Supplemento al n.30 di Toscanaoggi del 2 agosto 2009 – Direttore resp. Andrea Fagioli – Reg. Trib. di Firenze n. 3184 del 21.12.1983 Poste Italiane Spa - spedizione in abbonamento postale - D.L.353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, DCB (Firenze1) - Stampa Nuova Cesat - Firenze Diocesi di AREZZO-CORTONA SANSEPOLCRO San Pietro a Gropina e numerose pievi romaniche che seguono il viaggiatore lungo la strada di Setteponti - la provinciale dell’altipiano valdarnese che da Arezzo conduce in direzione di Firenze - costituiscono uno fra più singolari esempi del processo di evangelizzazione delle campagne dall’epoca paleocristiana fino al XIV secolo. La più nota delle pievi sorte lungo la «Via Cassia Vetus o Clodia» è senza dubbio quella di San Pietro a Gropina, collocata su una modesta altura alle pendici del Pratomagno a pochi passi da Loro Ciuffenna, nella diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro. Quasi sicuramente il suo nome ha origini etrusche (Graupana o Krupina) dal luogo in cui sorgeva un vi- L cus etrusco-romano, le cui tracce sono ancora rintracciabili sotto la Pieve. Gli scavi archeologici effettuati fra il 1968 e il 1971, avviati per arginare le infiltrazioni d’acqua, hanno fatto riemergere le fondamenta di una piccola chiesa paleocristiana e di una successiva di epoca longobarda, risalente all’VIII secolo. A questi primi edifici di culto si è sovrapposta, fra il XII e il XIII secolo, l’attuale chiesa romanica. La storia della Pieve appare abbastanza controversa nel periodo longobardo - risulta donata da Carlo Magno, come altre chiese della zona, all’abbazia di Nonantola - ma certamente intorno al 1200 la Pieve era alla naturale dipendenza della diocesi di Arezzo e poco dopo appare nel pieno del suo splendore. In quel periodo l’organizzazione ecclesiastica è ormai consolidata: il pievano dipende dal vescovo e allo stesso tempo, come suo vicario, controlla i fedeli delle parrocchie in cui è suddiviso il piviere. Il piviere di Gropina era fra i più vasti della diocesi di Arezzo. Nel 1274 si contavano 19 chiese suffraganee e abbracciavano tutti i territori della zona valdarnese della diocesi aretina, ai confini con quella fiesolana. Nei secoli successivi il territorio divenne gradualmente parte della Repubblica fiorentina, ma Gropina non perse la sua importanza. Anzi, essa diventò sempre più ricca per donazioni e lasciti testamentari, crebbero le chiese dipendenti, la nomina a pievano di Gropina era ambitissima e i diritti che ne derivavano erano talora oggetto di conflitti. Per evitare qualsiasi contesa o corsa all’accaparramento dei beni, Giovanni di Lorenzo dei Medici, divenuto poi papa Leone X, decise di unire la Pieve di Gropina alla mensa della Metropolitana fioren3 tina con una bolla del 1515. Per questo il suo stemma si trova ancora sulla facciata dell’edificio. La facciata della Pieve si presenta nuda e ordinata nella sua muratura in conci di arenaria ben lavorati, mentre l’interno è a pianta basilicale a tre navate con un abside semicircolare orientato verso la Terra Santa. Le sette campate della chiesa poggiano su colonne arricchite da straordinari capitelli dove sono scolpite figurazioni dai più diversi simbolismi. Ma ciò che si impone entrando è il pulpito, considerato fra le più alte espressioni dell’arte longobarda. Un ambone bellissimo e misterioso con le sue colonne annodate, la rappresentazione simbolica degli evangelisti, i folti «ornamenti appiattiti – come scriveva Mario Salmi – di puro valore lineare, condotti con un 4 horror vacui addirittura barbarico». Questa è San Pietro a Gropina che sempre secondo Salmi rappresenta «il monumento romanico più elevato del Valdarno superiore, per la sua solenne grandiosità spaziale ed il maestoso respiro delle sue proporzioni». Alessandro Gambassi Diocesi di FIESOLE San Pietro a Romena a luce che filtra dalle bifore cerca gli occhi di chi entra. Le pietre delle colonne e dell’abside, nella loro nudità, incoraggiano l’incontro con se stessi. E il silenzio, un silenzio profondo, entra nel respiro, gli chiede di far piano. La Pieve di Romena offre così il suo benvenuto. Siamo in Casentino, la valle che segue il primo corso dell’Arno. Romena è su una collina che apre lo sguardo sulla valle, in un luogo d’incanto, che invita al raccoglimento e alla preghiera. Non a caso l’etrusca Rumine, divenuta la romana Rumenius, ha mantenuto nei millenni la stessa vocazione: quella di ospitare i viandanti della fede. Nelle viscere della terra, reperti sia etruschi che romani rafforzano l’ipotesi che Romena abbia ospitato prima un tempio etrusco, poi un’ara pagana. La Pieve, così come la vediamo oggi, fu invece edificata nel 1152 su una preesistente chiesa romana. A realizzarla, su iniziativa del pievano Alberico, artigiani locali e maestranze lombarde probabilmente formatesi in Francia. La Pieve è a tre navate, percorse da colonne possenti che sostengono le volte a botte e le capriate del soffitto. La solidità dei sostegni e L la ruvidezza della pietra usata (arenaria locale) le conferiscono un aspetto austero. Se però si seguono i gradini dell’altare e si accede nell’area del coro, la Pieve sembra ingentilirsi: l’abside, con la serie di bifore e trifore, con i loggiati di colonnette e capitelli, raccoglie la sobrietà e la trasforma in leggerezza. Il segreto dell’armonia Arca di silenzio e di semplicità, la Pieve ha trascorso i suoi otto secoli e mezzo di vita imbarcando, anche solo per un breve tratto, generazioni di pellegrini. Anche Dante, durante l’esilio, conobbe questo luogo (era ospite dei conti Guidi nel vicino castello), così Gabriele D’Annunzio. Tra gli ospiti meno desiderati, invece, la frana del 1678, che cancellò la facciata e travolse due campate per ogni navata. Quella ferita non è mai stata rimarginata: la chiesa di oggi è più corta di sette metri rispetto a quella originaria. Cambiamenti che non alterano l’equilibrio di fondo dell’insieme, un equilibrio che è dettato dal delicato e quasi impalpabile riprodursi di un numero, il sette. Sette sono le monofore dell’abside, quattordici, due volte sette, le file di pietra dell’abside, sette, nell’impianto originario, le colonne di ogni navata. Sette, come il numero che in tutte le tradizioni antiche indica l’incontro di ciò che è umano e di ciò che è divino, della materia e di spirito, del maschile (raffigurato dal 3) e del femminile (il 5 4). Il numero che rappresenta la completezza è la nota invisibile che racchiude l’armonia della Pieve. La seconda vita della Pieve Anticamente Romena era faro sulla pista dei pellegrini che scendevano dal nord Europa per dirigersi verso Roma. Poi è stata casa di preghiera per un mondo contadino che qui si ritrovava per farsi comunità. Oggi, spopolata la campagna, la Pieve ha trovato una nuova ragione di vita: accoglie le persone che in questa società consumistica hanno scoperto di poter comprare tutto, ma non la propria armonia interiore. Dal 1991, nel rustico che abbraccia la Pieve, la Fraternità di Romena ospita la comunità instabile di chiunque voglia mettersi in cammino verso se stesso. Per tutti questi viandanti la Fraternità (www.romena.it, [email protected], tel. 0575582060) si fa porto di terra, offrendo un attracco di silenzio, di accoglienza e di condivisione dove sostare e «fare casa» prima di partire di nuovo. «Romena – spiega don Luigi Verdi, fondatore della fraternità – ha come riferimento l’esperienza di Gesù sul monte Tabor . Come su quel monte l’invito è portare i tuoi amici in alto, fuori dal rumore, e far vedere la tua faccia, far sentire come è bello per noi stare qui». Da venti anni a questa parte, grazie alla Fraternità, la Pieve ha cominciato una nuova vita. Attraverso i corsi, gli incontri, le veglie di preghiera organizzate dalla Fraternità, Romena è diventata il crocevia di migliaia di storie. Ogni domenica pomeriggio alle 17, per la Messa, la luce che entra nella Pieve incontra centinaia di volti, e tantissimi sono di giovani. La Pieve, arricchita da tanta umanità, è, se possibile, ancora più bella. Massimo Orlandi 6 Diocesi di FIRENZE Sant’Agata del Mugello ella frazione di Sant’Agata, nel comune di Scarperia, si trova una delle più antiche pievi del Mugello. La storia di questo paese e della sua chiesa è strettamente legata alla sua funzione viaria transappenninica, che trovava nell’antico passo dell’Osteria Bruciata il valico di collegamento fra Nord e Sud. Seppure la tradizione indichi la Pieve, dedicata alla santa catanese, come fondata da Matilde di Canossa, un documento notarile del 984 ne attesta l’esistenza prima della nascita della ce- N lebre contessa. Tuttavia il ritrovamento delle fondamenta di un più piccolo edificio risalente al IV-V secolo farebbe supporre una fondazione più antica. La Pieve di Sant’Agata, tutta di filaretto di alberese, proveniente da cave della zona, presenta una facciata a capanna con monofora, al di sotto della quale si nota l’antica presenza di un rosone. Il portale, in pietra serena, ha due stipiti scanalati, l’architrave è decorata a rilievo da un nastro intrecciato ed è sormontata da una lunetta con al centro una croce in bozzette di alberese. Interessante la decorazione che si trova sul fianco settentrionale: una scacchiera formata da bozze di serpentino e alberese divenuta il simbolo distintivo di questa antica chiesa. In alto le tracce di una fila di laterizi ricordano la presenza di un loggiato cinquecentesco che circondava tutta la costruzione. Su questo stesso lato si addossa il campanile, la cui altezza è assai più bassa di quella originaria a causa dei crolli causati dal terremoto del 1542. L’interno è caratterizzato da sei colonne che giungono fino a sorreggere le capriate senza ausilio di archi o muri: una soluzione architettonica che conferisce alla pieve un ampio respiro e una divisione meno netta delle tre navate. Il presbiterio è formato da un’abside rettangolare, che ha sostituito quella semicircolare, e da due cappelle laterali. Nella Pieve di Sant’Agata sono conservate numerose opere d’arte, dall’acquasantiera di Santi di Piero (XVI secolo) al battistero realizzato nel 1608, su indicazione del pievano Tolomeo Nozzolini, ricomponendo le formelle dell’antico ambone romanico particolarmente interessanti non solo per la decorazione, ma anche per avere inciso la data 1175, ulteriore testimonianza dell’antichità della Pieve. Del pulpito faceva parte anche il bel Telamone addossato alla parete. Allo stesso Nozzolini si deve anche la realizzazione dell’altare-reliquiario di Sant’Agata che fu costruito utilizzando vari componenti dello smembrato arredo romanico della chiesa e nel vano centinato trova posto una tavola alquanto singolare una sorta di «patchwork» i cui tasselli sono costituiti da frammenti provenienti dalle antiche tavole degli altari distrutti e che sono attribuiti a Jacopo di Cione (Sant’Agata e Santa Lucia), a Bicci di Lorenzo (San Giuliano, San Biagio, l’Angelo Annunziante, la Vergine e San Martino). Parte del patrimonio della Pieve è conservato anche nella Raccolta di arte sacra ospitata nell’oratorio della Compagnia di San Jacopo, un edificio del primo Cinquecento che prospetta sul lato sinistro del sagrato, e che conserva al suo interno anche i beni di un territorio rimasto pressoché immutato nel tempo. Rossella Tarchi 7 Diocesi di GROSSETO Santa Maria a Campagnatico el cuore della Maremma, a una ventina di km da Grosseto, si affaccia sulla valle dell’Ombrone il borgo di Campagnatico, circondato da olivi, vigneti, boschi di querce e inebriato dal profumo dello zafferano, che qui, sin dai tempi più antichi, ancora si coltiva. Possesso dell’Abbazia di San Salvatore sul Monte Amiata, il borgo passò nel X secolo agli Aldobrandeschi che lo fortificarono per difenderlo dai Senesi (e la rocca aldobrandesca, una torre in pietra a sezione quadrangolare, domina ancora il paese). Proprio contro Siena perse la vita il conte Umberto, ricordato da Dante nel canto XI del Purgatorio, in cui si cita anche Campagnatico. Conquistato dai Senesi, il borgo ne subì le sorti, venendo così assoggettato ai territori medicei. Alle porte del paese, prima delle mura, sorge la chiesa di Santa Maria delle Grazie. Chiusa al culto prima, in seguito alle soppressioni leopoldine, e poi dal 1960, a causa delle pessime N 8 condizioni strutturali, è stata riaperta il 7 ottobre 2001, dopo un imponente intervento di restauro partito nel 1998, con il titolo di «Santuario mariano» della Maremma. La chiesa non è una vera e propria «pieve» in senso stretto, ma ha svolto da sempre le funzioni di pieve, con tanto di fonte battesimale e cimitero, quando quella «ufficiale» di San Giovanni Battista, a seconda dei tempi, non veniva utilizzata. Il popolo, la «plebs» di Campagnatico, ha sempre riconosciuto nella «cella sanctae mariae iuxta Campaniaticum» - antica chiesa rurale divenuta nel XIII sec. «chiesa curata» - citata nel privilegio di Corrado II nel 1027, il suo luogo di culto più significativo, tant’è che la sua edificazione venne fatta, da parte di maestranze locali, quasi in concorrenza con quella di San Giovanni voluta dai Senesi. A testimonianza della particolare devozione del popolo, gli arricchimenti artistici, in particolare il ciclo di affreschi mariani di Cristofano di Bindoccio e Meo di Pero (1393). E durante il restauro, un nuovo ciclo di affreschi sulle pareti della cappella a destra dell’altare maggiore è stato portato alla luce, datato 1476 e attribuito a Francesco di Giorgio e al «Fiduciario di Francesco», allievi della bottega del Vecchietta. Tra le figure degne di rilievo, San Biagio, San Donnino, San Sigismondo e papa Liberio che fonda la basilica di Santa Maria Maggiore a Roma. Alle spalle dell’altare, è stata poi ricollocata la splendida Madonna col Bambino di Guido di Graziano (scuola duccesca), che veniva conservata prima presso il museo diocesano di arte sacra. Dal punto di vista architettonico, l’impianto della chiesa di Santa Maria è di tipo romanico a croce latina, con navata unica. Nel transetto, sono inserite le due cappelle laterali e l’abside rettangolare. La copertura è a capanna, con capriate lungo la navata. La facciata presenta un rosone centrale e un portale d’accesso, sormontato da una lunetta. L’8 settembre, festa della Madonna delle Grazie, devozione e folklore colorano le vie del paese: dal 1957 le quattro contrade (Centro, Pieve, Santa Maria e Castello) si contendono il tradizionale Palio dei ciuchi. Claudia Biagioli Diocesi di LIVORNO San Martino a Parrana meno di 20 km da Livorno, percorrendo la strada provinciale che porta verso le colline, troviamo Parrana San Martino e Parrana San Giusto, due frazioni del comune di Collesalvetti. Nella stessa zona, originariamente esistevano due chiese: una piccola, poi ridotta a cappella (San Giusto a Parrana Vecchia) e l’altra parrocchiale, dedicata a San Martino (Parrana Nuova), che costituivano parte dell’allora giurisdizione della Pieve di San Lorenzo alla Piazza in Val di Tora. Nel 1371 questa comprendeva un vasto circondario con 19 chiese, mentre oggi ne restano solo alcune. La primitiva chiesa di San Martino, ele- A vata a pieve solo nel 1805 quando passò dalla Diocesi di Pisa a quella livornese, era situata in un poggetto alla sinistra del fiumicello Tora tra l’osteria della Torretta e Castell’Anselmo e viene ricordata già in documenti risalenti al 1120 per un atto di transazione tra il conte Gherardo della Gherardesca e l’arcivescovo di Pisa Attone. Divenuta pericolante, al suo posto ne fu costruita un’altra nel 1874 a tre navate con campanile, su disegno di Francesco Bevilacqua. Nel 1890 fu consacrata da monsignor Leopoldo Franchi, vescovo di Livorno, in onore della Madonna del Carmine e di San Martino. Purtroppo, negli anni ’50 del XX secolo anche questo secondo edificio cominciò a degradarsi, venendo in parte demolito dallo smottamento delle fondamenta. Si rese pertanto necessaria, dal 1984 al 1995, la costruzione di una nuova chiesa, la terza, dove oggi si celebrano tutte le funzioni religiose. Della precedente rimangono abside, casa canonica e campanile mentre il battistero della prima pieve fu trasportato nella vicina chiesa di Castell’Anselmo. 9 Valle Benedetta ed Eremo della Sambuca C’è però un luogo meno celebre e sottovalutato anche da molti livornesi che invece merita grande rispetto per la propria importanza storica, artistica e religiosa. È la Valle Benedetta, un’altra terrazza naturale, come Montenero, per ammirare il panorama di Livorno a pochi minuti dal centro cittadino. La chiesa di San Giovanni Gualberto in Valle Benedetta ha oggi pochi parrocchiani locali, ma molti forestieri che alla domenica salgono per ascoltare don Renzo che da oltre 40 anni celebra la messa nella piccola frazione livornese. Non tutti sanno invece che la chiesa esiste dal 1697, costruita in cinque anni da parte dei frati benedettini dopo la soppressione, nella seconda metà del secolo XVII, dell’Ordine dei Gesuati che controllava l’eremo della Sambuca, eretto probabilmente nel 1250 e a situato a circa un’ora di cammino dalla chiesa della Valle. Una lunga scalinata conduce ad un piccolo chiostro davanti all’ingresso della parrocchia, che fu la prima ad avere le porte in bronzo a Livorno. La particolare facciata è invece accompagnata da due torri campanarie. L’interno è a croce latina con decorazioni tardo barocche e sculture della Passione. Sul lato si10 nistro si trova una riproduzione della cappella del Santo Sepolcro di Gerusalemme mentre, oltre ai classici quadri, si nota un tocco di futurismo con un’opera del pittore Osvaldo Peruzzi (deceduto nel 2004) intitolata «Madonna del mare». Molte opere, tuttavia, sono oggi in restauro e la cripta sotterranea originaria è attualmente inagibile a causa del terreno non molto stabile. La Sambuca, come è familiarmente conosciuta dagli abitanti della zona, è invece un eremo – oggi inagibile e in attesa di un restauro quasi totale – situato nelle colline a sud-est della città e raggiungibile tramite sentieri. Il termine deriverebbe da «buca santa»; non a caso fu fin dall’antichità un luogo di culto e di passaggio per forestieri e pellegrini che viaggiavano per Roma o per altre mete cristiane. La chiesa è ad una sola navata con abside semicircolare e volte a crociera impostate su semipilastri addossati alle pareti, mentre l’altare rimane l’unico arredo. Gli affreschi sono ridotti a piccoli frammenti e le sinopie ci fanno capire quanto fosse ricca in origine questa chiesetta. La fondazione dell’eremo, secondo i documenti ritrovati, è databile tra il 1250 ed il 1259. Dopo numerosi alti e bassi lungo il corso dei secoli la Sambuca, dopo vari passaggi di proprietà e piccoli tentativi di recupero, nel 1912 fu dichiarata monumento nazionale. Negli anni ’50 l’eremo venne acquistato dal Demanio ed il declino ancora una volta prese il sopravvento. Solo nel 1983 fu ricostruito il tetto e nel 1994 venne ristrutturata l’ala del convento che ospitava la cappella. Attualmente il complesso è chiuso anche se un’associazione locale («Teatro agricolo») si sta impegnando con mostre e iniziative di sensibilizzazione perché questo tesoro non vada perso per sempre. Simone Marcis Diocesi di LUCCA San Giorgio a Brancoli e strade irte e strette che caratterizzano questa propaggine collinare, a ovest delle più note Pizzorne, preservano ogni cosa dal turismo di massa. Brancoli è a circa dodici chilometri a nord da Lucca e fa da confine tra la Piana di Lucca e la Mediavalle del Serchio. La si raggiunge percorrendo la via del Brennero in direzione nord e, superata la località di Ponte a Moriano, si devia in località Vinchiana. Sono davvero molte le località poste su questo colle: Deccio, Ombreglio, Piazza, Sant’Ilario, Gignano, la Pieve di Brancoli, San Giusto, San Lorenzo, Vinchiana e, più staccato, Tramonte. Ognuna delle quali ha chiese L di notevole bellezza. Ma non fatevi ingannare dall’elenco, si tratta di piccoli paesi abbarbicati sui terrazzamenti di questo ripido colle. In mezz’ora da Lucca si può raggiungere la Pieve dedicata a San Giorgio, un edificio imponente che segna l’intero territorio e, nei secoli, ne è diventato il centro non solo da un punto di vista religioso. Questa pieve del secolo XI è senza dubbio, in chiave storico-artistica, la più nota dell’intera terra di Brancoli. L’austerità di un romanico di derivazione lombarda, unita, appena si esce di chiesa, ad un’apertura dello sguardo alla Piana di Lucca, finanche al mare nelle giornate più chiare, la unisce al territorio e al panorama in modo indissolubile. La chiesa: l’altare maggiore è sul presbiterio che qui ricopre quasi metà della superficie interna, ovviamente nella zona est, verso l’abside. L’interno è a tre navate separate da colonne, al modo basilicale, e il tetto è sostenuto da massicci travi di castagno. Oltre ad un’Annunciazione trecentesca affrescata posta a sinistra, guardando l’altare maggiore, a destra sul limitare tra il presbiterio c’è il celebre ambone marmoreo. L’intero complesso è composto di varie figure, in basso due leoni che lottano contro belve selvatiche sorreggono le due colonne portanti di est. Portandosi verso l’uscita sulla parete della navata sud è visibile un Della Robbia raffigurante San Giorgio e il drago. Alla navata opposta, un fonte battesimale ad immersionem a forma ottagonale. Usciti di chiesa dal portale principale, austero e poco ornato, sulla destra vediamo subito la torre campanaria, staccata dalla facciata di poche decine di centimetri, e lì costruita, dicono le cronache, per mancanza di altro spazio a causa della ripidezza della zona. A sinistra l’apertura al panorama. 11 L’esterno della chiesa non presenta particolari decorazioni. Da segnalare solo sul lato sud: il cosiddetto «Brancolino», figura d’uomo posta in rilievo sull’architrave del portale laterale. Probabilmente indicava l’entrata per gli uomini in chiesa oppure la figura di un uomo che saluta in segno di pace chi entra in un luogo di pace. La Pieve di Brancoli è aperta la domenica alle ore 11 per la messa e visitabile solo accompagnati dal pievano suonando alla canonica durante la settimana. Continuando la strada, si arriva a Gignano dove c’è un bar ristorante. Poi la strada, in gran parte sterrata ma agibile, per qualche chilometro si inoltra nel fresco bosco fino alla sommità, dove c’è la Croce. Brancoli è luogo ideale per passeggiate, pic-nic e… per gli appassionati di miele e olio di alta qualità. Scendendo dal colle poi, dopo Ponte a Moriano, c’è la zona delle ville del Capannorese. Su tutte, la Villa Reale di Marlia. Lorenzo Maffei 12 Diocesi di MASSA CARRARA PONTREMOLI Santi Cornelio e Cipriano a Codiponte hi percorre la statale 445 che dalla Garfagnana scende fino alla valle dell’Aulella, superati il passo dei Carpinelli e il borgo di Casola, si imbatte nella Pieve di Codiponte, «il monumento più rilevante dell’arte medievale lunigianese», come lo definisce il Formentini. Il nome della località è dovuto alla presenza di un ponte, snodo fondamentale tra la strada che da Luni conduceva a Lucca e il percorso longitudinale che andava verso Velleia e Piacenza. Dedicata ai Santi Cornelio e Cipriano, la Pieve di Codiponte con le sue distese proporzioni, l’austero colore dei conci di arenaria, il fascino delle figure e dei simboli scolpiti nei capitelli è certamente uno dei più conservati edifici di impianto preromanico della Lunigiana. La prima documentazione riguardante la chiesa risale al 793: la data è confermata dal ritrovamento di un fonte battesimale ad immersione del VIII secolo. Diversi scavi archeologici avvenuti nei pressi dell’edificio hanno portato alla luce numerosi reperti, alcuni dei quali appartenenti ad un villaggio ligure del VII-VI sec. a.C., ma anche tombe medievali, una statua-stele dell’eneolitico e diversi manufatti che testimoniano la continuità di insediamento dall’Età del ferro, alla romanizzazione, al medioevo. L’attuale edificio del XII-XIII secolo sorge sul precedente di cui ha mantenuto, in sostanza, la stessa planimetria. L’interno si presenta «a pianta basilicale» diviso in tre navate, con colonne e archi a C tutto sesto; la navata centrale è quella più larga e termina con l’abside che ha finestre monofore a doppia strombatura. Più ricca di reperti è la navata di destra che, un tempo, finiva con un campanile di 25 metri circa. Notevoli sono le decorazioni dei capitelli, a forma cubica, con figure derivate dai bestiari medievali. Il tetto ligneo è sorretto da capriate: la parte centrale presenta una ricca decorazione di gusto neo-romanico ascrivibile a restauri otto-novecenteschi. La torre campanaria risale al XVIII secolo e il portale principale è ottocentesco, mentre la facciata è del Trecento come l’originario portale che si trova nel lato sud. Un polittico del Quattrocento rappresentante la Madonna, il Bambino, il Santo Volto e i Santi Cornelio e Cipriano, originariamente nella Pieve, è oggi conservato nel Museo Diocesano di Massa, «ma presto – assicura il parroco don Daniele Arcari – garantita la sicurezza dell’opera, dovrebbe tornare nell’antica sede». Alcune raffigurazioni ed iscrizioni, in parte ancora da decifrare, come quelle incise sul portale esterno della navata di destra, hanno indotto alcuni studiosi a ipotizzare una qualche presenza dei Templari. La Pieve, nel corso degli anni, ha avuto visitatori illustri: nelle ultime settimane il critico d’arte Vittorio Sgarbi ha lasciato la sua firma nel libro dei registri, in calce ad una nota sui restauri. Assai partecipata è la festa patronale che cade nella memoria liturgica dei Santi martiri Cipriano e Cornelio, il 16 settembre. La chiesa è sempre aperta e visitabile. La celebrazione eucaristica nei giorni festivi è alle 11.15; il mercoledì è alle ore 17. Renato Bruschi 13 Diocesi di MASSA MARITTIMAPIOMBINO San Giovanni in Campo a Campo nell’Elba a Pieve di San Giovanni in Campo fu edificata attorno all’anno 1050 da mastri costruttori pisani, forse gli stessi che edificarono la chiesa di San Lorenzo di Marciana e quella di San Bartolomeo di Pomonte. Le caratteristiche di costruzione sono identiche, a pianta rettangolare con abside semicircolare. Va evidenziato che la Pieve è stata costruita all’interno di un «Castrum Etrusco» del quale si riconoscono alcune strutture murarie oltre ad una macina da frumento, priva della parte rotante. La chiesa era originariamente coperta da un tetto a capriate lignee e coppi toscani: poiché alcuni cenni storici ci dicono fosse coperta solo per la metà vicina all’abside da una porzione di tetto, fino alla metà del 1800, è ipotizzabile che il tetto originario sia stato distrutto durante le numerose incursioni barbaresche. Come le altre chiese menzionate è in stile romanico, un portale di ingresso e due porticine poste una per lato. Lungo le pareti facevano filtrare la luce tre finestrelle a doppio strombo per ogni lato, mentre una finestrella analoga dà luce al centro della curvatura absidale e altre due sono poste ai lati dell’abside semicircolare, richiamando così il numero tre della Santissima Trinità. Nell’Archivio di Marciana, sotto la cui giurisdizione cadeva la chiesa fino al 1894 – anno di fondazione del Comune di Campo nell’Elba – L 14 sono conservati alcuni registri delle entrate e uscite della chiesa, a partire dal 1726 fino alla fine del 1800. Vi sono riportate le spese effettuate in occasione della Festa del Santo, Giovanni Battista (24 giugno), durante la quale venivano celebrate funzioni solenni con organo, organista e cantori, in modo da accompagnare degnamente la Celebrazione eucaristica che vedeva la partecipazione di tutti i canonici della zona. Dalla metà del 1800 vi prestò servizio un pretino il quale viveva, oltre che delle elargizioni della gente locale, anche delle risorse dell’orticello posto nelle vicinanze del Fosso di San Giovanni. La Pieve era il punto di raccolta dei fedeli che abitavano negli insediamenti posti nelle vicinanze – prima del nascere dei paesi più bassi di San Piero e Sant’Ilario – per proteggersi dalle incursioni di Saraceni e Barbareschi. La chiesa oggi necessita di alcuni interventi di consolidamento ma, in linea di massima, è ben custodita e visitabile su richiesta. Nel recente passato al suo interno si sono tenuti concerti e manifestazioni culturali finalizzati al restauro della vicina Torre di San Giovanni, torre di avvistamento di epoca pisana dell’XI secolo. A differenza della chiesa omonima, la torre fu edificata dai Pisani attorno al 1020, al fine di costituire quella rete di fortezze di avvistamento necessarie alle comunicazioni di pericolo provenienti dalle incursioni dal mare. La torre infatti è in comunicazione visiva con il castello del Volterraio, oltre che con altri punti strategici del territorio dell’Elba. Ha la particolarità di essere costruita sulla sommità di un enorme masso granitico semisferico, che la rende unica nel suo genere. Come la Pieve, anche la torre è interamente costruita da filaretti di «bozze» di granito locale. Oggi è priva della terrazza di copertura, che era poi il luogo deputato per l’avvistamento, forse distrutto volutamente dalla guarnigione al momento in cui fu espugnata dall’assalto de- gli invasori, per renderla così inutilizzabile. La leggenda narra che fu utilizzata come prigione per una regina – il maestro Pietri la chiama la Regina Elba – segregata dal padre contrario alla sua unione con un invasore musulmano. Di certo si può dire, in seguito a ricerche nell’Archivio Storico di Firenze, che si ha notizia di una donna di San Piero rinchiusa nella torre dopo aver staccato con un violento morso l’orecchio del marito infedele. La torre ha subito due restauri conservativi, il primo negli anni cinquanta grazie all’interessamento del Maestro Publio Olivi, successivamente nel 1997 grazie al Gruppo La Torre quando, sotto la direzione dell’Architetto M. Ricci dell’Università di Firenze, è stato eseguito un intervento conservativo che la rende oggi estremamente solida e sicura. Per ulteriori informazioni, ci si può rivolgere all’autore della presente nota, Giorgio Giusti, del Gruppo Storico Culturale «La Torre» di Marina di Campo; telefono 0565-977378, e-mail: [email protected] 15 Diocesi di ABBAZIA TERRITORIALE MONTE OLIVETO MAGGIORE San Giovanni Battista a Pievina di Vescona n paesaggio da sogno, quello delle Crete Senesi. Con le loro dolci ondulazioni, il rilassante colore dei campi, le «biancane» superstiti e, qua e là, i filari di cipressi a costeggiare le strade. Il loro cuore, costituito dal territorio comunale di Asciano, comprende anche l’Abbazia territoriale di Monte Oliveto, minuscola diocesi con quattro parrocchie. La strada che la attraversa nella sua parte settentrionale, a sud di Taverne d’Arbia verso Asciano, corre sull’ampio spartiacque tra l’Arbia e il torrente Biena, regalando scorci mozzafiato. Ed è proprio su questa via, la storica Lauretana, che dopo Mucigliani e Vescona incontriamo l’altrettanto minuscolo agglomerato di Pievina, dal toponimo eloquente. Qui sorge infatti la Pieve di San Giovanni Battista a Vescona, a lungo contesa – come molte altre chiese della zona – tra i vescovi di Arezzo e Siena e oggi parrocchia dell’Abbazia. «Dicesi Pievina – scriveva Emanuele Repetti nel suo celebre Dizionario – a cagione forse della piccolezza della chiesa, se non piuttosto dall’essere stata filiale dell’altra di S. Vito in Vescona, ossia in Versuris. Questa volgarmente detta in Creta, fra Vescona e Rapolano, è rammentata sino dall’anno 715 nella celebre controversia fra i vescovi di Siena e quelli d’Arezzo. La Pievina di Vescona continuava ad essere semplice cura manuale della precedente quando uno dei suoi patroni, de’ Conti della Scialenga, nel 1023 cedé la sua voce sopra cotesta chiesa alla Badia della Berardenga fondata dai suoi maggiori, mentre pochi anni dopo la Pieve di S. Giovanni in Vescona, insieme con l’altra di S. Vito in Versuris, U 16 trovasi designata nel lodo dato nel maggio del 1029 nella chiesa plebana di S. Marcellino in Chianti dal cardinal Benedetto vescovo di Porto, e dai vescovi di Città di Castello e di Volterra delegati dalla S. Sede Apostolica per rivedere e decidere la lite tante volte rimessa in campo sopra i diritti diocesani di alcune pievi del vescovato di Arezzo nel contado sanese». Nel medioevo, forse fino dal IV secolo, a Vescona e alla sua Pieve – detta originariamente in Rantia o Ranza – fece capo una «curtis regia», la maggiore del territorio compreso tra Arezzo e Siena, e a riprova della sua importanza è proprio la secolare contesa tra gli episcopati delle due città. Chi lo direbbe oggi, nel vedere questo territorio così suggestivo ma praticamente deserto, con la maggior parte delle sue chiese scomparse e le altre profondamente rimaneggiate? La stessa Pieve di San Giovanni è stata completamente rifatta, sia pure con materiale antico, probabilmente poco distante dal luogo dove originariamente sorgeva. Ma la sua bellezza sta proprio nell’ambiente che la circonda. La messa festiva vi si celebra alle 10. Diocesi di MONTEPULCIANO CHIUSI - PIENZA Santi Vito e Modesto a Corsignano documenti dell’ottavo secolo relativi alle lotte tra il vescovo di Arezzo e quello di Siena in merito alla giurisdizione sulla Pieve dei Santi Vito e Modesto di Corsignano in Val d’Orcia, ne documentano l’esistenza, con il suo fonte battesimale, già nella seconda metà del secolo VII. A conferma di questa remota data è la cripta, tuttora visitabile, costruita con bozze di tufo. Vi si scendeva attraverso una scaletta dal presbiterio della piccola chiesa originale, dalla consueta forma rettangolare con in testa un’abside semicircolare. Tra il IX e il X secolo, per l’accresciuta popolazione del castello di Corsignano, la chiesa romanica fu trasformata in un’ampia pieve a tre navate sorrette internamente da pilastri rettangolari, sormontati da archi a tutto sesto. È a questo periodo che appartengono, oltre alla facciata, i due preziosi portali, scolpiti in tufo, della stessa facciata principale e del lato sud. Nell’ultima trasformazione dei secoli XII e XIII si volevano costruire, in testa alle navate, tre absidi capaci ma per qualche motivo non furono completate. Restano tuttavia i pilastri di testata, ai quali dovevano attestarsi i muri semicircolari delle absidi mancanti. Inizialmente isolata, ma alla quale venne poi ad appoggiarsi la seconda trasformazione della chiesa, la meravigliosa torre circolare, spartita da lesene con otto finestroni a tutto I sesto, secondo alcuni poteva essere il fonte battesimale distaccato dalla chiesa, come volevano le prime consuetudini. A proposito del fonte, un’attestazione dell’esistenza della Pieve nel secolo VII ci viene offerta, oltreché dai frammenti di capitelli e decorazioni rinvenuti durante i lavori di ripristino praticati nel 1925, anche dalla conservazione della pila battesimale per immersione. Fu questo il fonte in cui Enea Silvio Piccolomini, il 5 ottobre 1405, fu tenuto a battesimo. Lo stesso Pio II, con bolla del 22 settembre 1462 «Apostolicae Sedis providentia», unì la Pieve alla prepositura della Cattedrale pientina. Nelle più antiche descrizioni è facile notare una porta attualmente chiusa, aperta nel 1886 per fare della torre campanaria una cantina. In contemporanea il parroco di quell’anno sfondò una parte della cripta dall’esterno per ridurla a magazzino di arnesi rurali. L’ultimo restauro risale all’anno 1990 con il rifacimento completo del tetto, da anni crollato. I Portali Di importanza particolare risultano i due preziosi portali scolpiti in tufo che si trovano sulla facciata principale e sul lato sud. Oltre ai consueti ornamenti floreali, le trecce e i viticci adorni di foglie, essi mostrano lotte di animali tolti dagli antichi simbolismi bestiari e, nell’architrave della porta laterale, la rappresentazione dell’offerta dei Magi. Una figura muliebre scolpita in tufo – con le braccia arcuate, le mani poggianti sulle anche e il petto fortemente pronunciato – sorregge a mo’ di colonna il capitello sulla bifora sovrastante il portale della facciata. Il simbolo è ambiguo, ma non saremo lontani dalla verità af17 fermando che in questa figura sia simboleggiata la Chiesa. Sarebbe una conferma della iconografia cristiana dei primi tempi che ci presentano, con San Giovanni, la Chiesa madre e regina. Il Crocifisso ligneo Una nota particolare merita il Crocifisso della Pieve, anche se abbiamo poche notizie sulla sua origine, pur sapendo che quest’opera lignea risale al 1300. La devozione non solo dei turisti, ma soprattutto dei pientini – pur non pari a quella per la Madonna di Santa Caterina – è favorita dall’apertura della chiesa in tutti i giorni dell’anno. Il Crocifisso, protetto da un vetro molto pesante a prova di proiettile, ha bisogno di un restauro che è già autorizzato dalle competenti autorità e che ci auguriamo realizzabile entro l’anno in corso. 18 Ricorrenze La Pieve di Corsignano si lega anche al triste evento del bombardamento di Pienza, proprio il 15 giugno 1944, per il ricordo del quale si celebra in questa chiesa la memoria dei titolari, i Santi Vito e Modesto, e il suffragio per i 25 caduti. Anche nella Domenica delle Palme la Pieve vede un concorso notevole di popolo per la benedizione dell’olivo e la processione che segue. don Icilio Rossi Diocesi di PESCIA San Piero in Campo a millenaria Pieve di San Piero in Campo, nel territorio comunale di Montecarlo, ha riaperto le sue porte domenica 28 giugno 2009 dopo un restauro che ha riservato molte sorprese. Durante i lavori, iniziati nell’autunno 2003, si è infatti scoperto che l’attuale Pieve, del 1200, è stata preceduta da ben due chiese, la prima delle quali risalente al IV-V secolo, la seconda, già nota, databile verso il IX secolo (fonti storiche ne fanno infatti risalire l’esistenza all’anno 846). La scoperta più importante è stata quella della chiesa tardo-antica, che era composta di due ambienti: un’aula con una grande abside e una piccola aula a destra, anche questa con abside, che era destinata a battistero. È stato poi rinvenuto il fondo battesimale in coccio, naturalmente rasato in seguito nel rifacimento e adattamento delle chiese seguenti: ritrovamento, questo, che più di ogni altro ha riempito di gioia e su cui si sono incentrate le celebrazioni per l’inaugurazione dei restauri. L’antico fonte è stato reso visibile attraverso un oblò di vetro. Altre sorprese ha riservato la parte artistica, con il rinvenimento ed il recupero di un affresco sulla parete dell’abside, databile alla fine del XV sec., rappresentante la Madonna in trono col Bambin Gesù ed ai lati i Santi Rocco e Sebastiano, e il restauro di alcuni elementi in pietra calcarea bianca sulla facciata principale, sicuramente di epoca alto-medievale e quindi recuperati probabilmente dalle fasi costruttive pre- L cedenti. La Pieve di San Piero in Campo, situata lungo la strada che da Montecarlo conduce a Pescia, è uno splendido tempio in severo stile romanico in pietra serena ultimato nel XII-XIII secolo. Legata, nei secoli, anche all’Ospedale di Altopascio, deve la denominazione «in Campo» al fatto di essere situata tra i torrenti Pescia Maggiore e Pescia Minore. La facciata è ingentilita, in alto, da una loggetta cieca e, nella parte centrale, da una serie di archetti, mentre in basso spicca il bel portale in marmo bianco. L’interno è austero, suddiviso nelle classiche tre navate. Sulla destra, presso l’ingresso, è un’acquasantiera in pietra serena a forma di navicella, sostenuta dal troncone di una colonna di marmo grigio, probabilmente di epoca romana. Lo spazio interno è scandito da nove colonne e un pilastro, con capitelli a decorazione floreale e un mostro alato in quello del pilastro. Le fondamenta della chiesa precedente (la seconda) sono situate davanti al presbiterio rialzato. Da notare, nel complesso, la fedeltà della chiesa al suo impianto originario, dato che non ha mai subito rimaneggiamento che ne abbiano alterato la struttura. 19 Diocesi di PISA Santi Giovanni e Felicita a Valdicastello Carducci l tracciato dell’antica Via Francigena – sepolto dalla più recente Sarzanese nord e dagli edifici – è là sotto da qualche parte: la Pieve dei Santi Giovanni e Felicita a Valdicastello, ad oggi il più antico monumento della Versilia, ha visto nei secoli pellegrini e viaggiatori percorrere questo tratto della strada che va verso Roma. Poi il tempo e l’oblio, le costruzioni, le guerre, l’asfalto: il paesaggio si è trasformato. Ma la Pieve è sempre là, a guardare da più di mille anni quella fetta di Versilia intensamente vissuta ogni giorno da migliaia di persone. Tutt’intorno gli olivi e i terreni coltivati: in lontananza si vede, adagiato su una collinetta, il centro di Valdicastello Carducci, paese natale del poeta. La via Sarzanese è vicina, ma non abbastanza da dar fastidio. Bisogna andare indietro fino al nono secolo per trovare nei documenti una traccia di questo gioiello incastonato sotto il marmo delle Apuane. Ci sono i contratti di affitto per i terreni circostanti, che erano di proprietà della chiesa, a provare che nell’855 la Pieve c’era ed era già in piena attività. «Era una sorta di piccolo duomo», racconta il parroco di Valdicastello, don Marco Marchetti. «Prima ancora che fosse costruita la chiesa di San Martino a Pietrasanta, qui confluivano fedeli da tutta la zona». E dell’importanza del monumento resta oggi una solennità semplice, che non ha cono- I 20 sciuto le contaminazioni del barocco. Nel 1400 l’interno – originariamente ad un’unica navata – fu ampliato e suddiviso in tre navate, separate da archetti gotici. Sulla parete nord si intravedono delle sinopie: sono il prezioso residuo degli affreschi che decoravano tutto l’interno, rimossi fra il Sette e l’Ottocento e portati nella chiesa parrocchiale. Ma l’attenzione del visitatore è subito attirata dalla grande pittura quattrocentesca del catino dell’abside: il Padre Eterno, seduto, circondato da santi. Un altro affresco dello stesso periodo, raffigurante San Cristoforo con il Bambino, accoglie i fedeli subito a destra dell’ingresso. Il pavimento della Pieve scampò all’editto napoleonico che imponeva di seppellire i morti all’esterno dei centri abi- tati, perciò sono ancora presenti numerose tombe cinquecentesche. All’esterno, nel cortile della canonica, è presente un pozzo, costruito alla metà del Cinquecento da Giuseppe Stagi. Uno degli elementi più nuovi è invece il campanile, eretto da Vincenzo Bazzichi nel 1597 e inserito sulla destra della facciata. Numerose le pietre con iscrizioni e le sculture che fanno capolino qua e là sui muri esterni. Ma la chiesa dei Santi Giovanni e Felicita ha anche una storia più recente da raccontare: è quella del pievano don Libero Raglianti. Arrivato qui nel 1940, il 13 agosto del ’44 – all’indomani dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema – fu tratto in arresto dalle SS che non gradivano il suo impegno caritativo verso i parrocchiani. Fu ucciso a Filettole (Pisa) sedici giorni dopo. Ricordato dai versiliesi come uno dei numerosi martiri di quegli anni, il corpo riposa oggi nella chiesa parrocchiale della sua Valdicastello. Caterina Guidi Diocesi di PISTOIA Santa Maria Assunta a Popiglio l pievano era messer Lamberto d’Alemagna e il vescovo un Vergiolesi dal nome oggi improbabile, almeno per un prelato: Guidaloste. Eravamo – anzi: erano – nel 1271 e a Popiglio, sui monti pistoiesi al confine con La lucchesia, veniva consacrata una pieve nuova. Quella vecchia, dopo che il paese (990 anime) era diventato Comune, risultava insufficiente: ne occorreva una più grande e – ricorda Egisto Berti nel suo «Popiglio. Appunti di storia, arte, costume» – «tale fu costruita col concorso volenteroso di tutto il popolo». Non si sa quanto siano durati i lavori: di sicuro assai meno rispetto a quanto, oggi, ci vorrebbe per finire un restauro. Era la pieve più grande della montagna, destinata, nei secoli, a diventare anche la più bella. Costruito in conci di pietra arenaria, l’edificio presenta una facciata esterna con bella trifora affiancata da due bifore. Dentro si ammira uno splendido soffitto a cassettoni di epoca settecentesca. L’abside originaria – nota Antonio Orsucci nella sua «Popiglio, origini e storia» – «era decorata da un grande ordine architettonico di colonne che purtroppo è andato perduto in quanto venne una prima volta modificato nel 1494, al tempo delle prime rivalità con i fiorentini, ridotto a fortilizio e poi mutato con la costruzione dell’attuale coro nel 1890». I 21 La parte inferiore del campanile è contemporanea alla Pieve mentre la superiore fu rifatta nel 1650. Nel ’500 la Pieve cambiò volto, arricchita con molte opere d’arte sotto il pievano Girolamo Magni. Oggi, retta da don Adamo, parroco di origini polacche, ospita un museo di arte sacra con molti tesori artistici (Antonio Paolucci, nel 1976, schedò ben 211 reperti artistici di notevole interesse, tutti visibili nel museo. Tra i più importanti una statua lignea di Santa Lucia, il pergamo in pietra, un polittico trecentesco, molti paramenti e oggetti sacri). Interessante anche la piazza: dopo un bel restauro, è spazio pedonale e valorizza la chiesa dandole il meritato risalto. Collocato in posizione strategica fra Lucca e Pistoia (qualche chilometro prima, venendo da Pistoia, si trova il «Ponte Sospeso» e qualche km dopo tre deliziosi borghi che meritano una visita: Lucchio, Limano e Vico («tre paesi che non valgono un fico», secondo un proverbio tanto antico quanto menzognero), Popiglio ha molto da dire sia per il passato che per il presente. C’è, ad esempio, una radicata comunità di suore domenicane con casa di riposo (famosi, e indicati per le prime colazioni, i biscotti delle 22 «suore di Popiglio», con anice); c’è un circolo Mcl proprio a fianco della chiesa; c’è un delizioso e funzionante teatro; c’è una Misericordia che proprio in questi giorni e con grandi festeggiamenti – ricorda il presidente Roberto Fini – compie 40 anni e può contare su 40 volontari attivi (moltissimi per un piccolo paese come Popiglio). Una curiosità: fra il 1856 e il 1858 il parroco («Priore») don Giuseppe Paperini e il sindaco («Gonfaloniere») Ignazio Lazzerini litigarono, e non poco, per la manutenzione dell’orologio pubblico sulla torre campanaria. Se volete saperne di più, venite a Popiglio. Mauro Banchini Diocesi di PITIGLIANO - SOVANA ORBETELLO Santa Flora e Lucilla a Santa Fiora antica pieve dedicata alle Sante Flora e Lucilla – le cui origini sono da collocare tra il 1100 e il 1200 – sorge nel terziere di Castello a Santa Fiora. La classica facciata in pietre ben levigate e squadrate è sormontata da un rosone romanico preesistente e dallo stemma degli Sforza-Cesarini. Nel corso dei secoli l’architettura di questa chiesa ha subito molti cambiamenti, i primi dei quali attuati tra il XV e il XVI secolo con la costruzione della cappella Sforza, l’inserimento delle terracotte robbiane e la realizzazione dell’Oratorio del Santissimo Sacramento. Nel XVIII secolo da edificio basilicale a navata unica diventò a tre navate, collegate da archi, inglobando la cap- L’ pella Sforza e parte dell’Oratorio. Nel 1943 subì altre trasformazioni come l’apertura di una bifora in stile gotico, l’arco a sesto acuto sopra l’altare e la collocazione attuale delle robbiane commissionate dagli Sforza in occasione della visita di Pio II nel 1464. Nel trittico del primo altare della navata destra è raffigurata l’incoronazione della Vergine, con a sinistra San Francesco che riceve le stimmate alla Verna e a destra San Girolamo che fa penitenza nel deserto. Proseguendo sulla parte destra, in una nicchia vi è un Crocifisso la cui attuale collocazione risale ai lavori del 1943. Di tutto il complesso presente nella chiesa, questa è l’unica opera attribuita alla scuola dei Della Robbia. In passato si trovava in una cappella cimiteriale dedicata a San Biagio. Nella navata centrale c’è il pulpito decorato da tre pannelli rappresentanti l’Ultima Cena, la Risurrezione e l’Ascensione. Sopra l’altare maggiore si trova un Crocifisso policromo di autore ignoto della fine del ’400 inizi ’500, commissionato dalla popolazione quale grazia ricevuta per essere sopravissuta al colera che imperversava in quel periodo. Si tratta di un Cristo glorioso, trionfante, che per trono ha la croce. Presso l’altare maggiore nella parte sinistra vi è un tabernacolo in cui è raffigurato il Padre eterno benedicente tra gli angeli. Nella navata laterale di sinistra sopra l’altare si trova una tela di Pietro Pizzati del 1857 raffigurante l’Immacolata nell’atto di sottomettere il serpente tentatore. Al centro della navata sinistra si trova la pala dell’Assunta detta «Madonna della cintola», che si trovava inizialmente sopra l’altare maggiore. La Vergine in trono è raffigurata mentre fa scivolare la cintura nelle mani dell’apostolo Tommaso al cui fianco c’è Santa Caterina di Alessandria. Dall’altro lato si trovano San Francesco e Sant’Ansano. Una cornice di foglie e frutti colorati di verde, giallo avana e viola racchiude la scena del battesimo di Gesù, presente nella robbiana posta vicino all’ingresso della chiesa. Questa terracotta sintetizza tutte le caratteristiche che hanno reso celebre l’arte dei Della Robbia: l’eleganza delle figure, la delicatezza dei colori, la lucentezza della superficie, la ricerca del dettaglio. L’estate religiosa santafiorese è molto sentita, sia dagli abitanti del luogo che dai numerosi turisti che vi accorrono: si incomincia con il triduo di preparazione alla festa delle sante Flora e Lucilla che cade il 29 luglio; poi si prosegue con il triduo alla Madonna delle Nevi. Si prosegue poi con la novena dell’Assunta, con la processione del 14 agosto e le messe solenni del giorno dopo nella Pieve. Gli orari delle Celebrazioni eucaristiche nei giorni feriali e festive del sabato, si svolgono alle 18,00, mentre le Celebrazioni festive o della domenica si svolgono alle ore 11,15 e poi nuovamente alle 18,00. 23 Diocesi di PRATO San Pietro a Figline Il paese che ha colorato la Toscana rmai tutti lo chiamano Figline di Prato, per distinguerlo dal più noto e importante centro del Valdarno. Fino a non molti anni fa, perfino la Posta si sbagliava. Incuneato tra il monte Le Coste (quello su cui, nel poggio di Spazzavento, è sepolto Curzio Malaparte), le tre cime del Monteferrato e il contrafforte dello Javello, Figline conserva ancora la vita e lo spirito del paese. Questo antico borgo a nord di Prato – benché sia poco conosciuto – ha lasciato un’impronta tutta sua nella storia dell’arte e dell’architettura. È il marmo verde o «verde di Prato», che si è cavato per secoli proprio dal Monteferrato. Quasi tre secoli di policromismo, dal romanico al rinascimento, passando per il gotico, O 24 devono a Figline di Prato uno dei tratti più evidenti della loro celebrata bellezza, a cominciare dalle cattedrali di Prato, Firenze e Pistoia. Eppure, quasi per paradosso, quel «verde» appena si ritrova nella bella pieve del paese. Ci sono degli inserti nella facciata principale e in quelle laterali, come nel portale d’ingresso. Sembra quasi che i figlinesi del XII secolo, che già cavavano il marmo per incrostare il Batti- stero e San Miniato a Firenze, avessero pudore ad utilizzare una pietra così ricercata per la loro chiesa. La Pieve, originariamente posta al di fuori dell’antico «castello», si trova ora al centro del paese, che conserva l’impronta di borgo fortificato, arricchito di ville con giardino. Le prime notizie dell’edificio sacro sono del XII secolo; venne successivamente ampliato con l’aggiunta del transetto e del campanile a torre, tra la fine del XIII e i primi del XIV secolo. Esternamente la chiesa, tutta rivestita in alberese, mostra una semplice facciata a capanna. L’interno a croce latina, recuperato alla purezza antica da un radicale restauro degli anni Sessanta del Novecento, si presenta con un’alta navata unica. Lo sguardo, per chi entri dalla porta principale, è subito catturato dagli ampi resti di affreschi e dall’imponente arco ogivale che introduce il coro. Dentro regna un grande raccoglimento, quasi «richiamato» dal bel crocifisso ligneo, incombente sulla mensa dell’altare. Gli affreschi, almeno alcuni, sono attribuiti ad artisti operanti nel pratese tra il Trecento e il Quattrocento. Per fortuna ne restano ampi brani, tra cui spiccano una dolcissima Madonna del Latte (tra il XIV e il XV sec.), attribuita alla bottega di Agnolo Gaddi, alcuni santi, tra cui un gigantesco San Cristoforo (nella parete sinistra), un’ampia Ultima Cena e un’Annunciazione (nella parete destra). Da segnalare, oltre ad un pregiato tabernacolo quattrocentesco in pietra, l’originale ambone in plexiglass dell’artista Laura Villani: voluto per il Giubileo del 2000, utilizza una bella ceramica policroma di Leonetto Tintori; un segno della passione e della competenza del parroco at- tuale, don Giuseppe Billi, noto critico d’arte contemporanea. Annesso alla Pieve, oltre ad una suggestiva «cripta» (che in realtà fu sepolcreto), c’è un piccolo ma ricco museo, che conserva il «tesoro» della chiesa, alcuni dipinti e le testimonianze più antiche delle fornaci del paese (Figline deriva da ars figulina, il lavoro del vasaio). Non è l’unico: nel paese si può visitare anche il suggestivo Museo della deportazione e della Resistenza. Usciti dalla chiesa, poco sopra, lungo l’antica strada che porta alle cave di marmo verde, c’è il tabernacolo di Sant’Anna: opera eccezionale per dimensioni (circa 20 mq), raffigura al centro Sant’Anna Metterza; forse della bottega di Agnolo Gaddi, richiama immediatamente quella assai più tarda di Masolino e Masaccio agli Uffizi di Firenze. Ammirato il tabernacolo, si può proseguire con una piacevole passeggiata fino al Monteferrato: in un paesaggio quasi lunare e interessantissimo per minerali e botanica, si possono visitare le antiche cave di marmo, quelle che con il loro verde hanno colorato la Toscana. Gianni Rossi 25 Diocesi di SAN MINIATO San Giovanni Battista a Cigoli uella che oggi conosciamo come la parrocchia di Cigoli in realtà mostra i primi albori già intorno all’anno Mille quando, sorta su una collina che dominava la media valle dell’Arno, faceva parte del distretto castellare allora noto come castrum de Caelius. Già dal 1194 abbiamo notizie della chiesa che, edificata all’interno del sistema difensivo del castrum, era inserita in un circuito giurisdizionale che la rendeva soggetta all’antichissima Pieve dei Santi Giovanni Battista e Saturnino a Fabbrica. Nel 1260 venne inserita tra le 18 chiese suffraganee subordinate alla medesima Pieve. Nel 1300 Pisa e Firenze, in guerra per il controllo del territorio, coinvolsero Cigoli in queste lotte dall’esito alterno fino al 1370, con la definitiva vittoria dei Fiorentini che lo dichiararono libero comune, e tale restò fino a quando nel 1774 il granduca Pietro Leopoldo lo unì a San Miniato. Cigoli annovera anche ordini monastici come quello degli Umiliati di regola benedettina che vi si insediarono dal 1330. Il popolo concesse allo stesso ordine il patronato della chiesa dando principio alla storia del convento o prepositura di Santa Maria e San Michele, che vide accrescere la propria importanza finchè nel 1372 il vescovo di Lucca, da cui allora dipendeva, gli accordò il fonte battesimale. Inoltre, nel 1447, il beneficio della Pieve di Fabbrica fu incorporato a San Mi- Q 26 chele dall’allora vescovo lucchese Baldassarre Manni; questo eccesso di proventi e la crisi che in quel tempo affliggeva l’ordine costrinse però gli ecclesiastici ad affidarla al cardinale di Parma Giovanni Schiaffinati. Il 20 giugno del 1579, con una bolla del vescovo di Lucca monsignor Alessandro Guidiccioni il seniore, la chiesa univa il titolo di Pieve di San Giovanni Battista a quello di prepositura di San Michele mutuandolo dall’antica Pieve di Fabbrica in rovina ed ereditandone il fonte battesimale. Soppressi gli Umiliati nel 1571 diventava pievano Pietro degli Usimbardi, primo vescovo di Colle Val d’Elsa. Nel 1579 la prepositura di Cigoli veniva unita con quella di San Torpè di Pisa e con quella di San Michele di Paganica. Per volere dell’Usimbardi la chiesa, il convento e le terre vicine furono cedute all’ordine di San Francesco di Paola mentre egli, a sue spese, restaurò la chiesa, la canonica ed il piazzale pensile. Di- versi interventi architettonici hanno modificato l’assetto originario dell’edificio anche se l’intervento più drastico che la struttura subì fu quello a cavallo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, invasivo al punto da modificare anche la predisposizione interna. Delle vestigia romaniche rimangono solo un San Michele che schiaccia il diavolo e la dislocazione a tre navate dell’interno. Sopravvive un tabernacolo gotico costruito nel 1381 per custodire l’immagine della Madonna degli Umiliati del convento e opera del fiorentino Neri di Fioravante. Una decorazione ad affresco, che si estende anche nella volta del tabernacolo raffigura, oltre ai frati che hanno lì vissuto nel corso del tempo, anche dei cori angelici musicanti intorno alla Vergine e adoranti intorno al Cristo pantocratore; tale opera, collocabile nel Quattrocento, è del fiorentino Stefano d’Antonio di Vanni (1405-1483) che si presume sia stato chiamato dagli stessi Umiliati dopo il miracolo avvenuto il 21 luglio del 1451. In testa alla navata destra troviamo la cappella di San Giovanni Battista la cui statua, di Ferdinando Folchi, accompagna l’Assunzione di Maria fra i cori angelici commissionate dal pievano Giovanni Peraimond. Agli Anni Trenta del Novecento risalgono le ultime opere dei sanminiatesi Amerigo Ciampini e Dilvo Lotti. Benedetta Spina Orari sante messe: Messe festive anticipate al sabato ore 18,00 messe festive ore 7,30, ore 11,15 messe feriali ore 8,00 Diocesi di SIENA-COLLE VAL D’ELSA MONTALCINO San Giovanni Battista a Pievescola i può dire che l’anno di costituzione della parrocchia di Pievescola è ab immemorabili, nel senso che a memoria d’uomo non c’è possibilità di dire con esattezza come, quando e chi l’abbia fondata, tanti sono i secoli passati, sebbene abbiamo traccia della sua esistenza, presso l’archivio della Curia di Volterra, fin dal lontano anno 1030. Sappiamo che la Pieve, come per miracolo, è sempre stata officiata e che nel Medioevo, forse come tante scuole carolingie, ebbe una funzione educativa così preziosa e tanto importante, per chi vi abitava, che tutto questo territorio sperduto della campagna senese ne S 27 prese il nome: «Pieve a Scuola», da cui, appunto, come è rimasto ancor oggi: «Pievescola», nel senso che un’intera popolazione, non molto numerosa, si ritrovava e si riconosceva in questa Pieve come in una sua scuola dove aveva potuto ricevere educazione, formazione, cultura, musica, liturgia, spiritualità, sapienza di vita. Infatti non fu solo «scuola» per i preti della plebs, ma anche probabile scuola di lettere e di canto fermo per i semplici laici. Forse vi abitavano dei chierici, cioè, diremmo oggi, «seminaristi», che probabilmente formavano una specie di «seminario» ante litteram con una comunità di preti che li preparava a ricevere gli Ordini Sacri. Ciò che rimane, cioè la reliquia, di quella comunità lontana e passata, è la piccola corte adiacente alla Chiesa che, appunto, abbiamo ristrutturato, e che insieme ad una parte della canonica, ospiterà il centro educativo che avrà ora funzione di oratorio e nido d’infanzia. Il recupero architettonico di questa piccola corte non ricalca probabilmente l’aspetto di chiostro che sicuramente in passato aveva avuto, ma tornando ad essere un tutt’uno con la Chiesa, ne potrà almeno svolgere la sua funzione di «scuola» come appunto era stata. Questa intenzione genuinamente pievescolina che ereditiamo, e abbiamo fatto nostra, è precisamente nel solco di questa lunghissima tradizione che la Divina Provvidenza ha voluto custodire fino a noi e consegnarcela, perché da lì, anche il nostro rinnovamento trovi il suo svolgimento, alla soglia di questo secondo Millennio della sua esistenza. Non dobbiamo infatti dimenticare che la nostra Chiesa ha già mille anni e che sta iniziando il secondo Millennio della sua vocazione ad essere, nel tempo, testimone dello Spirito, poiché in essa anche le pietre, nostro malgrado, comunicano una spiritualità: il suo romanico puro, a tre navate, senza 28 sbavature, con una facciata che si costruisce attorno ad una graziosa trifora, del maestro Bonamico Pisano, e che si conclude con una torre campanaria a vela, mostra un’ armonia semplice e spoglia, accentuata, all’interno, dalla nuda pietra arenaria, squadrata, con quattro arcate e cinque pilastri per parte, che non solo la sostengono con eleganti volte a tutto sesto, ma la adeguano ad essere, con la sua acustica, strumento di lode per la liturgia che vi si svolge e che con essa diviene tutt’uno. In conclusione, ci domandiamo: come intendere la nostra piccola corte che siamo andati a recuperare? qual è il suo significato? e che cosa ci andremo a fare? Voi capite come la risposta a queste domande sia già naturalmente iscritta nella storia di questa Pieve, nel suo Dna, e ciò, al di là di tutte le apparenze, le contingenze, i calcoli e le previsioni. Possiamo vedere, se ci crediamo, la ristrutturazione di questa piccola corte come l’obbedienza a un disegno della Divina Provvidenza che ci ha parlato e ancora oggi ci consegna una missione: essere una «Pieve a scuola», cioè diventare persone che sanno di avere sempre bisogno di una formazione, di coltivare l’anima, di un ascolto, di un confronto perché non si è mai finito di cercare, di imparare e di maturare. don Cosimo Romano Diocesi di VOLTERRA San Giovanni Battista a Sillano a Pieve di San Giovanni Battista a Sillano è situata alla confluenza delle vie per Volterra e Siena, dove si snodavano gli itinerari minerari delle Colline Metallifere. Magnificamente costruita a pianta basilicale, sottolineava, oltre al prestigio della diocesi di Volterra, l’importanza della Zona Boracifera; terra ricca di minerali, di vapore e acque termali utili anche per la cura dei lebbrosi. L’itinerario proposto permette un viaggio nei luoghi sacri dove, a seconda del periodo storico, mutavano le espressioni devozionali, ma non la spiritualità di queste popolazioni. La strada da seguire è quella di un antico percorso di crinale che inizia dalla Pieve di San Giovanni, sale il poggio di Sillano passando L per il paese di S. Dalmazio, prosegue per il Santuario della Madonna della Casa, poi per Lanciaia fino a raggiungere la Rocca Sillana. Pieve di Sillano Solo l’elegante facciata e la grande planimetria riportata alla luce nel 1978 testimoniano lo splendore di questa pieve che Salmi, nel 1928, definì «unica in Toscana, per le sue archeggiature intrecciate comuni ai monumenti normanni». Nel 945, il vescovo Boso confermò a prete Andrea la Pieve battesimale di San Quirico e di San Giovanni Battista a Sillano per 12 denari d’argento l’anno. Il prete doveva custodire il fonte battesimale, officiare la Pieve e riconoscere l’autorità vescovile con la prestazione annua dei suddetti denari, più 12 di cera. Dalla Pieve dipendevano ben 16 chiese sparse in una vasta e ricca campagna, bagnata dal Possera e dal Cecina, in un mulino del quale si ritirò in penitenza San Bernardino giovane. 29 1727 lo stesso fece erigere poco distante un oratorio per custodire la sacra immagine, oggetto di fervido culto. L’edificio attuale, fronteggiato da un porticato, con un basso campanile, è il risultato di vari interventi del XIX secolo che ne abbellirono l’esterno e l’interno dove tuttora è conservata l’immagine della Madonna della Casa, opera del francescano padre Paolo M. Bocci, perché l’originale settecentesco è stato rubato. La festa della Madonna della Casa è la domenica della Santissima Trinità. Da giugno al 30 settembre, nel santuario si celebra la messa domenicale alle 17,30. Importante e ricca di entrate, la Pieve ebbe il suo massimo splendore nel sec. XII, quando il conte di Santa Fiora fece costruire nella vallata degradante verso il Possera, presso una sorgente, un monastero cistercense per farne badessa la figlia Abigaill. Il monastero fu dedicato a San Dalmazio da cui prese nome il paese costruito poco più in alto a difesa del floridissimo convento, dipendente dalla pieve di Sillano. In seguito a un devastante incendio e alle continue guerre, le poche monache rimaste chiesero e ottennero, nel 1516, il trasferimento a Volterra. Adesso l’unica e ultima traccia del monastero è la chiesa di San Dalmazio posta per questo a valle del paese. È una costruzione in stile romanico con un’unica navata; di notevole ha pregevoli tele del XVI e XVII secolo e il tabernacolo di stile robbiano. Il Santuario della Madonna della Casa Anticamente, lungo la salita che da San Dalmazio porta alla rocca Sillana, esisteva un dipinto di una Madonna in Maestà, detta «della Casa» dal nome del vicino podere di proprietà Baroni. Questa semplice edicola stradale fu il primo luogo del culto verso la Madonna della Casa per una grazia ricevuta da G. B. Baroni. Nel 30 La Rocca Sillana Chi dal santuario giunge a Lanciaia, può vedere figure e alcuni fregi incisi sullo stipite della vecchia chiesa, traccia della remota presenza dei cristiani scampati all’eresia ariana. L’itinerario termina alla Rocca Sillana la cui chiesa di San Bartolomeo, nel XV secolo, ereditò il titolo e i privilegi della pieve di Sillano. Fatta oggetto di un poderoso restauro terminato quest’anno, la rocca ha recuperato l’architettura d’origine voluta dall’architetto militare Sangallo nel XV secolo che rinnovò l’antica struttura difensiva circondata dal borgo di Sillano con porte di ingresso e chiesa. Come si arriva: Percorrendo la Strada Statale 439 nel tratto Montecerboli/Pomarance, arrivati al bivio del Bulera, seguendo l’indicazione per Siena, sulla strada provinciale, dopo circa 2 km si giunge nel borgo di San Dalmazio. Seguendo per Montecastelli sulla strada provinciale, dopo circa 1 km., in località Apparita, seguendo l’indicazione per Lanciaia Rocca di Sillano, dopo circa 200 metri si vede il rudere della pieve di Sillano. a campagna toscana non ha bisogno di presentazioni. Con i suoi paesaggi variegati ma sempre eccezionali ha conquistato il cuore di tanti turisti, soprattutto stranieri, alcuni dei quali hanno finito per mettervi le radici. Paradossalmente proprio noi «indigeni», distratti come siamo da mete più o meno esotiche ma pur sempre lontane dalla nostra cultura, abbiamo la necessità di riscoprirla nel profondo. Anche se l’abbiamo «respirata» fin da bambini, ma poi magari con crescente superficialità. E allora della nostra campagna dobbiamo andare a ricercare l’anima. E la troveremo in quelle bellissime chiese, per la maggior parte romaniche, che rispondono al nome di pievi e che costituivano il punto di riferimento ecclesiastico dei tanti territori rurali in cui erano suddivise le diocesi. Rispetto alle altre chiese e cappelle, loro suffraganee, si caratterizzavano per la presenza del fonte battesimale. Qui e non altrove ci si recava, anche da contrade relativamente lontane, per ricevere il battesimo. E il termine pieve – dal latino «plebs», cioè popolo – indicava proprio il popolo rinato dall’acqua e dallo Spirito Santo attraverso il primo sacramento. Già dall’Alto Medioevo, infatti, era evidente quel concetto della Chiesa come comunità di battezzati, quindi come popolo di Dio, rilanciato dal Concilio Vaticano II. E i vecchi di certe nostre campagne ricordano ancora di essere appartenuti, per nascita o in gioventù, al «popolo» di questa o quella chiesa, a significare la permanenza del concetto. Questo modesto lavoro non pretende certo di offrire un quadro esauriente della ricchissima realtà storico-artistica costituita dalla fitta rete delle pievi di Toscana. Ne presentiamo solo 18, una per diocesi, soffermandoci ora maggiormente sugli aspetti artistici, ora sull’ambiente in cui sono inserite. L’invito, che va ben oltre questo mese d’agosto, è non solo di andarle a visitare ma anche di riscoprirne la storia, e magari di appassionarsi alla ricerca delle loro «sorelle», attraverso gite che possono salvare dalla massificazione e riempire di significato il nostro tempo libero, a cominciare naturalmente da quello delle ferie. L