Supplemento al n.30 di T oscanaoggi del 2 agosto 2009 – Direttore

Supplemento al n.30 di Toscanaoggi del 2 agosto 2009 – Direttore resp. Andrea Fagioli – Reg. Trib. di Firenze n. 3184 del 21.12.1983 Poste Italiane Spa - spedizione in abbonamento postale - D.L.353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, DCB (Firenze1) - Stampa Nuova Cesat - Firenze
Diocesi di
AREZZO-CORTONA
SANSEPOLCRO
San Pietro a Gropina
e numerose pievi romaniche che seguono il viaggiatore lungo la strada di
Setteponti - la provinciale dell’altipiano
valdarnese che da Arezzo conduce in direzione
di Firenze - costituiscono uno fra più singolari esempi del processo di evangelizzazione delle campagne dall’epoca paleocristiana fino al
XIV secolo.
La più nota delle pievi sorte lungo la «Via Cassia Vetus o Clodia» è senza dubbio quella di
San Pietro a Gropina, collocata su una modesta altura alle pendici del Pratomagno a pochi
passi da Loro Ciuffenna, nella diocesi di
Arezzo-Cortona-Sansepolcro. Quasi sicuramente il suo nome ha origini etrusche (Graupana o Krupina) dal luogo in cui sorgeva un vi-
L
cus etrusco-romano, le cui tracce sono ancora rintracciabili sotto la Pieve. Gli scavi archeologici effettuati fra il 1968 e il 1971, avviati
per arginare le infiltrazioni d’acqua, hanno
fatto riemergere le fondamenta di una piccola
chiesa paleocristiana e di una successiva di
epoca longobarda, risalente all’VIII secolo. A
questi primi edifici di
culto si è sovrapposta, fra
il XII e il XIII secolo, l’attuale chiesa romanica.
La storia della Pieve appare abbastanza controversa nel periodo longobardo - risulta donata da
Carlo Magno, come altre chiese della zona, all’abbazia di Nonantola - ma certamente intorno al 1200 la Pieve era alla naturale dipendenza della diocesi di Arezzo e poco dopo
appare nel pieno del suo splendore. In quel
periodo l’organizzazione ecclesiastica è ormai consolidata: il pievano dipende dal vescovo e allo stesso tempo, come suo vicario,
controlla i fedeli delle parrocchie in cui è suddiviso il piviere. Il piviere di Gropina era fra i più
vasti della diocesi di Arezzo. Nel 1274 si contavano 19 chiese suffraganee e abbracciavano tutti i territori della zona valdarnese della
diocesi aretina, ai confini con quella fiesolana.
Nei secoli successivi il territorio divenne gradualmente parte della Repubblica fiorentina,
ma Gropina non perse la sua importanza. Anzi,
essa diventò sempre più ricca per donazioni
e lasciti testamentari, crebbero le chiese dipendenti, la nomina a pievano di Gropina era
ambitissima e i diritti che ne derivavano erano
talora oggetto di conflitti. Per evitare qualsiasi
contesa o corsa all’accaparramento dei beni,
Giovanni di Lorenzo dei Medici, divenuto poi
papa Leone X, decise di unire la Pieve di Gropina alla mensa della Metropolitana fioren3
tina con una bolla del 1515. Per questo il suo
stemma si trova ancora sulla facciata dell’edificio.
La facciata della Pieve si presenta nuda e ordinata nella sua muratura in conci di arenaria
ben lavorati, mentre l’interno è a pianta basilicale a tre navate con un abside semicircolare
orientato verso la Terra Santa. Le sette campate della chiesa poggiano su colonne arricchite da straordinari capitelli dove sono scolpite figurazioni dai più diversi simbolismi. Ma
ciò che si impone entrando è il pulpito, considerato fra le più alte espressioni dell’arte
longobarda. Un ambone bellissimo e misterioso con le sue colonne annodate, la rappresentazione simbolica degli evangelisti, i folti
«ornamenti appiattiti – come scriveva Mario
Salmi – di puro valore lineare, condotti con un
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horror vacui addirittura barbarico». Questa è
San Pietro a Gropina che sempre secondo
Salmi rappresenta «il monumento romanico
più elevato del Valdarno superiore, per la sua
solenne grandiosità spaziale ed il maestoso respiro delle sue proporzioni».
Alessandro Gambassi
Diocesi di
FIESOLE
San Pietro a Romena
a luce che filtra dalle bifore cerca gli occhi di chi entra. Le pietre delle colonne
e dell’abside, nella loro nudità, incoraggiano l’incontro con se stessi. E il silenzio, un silenzio profondo, entra nel respiro, gli chiede di
far piano. La Pieve di Romena offre così il suo
benvenuto.
Siamo in Casentino, la valle che segue il primo
corso dell’Arno.
Romena è su una collina che apre lo sguardo
sulla valle, in un luogo d’incanto, che invita al
raccoglimento e alla preghiera. Non a caso
l’etrusca Rumine, divenuta la romana Rumenius, ha mantenuto nei millenni la stessa vocazione: quella di ospitare i viandanti della
fede.
Nelle viscere della terra, reperti sia etruschi
che romani rafforzano l’ipotesi che Romena
abbia ospitato prima un tempio etrusco, poi
un’ara pagana.
La Pieve, così come la vediamo oggi, fu invece edificata nel 1152 su una preesistente
chiesa romana. A realizzarla, su iniziativa del
pievano Alberico, artigiani locali e maestranze
lombarde probabilmente formatesi in Francia.
La Pieve è a tre navate, percorse da colonne
possenti che sostengono le volte a botte e le
capriate del soffitto. La solidità dei sostegni e
L
la ruvidezza della pietra usata (arenaria locale)
le conferiscono un aspetto austero. Se però si
seguono i gradini dell’altare e si accede nell’area del coro, la Pieve sembra ingentilirsi:
l’abside, con la serie di bifore e trifore, con i loggiati di colonnette e capitelli, raccoglie la sobrietà e la trasforma in leggerezza.
Il segreto dell’armonia
Arca di silenzio e di semplicità, la Pieve ha trascorso i suoi otto secoli e mezzo di vita imbarcando, anche solo per un breve tratto, generazioni di pellegrini. Anche Dante, durante
l’esilio, conobbe questo luogo (era ospite dei
conti Guidi nel vicino castello), così Gabriele
D’Annunzio. Tra gli ospiti meno desiderati, invece, la frana del 1678, che cancellò la facciata e travolse due campate per ogni navata.
Quella ferita non è mai stata rimarginata: la
chiesa di oggi è più corta di sette metri rispetto a quella originaria.
Cambiamenti che non alterano l’equilibrio di
fondo dell’insieme, un equilibrio che è dettato
dal delicato e quasi impalpabile riprodursi di
un numero, il sette.
Sette sono le monofore dell’abside, quattordici, due volte sette, le file di pietra dell’abside,
sette, nell’impianto originario, le colonne di
ogni navata.
Sette, come il numero che in tutte le tradizioni
antiche indica l’incontro di ciò che è umano e
di ciò che è divino, della materia e di spirito, del
maschile (raffigurato dal 3) e del femminile (il
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4). Il numero che rappresenta la completezza
è la nota invisibile che racchiude l’armonia
della Pieve.
La seconda vita della Pieve
Anticamente Romena era faro sulla pista dei
pellegrini che scendevano dal nord Europa
per dirigersi verso Roma. Poi è stata casa di
preghiera per un mondo contadino che qui si
ritrovava per farsi comunità.
Oggi, spopolata la campagna, la Pieve ha trovato una nuova ragione di vita: accoglie le
persone che in questa società consumistica
hanno scoperto di poter comprare tutto, ma
non la propria armonia interiore. Dal 1991, nel
rustico che abbraccia la Pieve, la Fraternità di
Romena ospita la comunità instabile di chiunque voglia mettersi in cammino verso se
stesso.
Per tutti questi viandanti la Fraternità
(www.romena.it, [email protected], tel. 0575582060) si fa porto di terra, offrendo un attracco di silenzio, di accoglienza e di condivisione dove sostare e «fare casa» prima di
partire di nuovo. «Romena – spiega don Luigi
Verdi, fondatore della fraternità – ha come riferimento l’esperienza di Gesù sul monte Tabor . Come su quel monte l’invito è portare i
tuoi amici in alto, fuori dal rumore, e far vedere
la tua faccia, far sentire come è bello per noi
stare qui».
Da venti anni a questa parte, grazie alla Fraternità, la Pieve ha cominciato una nuova vita.
Attraverso i corsi, gli incontri, le veglie di preghiera organizzate dalla Fraternità, Romena è
diventata il crocevia di migliaia di storie.
Ogni domenica pomeriggio alle 17, per la
Messa, la luce che entra nella Pieve incontra
centinaia di volti, e tantissimi sono di giovani.
La Pieve, arricchita da tanta umanità, è, se possibile, ancora più bella.
Massimo Orlandi
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Diocesi di
FIRENZE
Sant’Agata del Mugello
ella frazione di Sant’Agata, nel comune di Scarperia, si trova una delle
più antiche pievi del Mugello. La storia di questo paese e della sua chiesa è strettamente legata alla sua funzione viaria transappenninica, che trovava nell’antico passo
dell’Osteria Bruciata il valico di collegamento
fra Nord e Sud.
Seppure la tradizione indichi la Pieve, dedicata
alla santa catanese, come fondata da Matilde
di Canossa, un documento notarile del 984 ne
attesta l’esistenza prima della nascita della ce-
N
lebre contessa. Tuttavia il ritrovamento delle
fondamenta di un più piccolo edificio risalente al IV-V secolo farebbe supporre una fondazione più antica.
La Pieve di Sant’Agata, tutta di filaretto di alberese, proveniente da cave della zona, presenta una facciata a capanna con monofora, al
di sotto della quale si nota l’antica presenza di
un rosone. Il portale, in pietra serena, ha due
stipiti scanalati, l’architrave è decorata a rilievo
da un nastro intrecciato ed è sormontata da
una lunetta con al centro una croce in bozzette di alberese. Interessante la
decorazione che si trova sul
fianco settentrionale: una scacchiera formata da bozze di serpentino e alberese divenuta il
simbolo distintivo di questa
antica chiesa. In alto le tracce di
una fila di laterizi ricordano la
presenza di un loggiato cinquecentesco che circondava
tutta la costruzione. Su questo
stesso lato si addossa il campanile, la cui altezza è assai più bassa di quella
originaria a causa dei crolli causati dal terremoto del 1542.
L’interno è caratterizzato da sei colonne che
giungono fino a sorreggere le capriate senza
ausilio di archi o muri: una soluzione architettonica che conferisce alla pieve un ampio respiro e una divisione meno netta delle tre navate. Il presbiterio è formato da un’abside
rettangolare, che ha sostituito quella semicircolare, e da due cappelle laterali. Nella Pieve di
Sant’Agata sono conservate numerose opere
d’arte, dall’acquasantiera di Santi di Piero (XVI
secolo) al battistero realizzato nel 1608, su indicazione del pievano Tolomeo Nozzolini, ricomponendo le formelle dell’antico ambone
romanico particolarmente interessanti non
solo per la decorazione, ma anche per avere
inciso la data 1175, ulteriore
testimonianza dell’antichità
della Pieve. Del pulpito faceva
parte anche il bel Telamone
addossato alla parete. Allo
stesso Nozzolini si deve anche
la realizzazione dell’altare-reliquiario di Sant’Agata che fu
costruito utilizzando vari componenti dello
smembrato arredo romanico della chiesa e
nel vano centinato trova posto una tavola alquanto singolare una sorta di «patchwork» i
cui tasselli sono costituiti da frammenti provenienti dalle antiche tavole degli altari distrutti e che sono attribuiti a Jacopo di Cione
(Sant’Agata e Santa Lucia), a Bicci di Lorenzo
(San Giuliano, San Biagio, l’Angelo Annunziante,
la Vergine e San Martino). Parte del patrimonio
della Pieve è conservato anche nella Raccolta
di arte sacra ospitata nell’oratorio della Compagnia di San Jacopo, un edificio del primo
Cinquecento che prospetta sul lato sinistro
del sagrato, e che conserva al suo interno anche i beni di un territorio rimasto pressoché
immutato nel tempo.
Rossella Tarchi
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Diocesi di
GROSSETO
Santa Maria
a Campagnatico
el cuore della Maremma, a una ventina
di km da Grosseto, si affaccia sulla valle dell’Ombrone il
borgo di Campagnatico, circondato da olivi, vigneti, boschi di
querce e inebriato dal profumo
dello zafferano, che qui, sin dai
tempi più antichi, ancora si coltiva. Possesso
dell’Abbazia di San Salvatore sul Monte Amiata,
il borgo passò nel X secolo agli Aldobrandeschi che lo fortificarono per difenderlo dai Senesi (e la rocca aldobrandesca, una torre in
pietra a sezione quadrangolare, domina ancora il paese). Proprio contro Siena perse la
vita il conte Umberto, ricordato da Dante nel
canto XI del Purgatorio, in cui si cita anche
Campagnatico. Conquistato dai Senesi, il borgo
ne subì le sorti, venendo così assoggettato ai
territori medicei.
Alle porte del paese, prima delle mura, sorge la
chiesa di Santa Maria delle Grazie. Chiusa al
culto prima, in seguito alle soppressioni leopoldine, e poi dal 1960, a causa delle pessime
N
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condizioni strutturali, è stata riaperta il 7 ottobre 2001, dopo un imponente intervento di restauro partito nel 1998, con il titolo di «Santuario mariano» della Maremma. La chiesa non
è una vera e propria «pieve» in senso stretto,
ma ha svolto da sempre le funzioni di pieve,
con tanto di fonte battesimale e cimitero,
quando quella «ufficiale» di San Giovanni Battista, a seconda dei tempi, non veniva utilizzata.
Il popolo, la «plebs» di Campagnatico, ha sempre riconosciuto nella «cella sanctae mariae
iuxta Campaniaticum» - antica chiesa rurale
divenuta nel XIII sec. «chiesa curata» - citata nel
privilegio di Corrado II nel 1027,
il suo luogo di culto più significativo, tant’è che la sua edificazione venne fatta, da parte di
maestranze locali, quasi in concorrenza con quella di San Giovanni voluta dai Senesi.
A testimonianza della particolare devozione del popolo, gli arricchimenti artistici, in particolare il ciclo di affreschi mariani di
Cristofano di Bindoccio e Meo
di Pero (1393). E durante il restauro, un nuovo ciclo di affreschi sulle pareti
della cappella a destra dell’altare maggiore è
stato portato alla luce, datato 1476 e attribuito
a Francesco di Giorgio e al «Fiduciario di Francesco», allievi della bottega del Vecchietta. Tra
le figure degne di rilievo, San Biagio, San Donnino, San Sigismondo e papa Liberio che
fonda la basilica di Santa Maria Maggiore a
Roma. Alle spalle dell’altare, è stata poi ricollocata la splendida Madonna col Bambino di
Guido di Graziano (scuola duccesca), che veniva conservata prima presso il museo diocesano di arte sacra.
Dal punto di vista architettonico, l’impianto
della chiesa di Santa Maria è di tipo romanico
a croce latina, con navata unica. Nel transetto,
sono inserite le due cappelle laterali e l’abside
rettangolare. La copertura è a capanna, con
capriate lungo la navata. La facciata presenta
un rosone centrale e un portale d’accesso, sormontato da una lunetta.
L’8 settembre, festa della Madonna delle Grazie, devozione e folklore colorano le vie del
paese: dal 1957 le quattro contrade (Centro,
Pieve, Santa Maria e Castello) si contendono il
tradizionale Palio dei ciuchi.
Claudia Biagioli
Diocesi di
LIVORNO
San Martino a Parrana
meno di 20 km da Livorno, percorrendo la strada provinciale che porta
verso le colline, troviamo Parrana San
Martino e Parrana San Giusto, due frazioni del
comune di Collesalvetti. Nella stessa zona, originariamente esistevano due chiese: una piccola, poi ridotta a cappella (San Giusto a Parrana Vecchia) e l’altra parrocchiale, dedicata a
San Martino (Parrana Nuova), che costituivano
parte dell’allora giurisdizione della Pieve di
San Lorenzo alla Piazza in Val di Tora. Nel 1371
questa comprendeva un vasto circondario
con 19 chiese, mentre oggi ne restano solo alcune. La primitiva chiesa di San Martino, ele-
A
vata a pieve solo nel 1805 quando passò dalla
Diocesi di Pisa a quella livornese, era situata in
un poggetto alla sinistra del fiumicello Tora tra
l’osteria della Torretta e Castell’Anselmo e
viene ricordata già in documenti risalenti al
1120 per un atto di transazione tra il conte
Gherardo della Gherardesca e l’arcivescovo
di Pisa Attone. Divenuta pericolante, al suo
posto ne fu costruita un’altra nel 1874 a tre navate con campanile, su disegno di Francesco
Bevilacqua. Nel 1890 fu consacrata da monsignor Leopoldo Franchi, vescovo di Livorno, in
onore della Madonna del Carmine e di San
Martino. Purtroppo, negli anni ’50 del XX secolo anche questo secondo edificio cominciò
a degradarsi, venendo in parte demolito dallo
smottamento delle fondamenta. Si rese pertanto necessaria, dal 1984 al 1995, la costruzione di una nuova chiesa, la terza, dove oggi
si celebrano tutte le funzioni religiose. Della
precedente rimangono abside, casa canonica
e campanile mentre il battistero della prima
pieve fu trasportato nella vicina chiesa di Castell’Anselmo.
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Valle Benedetta ed Eremo della Sambuca
C’è però un luogo meno celebre e sottovalutato anche da molti livornesi che invece merita grande rispetto per la propria importanza
storica, artistica e religiosa. È la Valle Benedetta, un’altra terrazza naturale, come Montenero, per ammirare il panorama di Livorno a
pochi minuti dal centro cittadino.
La chiesa di San Giovanni Gualberto in Valle
Benedetta ha oggi pochi parrocchiani locali,
ma molti forestieri che alla domenica salgono
per ascoltare don Renzo che da oltre 40 anni
celebra la messa nella piccola frazione livornese. Non tutti sanno invece che la chiesa
esiste dal 1697, costruita in cinque anni da
parte dei frati benedettini dopo la soppressione, nella seconda metà del secolo XVII, dell’Ordine dei Gesuati che controllava l’eremo
della Sambuca, eretto probabilmente nel
1250 e a situato a circa un’ora di cammino
dalla chiesa della Valle.
Una lunga scalinata conduce ad un piccolo
chiostro davanti all’ingresso della parrocchia,
che fu la prima ad avere le porte in bronzo a
Livorno. La particolare facciata è invece accompagnata da due torri campanarie. L’interno è a croce latina con decorazioni tardo
barocche e sculture della Passione. Sul lato si10
nistro si trova una riproduzione della cappella
del Santo Sepolcro di Gerusalemme mentre,
oltre ai classici quadri, si nota un tocco di futurismo con un’opera del pittore Osvaldo Peruzzi (deceduto nel 2004) intitolata «Madonna
del mare». Molte opere, tuttavia, sono oggi in
restauro e la cripta sotterranea originaria è attualmente inagibile a causa del terreno non
molto stabile.
La Sambuca, come è familiarmente conosciuta dagli abitanti della zona, è invece un
eremo – oggi inagibile e in attesa di un restauro quasi totale – situato nelle colline a
sud-est della città e raggiungibile tramite sentieri. Il termine deriverebbe da «buca santa»;
non a caso fu fin dall’antichità un luogo di
culto e di passaggio per forestieri e pellegrini
che viaggiavano per Roma o per altre mete
cristiane. La chiesa è ad una sola navata con
abside semicircolare e volte a crociera impostate su semipilastri addossati alle pareti, mentre l’altare rimane l’unico arredo. Gli affreschi
sono ridotti a piccoli frammenti e le sinopie ci
fanno capire quanto fosse ricca in origine
questa chiesetta.
La fondazione dell’eremo, secondo i documenti ritrovati, è databile tra il 1250 ed il 1259.
Dopo numerosi alti e bassi lungo il corso dei
secoli la Sambuca, dopo vari passaggi di proprietà e piccoli tentativi di recupero, nel 1912
fu dichiarata monumento nazionale.
Negli anni ’50 l’eremo venne acquistato dal
Demanio ed il declino ancora una volta prese
il sopravvento. Solo nel 1983 fu ricostruito il
tetto e nel 1994 venne ristrutturata l’ala del
convento che ospitava la cappella. Attualmente il complesso è chiuso anche se un’associazione locale («Teatro agricolo») si sta impegnando con mostre e iniziative di
sensibilizzazione perché questo tesoro non
vada perso per sempre.
Simone Marcis
Diocesi di
LUCCA
San Giorgio a Brancoli
e strade irte e strette
che caratterizzano
questa propaggine
collinare, a ovest delle più
note Pizzorne, preservano
ogni cosa dal turismo di massa. Brancoli è a
circa dodici chilometri a nord da Lucca e fa da
confine tra la Piana di Lucca e la Mediavalle
del Serchio. La si raggiunge percorrendo la
via del Brennero in direzione nord e, superata
la località di Ponte a Moriano, si devia in località Vinchiana. Sono davvero molte le località
poste su questo colle: Deccio, Ombreglio,
Piazza, Sant’Ilario, Gignano, la Pieve di Brancoli,
San Giusto, San Lorenzo, Vinchiana e, più staccato, Tramonte. Ognuna delle quali ha chiese
L
di notevole bellezza. Ma non fatevi ingannare
dall’elenco, si tratta di piccoli paesi abbarbicati
sui terrazzamenti di questo ripido colle. In
mezz’ora da Lucca si può raggiungere la Pieve
dedicata a San Giorgio, un edificio imponente
che segna l’intero territorio e, nei secoli, ne è
diventato il centro non solo da un punto di vista religioso. Questa pieve del secolo XI è
senza dubbio, in chiave storico-artistica, la più
nota dell’intera terra di Brancoli. L’austerità di
un romanico di derivazione lombarda, unita,
appena si esce di chiesa, ad un’apertura dello
sguardo alla Piana di Lucca, finanche al mare
nelle giornate più chiare, la unisce al territorio
e al panorama in modo indissolubile. La
chiesa: l’altare maggiore è sul presbiterio che
qui ricopre quasi metà della superficie interna,
ovviamente nella zona est, verso l’abside. L’interno è a tre navate separate da colonne, al
modo basilicale, e il tetto è sostenuto da massicci travi di castagno. Oltre ad un’Annunciazione trecentesca affrescata posta a sinistra,
guardando l’altare maggiore,
a destra sul limitare tra il presbiterio c’è il celebre ambone marmoreo. L’intero
complesso è composto di
varie figure, in basso due
leoni che lottano contro
belve selvatiche sorreggono
le due colonne portanti di
est. Portandosi verso l’uscita sulla parete della
navata sud è visibile un Della Robbia raffigurante San Giorgio e il drago. Alla navata opposta, un fonte battesimale ad immersionem
a forma ottagonale. Usciti di chiesa dal portale
principale, austero e poco ornato, sulla destra
vediamo subito la torre campanaria, staccata
dalla facciata di poche decine di centimetri, e
lì costruita, dicono le cronache, per mancanza
di altro spazio a causa della ripidezza della
zona. A sinistra l’apertura al panorama.
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L’esterno della chiesa non presenta particolari
decorazioni. Da segnalare solo sul lato sud: il
cosiddetto «Brancolino», figura d’uomo posta in rilievo sull’architrave del portale laterale. Probabilmente indicava l’entrata per gli
uomini in chiesa oppure la figura di un uomo
che saluta in segno di pace chi entra in un
luogo di pace. La Pieve di Brancoli è aperta la
domenica alle ore 11 per la messa e visitabile
solo accompagnati dal pievano suonando alla
canonica durante la settimana. Continuando
la strada, si arriva a Gignano dove c’è un bar ristorante. Poi la strada, in gran parte sterrata ma
agibile, per qualche chilometro si inoltra nel
fresco bosco fino alla sommità, dove c’è la
Croce. Brancoli è luogo ideale per passeggiate, pic-nic e… per gli appassionati di miele
e olio di alta qualità. Scendendo dal colle poi,
dopo Ponte a Moriano, c’è la zona delle ville
del Capannorese. Su tutte, la Villa Reale di Marlia.
Lorenzo Maffei
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Diocesi di
MASSA CARRARA
PONTREMOLI
Santi Cornelio
e Cipriano a Codiponte
hi percorre la statale 445 che dalla Garfagnana scende fino alla valle dell’Aulella, superati il passo dei Carpinelli e il
borgo di Casola, si imbatte nella
Pieve di Codiponte, «il monumento più rilevante dell’arte medievale lunigianese», come lo definisce il Formentini. Il nome della
località è dovuto alla presenza di
un ponte, snodo fondamentale
tra la strada che da Luni conduceva a Lucca e il percorso longitudinale che andava verso Velleia
e Piacenza. Dedicata ai Santi Cornelio e Cipriano, la Pieve di Codiponte con le sue distese proporzioni, l’austero
colore dei conci di arenaria, il fascino delle figure
e dei simboli scolpiti nei capitelli è certamente
uno dei più conservati edifici di impianto preromanico della Lunigiana. La prima documentazione riguardante la chiesa risale al 793: la
data è confermata dal ritrovamento di un fonte
battesimale ad immersione del VIII secolo. Diversi scavi archeologici avvenuti nei pressi dell’edificio hanno portato alla luce numerosi reperti, alcuni dei quali appartenenti ad un
villaggio ligure del VII-VI sec. a.C., ma anche
tombe medievali, una statua-stele dell’eneolitico e diversi manufatti che testimoniano la
continuità di insediamento dall’Età del ferro,
alla romanizzazione, al medioevo. L’attuale edificio del XII-XIII secolo sorge sul precedente di
cui ha mantenuto, in sostanza, la stessa planimetria. L’interno si presenta «a pianta basilicale» diviso in tre navate, con colonne e archi a
C
tutto sesto; la navata centrale è
quella più larga e termina con
l’abside che ha finestre monofore
a doppia strombatura. Più ricca
di reperti è la navata di destra che, un tempo, finiva con un campanile di 25 metri circa.
Notevoli sono le decorazioni dei capitelli, a
forma cubica, con figure derivate dai bestiari
medievali. Il tetto ligneo è sorretto da capriate:
la parte centrale presenta una ricca decorazione di gusto neo-romanico ascrivibile a restauri otto-novecenteschi. La torre campanaria
risale al XVIII secolo e il portale principale è ottocentesco, mentre la facciata è del Trecento
come l’originario portale che si trova nel lato
sud. Un polittico del Quattrocento rappresentante la Madonna, il Bambino, il Santo Volto e i
Santi Cornelio e Cipriano, originariamente nella
Pieve, è oggi conservato nel Museo Diocesano
di Massa, «ma presto – assicura il parroco don
Daniele Arcari – garantita la sicurezza dell’opera,
dovrebbe tornare nell’antica sede».
Alcune raffigurazioni ed iscrizioni, in parte ancora da decifrare, come quelle incise sul portale
esterno della navata di destra, hanno indotto alcuni studiosi a ipotizzare una qualche presenza
dei Templari. La Pieve, nel corso degli anni, ha
avuto visitatori illustri: nelle ultime settimane il
critico d’arte Vittorio Sgarbi ha lasciato la sua
firma nel libro dei registri, in calce ad una nota
sui restauri. Assai partecipata è la festa patronale
che cade nella memoria liturgica dei Santi martiri Cipriano e Cornelio, il 16 settembre. La chiesa
è sempre aperta e visitabile. La celebrazione
eucaristica nei giorni festivi è alle 11.15; il mercoledì è alle ore 17.
Renato Bruschi
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Diocesi di
MASSA MARITTIMAPIOMBINO
San Giovanni in Campo
a Campo nell’Elba
a Pieve di San Giovanni in Campo fu edificata attorno all’anno 1050 da mastri
costruttori pisani, forse gli stessi che edificarono la chiesa di San Lorenzo di Marciana
e quella di San Bartolomeo di Pomonte.
Le caratteristiche di costruzione sono identiche, a pianta rettangolare
con abside semicircolare.
Va evidenziato che la Pieve è
stata costruita all’interno di
un «Castrum Etrusco» del
quale si riconoscono alcune
strutture murarie oltre ad
una macina da frumento,
priva della parte rotante.
La chiesa era originariamente coperta da un tetto a capriate lignee e
coppi toscani: poiché alcuni cenni storici ci dicono fosse coperta solo per la metà vicina all’abside da una porzione di tetto, fino alla metà
del 1800, è ipotizzabile che il tetto originario sia
stato distrutto durante le numerose incursioni
barbaresche.
Come le altre chiese menzionate è in stile romanico, un portale di ingresso e due porticine
poste una per lato.
Lungo le pareti facevano filtrare la luce tre finestrelle a doppio strombo per ogni lato, mentre una finestrella analoga dà luce al centro
della curvatura absidale e altre due sono poste
ai lati dell’abside semicircolare, richiamando
così il numero tre della Santissima Trinità.
Nell’Archivio di Marciana, sotto la cui giurisdizione cadeva la chiesa fino al 1894 – anno di
fondazione del Comune di Campo nell’Elba –
L
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sono conservati alcuni registri delle entrate e
uscite della chiesa, a partire dal 1726 fino alla fine del 1800.
Vi sono riportate le spese effettuate in occasione della Festa del Santo, Giovanni Battista
(24 giugno), durante la quale venivano celebrate funzioni solenni con organo, organista e
cantori, in modo da accompagnare degnamente la Celebrazione eucaristica che vedeva
la partecipazione di tutti i canonici della zona.
Dalla metà del 1800 vi prestò servizio un pretino il quale viveva, oltre che delle elargizioni
della gente locale, anche delle risorse dell’orticello posto nelle vicinanze del Fosso di San
Giovanni.
La Pieve era il punto di raccolta dei fedeli che
abitavano negli insediamenti posti nelle vicinanze – prima del nascere dei paesi più bassi
di San Piero e Sant’Ilario – per proteggersi
dalle incursioni di Saraceni e Barbareschi.
La chiesa oggi necessita di alcuni interventi di
consolidamento ma, in linea di massima, è ben
custodita e visitabile su richiesta.
Nel recente passato al suo interno si sono tenuti concerti e manifestazioni culturali finalizzati al restauro della vicina Torre di San Giovanni, torre di avvistamento di epoca pisana
dell’XI secolo.
A differenza della chiesa omonima, la torre fu
edificata dai Pisani attorno al 1020, al fine di
costituire quella rete di fortezze di avvistamento necessarie alle comunicazioni di pericolo provenienti dalle incursioni dal mare.
La torre infatti è in comunicazione visiva con il
castello del Volterraio, oltre che con altri punti
strategici del territorio dell’Elba. Ha la particolarità di essere costruita sulla sommità di un
enorme masso granitico semisferico, che la
rende unica nel suo genere.
Come la Pieve, anche la torre è interamente costruita da filaretti di «bozze» di granito locale.
Oggi è priva della terrazza di copertura, che era
poi il luogo deputato per l’avvistamento, forse
distrutto volutamente dalla guarnigione al
momento in cui fu espugnata dall’assalto de-
gli invasori, per renderla così inutilizzabile.
La leggenda narra che fu utilizzata come prigione per una regina – il maestro Pietri la
chiama la Regina Elba – segregata dal padre
contrario alla sua unione con un invasore musulmano.
Di certo si può dire, in seguito a ricerche nell’Archivio Storico di Firenze, che si ha notizia di
una donna di San Piero rinchiusa nella torre
dopo aver staccato con un violento morso
l’orecchio del marito infedele.
La torre ha subito due restauri conservativi, il
primo negli anni cinquanta grazie all’interessamento del Maestro Publio Olivi, successivamente nel 1997 grazie al Gruppo La Torre
quando, sotto la direzione dell’Architetto M.
Ricci dell’Università di Firenze, è stato eseguito
un intervento conservativo che la rende oggi
estremamente solida e sicura.
Per ulteriori informazioni, ci si può rivolgere
all’autore della presente nota, Giorgio Giusti,
del Gruppo Storico Culturale «La Torre» di Marina di Campo; telefono 0565-977378, e-mail:
[email protected]
15
Diocesi di
ABBAZIA TERRITORIALE
MONTE OLIVETO MAGGIORE
San Giovanni Battista
a Pievina di Vescona
n paesaggio da sogno, quello delle
Crete Senesi. Con le loro dolci ondulazioni, il rilassante colore dei campi, le
«biancane» superstiti e, qua e là, i filari di cipressi
a costeggiare le strade. Il loro cuore, costituito
dal territorio comunale di Asciano, comprende
anche l’Abbazia territoriale di Monte Oliveto,
minuscola diocesi con quattro parrocchie. La
strada che la attraversa nella sua parte settentrionale, a sud di Taverne d’Arbia verso Asciano,
corre sull’ampio spartiacque tra l’Arbia e il torrente Biena, regalando scorci mozzafiato. Ed è
proprio su questa via, la storica Lauretana, che
dopo Mucigliani e Vescona incontriamo l’altrettanto minuscolo agglomerato di Pievina,
dal toponimo eloquente. Qui sorge infatti la
Pieve di San Giovanni Battista a Vescona, a
lungo contesa – come molte altre chiese della
zona – tra i vescovi di Arezzo e Siena e oggi
parrocchia dell’Abbazia. «Dicesi Pievina – scriveva Emanuele Repetti nel suo celebre Dizionario – a cagione forse della piccolezza della
chiesa, se non piuttosto dall’essere stata filiale
dell’altra di S. Vito in Vescona, ossia in Versuris.
Questa volgarmente detta in Creta, fra Vescona
e Rapolano, è rammentata sino dall’anno 715
nella celebre controversia fra i vescovi di Siena
e quelli d’Arezzo. La Pievina di Vescona continuava ad essere semplice cura manuale della
precedente quando uno dei suoi patroni, de’
Conti della Scialenga, nel 1023 cedé la sua
voce sopra cotesta chiesa alla Badia della Berardenga fondata dai suoi maggiori, mentre
pochi anni dopo la Pieve di S. Giovanni in Vescona, insieme con l’altra di S. Vito in Versuris,
U
16
trovasi designata nel lodo dato nel maggio
del 1029 nella chiesa plebana di S. Marcellino
in Chianti dal cardinal Benedetto vescovo di
Porto, e dai vescovi di Città di Castello e di Volterra delegati dalla S. Sede Apostolica per rivedere e decidere la lite tante volte rimessa in
campo sopra i diritti diocesani di alcune pievi
del vescovato di Arezzo nel contado sanese».
Nel medioevo, forse fino dal IV secolo, a Vescona e alla sua Pieve – detta originariamente
in Rantia o Ranza – fece capo una «curtis regia»,
la maggiore del territorio compreso tra Arezzo
e Siena, e a riprova della sua importanza è proprio la secolare contesa tra gli episcopati delle
due città. Chi lo direbbe oggi, nel vedere questo territorio così suggestivo ma praticamente
deserto, con la maggior parte delle sue chiese
scomparse e le altre profondamente rimaneggiate? La stessa Pieve di San Giovanni è
stata completamente rifatta, sia pure con materiale antico, probabilmente poco distante
dal luogo dove originariamente sorgeva. Ma la
sua bellezza sta proprio nell’ambiente che la
circonda.
La messa festiva vi si celebra alle 10.
Diocesi di
MONTEPULCIANO CHIUSI - PIENZA
Santi Vito e Modesto
a Corsignano
documenti dell’ottavo secolo relativi alle
lotte tra il vescovo di Arezzo e quello di
Siena in merito alla giurisdizione sulla
Pieve dei Santi Vito e Modesto di Corsignano
in Val d’Orcia, ne documentano l’esistenza, con
il suo fonte battesimale, già nella seconda
metà del secolo VII. A conferma di questa remota data è la cripta, tuttora visitabile, costruita con bozze di tufo. Vi si scendeva attraverso una scaletta dal presbiterio della piccola
chiesa originale, dalla consueta forma rettangolare con in testa un’abside semicircolare.
Tra il IX e il X secolo, per l’accresciuta popolazione del castello di Corsignano, la chiesa romanica
fu trasformata in un’ampia
pieve a tre navate sorrette
internamente da pilastri
rettangolari, sormontati da
archi a tutto sesto. È a questo periodo che appartengono, oltre alla facciata, i
due preziosi portali, scolpiti in tufo, della stessa facciata principale e del lato sud.
Nell’ultima trasformazione dei secoli XII e XIII
si volevano costruire, in testa alle navate, tre absidi capaci ma per qualche motivo non furono completate. Restano tuttavia i pilastri di
testata, ai quali dovevano attestarsi i muri semicircolari delle absidi mancanti.
Inizialmente isolata, ma alla quale venne poi
ad appoggiarsi la seconda trasformazione
della chiesa, la meravigliosa torre circolare,
spartita da lesene con otto finestroni a tutto
I
sesto, secondo alcuni poteva essere il fonte
battesimale distaccato dalla chiesa, come volevano le prime consuetudini. A proposito del
fonte, un’attestazione dell’esistenza della Pieve
nel secolo VII ci viene offerta, oltreché dai frammenti di capitelli e decorazioni rinvenuti durante i lavori di ripristino praticati nel 1925,
anche dalla conservazione della pila battesimale per immersione.
Fu questo il fonte in cui Enea Silvio Piccolomini, il 5 ottobre 1405, fu tenuto a battesimo.
Lo stesso Pio II, con bolla del 22 settembre
1462 «Apostolicae Sedis providentia», unì la
Pieve alla prepositura della Cattedrale pientina.
Nelle più antiche descrizioni è facile notare
una porta attualmente chiusa, aperta nel 1886
per fare della torre campanaria una cantina. In
contemporanea il parroco di quell’anno
sfondò una parte della cripta dall’esterno per
ridurla a magazzino di arnesi rurali.
L’ultimo restauro risale all’anno 1990 con il rifacimento completo del
tetto, da anni crollato.
I Portali
Di importanza particolare risultano i due preziosi portali scolpiti in
tufo che si trovano sulla
facciata principale e sul
lato sud. Oltre ai consueti ornamenti floreali, le
trecce e i viticci adorni di foglie, essi mostrano
lotte di animali tolti dagli antichi simbolismi
bestiari e, nell’architrave della porta laterale, la
rappresentazione dell’offerta dei Magi. Una figura muliebre scolpita in tufo – con le braccia
arcuate, le mani poggianti sulle anche e il
petto fortemente pronunciato – sorregge a
mo’ di colonna il capitello sulla bifora sovrastante il portale della facciata. Il simbolo è ambiguo, ma non saremo lontani dalla verità af17
fermando che in questa figura sia simboleggiata la Chiesa. Sarebbe una conferma della
iconografia cristiana dei primi tempi che ci
presentano, con San Giovanni, la Chiesa madre
e regina.
Il Crocifisso ligneo
Una nota particolare merita il Crocifisso della
Pieve, anche se abbiamo poche notizie sulla
sua origine, pur sapendo che quest’opera lignea risale al 1300. La devozione non solo dei
turisti, ma soprattutto dei pientini – pur non
pari a quella per la Madonna di Santa Caterina
– è favorita dall’apertura della chiesa in tutti i
giorni dell’anno. Il Crocifisso, protetto da un vetro molto pesante a prova di proiettile, ha bisogno di un restauro che è già autorizzato
dalle competenti autorità e che ci auguriamo
realizzabile entro l’anno in corso.
18
Ricorrenze
La Pieve di Corsignano si lega anche al triste
evento del bombardamento di Pienza, proprio il 15 giugno 1944, per il ricordo del quale
si celebra in questa chiesa la memoria dei titolari, i Santi Vito e Modesto, e il suffragio per
i 25 caduti. Anche nella Domenica delle Palme
la Pieve vede un concorso notevole di popolo per la benedizione dell’olivo e la processione che segue.
don Icilio Rossi
Diocesi di
PESCIA
San Piero in Campo
a millenaria Pieve di San Piero in Campo,
nel territorio comunale di Montecarlo,
ha riaperto le sue porte domenica 28
giugno 2009 dopo un restauro che ha riservato
molte sorprese. Durante i lavori, iniziati nell’autunno 2003, si è infatti scoperto che l’attuale
Pieve, del 1200, è stata preceduta da ben due
chiese, la prima delle quali risalente al IV-V secolo, la seconda, già nota, databile verso il IX secolo (fonti storiche ne fanno infatti risalire l’esistenza all’anno 846). La scoperta più
importante è stata quella
della chiesa tardo-antica,
che era composta di due
ambienti: un’aula con una
grande abside e una piccola aula a destra, anche
questa con abside, che era
destinata a battistero. È
stato poi rinvenuto il fondo
battesimale in coccio, naturalmente rasato in seguito nel rifacimento e adattamento delle
chiese seguenti: ritrovamento, questo, che più
di ogni altro ha riempito di gioia e su cui si sono
incentrate le celebrazioni per l’inaugurazione
dei restauri. L’antico fonte è stato reso visibile attraverso un oblò di vetro.
Altre sorprese ha riservato la parte artistica, con
il rinvenimento ed il recupero di un affresco
sulla parete dell’abside, databile alla fine del
XV sec., rappresentante la Madonna in trono col
Bambin Gesù ed ai lati i Santi Rocco e Sebastiano, e il restauro di alcuni elementi in pietra
calcarea bianca sulla facciata principale, sicuramente di epoca alto-medievale e quindi recuperati probabilmente dalle fasi costruttive pre-
L
cedenti. La Pieve di San Piero in Campo, situata
lungo la strada che da Montecarlo conduce a
Pescia, è uno splendido tempio in severo stile
romanico in pietra serena ultimato nel XII-XIII
secolo. Legata, nei secoli,
anche all’Ospedale di Altopascio, deve la denominazione «in Campo» al
fatto di essere situata tra i
torrenti Pescia Maggiore
e Pescia Minore. La facciata è ingentilita, in alto,
da una loggetta cieca e,
nella parte centrale, da
una serie di archetti, mentre in basso spicca il bel portale in marmo
bianco. L’interno è austero, suddiviso nelle classiche tre navate. Sulla destra, presso l’ingresso,
è un’acquasantiera in pietra serena a forma di
navicella, sostenuta dal troncone di una colonna di marmo grigio, probabilmente di
epoca romana. Lo spazio interno è scandito
da nove colonne e un pilastro, con capitelli a
decorazione floreale e un mostro alato in
quello del pilastro. Le fondamenta della chiesa
precedente (la seconda) sono situate davanti al
presbiterio rialzato. Da notare, nel complesso, la
fedeltà della chiesa al suo impianto originario,
dato che non ha mai subito rimaneggiamento
che ne abbiano alterato la struttura.
19
Diocesi di
PISA
Santi Giovanni e Felicita
a Valdicastello Carducci
l tracciato dell’antica Via Francigena – sepolto dalla più recente Sarzanese nord e
dagli edifici – è là sotto da qualche parte:
la Pieve dei Santi Giovanni e Felicita a Valdicastello, ad oggi il più antico monumento
della Versilia, ha visto nei secoli pellegrini e
viaggiatori percorrere questo tratto della
strada che va verso Roma. Poi il tempo e
l’oblio, le costruzioni, le guerre, l’asfalto: il paesaggio si è trasformato. Ma la Pieve è sempre
là, a guardare da più di mille anni quella fetta
di Versilia intensamente vissuta ogni giorno da migliaia di
persone. Tutt’intorno gli olivi e
i terreni coltivati: in lontananza
si vede, adagiato su una collinetta, il centro di Valdicastello
Carducci, paese natale del
poeta. La via Sarzanese è vicina, ma non abbastanza da
dar fastidio.
Bisogna andare indietro fino
al nono secolo per trovare nei
documenti una traccia di questo gioiello incastonato sotto il
marmo delle Apuane. Ci sono
i contratti di affitto per i terreni
circostanti, che erano di proprietà della chiesa,
a provare che nell’855 la Pieve c’era ed era già
in piena attività. «Era una sorta di piccolo
duomo», racconta il parroco di Valdicastello,
don Marco Marchetti. «Prima ancora che fosse
costruita la chiesa di San Martino a Pietrasanta, qui confluivano fedeli da tutta la zona».
E dell’importanza del monumento resta oggi
una solennità semplice, che non ha cono-
I
20
sciuto le contaminazioni del
barocco.
Nel 1400 l’interno – originariamente ad un’unica navata –
fu ampliato e suddiviso in tre
navate, separate da archetti
gotici. Sulla parete nord si intravedono delle sinopie: sono
il prezioso residuo degli affreschi che decoravano tutto l’interno, rimossi fra il Sette e l’Ottocento e portati nella chiesa
parrocchiale. Ma l’attenzione del visitatore è
subito attirata dalla grande pittura quattrocentesca del catino dell’abside: il Padre Eterno,
seduto, circondato da santi. Un altro affresco
dello stesso periodo, raffigurante San Cristoforo con il Bambino, accoglie i fedeli subito a
destra dell’ingresso. Il pavimento della Pieve
scampò all’editto napoleonico che imponeva
di seppellire i morti all’esterno dei centri abi-
tati, perciò sono ancora presenti numerose
tombe cinquecentesche.
All’esterno, nel cortile della canonica, è presente un pozzo, costruito alla metà del Cinquecento da Giuseppe Stagi. Uno degli elementi più nuovi è invece il campanile, eretto
da Vincenzo Bazzichi nel 1597 e inserito sulla
destra della facciata. Numerose le pietre con
iscrizioni e le sculture che fanno capolino qua
e là sui muri esterni.
Ma la chiesa dei Santi Giovanni e Felicita ha
anche una storia più recente da raccontare: è
quella del pievano don Libero Raglianti. Arrivato qui nel 1940, il 13 agosto del ’44 – all’indomani dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema
– fu tratto in arresto dalle SS che non gradivano il suo impegno caritativo verso i parrocchiani. Fu ucciso a Filettole (Pisa) sedici giorni
dopo. Ricordato dai versiliesi come uno dei
numerosi martiri di quegli anni, il corpo riposa oggi nella chiesa parrocchiale della sua
Valdicastello.
Caterina Guidi
Diocesi di
PISTOIA
Santa Maria Assunta
a Popiglio
l pievano era messer Lamberto d’Alemagna e il vescovo un Vergiolesi dal nome
oggi improbabile, almeno per un prelato:
Guidaloste. Eravamo – anzi: erano – nel 1271
e a Popiglio, sui monti pistoiesi al confine con La
lucchesia, veniva consacrata una pieve nuova.
Quella vecchia, dopo
che il paese (990 anime)
era diventato Comune,
risultava insufficiente: ne
occorreva una più
grande e – ricorda Egisto
Berti nel suo «Popiglio.
Appunti di storia, arte,
costume» – «tale fu costruita col concorso volenteroso di tutto il popolo». Non si sa quanto siano durati i lavori: di
sicuro assai meno rispetto a quanto, oggi, ci
vorrebbe per finire un restauro.
Era la pieve più grande della montagna, destinata, nei secoli, a diventare anche la più bella.
Costruito in conci di pietra arenaria, l’edificio
presenta una facciata esterna con bella trifora
affiancata da due bifore. Dentro si ammira uno
splendido soffitto a cassettoni di epoca settecentesca. L’abside originaria – nota Antonio
Orsucci nella sua «Popiglio, origini e storia» –
«era decorata da un grande ordine architettonico di colonne che purtroppo è andato perduto in quanto venne una prima volta modificato nel 1494, al tempo delle prime rivalità
con i fiorentini, ridotto a fortilizio e poi mutato
con la costruzione dell’attuale coro nel 1890».
I
21
La parte inferiore del campanile è contemporanea alla Pieve mentre la superiore fu rifatta nel 1650. Nel ’500 la Pieve cambiò volto,
arricchita con molte opere d’arte sotto il pievano Girolamo Magni.
Oggi, retta da don Adamo, parroco di origini
polacche, ospita un museo di arte sacra con
molti tesori artistici (Antonio Paolucci, nel
1976, schedò ben 211 reperti artistici di notevole interesse, tutti visibili nel museo. Tra i più
importanti una statua lignea di Santa Lucia, il
pergamo in pietra, un polittico trecentesco,
molti paramenti e oggetti sacri). Interessante
anche la piazza: dopo un bel restauro, è spazio
pedonale e valorizza la chiesa dandole il meritato risalto.
Collocato in posizione strategica fra Lucca e
Pistoia (qualche chilometro prima, venendo
da Pistoia, si trova il «Ponte Sospeso» e qualche km dopo tre deliziosi borghi che meritano una visita: Lucchio, Limano e Vico («tre
paesi che non valgono un fico», secondo un
proverbio tanto antico quanto menzognero),
Popiglio ha molto da dire sia per il passato che
per il presente.
C’è, ad esempio, una radicata comunità di
suore domenicane con casa di riposo (famosi,
e indicati per le prime colazioni, i biscotti delle
22
«suore di Popiglio», con anice); c’è un circolo
Mcl proprio a fianco della chiesa; c’è un delizioso e funzionante teatro;
c’è una Misericordia che
proprio in questi giorni e
con grandi festeggiamenti
– ricorda il presidente Roberto Fini – compie 40
anni e può contare su 40
volontari attivi (moltissimi
per un piccolo paese come Popiglio).
Una curiosità: fra il 1856 e il 1858 il parroco
(«Priore») don Giuseppe Paperini e il sindaco
(«Gonfaloniere») Ignazio Lazzerini litigarono, e
non poco, per la manutenzione dell’orologio
pubblico sulla torre campanaria. Se volete saperne di più, venite a Popiglio.
Mauro Banchini
Diocesi di
PITIGLIANO - SOVANA ORBETELLO
Santa Flora e Lucilla
a Santa Fiora
antica pieve dedicata alle Sante Flora
e Lucilla – le cui origini sono da collocare tra il 1100 e il 1200 – sorge nel terziere di Castello a Santa Fiora. La classica facciata in pietre ben levigate e squadrate è sormontata da un rosone romanico preesistente
e dallo stemma degli Sforza-Cesarini. Nel corso
dei secoli l’architettura di questa chiesa ha subito molti cambiamenti, i primi dei quali attuati tra il XV e il XVI secolo con la costruzione della cappella Sforza, l’inserimento delle terracotte robbiane e la realizzazione dell’Oratorio del
Santissimo Sacramento. Nel XVIII secolo da
edificio basilicale a navata unica diventò a tre
navate, collegate da archi, inglobando la cap-
L’
pella Sforza e parte dell’Oratorio. Nel 1943 subì
altre trasformazioni come l’apertura di una bifora in stile gotico, l’arco a sesto acuto sopra
l’altare e la collocazione attuale delle robbiane
commissionate dagli Sforza in occasione della
visita di Pio II nel 1464.
Nel trittico del primo altare della navata destra
è raffigurata l’incoronazione della Vergine, con
a sinistra San Francesco che riceve le stimmate alla Verna e a destra San Girolamo che fa penitenza nel deserto. Proseguendo sulla parte
destra, in una nicchia vi è un Crocifisso la cui
attuale collocazione risale ai
lavori del 1943. Di tutto il complesso presente nella chiesa,
questa è l’unica opera attribuita alla scuola dei Della Robbia.
In passato si trovava in una
cappella cimiteriale dedicata
a San Biagio.
Nella navata centrale c’è il pulpito decorato da tre pannelli rappresentanti
l’Ultima Cena, la Risurrezione e l’Ascensione.
Sopra l’altare maggiore si trova un Crocifisso
policromo di autore ignoto della fine del ’400 inizi ’500, commissionato dalla popolazione
quale grazia ricevuta per essere sopravissuta
al colera che imperversava in quel periodo. Si
tratta di un Cristo glorioso, trionfante, che per
trono ha la croce. Presso l’altare maggiore nella parte sinistra vi è un tabernacolo in cui è raffigurato il Padre eterno benedicente tra gli angeli. Nella navata laterale di sinistra sopra l’altare si trova una tela di Pietro Pizzati del 1857 raffigurante l’Immacolata nell’atto di sottomettere il serpente tentatore.
Al centro della navata sinistra si trova la pala
dell’Assunta detta «Madonna della cintola»,
che si trovava inizialmente sopra l’altare maggiore. La Vergine in trono è raffigurata mentre
fa scivolare la cintura nelle mani dell’apostolo
Tommaso al cui fianco c’è Santa Caterina di
Alessandria. Dall’altro lato si trovano San Francesco e Sant’Ansano. Una cornice di foglie
e frutti colorati di verde, giallo
avana e viola racchiude la scena del battesimo di Gesù, presente nella robbiana posta vicino all’ingresso della chiesa.
Questa terracotta sintetizza tutte le caratteristiche che hanno reso celebre l’arte dei Della
Robbia: l’eleganza delle figure, la delicatezza
dei colori, la lucentezza della superficie, la ricerca del dettaglio.
L’estate religiosa santafiorese è molto sentita,
sia dagli abitanti del luogo che dai numerosi
turisti che vi accorrono: si incomincia con il triduo di preparazione alla festa delle sante Flora
e Lucilla che cade il 29 luglio; poi si prosegue
con il triduo alla Madonna delle Nevi. Si prosegue poi con la novena dell’Assunta, con la
processione del 14 agosto e le messe solenni
del giorno dopo nella Pieve. Gli orari delle Celebrazioni eucaristiche nei giorni feriali e festive del sabato, si svolgono alle 18,00, mentre le
Celebrazioni festive o della domenica si svolgono alle ore 11,15 e poi nuovamente alle
18,00.
23
Diocesi di
PRATO
San Pietro a Figline
Il paese che ha colorato la Toscana
rmai tutti lo chiamano Figline di
Prato, per distinguerlo dal più noto e
importante centro del Valdarno. Fino
a non molti anni fa, perfino la Posta si sbagliava. Incuneato tra il monte Le Coste (quello
su cui, nel poggio di Spazzavento, è sepolto
Curzio Malaparte), le tre cime del Monteferrato e il contrafforte dello Javello, Figline conserva ancora la vita e lo spirito del paese.
Questo antico borgo a nord di Prato – benché
sia poco conosciuto – ha lasciato un’impronta
tutta sua nella storia dell’arte e dell’architettura. È il marmo verde o «verde di Prato», che
si è cavato per secoli proprio dal Monteferrato.
Quasi tre secoli di policromismo, dal romanico al rinascimento, passando per il gotico,
O
24
devono a Figline di Prato uno dei tratti più evidenti della loro celebrata bellezza, a cominciare dalle cattedrali di Prato, Firenze e Pistoia.
Eppure, quasi per paradosso, quel «verde» appena si ritrova nella bella pieve del paese. Ci
sono degli inserti nella facciata principale e in
quelle laterali, come nel portale d’ingresso.
Sembra quasi che i figlinesi del XII secolo, che
già cavavano il marmo per incrostare il Batti-
stero e San Miniato a Firenze, avessero pudore ad utilizzare una pietra così ricercata per
la loro chiesa.
La Pieve, originariamente posta al di fuori dell’antico «castello», si trova ora al centro del
paese, che conserva l’impronta di borgo fortificato, arricchito di ville con giardino. Le
prime notizie dell’edificio sacro sono del XII
secolo; venne successivamente ampliato con
l’aggiunta del transetto e del campanile a
torre, tra la fine del XIII e i primi del XIV secolo.
Esternamente la chiesa, tutta rivestita in alberese, mostra una semplice facciata a capanna.
L’interno a croce latina, recuperato alla purezza antica da un radicale restauro degli anni
Sessanta del Novecento, si presenta con
un’alta navata unica. Lo sguardo, per chi entri
dalla porta principale, è subito catturato dagli
ampi resti di affreschi e dall’imponente arco
ogivale che introduce il coro. Dentro regna un
grande raccoglimento, quasi «richiamato» dal
bel crocifisso ligneo, incombente sulla mensa
dell’altare. Gli affreschi, almeno alcuni, sono
attribuiti ad artisti operanti nel
pratese tra il Trecento e il Quattrocento. Per fortuna ne restano ampi brani, tra cui spiccano una dolcissima Madonna
del Latte (tra il XIV e il XV sec.),
attribuita alla bottega di
Agnolo Gaddi, alcuni santi, tra
cui un gigantesco San Cristoforo (nella parete sinistra),
un’ampia Ultima Cena e un’Annunciazione (nella parete destra). Da segnalare, oltre ad un
pregiato tabernacolo quattrocentesco in pietra, l’originale ambone in plexiglass dell’artista Laura Villani: voluto per il
Giubileo del 2000, utilizza una bella ceramica
policroma di Leonetto Tintori; un segno della
passione e della competenza del parroco at-
tuale, don Giuseppe Billi, noto critico d’arte
contemporanea.
Annesso alla Pieve, oltre ad una suggestiva
«cripta» (che in realtà fu sepolcreto), c’è un piccolo ma ricco museo, che conserva il «tesoro»
della chiesa, alcuni dipinti e le testimonianze
più antiche delle fornaci del paese (Figline
deriva da ars figulina, il lavoro del vasaio). Non
è l’unico: nel paese si può visitare anche il
suggestivo Museo della deportazione e della
Resistenza.
Usciti dalla chiesa, poco sopra, lungo l’antica
strada che porta alle cave di
marmo verde, c’è il tabernacolo di Sant’Anna: opera eccezionale per dimensioni (circa
20 mq), raffigura al centro Sant’Anna Metterza; forse della
bottega di Agnolo Gaddi, richiama
immediatamente
quella assai più tarda di Masolino e Masaccio agli Uffizi di Firenze.
Ammirato il tabernacolo, si può
proseguire con una piacevole
passeggiata fino al Monteferrato: in un paesaggio quasi lunare e interessantissimo per minerali e botanica, si possono
visitare le antiche cave di marmo, quelle che
con il loro verde hanno colorato la Toscana.
Gianni Rossi
25
Diocesi di
SAN MINIATO
San Giovanni Battista
a Cigoli
uella che oggi conosciamo come la
parrocchia di Cigoli in realtà mostra
i primi albori già intorno all’anno
Mille quando, sorta su una collina che dominava la media valle dell’Arno, faceva parte
del distretto castellare allora noto come castrum de Caelius.
Già dal 1194 abbiamo notizie della chiesa
che, edificata all’interno del sistema difensivo
del castrum, era inserita in un circuito giurisdizionale che la rendeva soggetta all’antichissima Pieve dei Santi Giovanni Battista e
Saturnino a Fabbrica. Nel 1260 venne inserita
tra le 18 chiese suffraganee subordinate alla
medesima Pieve. Nel 1300 Pisa e Firenze, in
guerra per il controllo del territorio, coinvolsero Cigoli in queste lotte dall’esito alterno fino al
1370, con la definitiva vittoria
dei Fiorentini che lo dichiararono libero comune, e tale restò fino a quando nel 1774 il
granduca Pietro Leopoldo lo
unì a San Miniato. Cigoli annovera anche ordini monastici
come quello degli Umiliati di
regola benedettina che vi si insediarono dal 1330. Il popolo
concesse allo stesso ordine il patronato della
chiesa dando principio alla storia del convento o prepositura di Santa Maria e San Michele, che vide accrescere la propria importanza finchè nel 1372 il vescovo di Lucca, da
cui allora dipendeva, gli accordò il fonte battesimale. Inoltre, nel 1447, il beneficio della
Pieve di Fabbrica fu incorporato a San Mi-
Q
26
chele dall’allora vescovo lucchese Baldassarre
Manni; questo eccesso di proventi e la crisi
che in quel tempo affliggeva l’ordine costrinse però gli ecclesiastici ad affidarla al cardinale di Parma Giovanni
Schiaffinati. Il 20 giugno del
1579, con una bolla del vescovo
di Lucca monsignor Alessandro
Guidiccioni il seniore, la chiesa
univa il titolo di Pieve di San
Giovanni Battista a quello di
prepositura di San Michele mutuandolo dall’antica Pieve di
Fabbrica in rovina ed ereditandone il fonte battesimale. Soppressi gli Umiliati nel 1571 diventava pievano Pietro degli
Usimbardi, primo vescovo di Colle Val d’Elsa.
Nel 1579 la prepositura di Cigoli veniva unita
con quella di San Torpè di Pisa e con quella di
San Michele di Paganica. Per volere dell’Usimbardi la chiesa, il convento e le terre vicine furono cedute all’ordine di San Francesco di Paola mentre egli, a sue spese, restaurò
la chiesa, la canonica ed il piazzale pensile. Di-
versi interventi architettonici
hanno modificato l’assetto originario dell’edificio anche se
l’intervento più drastico che la
struttura subì fu quello a cavallo
tra la fine dell’Ottocento e gli
inizi del Novecento, invasivo al
punto da modificare anche la
predisposizione interna. Delle
vestigia romaniche rimangono
solo un San Michele che
schiaccia il diavolo e la dislocazione a tre navate dell’interno. Sopravvive un tabernacolo gotico costruito nel 1381
per custodire l’immagine della
Madonna degli Umiliati del
convento e opera del fiorentino Neri di Fioravante. Una decorazione ad affresco, che si
estende anche nella volta del tabernacolo
raffigura, oltre ai frati che hanno lì vissuto nel
corso del tempo, anche dei cori angelici musicanti intorno alla Vergine e adoranti intorno
al Cristo pantocratore; tale opera, collocabile
nel Quattrocento, è del fiorentino Stefano
d’Antonio di Vanni (1405-1483) che si presume sia stato chiamato dagli stessi Umiliati
dopo il miracolo avvenuto il 21 luglio del
1451. In testa alla navata destra troviamo la
cappella di San Giovanni Battista la cui statua,
di Ferdinando Folchi, accompagna l’Assunzione di Maria fra i cori angelici commissionate dal pievano Giovanni Peraimond. Agli
Anni Trenta del Novecento risalgono le ultime opere dei sanminiatesi Amerigo Ciampini e Dilvo Lotti.
Benedetta Spina
Orari sante messe:
Messe festive anticipate al sabato ore 18,00
messe festive ore 7,30, ore 11,15
messe feriali ore 8,00
Diocesi di
SIENA-COLLE VAL D’ELSA
MONTALCINO
San Giovanni
Battista a Pievescola
i può dire che l’anno di costituzione
della parrocchia di Pievescola è ab immemorabili, nel senso che a memoria
d’uomo non c’è possibilità di dire con esattezza come, quando e chi l’abbia fondata, tanti
sono i secoli passati, sebbene abbiamo traccia
della sua esistenza, presso l’archivio della
Curia di Volterra, fin dal lontano anno 1030.
Sappiamo che la Pieve, come per miracolo, è
sempre stata officiata e che nel Medioevo,
forse come tante scuole carolingie, ebbe una
funzione educativa così preziosa e tanto importante, per chi vi abitava, che tutto questo
territorio sperduto della campagna senese ne
S
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prese il nome: «Pieve a Scuola», da cui, appunto, come è rimasto ancor oggi: «Pievescola», nel senso che un’intera popolazione,
non molto numerosa, si ritrovava e si riconosceva in questa Pieve come in una sua scuola
dove aveva potuto ricevere educazione, formazione, cultura, musica, liturgia, spiritualità,
sapienza di vita. Infatti non fu solo «scuola»
per i preti della plebs, ma anche probabile
scuola di lettere e di canto fermo per i semplici
laici. Forse vi abitavano dei chierici, cioè, diremmo oggi, «seminaristi», che probabilmente formavano una specie di «seminario»
ante litteram con una comunità di preti che li
preparava a ricevere gli Ordini Sacri. Ciò che
rimane, cioè la reliquia, di quella comunità lontana e passata, è la piccola corte adiacente
alla Chiesa che, appunto, abbiamo ristrutturato, e che insieme ad una parte della canonica, ospiterà il centro educativo che avrà ora
funzione di oratorio e nido d’infanzia.
Il recupero architettonico di questa piccola
corte non ricalca probabilmente l’aspetto di
chiostro che sicuramente in passato aveva
avuto, ma tornando ad essere un tutt’uno con
la Chiesa, ne potrà almeno svolgere la sua
funzione di «scuola» come appunto era stata.
Questa intenzione genuinamente pievescolina che ereditiamo, e abbiamo fatto nostra, è
precisamente nel solco di questa lunghissima
tradizione che la Divina Provvidenza ha voluto custodire fino a noi e consegnarcela, perché da lì, anche il nostro rinnovamento trovi il
suo svolgimento, alla soglia di questo secondo Millennio della sua esistenza.
Non dobbiamo infatti dimenticare che la nostra Chiesa ha già mille anni e che sta iniziando il secondo Millennio della sua
vocazione ad essere, nel tempo, testimone
dello Spirito, poiché in essa anche le pietre,
nostro malgrado, comunicano una spiritualità: il suo romanico puro, a tre navate, senza
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sbavature, con una facciata che si costruisce
attorno ad una graziosa trifora, del maestro
Bonamico Pisano, e che si conclude con una
torre campanaria a vela, mostra un’ armonia
semplice e spoglia, accentuata, all’interno,
dalla nuda pietra arenaria, squadrata, con
quattro arcate e cinque pilastri per parte, che
non solo la sostengono con eleganti volte a
tutto sesto, ma la adeguano ad essere, con la
sua acustica, strumento di lode per la liturgia
che vi si svolge e che con essa diviene tutt’uno.
In conclusione, ci domandiamo: come intendere la nostra piccola corte che siamo andati
a recuperare? qual è il suo significato? e che
cosa ci andremo a fare? Voi capite come la risposta a queste domande sia già naturalmente iscritta nella storia di questa Pieve, nel
suo Dna, e ciò, al di là di tutte le apparenze, le
contingenze, i calcoli e le previsioni. Possiamo
vedere, se ci crediamo, la ristrutturazione di
questa piccola corte come l’obbedienza a un
disegno della Divina Provvidenza che ci ha
parlato e ancora oggi ci consegna una missione: essere una «Pieve a scuola», cioè diventare persone che sanno di avere sempre
bisogno di una formazione, di coltivare
l’anima, di un ascolto, di un confronto perché
non si è mai finito di cercare, di imparare e di
maturare.
don Cosimo Romano
Diocesi di
VOLTERRA
San Giovanni Battista
a Sillano
a Pieve di San Giovanni Battista a Sillano è situata alla confluenza delle vie
per Volterra e Siena, dove si snodavano
gli itinerari minerari delle Colline Metallifere.
Magnificamente costruita a pianta basilicale,
sottolineava, oltre al prestigio della diocesi di
Volterra, l’importanza della Zona Boracifera;
terra ricca di minerali, di vapore e acque termali utili anche per la cura dei lebbrosi.
L’itinerario proposto permette un viaggio nei
luoghi sacri dove, a seconda del periodo storico, mutavano le espressioni devozionali, ma
non la spiritualità di queste popolazioni. La
strada da seguire è quella di un antico percorso di crinale che inizia dalla Pieve di San
Giovanni, sale il poggio di Sillano passando
L
per il paese di S. Dalmazio, prosegue per il
Santuario della Madonna della Casa, poi per
Lanciaia fino a raggiungere la Rocca Sillana.
Pieve di Sillano
Solo l’elegante facciata e la grande planimetria riportata alla luce nel 1978 testimoniano
lo splendore di questa pieve che Salmi, nel
1928, definì «unica in Toscana, per le sue archeggiature intrecciate comuni ai monumenti normanni».
Nel 945, il vescovo Boso confermò a prete Andrea la Pieve battesimale di San Quirico e di
San Giovanni Battista a Sillano per 12 denari
d’argento l’anno. Il prete doveva custodire il
fonte battesimale, officiare la Pieve e riconoscere l’autorità vescovile con la prestazione
annua dei suddetti denari, più 12 di cera.
Dalla Pieve dipendevano ben 16 chiese sparse
in una vasta e ricca campagna, bagnata dal
Possera e dal Cecina, in un mulino del quale si
ritirò in penitenza San Bernardino giovane.
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1727 lo stesso fece erigere poco distante un
oratorio per custodire la sacra immagine, oggetto di fervido culto. L’edificio attuale, fronteggiato da un porticato, con un basso campanile, è il risultato di vari interventi del XIX
secolo che ne abbellirono l’esterno e l’interno
dove tuttora è conservata l’immagine della
Madonna della Casa, opera del francescano
padre Paolo M. Bocci, perché l’originale settecentesco è stato rubato. La festa della Madonna della Casa è la domenica della Santissima Trinità. Da giugno al 30 settembre, nel
santuario si celebra la messa domenicale alle
17,30.
Importante e ricca di entrate, la Pieve ebbe il
suo massimo splendore nel sec. XII, quando il
conte di Santa Fiora fece costruire nella vallata
degradante verso il Possera, presso una sorgente, un monastero cistercense per farne
badessa la figlia Abigaill. Il monastero fu dedicato a San Dalmazio da cui prese nome il
paese costruito poco più in alto a difesa del
floridissimo convento, dipendente dalla pieve
di Sillano. In seguito a un devastante incendio
e alle continue guerre, le poche monache rimaste chiesero e ottennero, nel 1516, il trasferimento a Volterra. Adesso l’unica e ultima
traccia del monastero è la chiesa di San Dalmazio posta per questo a valle del paese. È
una costruzione in stile romanico con
un’unica navata; di notevole ha pregevoli tele
del XVI e XVII secolo e il tabernacolo di stile
robbiano.
Il Santuario della Madonna della Casa
Anticamente, lungo la salita che da San Dalmazio porta alla rocca Sillana, esisteva un dipinto di una Madonna in Maestà, detta «della
Casa» dal nome del vicino podere di proprietà
Baroni. Questa semplice edicola stradale fu il
primo luogo del culto verso la Madonna della
Casa per una grazia ricevuta da G. B. Baroni. Nel
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La Rocca Sillana
Chi dal santuario giunge a Lanciaia, può vedere figure e alcuni fregi incisi sullo stipite
della vecchia chiesa, traccia della remota presenza dei cristiani scampati all’eresia ariana.
L’itinerario termina alla Rocca Sillana la cui
chiesa di San Bartolomeo, nel XV secolo, ereditò il titolo e i privilegi della pieve di Sillano.
Fatta oggetto di un poderoso restauro terminato quest’anno, la rocca ha recuperato l’architettura d’origine voluta dall’architetto militare Sangallo nel XV secolo che rinnovò
l’antica struttura difensiva circondata dal
borgo di Sillano con porte di ingresso e
chiesa.
Come si arriva:
Percorrendo la Strada Statale 439 nel tratto
Montecerboli/Pomarance, arrivati al bivio del
Bulera, seguendo l’indicazione per Siena, sulla
strada provinciale, dopo circa 2 km si giunge
nel borgo di San Dalmazio. Seguendo per
Montecastelli sulla strada provinciale, dopo
circa 1 km., in località Apparita, seguendo l’indicazione per Lanciaia Rocca di Sillano, dopo
circa 200 metri si vede il rudere della pieve di
Sillano.
a campagna toscana non ha bisogno di presentazioni. Con
i suoi paesaggi variegati ma sempre eccezionali ha conquistato il cuore di tanti turisti, soprattutto stranieri, alcuni dei
quali hanno finito per mettervi le radici. Paradossalmente proprio noi «indigeni», distratti come siamo da mete più o meno
esotiche ma pur sempre lontane dalla nostra cultura, abbiamo la
necessità di riscoprirla nel profondo. Anche se l’abbiamo «respirata» fin da bambini, ma poi magari con crescente superficialità.
E allora della nostra campagna dobbiamo andare a ricercare
l’anima. E la troveremo in quelle bellissime chiese, per la maggior
parte romaniche, che rispondono al nome di pievi e che costituivano il punto di riferimento ecclesiastico dei tanti territori rurali in cui erano suddivise le diocesi. Rispetto alle altre chiese e
cappelle, loro suffraganee, si caratterizzavano per la presenza del
fonte battesimale. Qui e non altrove ci si recava, anche da contrade relativamente lontane, per ricevere il battesimo. E il termine
pieve – dal latino «plebs», cioè popolo – indicava proprio il popolo rinato dall’acqua e dallo Spirito Santo attraverso il primo
sacramento. Già dall’Alto Medioevo, infatti, era evidente quel
concetto della Chiesa come comunità di battezzati, quindi come
popolo di Dio, rilanciato dal Concilio Vaticano II. E i vecchi di
certe nostre campagne ricordano ancora di essere appartenuti,
per nascita o in gioventù, al «popolo» di questa o quella chiesa,
a significare la permanenza del concetto.
Questo modesto lavoro non pretende certo di offrire un quadro
esauriente della ricchissima realtà storico-artistica costituita dalla
fitta rete delle pievi di Toscana. Ne presentiamo solo 18, una per
diocesi, soffermandoci ora maggiormente sugli aspetti artistici,
ora sull’ambiente in cui sono inserite. L’invito, che va ben oltre
questo mese d’agosto, è non solo di andarle a visitare ma anche
di riscoprirne la storia, e magari di appassionarsi alla ricerca delle
loro «sorelle», attraverso gite che possono salvare dalla massificazione e riempire di significato il nostro tempo libero, a cominciare naturalmente da quello delle ferie.
L