Indice
9 Premessa
(di Ubiratan D’Ambrosio)
15 Capitolo 1
Zero nella storia
1.1.
1.2.
1.3.
1.4.
1.5.
1.6.
1.7.
1.8.
Zero
Zero
Zero
Zero
Zero
Zero
Zero
Zero
cifra
numero cardinale
numero ordinale
numero naturale
e le operazioni in N
numero intero
numero razionale
numero reale
43 Capitolo 2
Zero nella matematica
2.1. Zero, ostacolo epistemologico
2.2. Mesopotamia
2.3. Grecia
2.4. Egizi
2.5. Maya
2.6. Cina
2.7. India
2.8. Lo zero nelle lingue moderne
2.9. Arabi ed Europa
2.10. Rinascimento
2.11. Conclusioni
55 Capitolo 3
Zero nella didattica
3.1.
3.2.
3.3.
3.4.
3.5.
Zero: dicotomia tra senso comune e matematica
Repertorio di difficoltà in primaria
Repertorio di difficoltà in secondaria
La teoria di Gérard Vergnaud
La concettualizzazione segno-oggetto di Raymond Duval
71 Capitolo 4
Uso spontaneo dello zero da parte
dei bambini fra i 3 ed i 6 anni
4.1. Interviste individuali
4.2. Interviste collettive
89 Capitolo 5
Difficoltà nell’apprendimento di zero
e didattica della matematica
5.1.
5.2.
5.3.
5.4.
5.5.
5.6.
5.7.
Zero, ostacolo didattico creato da malintesi?
Contratto didattico
Eccesso di rappresentazioni semiotiche
Immagini e modelli troppo presto formatisi
Misconcezioni
Ostacoli ontogenetici, didattici ed epistemologici
Eccesso di situazioni didattiche e mancanza di situazioni adidattiche
117 Bibliografia
zero
E torniamo ora a numeri pari e dispari.
Abbiamo un numero a e ci chiediamo se è pari o dispari; lo dividiamo per 2 cioè: a:2; il resto
di questa divisione può essere solo o 0 o 1:
se il resto è 0, a si dice pari,
se il resto è 1, a si dice dispari.
Ecco perché 12, 24, 20, 18, 6, 2 sono numeri pari, mentre 7, 11, 101, 9, 3, 1 sono numeri
dispari.
Prendiamo in esame proprio 1; 1:2 fa 0 con il resto di 1, dunque 1 è dispari.
Ci si accorge subito che i numeri pari e dispari si seguono alternativamente:
1 dispari, 2 pari, 3 dispari, 4 pari, 5 dispari, 6 pari ecc.
E 0, è pari o dispari?
Facciamo i conti; quanto fa 0:2? Deve fare un numero c tale che c×2=0; ora, qual è quel numero c
che moltiplicato per 2 dia 0? C’è poco da fare, c deve essere per forza 0. Dunque 0:2=0 e resta 0.
Dunque 0 è pari proprio per la definizione data prima.
Questo ragionamento ci ha permesso di notare come 0:2 faccia 0; più in generale 0:8, 0:115,
0:11, 0:1000 fa sempre 0.
E quanto fa 5:0? Facciamo i calcoli: 5:0 deve dare un numero c tale che c×0=5; ora, qual è quel
numero che moltiplicato per 0 dà 5? Ci vuol poco a capire che un numero siffatto non c’è, non
esiste e non esisterà mai, né in N, né in Z (interi), né in Q (razionali), né in R (reali). Dunque alla
domanda: «Quanto fa 5:0?» la risposta è che non fa un bel niente, non esiste, non c’è; dunque,
scrivere 5:0 è un errore sintattico, un non senso, da evitare come la peste.
Se appare da qualche parte scritto un numero diviso per 0, allora l’Autore sta scherzando e sta
prendendo in giro il Lettore.
Meglio evitarlo del tutto. Non si deve e non si può scrivere.
E quanto fa 0:0? Domanda inutile: dopo il segno «:» lo zero non ci può stare, punto e basta; altra
scrittura senza senso, ancor più da evitare.11 In ogni caso, ammettendo che 0:0 faccia a, si avrebbe
un caso strano: a vale qualsiasi numero. Infatti, per definizione di divisione, se 0:0=a, allora a è tale
da far sì che a×0=0; ma questo fatto vale per qualsiasi valore di a. Forse è per questo che su certi
libri di testo, invece che vietare la scrittura 0:0, si scrive che essa è indeterminata.
Ad un certo livello matematico, anche scolastico, per esempio alla fine di quelle scuole superiori dove si fa matematica
di un discreto livello, o all’università, scritture che presentano 0 al denominatore acquistano un senso, ma si tratta
comunque di scritture convenzionali che vanno introdotte ed usate con estrema cura.
11
30
Zero
nella storia
Insomma, tutte le volte che si ha a che fare con la divisione, bisogna sempre controllare che
il termine dopo il segno «:» sia diverso da zero, altrimenti si sta parlando di cose senza senso, di
contraddizioni, di paradossi.
x Nella scuola media e superiore, tutte le volte che si incontra una frazione letteraria del tipo
y l’insegnante ed i libri si affannano a suggerire che si deve immediatamente imporre y≠0; ma
lo studente talvolta se lo dimentica o ignora il messaggio perché non ha capito il senso della
cosa.
Abbiamo detto che si parla di contraddizioni o paradossi; vediamone uno.
Consideriamo l’equazione lineare:
x(2-2)=0;
dividiamo entrambi i membri per (2-2); si trova:
x(2 – 2)
0
=
2–2
2–2
semplifichiamo nella prima:
x=
0
2–2
e notiamo che 0 diviso per qualsiasi numero dà 0, da cui la soluzione:
x=0.
Si noti che x=0 è davvero una radice dell’equazione di partenza, ma anche 65 lo è: infatti
65×(2-2) fa proprio 0.
Che cosa è successo? Che abbiamo portato a denominatore 0 (sotto forma di 2-2) e a quel punto
può succedere di tutto, mille contraddizioni.
Vediamo un altro paradosso: «dimostreremo» che 1=2.
Sia data la seguente uguaglianza:
y=x;
moltiplichiamo per x entrambi i membri:
xy=x2;
sottraiamo y2 ad entrambi i membri:
xy-y2=x2-y2;
31
zero
vuoti; come se noi scrivessimo 32 per indicare 302; il segno
starebbe ad indicare che, tra le 3 centinaia e le 2 unità, il posto
delle decine è vuoto. Il segno  non sarebbe dunque una cifra,
ma solo l’indicazione di uno spazio.
In tavolette di creta datate tra il 2000 ed il 3000 a.C. manFig. 2.2 Segni usati dai Babilonesi per indicare uno
ca
addirittura
lo spazio vuoto (come in quella proveniente
spazio vuoto nella scrittura dei numerali in
da
Uruk
e
conservata
al Louvre, numero di inventario AO
epoca seleucide.
17264), il che crea disagio in chi interpreta.
Tra il 1700 ed il 400 a.C. si fa sempre più frequente lo spazio vuoto. Mentre nell’epoca seleucide
(tra il 311 a.C. e la prima metà del I sec.) appare finalmente un vero e proprio segno apposito per
indicare tale spazio vuoto senza equivoci (come nella tavoletta proveniente da Babilonia e conservata
al British Museum, numero di inventario BM 32651).
Una riflessione è d’obbligo: nel nostro attuale sistema, 0 è una vera e propria cifra, come
abbiamo visto nel capitolo 1; nel sistema babilonese antico, invece, il segno introdotto vuol solo
dire «assenza» e non ha funzione di numerale. Può sembrare una differenza da poco, ma non lo è:
accettare un segno specifico che indica vuoto o nulla o assenza come una vera e propria cifra che
indica un segno numerale è un vero atto di coraggio culturale, filosofico. Non sappiamo quando
questo fatto avvenne, ma ci sono documenti del 200 a.C. assai chiari in tal senso: appare in essi un
segno per indicare l’assenza delle cifre, ma tale segno non è ancora a sua volta una cifra.
2.3. Grecia
Neppure i Greci, i più grandi
matematici della storia, concepirono
lo zero come numero; i loro numeri
partivano da due, dato che per essi
«il numero è molteplicità»; dunque uno non è un numero (e zero
meno ancora, non ce n’era neppure
l’idea).
Spesso si dice che questo fatto è
connesso al terrore filosofico che i
44
Fig. 2.3 Parmenide di Elea [VVI sec. a. C.].
Fig. 2.4 Tolomeo.
Zero
nella matematica
Greci ebbero del nulla, del vuoto, dell’assenza, concetto che entrava in forte contrasto con la filosofia parmenidea (l’Essere, unità e totalità, eterno, di cui si può predicare solo che «è») che dominò
il loro pensiero filosofico.
Tuttavia un segno rotondo appare in Tolomeo [85-165] nel 150 per indicare gradi, primi o
secondi nulli nelle misure di ampiezza.
2.4. Egizi
Tuttavia, recenti ricerche hanno un po’ modificato lo stato delle ipotesi che fino a pochi anni
fa sembravano inamovibili.
In Egitto, i blocchi di granito della successione che sta alla base della piramide a contatto con
il suolo, portano spesso l’indicazione
come ad indicare un livello zero. Dalle descrizioni trovate, si sa che le consonanti che ne costituiscono il nome sono nfr, ma nulla si sa dei suoni vocalici che, di solito, non hanno trascrizione,
né del significato di tale parola che resta, dunque, indecifrabile e per ora neppure pronunciabile.
Forse le pietre venivano segnate con questo simbolo quando ancora dovevano essere trasportate
da lontano, per indicare che erano quelle che dovevano andare al livello zero, costituendo la base
di tutta la costruzione.
Lo stesso simbolo è stato rintracciato su documenti contabili mensili risalenti alla dinastia 13
del Regno Medio (1700 a.C.). Si tratta di conti su colonne con doppie entrate separate per tipo
di genere; alla fine del mese, per indicare che entrate e uscite si equilibrano, riappare il segno
precedente.
Il segno dunque indica equilibrio, parità, livello di base di partenza per la parte della piramide
sopra il piano e sotto, davvero una specie di zero.
D’altra parte, la relazione tra Egizi e Mesopotamia è stata provata da tempo, in corso fin dal
3300 a.C. (Ifrah, 1981), e il tondino egizio assomiglia assai a quello sumero.
Ma non limitiamoci, come fanno molti, al mondo mediterraneo.
45
Zero
nella matematica
2.8. Lo zero nelle lingue moderne
Prima di proseguire con la storia, una piccola digressione linguistica.
Si noti che il termine indiano śūnya («zero» o «vuoto») divenne sifr in arabo e zephirum in
latino; mentre la traduzione storpiata di sifr divenne cifra in latino (insieme ad altri termini
medioevali come sifra, cyfra, tzyphra, cifre, cyfre,… che si trovano in manoscritti e libri d’abaco
medioevali).
Ancora nel XIII secolo, dire di una persona che era «cifra di angorisma» o «cifra in algorismo» era assai spregiativo; sarebbe come dire oggi: «Quella persona vale come zero in un
calcolo».
Più tardi, questo nome latino di «zero» venne interpretato come segno che indica un numero
qualsiasi, cioè l’attuale uso di «cifra» in italiano.
Analoga sorte toccò al termine adottato alla fine del Medioevo in Francia, cifre, che divenne
chifre e poi l’attuale chiffre: il cambio di significato da «zero» a «cifra» avvenne più tardi, dato che
ancora alla fine del XV secolo ci sono testi che parlano di chifre nel senso di «zero».
Analoga storia in Germania, dove sifr diventa zifra, ziffra e poi il moderno Ziffer in tedesco (da
notare che, in tedesco, «zero» si dice die Null).
Cifra, in spagnolo, ha avuto più o meno la stessa storia dell’italiano.
In portoghese cifra ha lo stesso significato dell’italiano, ma a volte la si usa ancora per «zero».
In albanese, «zero» è zero e «cifra» è shifra.
In svedese, siffra sta per «senza valore».
In inglese si è mantenuto a lungo il termine cipher per «zero», mentre per dire «cifra» si è a lungo
usato figure o numeral, prima di digit.
Ma torniamo alla storia.
2.9. Arabi ed Europa
... .
Nel 950, in Spagna
i
Mori
scrivevano
(usiamo
le
cifre
attuali):
8 3 per dire quel che noi oggi
...
scriveremmo 8030, e 8 3 per scrivere 8003.
Il monaco Gerberto di Aurillac [ca. 950-1003], che poi divenne papa Silvestro II, abile abacista,
nel 967 usava dei gettoni di corno per fare i calcoli; ma aveva un gettone speciale per indicare il
posto vuoto, che si chiamava sipos (dal greco: ciottolo).
51
zero
Leonardo [1176-1240] figlio di Bonaccio
(Fibonacci) il Pisano, nel 1202 parla ancora di 9
«cifre» indiane (le figure delli Indi) e del «segno»
zero. Nega dunque allo zero la dignità di cifra.
Lo zero entra in Europa solo al momento di
una revisione scolastica della precedente accettazione di molti diktat aristotelici; questa revisione iniziò nel 1277, quando il vescovo di Parigi
Étienne Tempier [?-1279] convocò un concilio
proprio per sconfessare e denunciare punti di
Fig. 2.14 Gerberto di Aurillac. Fig. 2.15 Leonardo Fibonacci il vista di Aristotele contrari al cristianesimo. Va
Pisano.
anche detto che il suo uso era già diffuso tra i
commercianti, ma non a livello accademico.
Alessandro De Villa Dei nel 1240 circa (c’è chi dice 1225) scrive la Canzone dell’Algoritmo
(Carmen de Algorismo) letta e riletta nei conventi e nelle università da chiunque si occupasse di
arismetrica:
Prima significat unum; duo vero secunda;
Tertia significat tria; sic procede sinistre
Donec ad extremam venias, quae cifra vocatur.
Il che significa che zero non è considerato al primo posto nella successione dei numeri naturali,
ma è la decima cifra, quella che viene per ultima, dopo il 9.
2.10. Rinascimento
Forse una reale consapevolezza definitiva che zero va considerato alla
stregua di qualsiasi altro numero si ha nel 1484, quando il medico-matematico Nicolas Chuquet [1445-1488] risolvendo l’equazione 3x2+12=12x
trova √16 – 16, il che gli fa asserire che ha senso calcolare √0, trattando
cioè zero come un qualsiasi altro numero.
Fig. 2.16 Nicolas Chuquet.
52
zero
Il Lettore poi avrà notato che la scrittura x=0 una volta è una equazione da risolvere ed un’altra
è una dichiarazione di valore; nella equazione x=0, il valore 0 è radice.
Come non confondersi, effettivamente?
10.
Sempre in tema di equazioni di II grado, espresse in forma canonica:
ax2+bx+c=0;
anche su suggerimento di alcuni libri di testo, lo studente si sbizzarrisce a considerare i vari casi in
cui a, oppure b, oppure c oppure due di essi sono zero; in alcuni testi, addirittura cambia il nome
della equazione a seconda dei casi.
A parte il fatto che se a è zero, allora l’equazione di II grado… diventa una di I grado, questa
massa di zeri mette in allarme lo studente che si sente come costretto ad ipotizzare formule diverse
per ogni caso.
Quel che ne emerge, alla fine, è la conferma che zero è un brutto numero, da evitare come la
lebbra.
11.
Così, se un insegnante chiede allo studente le radici dell’equazione di II grado in forma di
prodotto di monomi:
(x-1)(x-2)=0,
è difficile che si senta rispondere con un bel semplice e diretto: «Le radici sono 1 e 2»; soprattutto per motivi di contratto didattico, lo studente esegue la moltiplicazione, ricava la forma
canonica ed applica la formula risolutiva; se gli va bene, ritrova proprio 1 e 2, se sbaglia a fare
i calcoli, addio.
Oltre a motivi contrattuali, c’è l’imbarazzante presenza dello zero che inibisce il comportamento
dello studente; 0 gli fa come paura; ora, se il prodotto di due numeri (in tal caso binomi) fa zero,
bisogna che almeno uno di due sia nullo; ma questo ragionamento è complesso e fuori portata per
molti studenti anche maturi.
62
Zero
nella didattica
Forse sarebbe opportuno far svolgere dapprima l’esempio senza zeri, per esempio proponendo un:
(x-1)(x-2)=6,
e procedere per tentativi, allo scopo di capire come interpretare la consegna. Dopo di che, vale la
pena affrontare anche il caso 0, il più semplice in teoria; di fatto, per molti studenti, il più antipatico.
12.
Abbiamo in precedenza esaminato l’equazione x2=0; ma guai ben maggiori provoca la proposta
di risolvere la disequazione x2<0. La letteratura di ricerca è prodiga di protocolli di studio in questo
caso.
Se fosse x2<4 o x2<-1, le cose non andrebbero così male; oltre al senso più intuitivo che formale
da dare alla disequazione ed alla sua soluzione, si aggiunge l’aggravante della comparsa dello zero,
che inibisce lo studente.
13.
Tutti sanno che a-n è un modo compatto ed elegante per scrivere 1n ; per esempio 3-2 = 1 ; ma
a
9
ci si dimentica sempre di dire che deve essere a≠0, altrimenti 0 apparirebbe al denominatore e
questo non piace a nessuno. Dunque la domanda: «Quanto vale 0-1?» ha la seguente risposta: «Non
è che valga o che non valga qualcosa, è che non si può neppure scrivere, è un errore sintattico, da
evitare».
14.
Gli esempi che ci sono stati consegnati sono tantissimi, ma noi li abbiamo selezionati per
tipologie; ci limitiamo, per concludere, ad un bell’esempio relativo alla geometria analitica.
63
Capitolo 4
Uso spontaneo dello zero
da parte dei bambini
fra i 3 ed i 6 anni
Una parte dell’opinione pubblica, insegnanti e non solo, ritiene che lo zero sia oggetto matematico troppo sofisticato perché se ne possa appropriare un bambino in età prescolare.
In realtà, a noi pare proprio il contrario: a nostro avviso, i bambini si impossessano presto di
tale oggetto, in forme anche abbastanza raffinate e convincenti. Ma poi, nell’ingresso a scuola, per
paura della complessità epistemologica o per mancanza di adeguata sicurezza matematica personale,
l’insegnante tende a trasformare questo oggetto con trasposizioni didattiche che non gli rendono
merito, facendo scelte di ingegneria didattica che, all’ostacolo epistemologico, sovrappongono
ostacoli didattici. E così si crea attorno all’oggetto matematico «zero» un alone di complessità che,
in prima battuta, non avrebbe ragion d’essere.
Affermiamo dunque che i bambini in età prescolare hanno già acquisito tale oggetto in forme
piuttosto positive delle quali si dovrebbe tener conto nell’affrontarlo nei corsi scolastici, invece
che comportarsi didatticamente come se si trattasse di un oggetto del tutto estraneo al cognitivo
infantile, pericoloso e da evitare.
Per dimostrare quanto affermato, riportiamo alcuni brani di conversazioni con bambini; in
ciascun caso premettiamo come titolo il «tipo» di zero che appare citato spontaneamente. Tra tutte
le conversazioni a disposizione (oltre 60) scegliamo le più significative, le più illuminanti. Queste
conversazioni sono state condotte, tutte registrate e filmate, in varie città italiane grazie all’aiuto di
collaboratori del nostro gruppo di ricerca (RSDDM di Bologna).
71
zero
Distingueremo le interviste individuali da quelle collettive perché la forma del dialogo e la
negoziazione tra pari fa assumere agli interventi caratteristiche particolari.
4.1. Interviste individuali
Zero come cifra e come cardinale
Prima conversazione con M. [femmina, 4 anni e 6 mesi]
[Si gioca a: «Io dico un numero… Tu a che cosa pensi?»].
Ricercatore: Numero quattro.
M:Io ho quattro anni.
R:Numero cinque.
M:Non lo so… però anche cinque caramelle.
R:Numero due.
M:I piedi che ho.
R:Numero dieci.
M [allegrissima, mostrando le mani aperte]: Le dita delle mani.
R:Numero uno.
M [dapprima pensierosa, poi si tocca il naso]: Il mio naso.
R:Numero sei.
M:I colori.
R:Numero otto.
M:Otto signori.
R:Numero zero.
M:I bambini qui. Ci sono io e poi zero.
R:Che vuol dire zero?
M:Che non c’è niente. Vedi? [Mostra le due mani chiuse a pugno] Non c’è
niente.
R:Tu sai come si scrive il numero dieci?
M:Sì. Con uno zero e un uno. [Con le dita finge di scrivere per aria zero
e uno].
R:Allora zero vuol dire nulla?
M:No, zero vuol dire tanto.
R:Ma come, avevi detto che zero vuol dire niente, adesso vuol dire tanto?
M:No, non capisci… Zero vuol dire niente, ma vuol dire tanto. Se tu mi dai
zero caramelle mi viene una panciona grande grande.
R:Ma come, non capisco. Come fa zero a voler dire tanto?
72
zero
Seconda intervista collettiva a B. (femmina, 5 anni e 6 mesi), S. (maschio, 5
anni, 6 mesi), Rf. (lo stesso di sopra)
Si riporta solo un breve stralcio.
R:Che cosa è lo zero?
B:Zero è un numero.
S:È un rotondo come la O, come i tuoi occhiali.
R:Se io ti dico: ti do zero caramelle…
B ed S all’unisono: Niente, niente.
R:Però se ti dico: ti do uno-zero caramelle.
B:Dieci caramelle.
R:Allora tu preferisci uno-zero caramelle oppure uno-zero-zero caramelle?
B:Uno-zero-zero caramelle!
Terza intervista collettiva a L. (femmina, 5 anni e 9 mesi), G. (maschio, 6 anni,
1 mese)
Si riporta solo un breve stralcio.
R:Allora serve lo zero?
L: Serve per scrivere i numeri, per esempio dieci è con lo zero, davanti uno
e dietro lo zero.
R:Allora, che cos’è zero?
G:È un tipo di «o», però è un numero.
R:Voi lo usate il numero zero?
G: Il numero zero lo abbiamo usato quando avevamo fatto un dolce, alla fine
di un numero, centocinquanta, c’era zero.
Breve commento
Appaiono sia l’idea di zero come cardinale del vuoto, sia come cifra per scrivere particolari
numeri.
Ultima testimonianza
Come ultima testimonianza, riportiamo qui lo stralcio di una conversazione tra bambini di
prima primaria: D. (maschio), Ma. (femmina), Mr. (femmina), Mc. (femmina), Gi. (femmina), Gr.
84
Uso
spontaneo dello zero da parte dei bambini fra i
3
ed i
6
anni
(femmina), tutti fra i 6 anni e 2 mesi ed i 6 anni e 6 mesi; si sta facendo attività di compravendita,
negozio del fioraio e negozio del fornaio.
Gi. ha scritto su un foglietto il prezzo di qualcosa: 0,50, affermando che si tratta di 50 centesimi.
D: Il primo zero vale, il secondo no.
Mc:Ma come non vale il cinquanta, scusami.
D: Vale solo lo zero.
Mc:Invece i cinquanta valgono.
Gi: Zero non si conta.
Gr:Zero non è niente.
Mc:Non esiste la moneta da zero euro, zero soldi vuol dire che è gratis.
[Pausa, poi:]
Mc:Ci sarebbe solo scritto 50 con E di euro.
Mr:Non è una E.
Mc:Sì, è una E di euro.
[…]
R [ha in mano due monete, una da 1€ ed una da 0,50€]: Quale vale di più?
In coro: Un euro.
Ma:Un euro è una decina.
R: Di cosa?
Ma:Di quelli… [Si blocca].
R: Da dieci centesimi?
Ma:Sì, e quello da cinquanta centesimi è cinque.
Gi: Perché c’è il cinque.
Gr:C’è lo zero e lo zero non vale niente.
Mr:Però anche nel dieci c’è lo zero.
Ma:Questo qui [indica la moneta da 1€] vale una decina che è dieci, questo
vale cinque centesimi [indicando la moneta da 0,05€].
D: Perché i centesimi sono pochi e gli euro sono tanti!
Breve commento
Notevole la spontanea negoziazione di significato tra i bambini per dar senso a due diverse
occorrenze di zero nella scrittura 0,50; pur nell’apparente disordine, se si seguono i ragionamenti,
si vede come per ciascuno di essi appare diversamente evidente il fatto che il primo zero di 0,50
indica una assenza mentre il secondo zero indica un posto da riempire. L’attività del mercatino è
poi proseguita e la scrittura 0,50 euro è stata condivisa alla fine come 50 centesimi o mezzo euro
(«Ce ne vogliono 2 di monete da 0,50 per fare 1 euro»). Questa distinzione tra scritture diverse di
zero è certamente sofisticata ma è emersa chiaramente da un’esigenza di sistemazione del processo
di compravendita, dunque da una esigenza essenziale, non da una proposta avulsa da contesti
concreti.
85
zero
Ostacoli ontogenetici (legati all’allievo ed alla sua natura)
Ogni soggetto che apprende sviluppa capacità e conoscenze adatte alla sua età mentale (che può
essere diversa dall’età cronologica), dunque adatte a mezzi e scopi di quella età: rispetto all’acquisizione
di certi concetti, queste capacità e conoscenze possono essere insufficienti rispetto ad un progetto
didattico da parte dell’insegnante e possono costituire quindi ostacoli di natura ontogenetica (l’allievo
potrebbe avere limitazioni neurofisiologiche anche solo dovute alla sua età mentale).
Ostacoli didattici (legati all’insegnante ed alle sue scelte)
Ogni docente sceglie un progetto, un curricolo, un metodo, interpreta in modo personale la
trasposizione didattica, secondo le sue convinzioni sia scientifiche sia didattiche: egli crede in quella
scelta e la propone alla classe perché la pensa efficace; ma quel che è efficace effettivamente per
qualche studente, non è detto che lo sia per altri. Per questi altri, la scelta di quel progetto si rivela
un ostacolo didattico.
Ostacoli epistemologici (legati alla natura stessa degli argomenti della matematica)
Ogni argomento a carattere matematico ha un proprio statuto epistemologico che dipende dalla
storia della sua evoluzione all’interno della Matematica, dalla sua accettazione critica nell’àmbito
della Matematica, dalle riserve che gli sono proprie, dal linguaggio in cui è espresso o che richiede
per potersi esprimere. Quando nella storia dell’evoluzione di un concetto si individua una non continuità, una frattura, cambi radicali di concezione, allora si suppone che quel concetto abbia al suo
interno ostacoli di carattere epistemologico ad essere appreso; ciò si manifesta, per esempio, in errori
ricorrenti e tipici di vari studenti, in diverse classi, stabili negli anni.
Un esempio di ostacolo ontogenetico può essere dato facilmente. In base all’età ed alla situazione
di maturità cognitiva, ci sono argomenti che non possono essere affrontati a certi livelli scolastici. Per esempio, si è visto che l’apprendimento della «implicazione materiale» tra enunciati A e
B (che si indica: A➝B) in logica, si rivela fallimentare per studenti sotto i 14 anni, nonostante
l’enfasi che accompagnò l’ingresso della logica nella didattica quotidiana in matematica (per
una critica a questo proposito sulla situazione in Italia negli anni Ottanta e primi Novanta, si
veda D’Amore, 1991).
108
Difficoltà
nell’apprendimento di zero e didattica della matematica
Un esempio di ostacolo didattico è la proposta che fanno taluni insegnanti della scuola primaria
al momento di presentare gli oggetti geometrici attualmente infiniti: il segmento come infinità di
punti, la retta come figura illimitata formata da infiniti punti ordinati in fila.
Il modello più diffuso nelle scuole è quello del segmento come una collana di perle che, per la
sua immediatezza, viene subito accettato dagli studenti e diventa modello intuitivo; esso costituisce
un evidente ostacolo didattico al momento in cui si deve introdurre l’idea di densità, nella stessa
scuola primaria (per esempio quando si vogliono ordinare le frazioni ed i numeri con la virgola
sulla linea dei numeri) ed ancora di più nella scuola media, e quando si deve introdurre l’idea di
continuità nella scuola superiore.
Ricerche accurate hanno ampiamente evidenziato che gli studenti maturi (ultimo anno delle
superiori e primi anni di università) non riescono a diventare padroni del concetto di continuità
proprio a causa del modello intuitivo persistente di segmento come collana di perle (Arrigo e
D’Amore, 1999; 2002).
La retta come segmento prolungabile ed il conteggio dei numeri naturali sembrano fornire
agli studenti la capacità di vedere l’infinito solo in potenza e non in atto, il che pure crea ostacoli
didattici nei corsi successivi. Su questo tema, si veda anche Sbaragli (2004) che lo approfondisce.
Gli esempi di ostacoli epistemologici ci vengono forniti o dalla storia della matematica o dalla
vita di aula:
•concetti che nella storia hanno creato fratture, discussioni, difficoltà, … certo costituiscono
ostacoli epistemologici; concetti che hanno dovuto aspettare secoli per essere veramente trattati
e concepiti, certo costituiscono ostacoli epistemologici;
•argomenti sui quali gli studenti commettono errori che sono sempre gli stessi in qualsiasi tempo
ed in qualsiasi Paese, certo costituiscono ostacoli epistemologici.
Ebbene, la ricerca ha dimostrato che si tratta di solito degli stessi argomenti.
Ecco alcuni esempi di ostacoli epistemologici.
•Il concetto di infinito, necessario nella pratica scolastica e nella pratica matematica, è difficile da
gestire in modo soddisfacente; il concetto di infinito a scuola nasce fin dai primi giorni, quando
si impara a contare, ma diventa di giorno in giorno più necessario; nella storia nasce in modo
esplicito, come oggetto di studio meritevole di attenzione, nel V secolo a.C.; in entrambe le
situazioni crea/creò imbarazzanti problemi anche con forti polemiche.
•Il concetto di numeri dotati di segno (insieme Z dei numeri interi o, come si dice a volte, relativi);
a scuola viene introdotto presto, fin dalla scuola primaria, ma diventa essenziale per l’algebra in
III media; si sa che crea non pochi imbarazzi agli studenti, per i quali è un vero e proprio ostacolo; nella storia nasce nel VI-VII secolo, sempre in India, ma viene gestito in aritmetica e poi
in algebra nel IX secolo nel mondo arabo, accolto nel mondo europeo con scetticismo durato
molto a lungo, addirittura per vari secoli.
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