parti e giudici, gli «appigli» sicuri di una ponderata road map
di riscontri che devono essere posti alla base del riconoscimento del danno del lavoratore. Mauro Parisi
Politiche del lavoro
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