Avvocati di Famiglia n. 4 - 2010 - Osservatorio nazionale sul diritto di

OSSERVATORIO NAZIONALE SUL DIRITTO DI FAMIGLIA
n. 4 - luglio-agosto 2010
Anno III - n.4 - luglio-agosto 2010 - Spedizione in abbonamento postale 70% - DC Roma
Avvocatidifamiglia
Dichiarazione di paternità e morte del presunto
genitore
I poteri del Giudice istruttore nella separazione
e nel divorzio
Giurisdizione ecclesiastica e giurisdizione civile
Cassazione penale: stalking ed estorsione
in famiglia
Avvocatidifamiglia
OSSERVATORIO NAZIONALE SUL DIRITTO DI FAMIGLIA
LA PROFESSIONE FORENSE NEL DIRITTO DI FAMIGLIA IN ITALIA
Avvocati di famiglia
Periodico dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia
Nuova serie, anno III, n. 4 - luglio-agosto 2010
Autorizzazione del tribunale di Roma n. 98 del 4 marzo 1996
Spedizione in abbonamento postale 70% - DC Roma
Amministrazione
Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia
Centro studi giuridici sulla persona
Via Nomentana, 257 - 00161 Roma
Tel. 06.44242164
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Direttore responsabile
avv. Gianfranco Dosi
([email protected])
Comitato esecutivo dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia
avv. Gianfranco Dosi (Roma)
avv. Maria Giulia Albiero (Messina)
avv. Germana Bertoli (Torino)
avv. Matilde Giammarco (Chieti)
avv. Corrado Rosina (Barcellona Pozzo di Gotto)
avv. Ivana Terracciano Scognamiglio (Napoli)
Redazione
Direttore responsabile avv. Gianfranco Dosi
Hanno collaborato a questo numero
Rosaria Capozzi, Geremia Casaburi, Emanuela Comand, Matilde Giammarco,
Anna Maria Occasione, Gioia Sambuco
Impaginazione e Stampa
EUROLIT S.r.l.
00133 Roma - Via Bitetto, 39 - Tel. 06.2015137
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SOMMARIO
Avvocati di famiglia | luglio-agosto 2010
Sommario
Editoriale
Ritratto di famiglia
(Gianfranco Dosi) 2
La questione
Dichiarazione giudiziale di paternità: se non ci sono
eredi l’azione è improponibile 5
Cass. Sez. I, 28 maggio 2010, n. 13099
Tribunale di Sassari, sez. I, 10 marzo 2010
Una soluzione del tutto inappagante 10
(Gianfranco Dosi)
Studi e ricerche
Giurisdizione ecclesiastica e giurisdizione civile
nell’ordinamento italiano. A proposito della vigenza
del Concordato Lateranense (1929) e dell’accordo di
Villa Madama (1984) 17
(Rosaria Capozzi)
Giurisprudenza costituzionale
Il mantenimento dei figli naturali è di competenza
del tribunale per i minorenni solo quando vi è
contestualità con una domanda relativa
all’affidamento 25
(Corte cost. 5 marzo 2010, n. 82)
Giurisprudenza civile
Se nessuno dei coniugi in separazione dei beni
riesce a provare la proprietà esclusiva di un bene
questo è di proprietà per metà di ciascuno 28
(Cass. sez. I, 17 febbraio 2010, n. 3804 Cass. sez. I,
17 febbraio 2010, n. 3805)
Il punto di vista (Gianfranco Dosi) 38
Al padre avvocato spetta, in alternativa
ed in sostituzione della madre, l’indennità
di maternità 43
Tribunale Alessandria, Sezione Lavoro, 27 maggio
2010
Il punto di vista (Anna Maria Occasione) 45
Giurisprudenza penale
Lo stalking (art. 612-bis c.p.) arriva in Cassazione 47
Corte di cassazione, penale, Sezione V, 17 febbraio
2010, n. 6417
Corte di cassazione, penale, Sezione V, 26 marzo
2010, n. 11945
Il punto di vista (Gioia Sambuco) 49
L’estorsione in famiglia 52
Cass. penale, Sez. VI, 19 aprile 2010, n. 14194
Il punto di vista (Gioia Sambuco) 54
Osservatorio legislativo
(a cura di Emanuela Comand)
Le proposte di legge di modifica in tema di
affidamento condiviso dei figli 56
Le proposte di modifica sulla disciplina della
potestà e della filiazione naturale (Disegni di legge
n. 1211 e 1412) 57
In libreria 61
Dossier
I poteri del Giudice Istruttore della separazione
e del divorzio. Principi generali
(Geremia Casaburi) 29
L’interessato che ricorre contro una decisione
di interdizione chiedendo l’amministrazione
di sostegno non deve necessariamente indicare
il nominativo della persona che dovrebbe
ricoprire l’incarico 38
Cass. sez. I, 1 marzo 2010, n. 4866
Il punto di vista (Matilde Giammarco) 41
luglio-agosto 2010 | Avvocati di famiglia | 1
EDITORIALE
Ritratto di famiglia
GIANFRANCO DOSI,
AVVOCATO DEL FORO DI ROMA
Istat ha reso
noti nell’aprile
2010 i dati aggiornati relativi
a tutti i principali settori
della vita e della economia italiana (territorio,
ambiente, popolazione,
salute, giustizia, istruzione, lavoro, commercio).
Il rapporto generale sulla
condizione delle famiglie italiane è utile per noi avvocati soprattutto nella parte in cui documenta le
condizioni economiche delle famiglie e delle persone (con una disponibilità di reddito sensibilmente inferiore a quella degli anni passati e con
una pesante pressione fiscale del 43,2%, superiore
di tre punti a quella europea) e i tradizionali dati
sul matrimonio (con una riduzione di quasi il 50%
del numero di matrimoni rispetto agli anni Settanta
e con una percentuale del 40% dei matrimoni civili
rispetto a quelli religiosi; e con un aumento al 15%
sul totale dei matrimoni misti) e sulla conflittualità
familiare (una coppia su tre si separa: 80.000 separazioni su 240.000 matrimoni all’anno). Ci si sposa
sempre più tardi (a 33 anni gli uomini e a 30 anni le
L’
donne). Si vive come famiglia di meno e come persone di più continuando la durata della vita ad allungarsi.
Propongo una sintesi di questi dati - con l’aiuto di
osservazioni critiche dell’Ansa tratte dai dati generali - con la speranza di fornire un ritratto il più possibile reale della situazione delle famiglie italiane.
IL REDDITO DISPONIBILE DELLE FAMIGLIE nel
2009 (gennaio - dicembre) è diminuito del 2,8% rispetto al 2008. Si tratta della riduzione più significativa a partire dagli anni '90. La spesa è calata
dell'1,9%. In linea con il calo del reddito, il potere
d'acquisto delle famiglie (cioè il reddito disponibile
delle famiglie in termini reali) è diminuito del 2,6%
rispetto all'anno precedente. Cala anche la propensione al risparmio delle famiglie dello 0,7% in meno
rispetto al 2008. È proseguita anche la flessione del
tasso di investimento che rispetto al 2008 si e' ridotto di 0,7 punti percentuali.
LE IMPOSTE DIRETTE pesano per il 18,6% sui redditi delle famiglie. Il maggior prelievo sul reddito è
fatto sui single, soli con meno 64 anni con un'aliquota del 20,9%. Un lavoratore autonomo su tre
(35,4%) guadagna meno di 10 mila euro l'anno, men-
Matrimoni dal 1931
Periodo
Matrimoni
Con rito civile
1931
276.035
2,6%
1941
273.695
1,5%
1951
328.225
2,4%
1961
397.461
1,6%
1971
404.464
3,9%
1981
316.953
12,7%
1991
312.061
17,5%
2001
264.026
27,1%
8,1%
2005
247.740
32,8%
13,3%
2006
245.992
34,0%
14,0%
2007
250.360
34,6%
13,8%
2008
246.613
36,7%
15,0%
2 | Avvocati di famiglia | luglio-agosto 2010
Con almeno un coniuge
straniero
EDITORIALE
tre tra i lavoratori dipendenti solo un quinto (22,1%)
ha redditi inferiori a questa soglia. Le aliquote fiscali
più basse riguardano le famiglie con una persona
sola che percepisce redditi (cosiddette monopercettore) con almeno un minore: in particolare, le coppie
con tre o più figli (di cui almeno uno di minore età)
fruiscono del migliore trattamento fiscale, con
un'aliquota pari al 13,2%; seguono le famiglie con
due o più figli (di cui almeno uno minorenne), il cui
carico fiscale è pari al 13,3%, e le famiglie con un
solo genitore (13,4%). Il vantaggio fiscale di cui godono le famiglie con minori è da attribuire alle maggiori detrazioni fiscali per familiari a carico e alla più
elevata probabilità di disporre di assegni familiari
(esenti da imposta).
LA PRESSIONE FISCALE in Italia è salita al 43,2%
nel 2009, aumentando di tre decimi di punto rispetto al 2008 (42,9%). Una pressione fiscale superiore di oltre tre punti percentuali con la media Ue sempre alta - che l'anno scorso si è attestata al
39,5% (dal 40,3% del 2008). Oltre il 15% delle famiglie
vive in condizioni di disagio economico, con una
percentuale che supera il 25% nel Mezzogiorno. Nel
2009 il potere d'acquisto pro capite è scivolato sotto
il livello del 2000.
I MATRIMONI si confermano in diminuzione. Ma
solo i primi matrimoni, che in circa 35 anni si sono
quasi dimezzati (erano arrivati ad oltre 400.000 negli anni 70 e, come si vede dalla tabella che segue, si
sono quasi dimezzati arrivando a 246.613 nel 2008
con la punta più bassa nel 2006) mentre le seconde
unioni - quelle contratte fra divorziati e/o vedovi vivono floridamente e sono più che raddoppiate in
questo periodo: dal 6,5% al 13,8% del numero complessivo. Sono sempre più numerose le coppie che
scelgono di formare una famiglia al di fuori del vincolo del matrimonio. Lo testimoniano, ad esempio,
le nascite: il 20% (oltre 100.000 nel 2008) avvengono
al di fuori del matrimonio. Altre tendenze confermate sono il ricorso al rito civile (uno su tre) e i matrimoni in cui almeno uno dei due sposi è straniero
(15%). Prevale poi fra gli sposi la scelta del regime
della separazione dei beni (62,7%) rispetto alla comunione dei beni.
CI SI SPOSA PIÙ TARDI. Infatti i primi matrimoni
riguardano coppie sempre più anziane di età: 33 anni
per gli sposi, quasi 30 per le spose (circa 6 anni in più
rispetto agli anni '70). Le nozze fra celibi e nubili rappresentano l'86,2% del totale contro il 93,5% di 35
anni prima. Ci si sposa di più al Sud e nelle Isole (4,9
Tipologie
luglio-agosto 2010 | Avvocati di famiglia | 3
EDITORIALE
e 4,7 per mille abitanti) che al nord (3,6 per mille abitanti) e al Centro (4 per mille abitanti). Le regioni in
capo e in coda della classifica sono Campania (5,5) e
Friuli Venezia Giulia (3,3). Alti tassi di nuzialità si
hanno anche in Puglia e Sicilia (4,8), e in Calabria (4,6).
LA TIPOLOGIA DELLE COMPOSIZIONI FAMILIARI
ci presenta un quadro molto variegato. Il Maggior
numero di famiglie è composta da coppie con figli (il
38%) mentre le famiglie monoparentali, con una
persona sola, sono il 27%. Le coppie senza figli sono
il 20% e quelle di un genitore solo con figli l’8%.
NEL 2008 VI È STATO UN RECORD NELLE SECONDE NOZZE ed infatti i secondi matrimoni e successivi sono stati 34.137 pari al 13,8% di tutti i matrimoni. È un fenomeno che ha a che vedere con
l'aumento dei divorziati (50.000 divorzi nel 2007)
che, insieme ai vedovi, sono i potenziali sposi. Le
nozze fra divorziati sono il 92,1% del totale delle
unioni successive. Sono più diffusi al Nord; in particolare in Liguria (24,2%), in Friuli Venezia Giulia
(22,7%), in Piemonte 822,2%). All'opposto ci sono Basilicata (5,8%) e Calabria (6,5%). Gli uomini si risposano in media a 48 anni se divorziati, a 61 se vedovi;
mentre le donne, rispettivamente a 43 e 48 anni.
UN MATRIMONIO SU TRE È CIVILE. Questa scelta
riguarda anche le prime unioni (un quarto del totale). Ora sono il 36,7%, erano il 20% 15 anni fa. È anche l'effetto dell'aumento delle seconde unioni.
Sono celebrati con il solo rito civile oltre il 48% dei
matrimoni al Nord, il 44% di quelli al Centro, il 20%
nel Mezzogiorno.
LE UNIONI MISTE SONO IL 15%. Erano il 4,8% nel
1995. Si tratta di 24 mila celebrazioni. Più diffuse al
Nord e al Centro dove superano il 20% (rispettivamente 13,4% e 12,2% dei matrimoni misti). Al Sud e
nelle Isole invece i matrimoni con almeno uno
sposo straniero sono l'8,1% e il 6,2% del totale delle
unioni (4% e 3,5% nel caso dei matrimoni misti). La
tipologia più frequente è quella in cui lo sposo è italiano e la sposa è straniera (7,4% matrimoni a livello
medio nazionale, per un totale di 18.240 nozze celebrate nel 2008, con punte del 9,9% al Nord e 9,2% al
Centro). Gli uomini italiani che sposano una straniera scelgono nel 13,7% dei casi una romena, nel
10,6% un'ucraina e nel 9,6% una brasiliana. Le donne
italiane invece scelgono più spesso uomini di origine nordafricana, per lo più marocchini (22,2%), tunisini (7,6%), egiziani (6,1%).
LE SEPARAZIONI E I DIVORZI SONO SEMPRE IN
AUMENTO. A fronte di poco più di 17.000 separazioni all’anno negli anni 70 il numero di coppie che
si separa è in questi ultimi anni superiore ad 80.000
l’anno. Il che significa che ogni tre famiglie che si
formano (oltre 240.000 all’anno) una è destinata alla
separazione. Il numero di divorzi anche è in aumento (oltre 50.000 l’anno) confermandosi così che
il 40% delle coppie che si separa accede oggi prima
o poi al divorzio. Nella tabella che segue sono indicati i dati dal 1971.
Separazioni e Divorzi
Anno di riferimento
Separazioni
Divorzi
1971
11.796
17.134
1976
21.225
12.106
1981
30.899
12.606
1986
35.547
16.857
1991
44.920
27.350
1996
57.538
32.717
2001
75.890
40.051
2007
81.359
50.669
4 | Avvocati di famiglia | luglio-agosto 2010
LA QUESTIONE
Dichiarazione giudiziale
di paternità: se non
ci sono eredi l’azione
è improponibile
I
Cass. Sez. I, 28 maggio 2010, n. 13099
Presidente Maria Gabriella Luccioli;
Relatore Carlo Piccininni
È inammissibile il ricorso per cassazione avverso
il provvedimento con cui la Corte d’appello rigetta
il reclamo avverso la mancata nomina da parte
del Presidente del Tribunale di un curatore speciale
nell’azione per la dichiarazione giudiziale
di paternità naturale
Svolgimento del processo
on ordinanza del 19.11.2007 la Corte di
appello di Firenze rigettava il reclamo
proposto da A.V. di M. e D.L.O.C. avverso il
decreto con il quale il Presidente del Tribunale di Firenze aveva respinto l’istanza di nomina di un curatore speciale, di cui il medesimo
tribunale aveva disposto la chiamata in causa, nell’ambito di un procedimento civile avente ad oggetto la dichiarazione di paternità naturale di A. A.
Più precisamente il Presidente del tribunale aveva
disatteso la domanda di nomina, sostenendo che
questa poteva essere effettuata soltanto nel caso
di mancanza di persona cui spetti la rappresentanza o l’assistenza di un incapace, di una persona
giuridica o di una associazione non riconosciuta, e
non anche dunque nell’ipotesi, ricorrente nella
specie, della mancanza di soggetti legittimati passivamente.
Tale statuizione era stata pero’ censurata sotto il
duplice aspetto che il Presidente del Tribunale sarebbe stato vincolato alla nomina del curatore speciale, per effetto della citata ordinanza collegiale del
26.1.2007, e comunque per il fatto che la decisione
sarebbe stata in linea con una sentenza emessa da
questa Corte a sezioni unite sulla tematica in oggetto (C. 3.11.2005, n. 21287).
C
La Corte di appello, tuttavia, rilevava l’incongruenza di un’interpretazione che avesse attribuito
“valore vincolante al provvedimento di altro giudice
che dispone la chiamata in causa del curatore speciale” e riteneva improprio il richiamo alla citata
sentenza di questa Corte, che avrebbe anzi escluso
la possibilità di procedere alla nomina di un curatore speciale “ senza una esplicita pronuncia additiva in questo senso della Corte Costituzionale o
senza intervento del legislatore”.
Tale ultima prospettazione veniva dunque condivisa dalla Corte territoriale, che sosteneva inoltre la
novità della questione concernente l’individuazione
dell’organo titolare del potere di nomina del curatore speciale in pendenza di procedimento di merito sollevata dal reclamante, e comunque l’inconsistenza della censura atteso che, anche ove fondata, non avrebbe potuto comportare l’accoglimento del reclamo diretto ad ottenere la nomina del
curatore speciale da parte della Corte o del Presidente del Tribunale, “in quanto entrambe le domande presuppongono la competenza e non l’incompetenza del presidente dell’ufficio giudiziario”.
Avverso la decisione gli originari istanti proponevano ricorso per Cassazione affidato a sei motivi,
cui, resistevano con controricorso la N.Y.U., che eccepiva pregiudizialmente l’inammissibilità del ricorso, in quanto proposto avverso provvedimento
privo di decisorietà e definitività.
Sia i ricorrenti che i controricorrenti depositavano
infine memoria.
La controversia veniva quindi decisa all’esito dell’udienza pubblica del 21.4.2010.
Motivi della decisione
Con i motivi di impugnazione i ricorrenti hanno
rispettivamente lamentato:
1) violazione degli artt. 276, 247 c.c., art. 12 disp.
prel. c.c., per l’omessa interpretazione analogica dell’art. 276 in relazione all’art. 247 c.c., nel senso che,
nel caso di decesso del presunto padre naturale e
dei suoi eredi, l’azione per dichiarazione giudiziale
di paternità dovrebbe essere proposta nei confronti
di un curatore speciale;
2) vizio di motivazione in relazione all’omessa
considerazione della incostituzionalità dell’art. 276
c.c., laddove non interpretato analogicamente con riferimento a quanto previsto dall’art. 247 c.c., e quindi
applicato nel senso ostativo dell’esercizio dell’azione
di paternità nel caso di decesso del padre naturale e
dei suoi eredi. Per di più la detta motivazione sarebbe
contraddittoria, per contenere dapprima il rilievo
delle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui l’integrazione interpretativa dell’art. 276 c.c., potrebbe
derivare da una pronuncia additiva della Corte Costituzionale, e quindi la successiva affermazione, per
la quale il testo del citato art. 276 non presenterebbe
profili di incostituzionalità;
luglio-agosto 2010 | Avvocati di famiglia | 5
LA QUESTIONE
3) violazione dell’art. 112 c.p.c., poiché la questione relativa alla competenza a provvedere alla richiesta di nomina del curatore speciale, non esaminata in quanto ritenuta nuova, sarebbe stata implicita nella domanda di nomina del curatore speciale
e comunque rilevabile di ufficio;
4) violazione dell’art. 78 c.p.c., in ragione del fatto
che il giudice competente a nominare il curatore
speciale nei cui confronti deve essere proposta
l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità
naturale, nel caso di decesso del padre naturale e
dei suoi eredi, è quello dinanzi al quale pende il relativo giudizio di merito;
5) violazione degli artt. 112, 279 c.p.c., sotto il profilo
che, per effetto di quanto disposto con l’ordinanza
impugnata, si sarebbe determinata una indebita interferenza sul provvedimento di chiamata in causa
del curatore speciale adottato nella causa di accertamento della paternità, atto di chiamata che, fra l’altro, non sarebbe suscettibile di impugnazione;
6) violazione degli artt. 91, 92 c.p.c., per la statuizione di condanna alle spese processuali, che viceversa avrebbero dovuto essere compensate, non essendo configurabile nella specie una ipotesi
di soccombenza e risultando comunque la questione nuova, peculiare e complessa.
Con i primi cinque motivi di impugnazione i ricorrenti si sono sostanzialmente doluti dell’omessa
nomina di un curatore speciale, doglianza che, come
puntualmente rilevato dai controricorrenti, è inammissibile in questa sede di legittimità.
Ed infatti la controversia sottoposta all’esame del
Collegio riguarda esclusivamente la correttezza
della decisione adottata dal Presidente del tribunale,
poi confermata in sede di reclamo, in ordine al mancato accoglimento della richiesta di nomina di un
curatore speciale ai sensi dell’art. 80 c.p.c..
Orbene tale provvedimento, come reiteratamente
affermato da questa Corte, è privo sia del requisito
della definitività, poiché non si sottrae alla più generale disciplina della revocabilità dettata dall’art. 742
c.p.c., che di quello della decisorietà, per la sua natura
di procedimento “unilaterale” disciplinato in ragione
dell’interesse di una sola parte (C. 07/23030, C.
01/6771, C. 98/11947, C. 83/6943), circostanza da cui
consegue l’inammissibilità del relativo ricorso per
Cassazione.
Ne’ rilevano in senso contrario le articolate deduzioni svolte dai ricorrenti in ordine ai prospettati
profili di carattere sostanziale, essenzialmente consistenti nell’esigenza di individuare un soggetto legittimato contro cui proporre un’azione di riconoscimento di stato.
Ed invero il Collegio non disconosce la problematicità della questione e la rilevanza delle conseguenze derivanti dalla soluzione adottata.
Tuttavia le argomentazioni poste a base delle contrapposte tesi ben possono e devono essere rappre6 | Avvocati di famiglia | luglio-agosto 2010
sentate nella competente sede deputata alla definizione del merito della controversia, nel cui ambito
potrà convenientemente essere stabilito se, ed eventualmente chi, sia il legittimato passivo nell’azione
in oggetto.
In questa sede, giova ribadirlo, il Collegio è stato
investito esclusivamente in relazione al provvedimento di rigetto dell’istanza proposta ai sensi dell’art. 80 c.p.c., provvedimento non ricorribile per le
ragioni dianzi indicate.
D’altra parte non può neppure ritenersi che il rapporto di strumentalità tra il decreto di nomina del
curatore speciale ai sensi dell’art. 80 c.p.c. ed il giudizio per la dichiarazione di paternità naturale individuabile nel fatto che il detto provvedimento è finalizzato alla costituzione di un legittimato
passivo all’azione - possa incidere sulla natura di
volontaria giurisdizione del relativo procedimento.
Ed infatti depongono comunque in senso contrario sia l’autonomia formale del procedimento in
questione e la specificità della sua disciplina processuale, sia la circostanza che la nomina del curatore speciale sarebbe comunque soggetta ad essere
travolta dalla decisione di merito, che in via definitiva adottasse un’interpretazione dell’art. 276 c.c.,
diversa da quella che sorregge l’ordinanza collegiale
- del 26 gennaio 2007.
(omissis)
Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato.
La natura della controversia e l’originario collegamento fra la richiesta di nomina di un curatore speciale ed il provvedimento del Tribunale di Firenze
inducono alla compensazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio
di legittimità.
II
Tribunale di Sassari, sez. I, 10
marzo 2010
Presidente Pietro Fanile;
Estensore Laura Mancini
È inammissibile la domanda di dichiarazione
giudiziale di paternità naturale promossa nei
confronti di eredi non diretti del presunto genitore
deceduto
Svolgimento del processo
Con atto di citazione ritualmente notificato A.D.
conveniva in giudizio P.E.G. esponendo che nel
mese di gennaio del 2001 aveva appreso dalla sorella di non essere figlio biologico di G.D., all’epoca
della sua nascita coniuge della madre, la quale al-
LA QUESTIONE
l’epoca del suo concepimento intratteneva un’intensa e duratura relazione sentimentale ed extraconiugale con S.C., deceduto il 25.6.1999; che la sorella gli aveva, altresì, reso noto che quando G.D.
aveva saputo della gravidanza della moglie aveva
contestato di essere lui il padre dei nascituro ma,
per salvaguardare la propria reputazione e quella
della famiglia, non impedì che questi portasse il
suo cognome e che la madre non aveva mai trovato
la forza di rivelargli la verità.
Sosteneva che nel mese di febbraio del 2001 aveva
promosso davanti al Tribunale di Sassari azione di disconoscimento di paternità e che la causa, istruita
con prova orale e con c.t.u. ematologica - che aveva
con certezza assoluta escluso che G.D. fosse il proprio
padre - era stata decisa con sentenza n. 678/2003, che,
in accoglimento della propria domanda, aveva dichiarato che A.D. non fosse figlio di G.D.
Aggiungeva che il 5.11.2004 aveva proposto davanti al Tribunale di Sassari azione ex art. 274 c.c.
per ottenere dichiarazione di ammissibilità dell’azione di riconoscimento giudiziale di paternità
nei confronti di P.E.G., di G.G., di C.G., di E.G. e di U.G.
quali eredi del dott. S.C.; che in detto giudizio si era
costituito solo P.E.G., il quale aveva dichiarato di essere solo lui e non i suoi fratelli unico erede di S.C.,
avendo ereditato dalla sorella di lui, deceduta in
Sassari 1’11.4.2003; che nelle more del giudizio era
intervenuta la pronuncia della Corte Costituzionale
n. 50/2006 con la quale era stata dichiarata l’incostituzionalità dell’art. 274 c.c.
Sulla base di tali premesse l’attore chiedeva dichiararsi che S.C., nato a Sassari il 17.7.1915, ivi deceduto il 25.6.1999 era il padre naturale di A.D., nato
il 27.10.1952, ordinando al competente Ufficiale
dello Stato Civile di provvedere alle conseguenti variazioni anagrafiche.
Si costituiva in giudizio P.E.G. eccependo preliminarmente il proprio difetto di legittimazione passiva
per essere erede testamentario di A.C., erede universale di S.C.. A tal fine invocava la pronuncia delle
Sezioni Unite n. 21287/2005 che aveva stabilito che
contraddittori necessari, passivamente legittimati
in ordine all’azione per dichiarazione giudiziale di
paternità naturale sono, in caso di morte del genitore, esclusivamente i suoi eredi e non anche gli
eredi degli eredi di lui od altri soggetti, comunque
portatori di un interesse contrario all’accoglimento
della domanda, cui è, invece, riconosciuta la sola facoltà di intervenire in giudizio a tutela dei rispettivi
interessi. In via subordinata chiedevano rigettarsi la
domanda di cui contestavano i presupposti di fatto.
Sottoposta al contraddittorio la questione pregiudiziale introdotta dal convenuto, il Giudice Istruttore, ritenuto che fosse in grado di definire il giudizio, invitava le parti a precisare le conclusioni.
La causa veniva rimessa al collegio all’udienza del
22.10.2009, sulle conclusioni rassegnate dalle parti al-
l’udienza dei 7.10.2009 - nel corso della quale le parti
confermavano le conclusioni assunte e l’attore insisteva, in ogni caso, per la concessione dei termini di
cui all’art. 183 c. 6. c.p.c. e per l’ammissione dei mezzi
di prova dedotti nell’atto di citazione - con assegnazione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c. per il deposito
di comparse conclusionali e di memorie di replica.
Motivi della decisione
1. Deve essere preliminarmente scrutinata l’eccezione di carenza di legittimazione passiva introdotta
dal convenuto.
Il collegio ritiene di aderire alla soluzione interpretativa prescelta dalle Sezioni Unite della Suprema Corte nella sentenza n. 21287 del 3.11.2005
componendo il contrasto insorto tra le sezioni semplici in merito alla questione della legittimazione
passiva nell’azione per dichiarazione giudiziale di
paternità naturale, secondo la quale legittimati passivi sono esclusivamente gli eredi del preteso genitore e non anche gli eredi di questi ultimi, cui è riconosciuta la sola facoltà di intervenire in giudizio
a tutela dei propri interessi.
Un primo indirizzo giurisprudenziale era, infatti,
orientato a riconoscere la legittimazione passiva
solo agli eredi in forza sia della chiarezza dell’espressione impiegata dal legislatore, sia dell’omessa indicazione tra i legittimati, degli aventi
causa - espressione generalmente adottata dal legislatore accanto al termine “eredi” al fine di estendere a tali soggetti determinati effetti, letta anche
in contrapposizione alla espressa previsione tra i legittimati a contraddire di “chiunque vi abbia interesse” - sia della finalità non esclusivamente successoria della dichiarazione giudiziale di paternità
nel caso di morte del presunto genitore, dalla quale
possa derivare un ampliamento della categoria dei
legittimati passivi. A tali rilievi si aggiungeva la conluglio-agosto 2010 | Avvocati di famiglia | 7
LA QUESTIONE
siderazione che l’intenzione del legislatore era stata
quella di consentire all’attore un’agevole individuazione dei soggetti nei cui confronti proporre l’azione
evitando il pericolo di un litisconsorzio difficilmente
integro, quale si sarebbe potuto prospettare nel caso
di estensione della legittimazione passiva agli eredi
degli eredi (in tal senso Cass., n. 12187/1997; Cass. n.
3143/1994; Cass. n. 1017111993; Cass. n. 9829/1990 e
la dottrina dominante).
Secondo altro indirizzo minoritario la domanda di
dichiarazione giudiziale di paternità, implicando
questioni relative allo stato delle persone, rende indispensabile la partecipazione al processo di tutti i
soggetti la cui sfera giuridica, tanto per l’aspetto
personale che per quello patrimoniale, è suscettibile
di effetti in seguito alla formazione di un nuovo status (Cass. Sez. I, 9033/1997).
1.1. La pronuncia delle sezioni unite, in linea con
l’indirizzo giurisprudenziale maggioritario ha ritenuto estensibile la legittimazione passiva, in ordine
all’azione ex art. 269 c.c., unicamente agli eredi, diretti ed immediati, del preteso genitore sulla base
dei seguenti argomenti:
a) la chiarezza del termine tecnico (“i suoi eredi”)
usato dal legislatore;
b) l’omessa indicazione, fra i legittimati, degli
“aventi causa”, espressione adottata sovente dal legislatore, accanto alla parola “eredi”, ogni volta che
sia inteso estendere a detti soggetti determinati effetti (v. artt. 2908 c.c. e 2909 c.c.);
c) l’espresso riconoscimento nel capoverso dell’art. 276 c.c. della facoltà di contraddire a “chiunque vi abbia interesse”, il quale inevitabilmente
comporta che detti diversi soggetti possano bensì
intervenire nel giudizio ex ari.. 269 c.c., ma non assumono per questo la veste di legittimati passivi, nel
duplice senso che nei loro confronti l’azione non
può, né deve essere proposta ai fini dell’integrità dei
contraddittorio.
Hanno, infine, evidenziato che la ratio della norma
è quella di evitare al presunto figlio naturale difficoltà in ordine all’esatta individuazione dei destinatari dell’azione, soprattutto nel caso di sua proposizione a distanza di tempo dalla morte del presunto
genitore con conseguente pericolo di non integrità
dei contraddittorio (stante la verificabilità dell’eventuale suo difetto di integrità in ogni stato e grado di
giudizio), quali invece deriverebbero da un indiscriminato ampliamento della platea dei contraddittori
necessari, che renderebbe ben più ardua la tutela del
diritto del figlio naturale all’accertamento del proprio status; risolvendosi, specularmente, in un vulnus anche al diritto di difesa di quei soggetti che potendo, in tesi, essere convenuti in giudizio in ragione di una loro anche lontana parentela con il preteso genitore (eventualmente da loro neppure conosciuto in vita) non si troverebbero in condizione di
contraddire alle pretese dell’attore. Evidenziano, in8 | Avvocati di famiglia | luglio-agosto 2010
fine, le Sezioni Unite che la figura dell’“erede dell’erede” ha valenza puramente descrittiva e non esiste come sub categoria che individui un nesso di relazione, giuridicamente rilevante, tra un soggetto e
gli eredi degli eredi di lui e che, possa, come si pretende, ritenersi, per tale, implicitamente richiamata
dal citato art. 276 attraverso il generico riferimento
alla categoria degli eredi (del presunto genitore). Diretta o indiretta può essere, ben vero la vocazione
ereditaria (la quale può appunto definirsi “indiretta”
quando, come nei casi di cui agli artt. 467, 677 c.c,, il
destinatario o i destinatari siano chiamati alla successione subordinatamente al fatto che altro chiamato prima di loro non possa o non voglia accettare
l’eredità) ma la successione nella universalità o in
quota del beni del de cuius, dalla quale dipende l‘acquisto della qualità di “erede” del medesimo (art. 588
c.c.), è sempre e soltanto diretta, da parte del soggetto che, per accettazione di quella (diretta o indiretta) vocatio, subentri nel patrimonio del suo dante
causa (e non nel patrimonio di altri aventi causa da
quel medesimo soggetto).
La pronuncia in esame ha, infine, evidenziato un
profilo di debolezza dell’attuale disciplina rispetto
all’esigenza di tutela dell’interesse dei figlio naturale all’accertamento della genitorialità che potrebbe essere colmato prevedendosi la possibilità,
come suggerito dalla dottrina, per il caso di mancanza di eredi del presunto genitore, della nomina
di un curatore speciale quale contraddittore, analogamente a quanto previsto dall’art. 247 c.c. ai fini
della proponibilità dell’azione di disconoscimento
della paternità nella parallela ipotesi di intervenuta
morte del presunto padre e di mancanza dei litisconsorti necessari indicati nel primo comma della
stessa disposizione, ritenendo, tuttavia, che una tale
integrazione richiederebbe un intervento legislativo
o una pronuncia additiva della corte costituzionale.
LA QUESTIONE
A tal proposito devono, tuttavia, richiamarsi le recenti pronunce della Corte costituzionale che hanno
dichiarato la manifesta inammissibilità della questione sul presupposto che la pronuncia additiva
non è, in questo caso, costituzionalmente obbligata,
ma rientra nella discrezionalità dei legislatore ordinario, dal momento che lo stesso, allo scopo di consentire l’azione del ricorrente, potrebbe indicare
quale legittimato passivo della domanda di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale,
in casa di premorienza del genitore e dei suoi eredi,
un curatore speciale, ovvero, individuare i legittimati negli eredi degli eredi del preteso genitore (ordinanze n. 379/2008; n, 299/2006, n. 81/2008; n.
278/2009; n. 80 del 2009)
Sebbene le decisioni in esame non sembrino ipotizzare un margine per un’interpretazione costituzionalmente orientata del sistema normativo vigente, reputando, al contrario, necessario l’intervento integrativo dei legislatore, anche ove, diversamente opinando, volesse individuarsi il contraddittore necessario in caso di morte del genitore e dei
suoi eredi in un curatore speciale di nomina giudiziale in applicazione analogica dell’art. 247 comma 4
c.c., non sussisterebbero nel presente procedimento
margini per ottenere il suo ingresso in giudizio.
Infatti secondo le norme generali in materia (ed
in particolare l’art. 80 c.p.c.) la nomina di un curatore speciale deve essere proposta nelle forme del
procedimento di volontaria giurisdizione al presidente del Tribunale ove si intende proporre la causa,
il quale provvede con decreto, e, dunque, postula in
defettibilmente l’iniziativa dell’interessato.
Si ritiene che nel caso di specie l’ingresso di un curatore speciale del presunto genitore defunto non potrebbe essere provocato neanche attraverso l’impiego
del potere giudiziale ex art. 102 c.p.c., posto che non
si tratterebbe di integrazione del contraddittorio nei
confronti di un litisconsorte necessario, la quale postula una pluralità di litisconsorti dal lato attivo o
passivo e la loro incompleta evocazione in giudizio,
ma di chiamata in causa dell’unico contraddittore
necessario, ovvero dell’unica parte nei confronti della
quale possa essere esperita l’azione costitutiva necessaria della dichiarazione giudiziale di paternità.
Come si avrà modo di chiarire Infra, all’odierno
convenuto, quale erede dell’erede del presunto genitore defunto, può, al più, riconoscersi, secondo la più
recente giurisprudenza, la posizione di interveniente
principale, ma non certo quella di parte necessaria.
La provocazione giudiziale dell’ingresso in giudizio
di un curatore speciale non troverebbe, pertanto, giustificazione nella necessità di integrare il contraddittorio, ma nell’esigenza di instaurarlo ex novo.
Richiamando una risalente, ma non superata,
massima della giurisprudenza di legittimità, non
può, invero, ritenersi configurabile litisconsorzio necessario fra un non legittimato costituito in giudi-
zio (nel caso di specie P.E.G.) ed il legittimato non
comparso perché non citato, in quanto, in tal caso, la
domanda irritualmente proposta deve essere respinta ed all’attore incombe l’onere di riproporla nei
confronti dell’effettivo titolare del rapporto n
.
57/1967, Cass., n. 2167/66, n. 1823/66; n. 188/1963;
Cass. n. 233/1968; Cass., n. 2167/1966).
2. Alla luce delle argomentazione svolte dalla Suprema Corte, non appaiono convincenti i rilievi sviluppati dall’attore al fine di affermare, comunque,
la legittimazione passiva in capo al convenuto.
Il D. sottolinea come il G. tanto nel giudizio di ammissibilità, tanto in occasione di altre iniziative giudiziarie (in particolare nella sollecitazione al Pubblico
Ministero del promuovimento dell’azione di revocazione della sentenza n. 678/1983 del Tribunale di Sassari relativa al disconoscimento di paternità, in cui
ha svolto intervento volontario ex art. 105 c. 2 c.p.c.)
ha dimostrato un rilevante interesse a contrapporsi
all’attore svolgendo difese nel merito e mai eccependo il proprio difetto di legittimazione passiva.
L’attore desume da tale contegno processuale un
considerevole coinvolgimento del G. anche nel presente giudizio, coinvolgimento da cui fa discendere,
richiamando una recente pronuncia di legittimità
(Cass., n. 8355/2007, cit.), il radicamento della sua legittimazione passiva.
Sebbene si condivida sia il principio di diritto a tal
fine richiamato - riassumibile nella massima secondo la quale l’ultimo comma dell’art. 276 c.c., in
base al quale alla domanda può contraddire “chiunque vi abbia interesse”, configura una forma di intervento principale, ai sensi dell’art. 105, comma
primo, c.p.c, e non meramente adesivo - la sua applicazione nel caso di specie non può che condurre
alla conclusione che P.E.G., pur essendo titolare di un
preciso interesse contrario alla domanda attrice e
potendo essere considerato, alla stregua dei principi
enucleati dalla richiamata pronuncia di legittimità,
alla stregua di un interveniente principale e non adesivo, non riveste, comunque, il ruolo di contraddittore necessario, che, secondo le Sezioni Unite spetta,
ex lege, solo al presunto genitore ed ai suoi eredi.
In altre parole la presenza in giudizio del convenuto, sebbene possa trovare una giustificazione
nella titolarità di un preciso interesse a contrastare
la domanda attorea - interesse confermato dal contegno processuale serbate in occasione dei procedimenti propedeutici al presente giudizio - non può
sopperire alla mancanza dell’unico ed indefettibile
soggetto passivo dell’azione esperita che è il preteso
padre o gli eredi di questi.
Invero il secondo comma dell’art. 276 c.c. dispone
che alla domanda possa contraddire chiunque vi abbia interesse e, vertendosi in tema di azione di stato
l’interesse a contraddire può essere di natura patrimoniale - come quello a non veder concorrere nei
diritti successori il preteso figlio - o morale, anche
luglio-agosto 2010 | Avvocati di famiglia | 9
LA QUESTIONE
sotto il profilo del nocumento che l’inserimento di
un soggetto estraneo potrebbe arrecare al buon
nome della famiglia.
Ma tale interesse, come chiarito dalla Suprema
Corte,. se consente ai parenti non eredi o agli aventi
causa del presunto genitore, titolari di posizioni personali o patrimoniali comunque suscettibili di essere
incise dal diverso status reclamato dall’attore, di contrastarne l’azione anche in dissonanza con eventuali
atteggiamenti di indifferenza o remissività dei legittimati passivi, non può fondare ex se la legittimazione
passiva all’azione, ovvero farli assurgere a contraddittori necessari dell’azione costitutiva di status che,
per le ragioni chiarite dalle sezioni unite, dalle quali
non sussistono ragioni per discostarsi, spetta ex lege
esclusivamente al presunto padre e ai suoi eredi.
Ne discende che, sebbene P.E.G. non possa essere
dichiarato privo di legittimazione a contraddire, nel
senso sopra chiarito, essendo titolare di un interesse
qualificato ai sensi dell’art. 276 comma 2 c.c. che lo
avrebbe, comunque, abilitato ad intervenire in giudizio per contrastare le ragioni attoree, permane l’inammissibilità dell’azione essendo carente nella persona
del convenuto la legittimazione necessaria (di cui all’art. 276 comma 1 c.c.) intesa come titolarità passiva
dell’azione costitutiva necessaria esperita dal D.
3. La complessità delle questioni giuridiche implicate dalla controversia e la natura delta pronuncia
resa giustificano l’integrale compensazione delle
spese di lite.
P.Q.M.
Tribunale, definitivamente pronunciando, così
provvede:
- dichiara l’inammissibilità della domanda attrice;
- compensa le spese di lite.
Una soluzione del tutto
inappagante
GIANFRANCO DOSI,
AVVOCATO DEL FORO DI ROMA
Le questioni
La Corte di cassazione dichiara inammissibile il
ricorso avverso l’ordinanza con cui la Corte d’appello di Firenze aveva rigettato il reclamo contro il
decreto con cui il presidente del tribunale di Firenze
aveva respinto l’istanza di nomina di un curatore
speciale in difetto di legittimati passivi in una
azione di riconoscimento della paternità naturale
promossa in seguito alla morte del presunto padre.
Il tribunale di Sassari dichiara inammissibile
l’azione di paternità naturale esercitata non nei
confronti di un erede “diretto” ma dei nipoti del presunto padre deceduto, figli della sorella di lui anch’essa deceduta.
10 | Avvocati di famiglia | luglio-agosto 2010
Entrambe le decisioni si occupano di una delle
questioni ancora irrisolte in tema di legittimati passivi nell’azione di accertamento della paternità naturale allorché il presunto genitore naturale è deceduto e sono a mio avviso del tutto inappaganti.
La questione di diritto è la seguente. L’art. 276 del
codice civile prevede che “la domanda per la dichiarazione di paternità o di maternità naturale deve essere proposta nei confronti del presunto genitore o,
in mancanza di lui, nei confronti dei suoi eredi” e
aggiunge che “alla domanda può contraddire chiunque”. Nulla dice in ordine al problema di quali siano
gli “eredi” legittimati passivi e di che cosa avvenga
nell’ipotesi in cui non vi siano eredi.
Questa omissione evidentemente va colmata dal
momento che non è ipotizzabile che l’esercizio di
uno dei diritti fondamentali della persona quale
quello relativo all’accertamento della genitura naturale (art. 2 e 30 Cost.) possa essere condizionato
dalla circostanza del tutto casuale dell’assenza di
legittimati passivi.
Se una questione non può essere risolta sulla base
di una disposizione precisa si ha riguardo - afferma
l’art. 12 delle preleggi - alle disposizioni che regolano
casi simili e se il caso rimane dubbio si deve decidere
secondo i principi generali dell’ordinamento.
Applicando questi criteri non vi è alcun motivo
plausibile per non risolvere la questione secondo la
disposizione simile prevista nell’azione di disconoscimento di paternità per il caso di morte del presunto padre e di inesistenza dei legittimati passivi
per tale eventualità (art. 247 ult. co. c.c. che prevede
in tal caso la nomina di un curatore speciale) facendo quindi riferimento al principio generale, che
verosimilmente presiede alla soluzione indicata dall’art 247 c.c. citato, secondo cui il diritto di agire in
giudizio per la tutela dei propri diritti o interessi (art.
24 Cost.) non può essere vulnerato da circostanze
casuali e del tutto estranee al riconoscimento del diritto che si intende azionare, quali quelle concernenti l’assenza di un contraddittore. Soprattutto
nelle azioni di status filiationis il cui accertamento
costitutivo è condizionato dalla sola esistenza dei
necessari requisiti biologici e genetici.
Entrambe le decisioni in commento inibiscono di
fatto l’accertamento di uno status filiationis e non
possono essere condivise.
La sentenza della Cassazione n. 13099/2010
I giudici della Cassazione - pur come si dirà, esprimendo qualche significativa valutazione in ordine
alla soluzione del problema - si adeguano all’orientamento secondo cui il provvedimento della Corte
d’appello di rigetto del reclamo avverso la mancata
nomina del curatore speciale da parte del presidente del tribunale (provvedimento camerale non
ricorribile per cassazione per i motivi di cui all’art.
360 c.p.c. per quanto previsto nell’art. 339 ult. co.
LA QUESTIONE
c.p.c.), sarebbe privo del requisito della definitività trattandosi di provvedimento sempre revocabile oltre che di quello della decisorietà e pertanto non
ricorribile per cassazione nemmeno per violazione
di legge ex art. 111 Cost.
Non condivido questa affermazione relativamente alla asserita natura non decisoria dell’ordinanza della Corte d’appello, dal momento che la
mancata nomina del curatore speciale, inibendo
l’esercizio dell’azione, acquista per ciò stesso quel
carattere decisorio sufficiente all’ammissibilità del
ricorso ex art. 111 Cost. a prescindere dalla natura
di procedimento “unilaterale” dell’istanza di nomina
del curatore speciale. In questo senso il procedimento pregiudiziale di nomina del curatore speciale
perde quella autonomia formale rispetto al procedimento pregiudicato sulla quale anche la decisione
in commento basa la decisione di inammissibilità
Il principio inverso della natura decisoria di un
provvedimento strumentale è stato affermato in
materia di regolamento di competenza avverso i
provvedimenti che dichiarano la sospensione del
processo ai sensi dell’art. 295 c.p.c. dove si è ritenuto
che il regolamento di competenza è ammissibile
solo avverso i provvedimenti che dichiarano la sospensione (e non avverso quelli che la negano) proprio sul presupposto che ammettere la sospensione
equivale a ritardare l’esercizio di un diritto.
Ho anche dubbi sulla plausibilità dell’affermazione
relativa alla non ricorribilità sotto il profilo della non
definitività dell’ordinanza della Corte d’appello dal
momento che per quante volte l’attore possa ipotizzare di richiedere la nomina del curatore speciale non
vi potrà essere mai esercizio dell’azione ove il giudice
continuasse a negare sempre la nomina. E d’altra
parte tutti i provvedimenti camerali sono revocabili,
e quindi non definitivi, ma nondimeno viene ammesso il ricorso per cassazione avverso quasi tutti i
provvedimenti che, nell’ambito del diritto di famiglia,
decidono intorno a diritti delle persone.
In ogni caso vi è nella motivazione della decisione
un aspetto che potrà incoraggiare l’attore a riproporre davanti al giudice di merito la questione della
nomina del curatore speciale, sperando in una cambiamento di orientamento.
Si legge, infatti, nella sentenza che “le argomentazioni poste a base delle contrapposte tesi ben possono e devono essere rappresentate nella competente sede deputata alla definizione del merito della
controversia nel cui ambito potrà convenientemente essere stabilito se, ed eventualmente chi sia
il legittimato passivo nell’azione in oggetto”.
La sentenza del tribunale di Sassari n. 446/2010
La sentenza del tribunale di Sassari entra invece
nel merito della questione e sceglie di adeguarsi alla
decisione con cui le Sezioni Unite avevano risolto il
problema con la sentenza n. 21287/2005.
Davanti al tribunale di Sassari il convenuto costituitosi nel giudizio di paternità naturale aveva eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva dichiarando di essere - come gli altri convenuti rimasti contumaci - figlio della sorella del presunto padre deceduto e quindi non “erede” diretto ma “erede
dell’erede” e cioè, come per semplificare può essere
chiamato, erede “indiretto”.
Il tribunale ha dichiarato inammissibile l’azione
adeguandosi all’orientamento della giurisprudenza
secondo cui contraddittori necessari nel procedimento di riconoscimento della paternità o della maternità naturale sono solo gli eredi “diretti” del presunto genitore difettando tale qualità nel nipote ex
fratris del convenuto citato in giudizio che tutt’al più
avrebbe potuto intervenire nel processo avendovi
interesse (come prevede espressamente il secondo
comma dell’art. 276 c.c.).
Nella sentenza si ripercorrono tutte le argomentazioni con cui la Corte di Cassazione a sezioni unite
nel 2005 risolse il contrasto di giurisprudenza in ordine al problema della legittimazione passiva nelle
cause di accertamento della paternità naturale con
l’indicazione che il contraddittorio va instaurato, appunto, solo nei confronti degli eredi “diretti” del presunto genitore deceduto.
La giurisprudenza delle Sezioni Unite
sulla legittimazione passiva nelle cause di
accertamento della paternità naturale
Le sezioni Unite della Cassazione si occuparono
proprio di una vicenda in cui convenuto nel giudizio
di paternità naturale era stato il nipote ex fratre del
presunto padre deceduto. Un caso quindi analogo a
quello trattato dal Tribunale di Sassari.
Nella sentenza (Cass. sez. Unite, 3 novembre 2005,
n. 21287) i giudici passarono in rassegna i due orientamenti. Il primo (Cass. 1693/1987) era favorevole alla
limitazione della legittimazione ai soli eredi “diretti”
basandosi su una interpretazione letterale della
norma (che parla di eredi e non anche di aventi
causa), sulla finalità non solo successoria del procedimento (e quindi su una finalità di tutela non meramente patrimoniale degli eredi) e soprattutto sulla
ratio della disposizione ricondotta solitamente alla
intenzione del legislatore di consentire all’attore una
agevole individuazione dei soggetti contro i quali
proporre l’azione. Il secondo orientamento (Cass.
3920/1987) riteneva invece necessaria l’estensione
della legittimazione passiva a tutti i soggetti in qualche modo portatori di un interesse generale di natura personale da considerare meritevole di tutela.
La giurisprudenza successiva si attestava negli
anni Novanta sul primo dei due orientamenti salvo
in una decisione del 1997 (Cass. 9033/1997) dove per
garantire una tutela ampia dei profili relativi allo
status i giudici ritennero indispensabile la partecipazione di tutti i soggetti interessati.
luglio-agosto 2010 | Avvocati di famiglia | 11
LA QUESTIONE
Da qui la decisione di coinvolgere le Sezioni Unite
le quali, come detto, hanno ritenuto più convincente
il primo orientamento.
La conseguenza di questa conclusione - come nota
la stessa decisione - è che in caso di morte del presunto genitore e di tutti i suoi eredi “diretti” l’azione di
paternità naturale “si consuma” inesorabilmente.
È proprio questo l’aspetto che avrebbe dovuto
convincere della necessità di prospettare una tesi
diversa.
Invece le Sezioni Unite si limitano ad auspicare
“che quella disciplina sia integrata stabilendosi che
nel caso di morte del presunto genitore e in mancanza dei suoi eredi l’azione possa proporsi, come
anche suggerito in dottrina, nei confronti di un curatore speciale nominato dal giudice analogamente
a quanto già previsto dall’ultimo comma dell’art.
247 c.c. ai fini della proponibilità dell’azione di disconoscimento della paternità nella parallela ipotesi di già intervenuta morte del presunto padre e
di mancanza dei litisconsorti indicati nel primo
comma della norma stessa “.
In alternativa all’intervento del legislatore le Sezioni Unite prospettano anche il possibile intervento
della Corte costituzionale in ordine alla mancata
previsione nella fattispecie della nomina del curatore speciale (di cui nel caso concreto faceva difetto
la rilevanza non essendo il curatore speciale parte
del procedimento).
Gli interventi inappaganti della Corte costituzionale
Molti giudici hanno rimesso alla Corte costituzionale negli ultimi anni la questione di costituzionalità dell’art. 276 c.c. nella parte in cui non prevede,
nel caso di morte del genitore e degli eredi diretti di
questo, la possibilità, per colui che voglia far accertare la propria paternità o maternità naturale, di
agire comunque nei confronti di un curatore speciale nominato dal giudice, per contrasto con gli articoli 3 e 24 della Costituzione.
La Corte costituzionale ha avuto modo di esprimersi più volte su tale questione negli ultimi anni
(ordinanze 299/2006, 81/2008, 379/2008, 80/2009 e
278/2009) facendo intendere che la questione di costituzionalità non è affatto “a rima obbligata” come
ipotizzato dalla Sezioni Unite, per il semplice motivo
che una sentenza di tipo additivo implicherebbe una
scelta tra le due ipotesi alternative di soluzione della
questione: se ipotizzare la nomina di un curatore
speciale oppure privilegiare l’estensione della legittimazione passiva oltre il novero degli eredi “diretti”.
Espressamente la Corte afferma nell’ultima delle
ordinanze sopra citate che “contrariamente all’assunto del giudice a quo, la richiesta di pronuncia additiva non è costituzionalmente obbligata, ma rientra nella discrezionalità del legislatore ordinario, dal
momento che lo stesso, allo scopo di consentire
l’azione del ricorrente, potrebbe indicare quale le12 | Avvocati di famiglia | luglio-agosto 2010
gittimato passivo della domanda di dichiarazione
giudiziale di paternità o maternità naturale, in caso
di premorienza del genitore e dei suoi, un curatore
speciale, ovvero individuare i legittimati negli eredi
degli eredi del preteso genitore”.
Dovrebbe essere, cioè, il legislatore - secondo la
Corte costituzionale - a scegliere la soluzione essendo precluso alla Corte invadere competenze di
un altro potere.
Questa opinione non è convincente per la semplice
ragione che ove il legislatore scegliesse di risolvere il
problema attribuendo legittimazione passiva agli
eredi “indiretti” sempre si porrebbe il problema di una
alternativa nell’ipotesi in cui tali eredi non vi fossero,
non essendo certo plausibile che la pretesa dell’attore
possa rimanere senza possibilità di essere azionata.
Pertanto la soluzione del curatore speciale sarebbe pur sempre l’unica costituzionalmente necessaria.
Una possibile soluzione alternativa
Ammesso che possa essere condivisa la tesi che
in presenza di una possibile duplicità di soluzioni la
Corte non possa privilegiare una soluzione costituzionale dell’impasse interpretativo, vi è da osservare
che l’orientamento che privilegia la limitazione
della legittimazione passiva ai soli eredi “diretti” del
presunto padre sembra in sostanza teso a mettere
in evidenza più la ratio della disposizione codicistica
diretta ad agevolare il diritto di agire in giudizio che
le ragioni di esclusione della legittimazione degli
eredi “indiretti”. Con la conseguenza che una interpretazione che non escludesse la possibilità (o non
prevedesse la necessità) di agire nei confronti degli
eredi “indiretti” ove non vi fossero eredi “diretti” si
porrebbe in sintonia con le esigenze sia del diritto
di azione che della correttezza del contraddittorio.
Aderendo a questa ipotesi, nel caso in cui non fossero individuabili eredi “indiretti” tornerebbe - come
sopra detto - a porsi il problema della possibile e a questo punto ineludibile soluzione costituzionale di considerare necessaria la nomina di un curatore speciale.
Il che dovrebbe avvenire, naturalmente, anche allorché si dovesse privilegiare la prima interpretazione e la legittimazione fosse riconosciuta si soli
eredi “diretti”.
Si tratta di una soluzione necessitata dal momento che altrimenti verrebbe vanificato il diritto
di agire in giudizio. Una violazione quindi dell’art,.
24 della Costituzione dal momento che il diritto di
agire in giudizio non può essere vanificato nelle
azioni di status filiationis dalla casuale circostanza
dell’assenza di legittimati passivi.
La sentenza costituiva dello status si fonda sulla verità biologica e non sulle deduzioni difensive dei legittimati passivi i quali non potrebbero in alcun modo
risentire alcun pregiudizio né dalla loro presenza obbligata né dalla presenza del curatore speciale.
LA QUESTIONE
Pubblichiamo per opportuna documentazione la sentenza del 2005 con cui le Sezioni Unite, con la giusta intenzione di non penalizzare l’attore nelle cause di riconoscimento nelle quali il presunto genitore è deceduto, hanno
escluso l’obbligo di chiamare in giudizio gli eredi indiretti (“eredi degli eredi”) auspicando, per l’ipotesi in cui non
siano più in vita neanche gli eredi diretti, l’intervento integrativo della Corte costituzionale ai fini dell’eventuale nomina di un curatore speciale non previsto espressamente nella legge.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI
SENTENZA 3 novembre 2005, n. 21287
(Presidente Vincenzo Carbone - Relatore Mario Rosario Morelli)
Svolgimento del processo
I germani Luigi, Angela, Rosario e Marco S. hanno proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza
in data 21 febbraio 2001 della Corte di appello di Catanzaro, confermativa della statuizione di primo
grado, con la quale era stata accolta nei confronti di essi ricorrenti, figli del fratello di Pietro S. la domanda di accertamento di paternità naturale nei confronti di quest’ultimo proposta con ricorso del
settembre 1973 da Giuseppe Antonio B. (nato nell’aprile 1915) è coltivata, dopo il suo decesso (avvenuto
nel marzo 1919) dai di lui discendenti, che ora resistono con controricorso.
In relazione al primo dei sei motivi della odierna impugnazione con il quale i S. denunciano violazione dell’articolo 276 Cc, sull’assunto che i giudici del merito abbiano errato nel ritenere che la legittimazione passiva, rispetto all’azione di accertamento della paternità naturale, da detta norma disciplinata, sia riferibile anche agli «eredi degli eredi» del preteso padre, come essi ricorrenti, (nipoti ex
fratre) la Sezione prima, con ordinanza del 21 novembre 2003, ha rimesso gli atti al Primo Presidente,
che ha quindi assegnato la causa a Su, in relazione al ravvisato contrasto di giurisprudenza relativo, appunto, alla interpretazione del citato articolo 276, per il profilo qui ancora in discussione.
Motivi della decisione
1. Il problema di contrasto, che queste SU sono chiamate a risolvere, attiene come detto alla retta esegesi dell’articolo 276 del codice civile, per il profilo individuativo dei soggetti nei cui confronti va proposta la domanda per la dichiarazione giudiziale della paternità (e della maternità) naturale, di cui al
precedente art, 269, nel caso di morte del preteso genitore.
(omissis)
3. L’articolo 276 che (come emerge dalla Relazione del Guardasigilli al Progetto definitivo del codice
civile) è stato introdotto proprio «per risolvere, con la determinazione dei contraddittori necessari, i
dubbi sorti [nella vigenza del vecchio codice] per il caso in cui l’azione venga promossa dopo la morte
del presunto genitore testualmente dispone, appunto, nel suo comma primo, che «In mancanza del
genitore la domanda deve essere proposta nel confronti dei suoi eredi». Ed aggiunge, al suo comma
secondo, che “alla domanda può contraddire chiunque vi abbia interesse”.
4. In relazione alla suddetta norma si è però poi posto in sede interpretativa l’ulteriore quesito, che
qui viene propriamente in rilievo, se, in caso di già intervenuta morte anche degli eredi del presunto
genitore, la dichiarazione giudiziale di paternità (o maternità) naturale possa, o non, essere ancora richiesta nei confronti degli «eredi degli eredi» o ad altri parenti o aventi causa del preteso padre (o dalla
pretesa madre).
5. In linea con la dottrina dominante, questa Corte di cassazione, con la sentenza 1693/87, ha optato
per la soluzione negativa del quesito, ritenendo estensibile la legittimazione passiva, in ordine all’azione in esame, unicamente agli eredi, diretti ed immediati, del preteso genitore; e riconoscibile agli
aventi causa da questi ed agli altri soggetti comunque portatori di un interesse contrario all’accoglimento della domanda soltanto la facoltà di intervenire in giudizio a tutela del detto interesse.
Ciò in ragione:
della chiarezza del termine tecnico “i suoi eredi” usato dal legislatore; della omessa indicazione, fra
i legittimati, degli “aventi causa”, espressione adottata sovente dal legislatore,accanto alla parola “eredi”
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LA QUESTIONE
ogni volta che sia inteso estendere a detti soggetti determinati effetti (v. articoli 2908 e 2909 Cc); della
espressa previsione, appunto, fra i legittimati a contraddire, di «chiunque vi abbia interesse»;
Sulla base, altresì, della considerazione che non sia sostenibile una finalità esclusivamente successoria
nella dichiarazione giudiziale richiesta in caso di morte del presunto genitore, dalla quale passa derivare
un ampliamento della categoria dei legittimati passivi in funzione della loro qualità di soggetti aventi interessi patrimoniali contrari all’accertamento della filiazione, atteso che la legittimazione attiva all’azione
è riconosciuta, oltre che al figlio, in caso di sua morte, anche ai discendenti legittimi, legittimati o naturali
riconosciuti dallo stesso, indipendentemente dalla loro qualità di eredi, con la conseguenza che detta
azione prescinda da qualunque contenuto successorio quando sia proposta da discendenti non eredi.
Ed alla luce, infine, anche della ratio della disposizione in esame, ricondotta alla intenzione del legislatore di consentire all’attore una agevole individuazione dei soggetti contro i quali proporre l’azione,
evitando nel contempo il pericolo di un litisconsorzio difficilmente integro, quale si sarebbe viceversa
prospettato in ipotesi dì estensione della legittimazione passiva ai parenti, anche non eredi, del defunto, spesso indifferenti all’accoglimento o alla reiezione della domanda.
6. Nello stesso anno, a distanza di pochi mesi, con la sentenza 3920/87, la medesima Sezione prima
sembrava andare in contrario avviso, affermando che l’accertamento giudiziale della paternità naturale «Integra una questione attinente ad uno status (con le conseguenti implicazioni di carattere personale e patrimoniale), rispetto alla quale il coinvolgimento sostanziale di tutti i soggetti, la cui sfera
giuridica risulta sensibile alla formazioni di uno status diverso dall’originario o alla conservazione di
quest’ultimo, non consente la valida pronuncia di una sentenza, che tale status riguardi, se non con rilievo e nel confronti di tutte le posizioni soggettive interessate».
Ma il principio, cosi in astratto enunciato, conduceva, in concreto, a cassare, nella fattispecie, la sentenza d’appello (favorevole all’istante) per rilevato difetto di integrità del contraddittorio nei confronti
di altro erede del preteso genitore, e non già di eredi degli eredi od altri aventi causa dal medesimo.
7. Nel decennio successivo con le sentenze 9829/90; 8915/93; 10171/93; 3143/94 e 12187/97 la giurisprudenza di legittimità, si attestava poi, con continuità sulla linea interpretativa, limitativa della legittimazione passiva ai soli eredi del preteso genitore, facendo proprie le argomentazioni della su menzionata sentenza 1693/87. E pervenendo cosi, nei vari casi, a respingere le impugnazioni per denunciato
difetto del contraddittorio (nei confronti di ulteriori parenti del presunto genitore) formulate avverso
sentenze di merito dichiarative della reclamata paternità.
8. Rispetto a tale indirizzo erroneamente viene tralaticiamente richiamata come contraria la sentenza 3111/96.
Atteso che, in realtà, detta sentenza nell’accertare, nella fattispecie, la mancata integrazione del contraddittorio ciò ha fatto sul presupposto di un litisconsorzio necessario riferito non già a tutti i parenti,
anche non diretti eredi, del preteso genitore ma (in coerenza proprio all’indirizzo dominante) a “tutti
gli eredi del genitore naturale”. E solo questi ultimi ha considerato «portatori di un interesse, immediato
e diretto, a non veder pregiudicate le rispettive posizioni successorie», giuridicamente rilevante agli
effetti della integrità del contraddittorio rispetto all’azione in esame.
9. Con l’orientamento interpretativo come sopra prevalso effettivamente si è però poi posta in contraddizione la successiva pronunzia n. 9033 del 12 settembre 1997.
Nel criticare quel l’orientamento che a distanza di pochi mesi sarebbe stato, invece, ribadito, dalla già
citata Cassazione 12187/93 la sentenza 9033 ha osservato che l’equiparazione dell’erede dell’“erede” agli
“interessati” di cui al capoverso dell’articolo 276, risalente a Cassazione 1693/87, «svilisce la posizione
di chi ha, o potrebbe avere, rilevantissime ragioni per essere reso edotto dell’azione esercitata per ottenere la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità».
Ha escluso poi che possano rilevare in contrario le asserite difficoltà d’individuare i legittimati passivi «e per la dubbia consistenza giuridica di siffatta difficoltà e considerando che il sistema processuale
appresta gli strumenti idonei superare effettivi ostacoli determinati dalla mancata conoscenza della residenza o del domicilio dei legittimati passivi».
Ed ha ritenuto, infine, comunque decisiva ed assorbente la considerazione che «la domanda di dichiarazione di paternità naturale, implicando questioni attinenti allo stato delle persone, rende indispensa-
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LA QUESTIONE
bile la partecipazione di tutti i soggetti la cui sfera giuridica, tanto per l’aspetto personale che patrimoniale, è suscettibile di effetti in seguito alla formazione di uno status diverso da quello originario».
10. Da qui appunto, il contrasto che viene in rilievo ai fini della decisione dell’odierno ricorso.
E che, in corretta applicazione dei canoni di ermeneutica della legge letterale, sistematico, teleologico
va risolto con la riaffermazione della interpretazione (consapevolmente, come si è vista, contraddetta
dalla sola sentenza 9033/97) che identifica unicamente negli eredi del preteso genitore i soggetti passivamente legittimati rispetto alla domanda di riconoscimento di cui all’articolo 269 Cc, in caso di
morte del genitore medesimo.
10.1. Insuperabili in tal senso sono, infatti, innanzitutto le indicazioni fornite dal dato testuale («la
domanda deve essere proposta nei confronti del presunto genitore o, in mancanza di lui, nei confronti
dei suoi eredi») nel contesto del quale il verbo “deve”, riferito all’azione in esame, sottolinea l’obbligatorietà di indirizzarla esclusivamente nei confronti dei soggetti all’uopo indicati (con l’implicita impossibilità di proporla nei confronti di soggetti da questi diversi), e l’aggettivo “suoi”, riferito agli eredi,
identifica, senza alcun margine di dubbio, nei soli eredi, diretti ed immediati, del preteso genitore (appunto i “suoi eredi”) i legittimati passivi all’azione stessa, nel caso di “mancanza di lui”.
10.2. La lettura sistematica dell’articolo 276 conferma ulteriormente l’impossibilità di ampliamento
dell’area della legittimazione passiva nell’azione in questione, atteso che la facoltà di «contraddire», riconosciuta dal capoverso della stessa norma a «chiunque abbia interesse» all’esito della lite, inevitabilmente comporta che detti altri soggetti eredi degli eredi, aventi causa dal presunto genitore titolari
di posizioni personali o patrimoniali comunque suscettibili di essere incise dal diverso “status” reclamato dall’attore possono bensì intervenire nel giudizio ex articoli. 269 ss.. Cc, ma non assumono, appunto, in questo la veste di legittimati passivi: Nel duplice senso che, nei loro confronti, l’azione diversamente da quanto presupposto dalle citata sentenza 9033/97 né può essere proposta, né deve esserlo ai fini della integrità del contraddittorio.
10.3. Ciò anche alla luce della ratio della norma in esame correttamente individuata dalla sentenza capofila 1693/87 e dalle successive conformi quale già esplicitata nei lavori preparatori (v. Relazione Guardasigilli al progetto definitivo n. 287) e tuttora attuale volta ad evitare al presunto figlio naturale problemi
di esatta identificazione dei destinatari dell’azione (soprattutto nel caso di sua proposizione e distanza di
tempo dalla morte del presunto genitore) e conseguenti immanenti pericoli di irritualità del contraddittorio (stante la verificabilità dell’eventuale suo difetto di integrità in ogni stato e grado di giudizio), quali
invece deriverebbero da un indiscriminato ampliamento della platea dei contraddittori necessari, che renderebbe ben più ardua la tutela del diritto del figlio naturale all’accertamento del proprio status; risolvendosi, specularmene, in un vulnus anche al diritto di difesa di quei soggetti che potendo, in tesi, essere convenuti in giudizio in ragione di una loro anche lontana parentela con il preteso genitore (eventualmente
da loro neppure conosciuto in vita) non si troverebbero in condizione di contraddire alle pretese dell’attore.
11. La rilevata funzionalità della disposizione in esame rispetto all’obiettivo, perseguito dal legislatore, di agevolare l’individuazione dei soggetti nei cui confronti proporre l’azione di status, in caso di
morte del presunto genitore già di per sé dimostra l’arbitrarietà anche della tesi interpretativa intermedia, o più riduttivamente estensiva, prospettata dai resistenti e secondo la quale contraddittori necessari, rispetto all’azione del figlio, in caso di morte del presunto genitore, non sarebbero gli aventi
causa a titolo particolare mortis causa e quelli inter vivos del medesimo (cui sarebbe riservata la mera
facoltà di intervento in causa, ai sensi del capoverso dell’articolo 276 Cc), ma lo sarebbero comunque
tutti i successori a titolo universale, secondo la “catena generazionale”.
Anche in tale prospettiva, infatti, residuerebbe pur sempre per l’istante, la difficoltà di avere tranquillante cognizione, in tempo utile, di tutti gli anelli di quella catena.
E ciò a prescindere dalla considerazione che la figura dell’“erede dell’erede”, a tal fine evocata, ha valenza puramente descrittiva e non esiste come subcategoria che individui un nesso di relazione, giuridicamente rilevante, tra un soggetto e gli eredi degli eredi di lui e che, possa, come si pretende, ritenersi, per tale, implicitamente richiamata dal citato articolo 276 attraverso il generico riferimento alla
categoria degli “eredi” (del presunto genitore).
Diretta o indiretta può essere, ben vero la vocazione ereditaria la quale però appunto definirsi “indiretta” quando, come nei casi di cui agli articoli 467, 677 Cc, il destinatario o i destinatari siano chiamati
alla successione subordinatamente al fatto che altro chiamato prima di loro non possa o non voglia ac-
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LA QUESTIONE
cettare l’eredità ma la successione nella universalità o in quota dei beni del de cuius, dalla quale dipende l’acquisto della qualità di “erede” del medesimo (articolo 588 Cc), è sempre e soltanto diretta, da
parte del soggetto che, per accettazione di quella (diretta o indiretta) vocatio, subentri nel patrimonio
del suo dante causa (e non nel patrimonio di altri aventi causa dal quel medesimo soggetto).
12. L’individuazione dei contraddittori necessari nei soli eredi del presunto genitore, in caso di proposizione dell’azione dopo la morte di lui quale operata dall’articolo 276 Cc per le finalità che si è detto
e che, comunque, si inquadra nel contesto delle “norme e limiti alla ricerca della paternità” e dei “modi
e limiti alla successione legittima” che al legislatore ordinario è demandato di stabilire dagli articoli, rispettivamente, 30, comma 4, e 42, comma 40, della Costituzione neppure si pone poi in contraddizione
con la imprescrittibilità dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità (o maternità) naturale
sancita dal novellato articolo 270 Cc.
E ciò perché diversi, evidentemente, sono i piani di operatività ed i profili effettuali della imprescrittibilità e quelli della legittimazione passiva in ordine ad una data azione.
Per cui dal coordinamento delle su richiamate disposizioni deriva che l’azione di cui all’articolo 269
è imprescrittibile, ex articolo 270, salvi gli effetti della sua improponibilità per l’inesistenza in vita di
tutti i soggetti legittimati, ex articolo 276 Cc, a contraddirvi; cosi come l’azione di petizione di eredità
è, a sua volta, “imprescrittibile salvi gli effetti della usucapione dei singoli beni, ai sensi dell’articolo 530,
comma 2, Cc”.
13. Il fatto, per altro, che l’azione in esame si consumi, in concreto, nel caso di intervenuta morte del
preteso genitore e di tutti i suoi eredi evidenzia, comunque, un punto di debolezza e di perfettibilità dell’attuale disciplina rispetto alle sempre più avvertite esigenze di tutela dell’interesse del figlio naturale
all’accertamento della genitorialità, anche per il profilo del suo diritto alla identità personale.
In tale prospettiva potrebbe auspicarsi che quella disciplina sia integrata stabilendosi che, nel. caso
appunto di morte del presunto genitore e in mancanza dei suoi eredi, l’azione possa proporsi, come anche suggerito in dottrina, nei confronti di un curatore nominato dal giudice, analogamente a quanto
già previsto dall’ultimo comma dell’articolo 247 Cc, ai fini della proponibilità dell’azione di disconoscimento della paternità, nella parallela ipotesi di già intervenuta morte del presunto padre e di mancanza dei litisconsorti necessari indicati nel comma 1 della norma stessa.
Una integrazione siffatta, oltre che di un intervento legislativo, potrebbe formare eventualmente oggetto di una pronunzia additiva (in questi termini “a rima obbligata”) della Corte costituzionale.
Ma, come correttamente osservato anche dalla difesa dei ricorrenti nella odierna udienza dibattimentale, la prospettazione di un quesito di costituzionalità, in tal senso, è in questa sede preclusa per
difetto dell’ineludibile requisito della rilevanza della questione stessa, una volta che l’eventuale pronunzia additiva sarebbe nell’odierno giudizio “inutiliter data”, non essendo in esso parte in causa il
curatore cui andrebbe in tesi estesa la legittimazione passiva.
14. Il contrasto esegetico che ne occupa va quindi risolto con la riaffermazione del principio per cui
contraddittori necessari, passivamente legittimati, in ordine alla azione per dichiarazione giudiziale
di paternità naturale sono, ex articolo 276 Cc, in caso di morte del genitore, esclusivamente i “suoi
credi”, e non anche gli credi degli credi di lui od altri soggetti, comunque portatori di un interesse contrario all’accoglimento della domanda, cui è invece riconosciuta la sola facoltà di intervenire in giudizio a tutela dei rispettivi interessi.
15. Il ricorso va quindi accolto in relazione all’esaminato suo primo motivo, nel quale resta assorbita
ogni altra, subordinata, sua censura; con la conseguente cassazione senza rinvio della sentenza impugnata, ai sensi dell’articolo 382, comma 3 Cpc, perché la causa non poteva essere proposta per difetto
di legittimazione passiva dei convenuti.
16. Si ritiene opportuno disporre la compensazione delle spese dell’intero giudizio.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite, accoglie il primo motivo del ricorso, assorbita ogni altra sua censura; cassa
senza rinvio la sentenza impugnata e compensa le spese dell’intero giudizio.
16 | Avvocati di famiglia | luglio-agosto 2010
STUDI E RICERCHE
Giurisdizione ecclesiastica
e giurisdizione civile
nell’ordinamento italiano
A proposito della vigenza
del Concordato
Lateranense (1929) e
dell’accordo di Villa
Madama (1984)
ROSARIA CAPOZZI
(AVVOCATO DEL FORO DI NAPOLI)
Introduzione
evoluzione storica del concordato lateranense del 1929, dovuto all’influenza e alle
ripercussioni operate dalla giurisprudenza
italiana dagli anni 70 ad oggi, evidenzia
una svolta in merito alla “riserva di giurisdizione ecclesiastica” nell’ordinamento italiano. In effetti, a
partire da tali anni si constata la fine dell’automatismo della efficacia nell’ordinamento civile, sia del
matrimonio canonico che delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale. Il presente studio
mette in luce alcuni dei profili internazionalprivatistici più controversi in materia matrimoniale, con
riguardo all’osservanza o meno delle regole dell’ordine pubblico e dell’osservanza del diritto di difesa
nel processo canonico. Particolare attenzione si dà
alle ripercussioni di tali aspetti sul concordato lateranense del ‘29 e sul successivo accordo di Villa Madama dell’84.
L’
La riserva di giurisdizione
Il Concordato Lateranense del ‘29 pone fine al vecchio sistema del doppio regime mediante il riconoscimento nell’ordinamento civile del matrimonio
canonico e della giurisdizione ecclesiastica matrimoniale. Viene richiamato anche dall’art.7 c.1 della
Costituzione Italiana che enuncia il principio della
duplice sovranità: della Chiesa nell’ordine spirituale
(matrimonio sacramento) e dello Stato nell’ordine
temporale1. La riserva di giurisdizione attribuita ai
Tribunali ecclesiastici, stabilita dall’art. 34 del Concordato del 1929, determinò che il Giudice statale
non poteva occuparsi delle questioni concernenti la
nullità dei matrimoni concordatari, sindacabili dai
soli Tribunali ecclesiastici. Dopo il 1929 detta efficacia divenne addirittura automatica2. Pertanto le sentenze ecclesiastiche, superato il controllo della Segnatura Apostolica che ne garantiva il rispetto delle
norme processuali relative alla competenza, alla legittimità della rappresentanza processuale delle
parti, alla citazione, ecc., dovevano d’ufficio essere
trasmesse alla Corte di Appello italiana; la quale,
competente per territorio, era tenuta a renderle esecutive agli effetti civili con ordinanze emesse in Camera di Consiglio, disponendo l’autorizzazione nei
Registri di Stato Civile a margine dell’atto di matrimonio. Tale controllo della Corte di Appello era puramente formale, cioè si limitava a verificare che i
provvedimenti trasmessi dal Supremo Tribunale
della Segnatura Apostolica riguardassero effettivamente i matrimoni trascritti e che la sentenza fosse
resa esecutiva. Così tutte le sentenze canoniche di
nullità di matrimonio avevano efficacia civile nello
stato italiano.
In effetti l’art. 34 del Concordato tra la Santa Sede
e lo Stato italiano comportò l’automatismo sia in ordine all’efficacia civile del matrimonio canonico, sia
in ordine al riconoscimento civile delle cause di nullità ecclesiastiche. Pertanto, l’ordinamento italiano
in sede di trascrizione e di delibazione si limitava ad
una presa di atto formale di ciò che avveniva nell’ordinamento canonico3.
Inizio di un cambiamento
Lo Stato Italiano non ha dato segnali di intromissione nella giurisdizione ecclesiastica fino agli anni
’70. Il sistema dell’automatismo viene incrinato
dopo. Infatti, la Corte Costituzionale, pur ammettendo la legittimità del sistema matrimoniale concordatario, inizia a dare nuovi orientamenti. Le sentenze nn. 32/71, prima, e 175/73 poi, incidono revisionando il vecchio sistema della trascrizione, dichiarando l’illegittimità dell’art. 16, Legge Matrimoniale del 27 maggio 1929 n. 847 per mancata previsione, tra i motivi di impugnazione della trascrizione, dello stato di incapacità naturale al momento
di esprimere il consenso matrimoniale. In merito,
furono previste le impugnazioni delle trascrizioni in
tali circostanze, con la conseguenza che in tali casi
gli effetti civili del matrimonio canonico non sono
più automatici4.
La Corte, a seguito della riforma del diritto di famiglia del 1975 che aveva innalzato a 18 anni l’età
per contrarre valido matrimonio, con sent. n. 16/82,
ha dichiarato intrascrivibile il matrimonio contratto
dal minore di età.
Pietra miliare sulla giurisdizione ecclesiastica in
materia matrimoniale è la sentenza 18/82 con la
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STUDI E RICERCHE
quale la Corte Costituzionale ha stabilito che la
Corte di Appello non può limitarsi ad un esame di
mera regolarità formale della sentenza ecclesiastica,
ma deve verificare: a) che la sentenza canonica non
sia contraria all’ordine pubblico italiano, b) se nel
procedimento giudiziario canonico sia stato osservato il diritto di difesa.
La stessa sent. n. 18/82, in ottemperanza ai principi sopra menzionati, dichiara l’illegittimità dell’esecutività dei provvedimenti pontifici di dispensa
del matrimonio rato e non consumato perché decisa
con provvedimento amministrativo e non in contraddittorio tra le parti. Effettivamente, tale provvedimento non può essere delibato. Da quel momento
il controllo della corte non sarà solo formale.
I fatti sopra esposti sono stati utili al fine di comprendere il processo di realizzazione dell’art. 8 del
nuovo concordato5. Di fatto il legislatore concordatario dell’84, quando ha dovuto stendere il nuovo
concordato, ha dovuto tenere conto di tutto ciò6.
La modifica ai Patti Lateranensi intervenuta il
18/02/1984 ha introdotto modifiche che recuperano
la sovranità dello Stato. L’art. 8, nella prima parte si
riferisce alla trascrizione del matrimonio canonico7,
mentre nella seconda prevede l’obbligatorietà della
domanda di parte alla Corte di Appello per il riconoscimento delle sentenze ecclesiastiche di nullità
di matrimonio. Così si pone fine all’automatismo
pur confermandosi la riserva di giurisdizione.
Tra le nuove prescrizioni concordatarie troviamo
pertanto la trascrizione tardiva che non può più essere richiesta da chiunque vi abbia interesse, ma secondo l’art. 8, 1 c. 6. dell’Accordo di revisione dell’
84 del Concordato Lateranense: “su richiesta dei due
contraenti o anche uno di essi con la conoscenza e
18 | Avvocati di famiglia | luglio-agosto 2010
senza l’opposizione dell’altro”. Vi è silenzio legislativo nel caso di legittimità di trascrizione tardiva
post mortem. Ma si presume, secondo il principio
della libertà matrimoniale dei contraenti, l’illegittimità della trascrizione tardiva post mortem in quanto
rientra nel principio della libertà matrimoniale tutelare il diritto di cambiare idea quanto alla trascrizione.
Con la riforma del diritto internazionale privato
la L. n. 218/95 cambia il procedimento del riconoscimento delle sentenze straniere in Italia e viene
abrogato il procedimento di delibazione ex art.796
e ss c.p.c. (richiamato nell’accordo concordatario
del 18/02/84) ed al suo posto si introduce una forma
di riconoscimento automatico delle sentenze straniere (art.64 ss8) anche se a determinate condizioni.
Tale normativa, però, non reintroduce l’automatismo del riconoscimento delle sentenze ecclesiastiche nell’ordinamento italiano previsto dal Concordato del ‘29. Ciò viene precluso dall’art. 2 della L. n.
218/95 che fa salva “l’applicazione delle convenzioni internazionali in vigore in Italia”, tra cui rientra l’Accordo di revisione dell’84 stante la sua natura di Trattato internazionale. Restano, però, ancora in vita gli artt. 796 e 797 c.p.c., solo in tale ambito in virtù del rimando ad essi operato della normativa pattizia.
In ogni caso, interviene il D.P.R. 3/11/2000 n. 3969
che risolve qualsiasi possibile dubbio provocato
dalla dottrina e dalla giurisprudenza: considera le
sentenze pronunciate all’estero di nullità, scioglimento o cessazione degli effetti civili, come direttamente trascrivibili, salvo contestazione, confermando la necessità della delibazione della Corte di
STUDI E RICERCHE
Appello per le sentenze ecclesiastiche (art.63 c.2,
lett.g-h)10. Ma l’applicazione di tali normative ha
spesso provocato delle anomalie, in quanto in Italia
sono efficaci automaticamente le sentenze di Paesi
ispirati a principi del tutto diversi dai nostri (quale
ad esempio il diritto matrimoniale islamico ispirato
alla sharìa) che non hanno pattuito con il nostro
Stato convenzioni, con tutte le gravi conseguenze
del caso11. Invece le sentenze ecclesiastiche, appartenenti ad un ordinamento noto e soggetto a norma
concordataria, di rango superiore rispetto alla legge
ordinaria, continuano ad essere soggette al procedimento di delibazione.
Rapporti tra ordine pubblico e delibazione
delle sentenze canoniche
I cambiamenti introdotti a partire dagli anni ‘70
dalla Corte Costituzionale e proseguiti con sentenza
n.18 del 2 febbraio 1982, hanno modificato e potenziato il controllo della Corte di Appello da formale
in sostanziale, a tal punto da far ritenere per alcuni
orientamenti giurisprudenziali la fine della riserva
di giurisdizione ecclesiastica. Da tale orientamento
sono emersi due famosi principi cardine in materia
di delibazione: la tutela dell’ordine pubblico e la tutela del diritto di difesa. Al primo dei due principi
menzionati, la SC, con nota sentenza pilota12, ha inteso ricondurre la buona fede tra i principi di ordine
pubblico internazionale. Questa consolidata corrente giurisprudenziale non consente la delibazione
delle pronunce di invalidità matrimoniale “pronunciata ex capite exclusionis boni sacramenti posta in essere da un solo coniuge”, ovvero per ogni tipo di simulazione unilaterale, ciò per tutelare l’affidamento
del coniuge in buona fede in ordine alla validità del
vincolo matrimoniale.
La giurisprudenza recente13 ribadisce e conferma
l’esclusione del riconoscimento civile della sentenza
ecclesiastica di nullità matrimoniale per contrarietà
all’ordine pubblico sul presupposto dell’esclusione
unilaterale dei bona matrimonii specificando, in merito alla violazione dell’ordine pubblico, quanto segue: “…in conformità all’orientamento espresso dalle Sezioni Unite di questa Corte con riferimento alle sentenze
di annullamento del matrimonio pronunciate da altri Stati
(cfr. Cass. S.U. 2008/19809) - il riconoscimento dell’efficacia è subordinato alla mancanza di incompatibilità con
l’ordine pubblico interno, che è assoluta e relativa rispetto
a tutti gli Stati, mentre è solo assoluta per le sentenze ecclesiastiche atteso che - in ragione del favore particolare al
loro riconoscimento che lo Stato italiano si è imposto con
Protocollo addizionale del 18/2/1984 modificativo del concordato - per queste la delibazione è possibile in caso di incompatibilità relativa, ravvisatole tutte le volte che la divergenza possa superarsi, sulla base di una valutazione
di circostanze o fatti (anche irrilevanti per il diritto canonico), individuati dal giudice della delibazione, idonei a
conformare la pronuncia ai valori o principi essenziali
della coscienza sociale desunti dalle fonti normative costituzionali ed alla norma inderogabile, anche ordinaria,
nella materia matrimoniale”.14
Contrariamente a questo punto di vista, una nota
dottrina ritiene che la buona fede in materia matrimoniale non possa rivestire carattere di ordine pubblico in quanto non vi sarebbe alcun riscontro normativo in tal senso, ma emergerebbe il contrario, dai
disposti degli artt. 128, 129, 129 bis c.c. che contemplano la declaratoria di invalidità del vincolo matrimoniale nonostante la buona o mala fede di uno o
di entrambi i coniugi. La questione sollevata è la
possibilità che per l’ordinamento statale la buona
fede di uno dei due coniugi non inibisca l’invalidità
civile del matrimonio, ma possa viceversa impedire
la delibazione della sentenza di nullità canonica. Secondo questo orientamento, la buona fede e la tutela dell’affidamento del coniuge, al quale non è imputabile la nullità del matrimonio, sono ascrivibili
come principi di ordine pubblico dell’ordinamento
italiano e per cui inderogabili. Perciò, anche il giudice interno dovrebbe applicarli e di conseguenza
vietare la pronuncia di invalidità del matrimonio civile in conformità al prevalente orientamento della
S.C. adottato per la delibazione delle sentenze canoniche. La buona fede conta molto nei rapporti
contrattuali, ma non trova spazio nei rapporti di famiglia15.
Con riguardo alla regola della tutela del coniuge
in buona fede, quale concrezione e contenuto del
concetto di ordine pubblico16, e in particolar modo
alla mancata delibazione della pronuncia di nullità
per simulazione unilaterale, la Corte di Cassazione
ha ritenuto derogabile tale principio in alcune ipotesi17: a) conoscenza della riserva mentale del coniuge con accordo di tipo simulatorio; b) conoscibilità della riserva unilaterale mediante la normale diligenza; c) il coniuge in buona fede si associa o non
si oppone alla domanda delibazione. In tali ipotesi si
eliminerebbe, secondo la Corte, il contrasto con l’ordine pubblico, in quanto i principi della buona fede
e dell’affidamento del coniuge incolpevole non portano alla mancata delibazione perché derivano da
una scelta del soggetto, tutelata dalla legge18. Dunque, l’attuale orientamento della giurisprudenza ritiene che le ragioni della tutela dell’ordine pubblico
vengano meno in caso di ricorso congiunto di delibazione di sentenza canonica per simulazione unilaterale, in quanto il coniuge non simulante rinuncia a far valere le proprie ragioni. Si lascia così all’autonomia privata l’applicazione o meno del principio dell’ordine pubblico. Purtroppo, tale situazione
può portare ad opposizioni dettate solo dalla paura
di perdere l’assegno di mantenimento in caso di delibazione, falsando così l’accertamento richiesto al
giudice della delibazione.
L’ordine pubblico è considerato un dato indisponibile, inderogabile anche dalle parti, perché riluglio-agosto 2010 | Avvocati di famiglia | 19
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guarda il bene pubblico. È importante non dimenticarlo. Per la giurisprudenza prevalente la Corte di
Appello dovrebbe accertare tali requisiti sulle risultanze della sentenza ecclesiastica e degli atti del
processo canonico eventualmente acquisiti in
quanto prodotti dalle parti, ma è vietato dalle norme
del diritto canonico l’acquisizione degli atti processuali ad eccezione della sentenza e del libello introduttivo (Cfr. Codex Iuris Canonici e Istruzione Dignitas
Connubii)19. Oltretutto il Giudice ecclesiastico, nella
sua attività istruttoria ignorerà la ricerca sulla conoscenza-conoscibilità della simulazione del coniuge incolpevole, in quanto è tenuto solo a valutare
se vi sia stata simulazione al fine della nullità, pertanto ciò non risulterà nella sentenza canonica. Da
quanto sopra descritto si evince l’impossibilità per i
giudici della Corte di Appello di effettuare una vera
e propria istruttoria ai fini dell’accertamento della
conoscenza o la conoscibilità delle intenzioni psicologiche del non simulante.
Conseguenze economiche inerenti alla
delibazione della sentenza ecclesiastica di Nullità
di Matrimonio.
L’art.8 dell’Accordo di Villa Madama prevede che
“la Corte di Appello potrà, nella sentenza intesa a rendere esecutiva una sentenza canonica, statuire i provvedimenti economici provvisori a favore di uno dei coniugi
il cui matrimonio sia stato dichiarato nullo, rimandando
le parti al giudice competente per la decisione sulla materia”, ma ciò è disatteso dalla Corte di Appello a
causa di un orientamento costante della Corte di
Cassazione. Infatti, questa subordina ad un accertamento del Tribunale il diritto del richiedente ex
artt. 129-129bis c.c. del fumus boni juris e del periculum in mora20.
Il richiedente dovrà inoltrare una normale causa
contenziosa presso il giudice ordinario per ottenere
il definitivo riconoscimento delle proprie pretese. La
Corte di Appello potrà stabilire un termine perentorio entro il quale dovrà essere iniziata tale causa a
pena di decadenza.
La S.C. ha auspicato un intervento del legislatore
nel varare una nuova legge matrimoniale che tutelasse il coniuge economicamente più debole al
quale fosse resa esecutiva agli effetti civili una sentenza canonica di nullità matrimoniale21. Vista
l’inerzia in merito del legislatore, inizia così quell’orientamento giurisprudenziale volto a salvaguardare la disciplina dei rapporti tra le parti stabiliti con
sentenza di divorzio, quanto si procedeva in seguito
alla delibazione.
La Corte di Cassazione22 ha affermato sul particolare che se in un giudizio di divorzio è richiesta a titolo di accertamento incidentale una valutazione
sulla validità del vincolo, ciò impedisce alla delibazione della sentenza canonica di determinare la cessazione della materia del contendere nel processo
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di divorzio stesso. Al contrario, se la sentenza di divorzio non si è pronunciata sulla validità del vincolo, non viene impedita la delibabilità della sentenza canonica dichiarativa della nullità matrimoniale. La S.C. ha specificato che la sentenza di divorzio non ostacola totalmente gli effetti civili della
sentenza canonica di nullità, ma fa salve solo le statuizioni personali e patrimoniali, fissate dal giudicato del divorzio e che non sono oggetto della sentenza riguardante la nullità del negozio matrimoniale.
Infatti le due cause hanno presupposti contrastanti: quella di divorzio, la validità del matrimonio,
mentre, l’altra la nullità. Dal 2001 la Corte di Cassazione ribadisce la regola dell’intangibilità del giudicato affermando che rispetto ai punti della sentenza
di divorzio contenenti statuizioni di ordine economico si applica “la regola generale secondo la quale una
volta accertate in giudizio fra le parti la spettanza di un
determinato diritto, con sentenza passata in giudicato,
tale spettanza non può essere rimessa in discussione - al
di fuori degli eccezionali e tassativi casi di revocazione
previsti dall’art. 395 c.p.c. - fra le stesse parti, in altro processo, in forza degli effetti sostanziali del giudicato stabiliti dall’art. 2909 c.c.”23. Pertanto quando la delibazione di una sentenza canonica di nullità di matrimonio interviene successivamente ad una sentenza
di divorzio passata in giudicato, questa non potrà
travolgere le statuizioni patrimoniali che rimarranno ferme24. Viceversa quando la delibazione di
una pronuncia ecclesiastica di nullità di matrimonio interviene antecedentemente ad una sentenza
di divorzio, la prima fa stato tra le parti ai sensi dell’art. 2909 c.c. ed assume autorità di cosa giudicata
che preclude ogni altra pronuncia con essa contrastante e travolge la successiva sentenza di divorzio,
nonché le statuizioni economiche ad esso conseguenti25.
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 329 del
27 sett. 2001, ha risposto alla questione di legittimità
costituzionale della L. 27 maggio 1929 n. 847 - legge
matrimoniale ancora in vigore - che assoggetta alla
disciplina del matrimonio putativo, prevista dagli
artt. 129 c.c. e ss., e non a quella del divorzio di cui
all’art, 5 commi 6 e ss. L. 897/1970, i casi nei quali
venga dichiarata esecutiva nello Stato italiano, con
procedimento di delibazione, la nullità di matrimonio concordatario, anche quando siano decorsi i termini per la preposizione della nullità civile innanzi
al Tribunale italiano e si sia creata tra i coniugi una
consolidata comunione di vita.
La Corte ha risposto affermando che l’applicazione della disciplina del matrimonio putativo al
matrimonio concordatario dichiarato nullo non è
stata abrogata, anzi proprio l’Accordo di Villa Madama all’art. 8, n. 2, co. 2 prevede che la Corte di Appello per la delibazione della sentenza canonica
possa emettere provvedimenti economici provvisori
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come anticipatori di altro giudicato. Tuttavia, la
Corte ha ritenuto di non poter accogliere la richiesta
di inapplicabilità degli artt. 129 c.c. e ss. in quanto, in
primo luogo, tra nullità e divorzio vi sono differenze
sostanziali perché gli effetti sul matrimonio si producono ex tunc mentre gli effetti del divorzio sono
ex nunc; in secondo luogo, si avrebbe un diverso trattamento circa gli effetti patrimoniali della nullità del
matrimonio concordatario rispetto a quella civile.
La Corte conclude che non vi è violazione dell’art. 3
Costituzione. Inoltre, afferma che nell’Accordo di
Villa Madama vi è la facoltà e non l’obbligo dello
Stato italiano di prevedere la disciplina delle conseguenze patrimoniali del matrimonio concordatario
dichiarato nullo, e rinvia al legislatore la possibilità
di modificare il sistema vigente della nullità del matrimonio concordatario a quella della cessazione degli effetti civili.
Conseguenze civili di precetti contenuti nel Codice
di Diritto Canonico e nelle innovazioni riportate
dalla Istruzione Dignitas connubii.
La prossima questione da esaminare è se nel
procedimento giudiziario canonico viene osservato
il diritto di difesa. Secondo alcune disposizioni
contenute nel Codice di Diritto Canonico (CIC) e, in
particolare, alcune innovazioni riportate dalla
Istruzione della Dignitas Connubii (DC), chiarificatrice del codice di diritto canonico, potrebbero portare delle conseguenze sul piano del riconoscimento in sede civile delle sentenze ecclesiastiche
di nullità matrimoniale, in modo speciale per
quanto riguarda il diritto di difesa, considerato
dalla normativa concordataria uno dei presupposti per l’efficacia civile della sentenza canonica di
nullità del matrimonio.
Se da un lato, in una serie di pronunce la Corte di
Cassazione respinge l’ipotesi di lesione del diritto di
difesa da parte del Giudice ecclesiastico, dall’altro
sembra emergere una dimenticanza, sia legislativa
che giurisprudenziale, in merito a specifiche ipotesi
che comprometterebbero il diritto di difesa e di conseguenza la possibile delibazione della sentenza canonica.
Con queste premesse, vi sono alcune disposizioni
dell’Istruzione Dignitas Connubii che sollevano giustificati dubbi in ordine alla lesione del diritto di difesa. Così, per esempio, l’art. 157, § 2 della Istruzione: “non si ammettano prove sotto segreto, se
non per grave motivo, e assicurando agli avvocati
delle parti il diritto di averne comunicazione, salvi
gli artt. 230,234 (cfr. can. 1598 § 1)“, nonché l’art. 230
DC che dà la facoltà al Giudice di disporre che determinati atti non siano portati a conoscenza delle
parti, per scongiurare seri rischi nelle cause che riguardano il bene pubblico. Sulla stessa scia dell’art.
157 DC si stagliano anche le disposizioni del can.
1598 §1 CIC richiamata e integrata dall’art. 234 DC,
che nei casi indicati dall’art. 157 DC, permette la conoscenza degli atti ai soli avvocati, nella prospettiva
di non ledere il diritto di difesa. Sul punto, è unanime la posizione della SC secondo cui “le disposizioni di diritto canonico che vietano alle parti la conoscenza di determinati atti non costituiscono di per sè ragione di rifiuto della declaratoria di esecutività perché consentono un controllo ex post ai difensori delle parti di
prendere visione di quegli atti dopo il deposito”26. Se ciò
è vero, sia il legislatore canonico sia la giurisprudenza italiana tralasciano un dato significativo: che
la parte nel processo canonico può stare in giudizio
anche da sola. Questo determinerà non solo la lesione del diritto di difesa ma anche quello del contraddittorio, con la conseguenza che alcuni elementi
istruttori non potranno mai essere portati a conoscenza delle parti, neanche dopo la fase processuale
della pubblicazione degli atti, in quanto gli atti sopra
menzionati rimarranno segreti per la parte non munita di difensore.
Pertanto, la preclusione di alcuni elementi probatori per le parti private del processo canonico, decisi
ai fini della decisione della sentenza di nullità, potrebbe essere considerata dalla Corte di Appello
come grave violazione del diritto di difesa con la
conseguente preclusione del riconoscimento della
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sentenza ecclesiastica in sede civile. Ciò può accadere sempre e quando la Corte venga a conoscenza
di tale violazione, la quale spesso non risulta dalla
sentenza ecclesiastica che è l’unico atto che può essere portato a conoscenza delle parti.
Altra ipotesi di lesione del diritto di difesa è l’art.
258 § 3 del DC27 il quale consente la notifica, se la
parte ha dichiarato di disinteressarsi del processo,
del solo dispositivo della sentenza, in deroga al disposto del can 1615 CIC28 ed all’art. 258 §§ 1 e 2
DC29 che prevedono la notifica alle parti del testo
integrale della sentenza affinché si perfezioni la
pubblicazione della medesima ed iniziano a decorrere i termini perentori per l’interposizione dell’appello previsti in 15 gg dall’art. 281 §1 DC e 1630
§ 1 CIC.
Come conseguenza, risulta dubbia la legittimità
della notificazione del solo dispositivo previsto dall’art. 258 §3 DC, che incide sul diritto di impugnazione e di difesa, in quanto impedisce al destinatario di conoscere le motivazioni poste a carico della
sentenza, con possibili conseguenze sulla validità
della sentenza e sulla delibabilità della stessa da
parte della Corte di Appello.
Altro canone che potrebbe comportare problemi
in tema di delibazione è il 1581 richiamato dall’art.
213 DC che prevede la subordinazione all’approvazione del giudice del consulente tecnico di parte
(CTP), per evitare che siano ammessi consulenti che
seguano dottrine incompatibili con l’antropologia
cristiana. Perciò, in sede di delibazione, la parte che
si è vista rifiutare dal Giudice ecclesiastico il nominativo del proprio CTP potrebbe rivendicare una lesione del proprio diritto di difesa30.
Da ultimo, si segnala un’importante pronuncia
della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in merito
alla lesione del diritto di difesa e a quello di un giusto processo, con cui la Corte di Strasburgo nel 2001
condannava lo Stato italiano ad un risarcimento pecuniario nei confronti della ricorrente (la signora
Pellegrini), per violazione dell’articolo 6 par. 131 della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), compiuta nel concedere l’exequatur alla doppia sentenza
conforme pro nullitate matrimonii ex processo docu-
mentale, senza aver prima verificato la necessaria
instaurazione di un processo equo dinanzi ai tribunali ecclesiastici.
Quindi, sempre per violazione del diritto di difesa,
ci sembra ancora più impellente per il legislatore
l’urgenza della emanazione di una legge matrimoniale. Purtroppo, gli organi legislativi nazionali non
hanno ancora provveduto all’emanazione di una
nuova legge matrimoniale che andasse a sostituirsi
all’ancora vigente L. 27 maggio 1929, n. 847, in base
alla quale si prevede l’applicazione della disciplina
civilistica del matrimonio putativo in caso di delibazione di sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale. Disciplina che si rivela alquanto inadeguata poiché i termini di prescrizione e di decadenza ivi previsti mal si conciliano con un matrimonio canonico, protrattosi per lunghi anni. Tale
constatazione induce all’individuazione delle possibili soluzioni che dottrina e giurisprudenza hanno
suggerito, tentando invano di rimediare all’inerzia
legislativa, cercando di colmare le lacune presenti. Il
menzionato caso Pellegrini32, nato nell’Italia degli
anni ‘80, ne è esempio.
Conclusioni.
Si auspica una riforma democratica della legge
matrimoniale che provveda, almeno, ad equiparare
le statuizioni patrimoniali decise in sede di divorzio
con quelle di nullità matrimoniale a seguito di delibazione per quei matrimoni con consolidata comunione di vita. L’obiettivo è evitare strumentalizzazioni del processo canonico, iniziato con il recondito
scopo di sottrarsi all’assegno di mantenimento, ma
anche con la prospettiva di annullare quel privilegio che viene riconosciuto ai coniugi cattolici che
hanno contratto matrimonio concordatario. In attesa di un intervento legislativo, si auspica anche
un’inversione di tendenza della giurisprudenza che
ha prodotto fino ad oggi, da parte delle Corti di Appello italiane, una mancata emissione di provvedimenti economici provvisori, come anticipatori di altro giudicato, previsti dall’accordo di Villa Madama
e dal Codice Civile. Si spera in questo modo di non
vanificare gli accordi tra Stato e Chiesa e difendere
il coniuge più debole.
Note
1
Art. 7 Costituzione Italiana. “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti accettate dalle due parti, non
richiedono procedimento di revisione costituzionale”.
2
Vedi la giurisdizione canonica matrimoniale con l’art 34 del Concordato Lateranense.
3
L’art. 34 determinava che le cause di nullità del matrimonio erano stabilite dai tribunali ecclesiastici e che le sentenze dei Tribunali Ecclesiastici, dopo essere trasmesse alla Corte d’Appello, potevano ricevere efficacia giuridica ed essere rese esecutive. Tutta questa normativa tendeva a realizzare l’uniformità dello Statuto canonistico
e civilistico. Uniformità perché la trascrizione era un fatto a cui si giungeva sempre. Quindi una volta che il tribunale ecclesiastico si fosse pronunciato, la sentenza veniva trasmessa alla Corte d’Appello, la quale si limitava
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ad esercitare un controllo puramente formale, per cui la dottrina prevalente riteneva era che tali sentenze producevano automaticamente effetti civili.
La Corte Costituzionale con la sentenza n. 32/71 ha affermato che c’è un atto di scelta a monte; ha individuato
che c’è un momento che precede le pubblicazioni, momento che deve essere valutato dallo Stato perché l’atto di
scelta avviene nel nostro ordinamento, prima della trascrizione. La Corte Costituzionale ha sostenuto che se in
quella fase si evince una incapacità di uno degli sposi, quella incapacità influenza tutto ciò che viene dopo, le pubblicazioni, la trascrizione ecc… L’aver individuato un atto di scelta è qualcosa di innovativo in quanto, affermando che l’incapacità va ad incidere sull’atto di scelta significa che la trascrizione è inficiata anche dal consenso.
Art. 8 - 1. Sono riconosciuti gli effetti civili ai matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico, a condizione che l’atto relativo sia trascritto nei registri dello stato civile, previe pubblicazioni nella casa comunale. Subito dopo la celebrazione, il parroco o il suo delegato spiegherà ai contraenti gli effetti civili del matrimonio,
dando lettura degli articoli del codice civile riguardanti i diritti e i doveri dei coniugi, e redigerà quindi, in doppio originale, l’atto di matrimonio, nel quale potranno essere inserite le dichiarazioni dei coniugi consentite secondo la legge civile. La Santa Sede prende atto che la trascrizione non potrà avere luogo: a) quando gli sposi non
rispondano ai requisiti della legge civile circa l’età richiesta per la celebrazione; b) quando sussiste fra gli sposi
un impedimento che la legge civile considera inderogabile. La trascrizione è tuttavia ammessa quando, secondo
la legge civile, l’azione di nullità o di annullamento non potrebbe essere più proposta. La richiesta di trascrizione
è fatta, per iscritto, dal parroco del luogo dove il matrimonio è stato celebrato, non oltre i cinque giorni dalla celebrazione. L’ufficiale dello stato civile, ove sussistano le condizioni per la trascrizione, la effettua entro ventiquattro ore dal ricevimento dell’atto e ne dà notizia al parroco. Il matrimonio ha effetti civili dal momento della
celebrazione, anche se l’ufficiale dello stato civile, per qualsiasi ragione, abbia effettuato la trascrizione oltre il
termine prescritto. La trascrizione può essere effettuata anche posteriormente su richiesta dei due contraenti, o
anche di uno di essi, con la conoscenza e senza l’opposizione dell’altro, sempre che entrambi abbiano conservato
ininterrottamente lo stato libero dal momento della celebrazione a quello della richiesta di trascrizione, e senza
pregiudizio dei diritti legittimamente acquisiti dai terzi. 2.Le sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai
tribunali ecclesiastici, che siano munite del decreto di esecutività del superiore organo ecclesiastico di controllo,
sono, su domanda delle parti o di una di esse, dichiarate efficaci nella Repubblica italiana con sentenza della
corte d’appello competente, quando questa accerti: a) che il giudice ecclesiastico era il giudice competente a conoscere della causa in quanto matrimonio celebrato in conformità del presente articolo; b) che nel procedimento
davanti ai tribunali ecclesiastici è stato assicurato alle parti il diritto di agire e di resistere in giudizio, in modo
non difforme dai principi fondamentali dell’ordinamento italiano; c) che ricorrono le altre condizioni richieste
dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere. La corte d’appello potrà, nella
sentenza intesa a rendere esecutiva una sentenza canonica, statuire provvedimenti economici provvisori a favore di uno dei coniugi il cui matrimonio sia stato dichiarato nullo, rimandando le parti al giudice competente
per la decisione sulla materia.
In questo modo il procedimento di attribuzione dell’efficacia civile delle sentenze ecclesiastiche, dopo l’Accordo
di Villa Madama del 18 febbraio 1984, unitamente al punto 4 del Protocollo addizionale, è stato modificato e ora
necessita un controllo sostanziale della Corte di Appello per il riconoscimento delle sentenze straniere, disciplinati allora dagli artt.796 e 797 c.p.c.
La prima parte dell’art. 8 si riferisce alla trascrizione del matrimonio canonico: “sono riconosciuti effetti civili ai
matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico, a condizione che l’atto relativo sia trascritto nei Registri dello Stato Civile, previa Pubblicazione nelle Case Comunali”.
Art. 64 L. n. 218/95. Riconoscimento di sentenze straniere.
1. La sentenza straniera è riconosciuta in Italia senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento quando:
a) il giudice che l’ha pronunciata poteva conoscere della causa secondo i principi sulla competenza giurisdizionale propri dell’ordinamento italiano;
b) l’atto introduttivo del giudizio è stato portato a conoscenza del convenuto in conformità a quanto previsto
dalla legge del luogo dove si è svolto il processo e non sono stati violati i diritti essenziali della difesa;
c) le parti si sono costituite in giudizio secondo la legge del luogo dove si è svolto il processo o la contumacia è
stata dichiarata in conformità a tale legge;
d) essa è passata in giudicato secondo la legge del luogo in cui è stata pronunziata;
e) essa non è contraria ad altra sentenza pronunziata da un giudice italiano passata in giudicato;
f) non pende un processo davanti a un giudice italiano per il medesimo oggetto e fra le stesse parti, che abbia
avuto inizio prima del processo straniero;
g) le sue disposizioni non producono effetti contrari all’ordine pubblico.
Vedi Gazzetta Ufficiale n. 303 del 30-12-2000 http://www.comune.jesi.an.it/MV/gazzette_ufficiali/2000/303/gazzetta303.htm.
g) le sentenze e gli altri atti con cui si pronuncia all’estero la nullità, lo scioglimento, la cessazione degli effetti
civili di un matrimonio ovvero si rettifica in qualsiasi modo un atto di matrimonio già iscritto o trascritto negli
archivi di cui all’articolo 10; h) le sentenze della corte di appello previste dall’articolo 17 della legge 27 maggio 1929,
n.847, e dall’articolo 8, comma 2, dell’accordo del 18 febbraio 1984 tra la Repubblica italiana e la Santa Sede ratificato dalla legge 25 marzo 1985, n.121.
Per esempio il provvedimento della Corte di Appello di Cagliari del 16 maggio del 2008: “secondo cui è efficace
nell’ordinamento italiano e deve essere trascritto nel registro dello stato civile il provvedimento di divorzio ot-
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tenuto in Egitto attraverso la procedura del “talaq”pur in assenza della moglie. Tale procedura non sarebbe contraria all’ordine pubblico, né violerebbe il diritto del contraddittorio in quanto in essa sarebbe salvaguardata la
possibilità della moglie di intervanire (la mera possibilità, si badi, non la presenza). Significativo il fatto che sul
punto relativo all’ordine pubblico in relazione al principio di uguaglianza la Corte abbia motivato come segue: “Peraltro è utile ricordare che nel diritto civile egiziano la moglie ha un uguale diritto (unilaterale) di sciogliersi dal
vincolo matrimoniale anche in mancanza del consenso del marito, secondo la procedura del cd. “khola”, per cui
non vi sarebbe violazione neppure del principio di uguaglianza tra i generi”. (Il provvedimento è disponibile al
seguente sito web: http://www.stranieriinitalia.it/briguglioimmigrazione-e-asilo/2008/settembre/sent-corte-appca-talaq.html). Ora, la sopra citata decisione sembra non aver in considerazione l’effettiva distinzione che si ha
nell’ordinamento egiziano tra talaq e khul (o khola). In Egitto la moglie chiede unilateralmente il divorzio khul
senza che sia necessario il consenso del marito. A condizione di rinunciare a tutti i diritti economici. Infatti, al
momento delle nozze, l’uomo offre alla moglie una porzione della dote (muqaddam), che viene integrata al momento del divorzio unilaterale maschile (talaq) (ripudio). Se è invece la moglie a chiedere il divorzio, ella rinuncia all’integrazione della muquaddam, e deve restituire la porzione iniziale della stessa che aveva a suo tempo
ricevuto. Non possiamo dunque affermare, sulla base di uno studio approfondito del divorzio egiziano, che la disciplina sia identica o quantomeno equivalente per uomo e donna. Per ottenere un divorzio, quindi, la donna deve
poter disporre di una quantità sufficiente di danaro per “riscattarsi”. D’altro canto l’uomo deve solo provvedere
alla nafaqa (mantenimento) durante il periodo idda, per tre mesi, e al mantenimento (muta’a) per due anni, secondo le proprie possibilità economiche. G. Oberto, “matrimoni misti e unioni paramatrimoniali: ordine pubblico
e principi sovranazionali”, in Famiglia e diritto 1 (2010) p. 75-88, qui 82.
Sent. Cass. Sezione Unite 1.10.82 n. 5026 cui si sono uniformate le successive.
Cass.Civ. sez. I, 15 sett. 2009 n. 19808.
Cfr. idem nota 13.
F. Finocchiaro, “Principi supremi”, ordine pubblico italiano e(auspicata) parità tra divorzio e nullità canonica del matrimonio in F. Cipriani (a cura di), Matrimonio concordatario e tutela giurisdizionale, ESI, Napoli, 1992, p. 70-71.
Ordine pubblico concordatario: Cass. Sez. Unite 1 ottobre 1982, n. 5026 un ordine pubblico meno intenso, in relazione alle sentenze in materia ecclesiastica provenienti dai giudici ecclesiastici rispetto alle sentenze provenienti dagli Stati stranieri. Tale concetto successivamente limitato dalle sentenze della Cass. Sez. U. nn. 6128 e
6129 entrambi del 6 dicembre 1985.
Cass. nn. 21865/05 e 24047/06.
Cass. Civ. sez.I 25 febbraio 1986 n. 1202.
Vedi Dignitas Connubii artt. 127 §3, 230-235, 258 § 2., can 1508 §2 CIC.
Cass.18.5.07 n.11654.
Cass. S. U. n. 4700 del 20 luglio 1988.
Cass. sent. nn. 3345/1997, 4795/2005.
Cass.4202/2001.
Cass. 4 marzo 2005 n. 4795 e Cass.Civ. sezI 5 giugno 2009 n.12982.
Cass.Civ. sez. I del 04.02.2010 n. 2600.
Cass. civ., sez I, n.4166/1989.
art. 258 § 3 D.C.: “Se una parte ha dichiarato di rifiutare di ricevere qualsiasi informazione relativa alla causa, si
ritiene che abbia rinunciato ad ottenere l’esemplare sentenza. In tal caso, osservate le leggi particolari, può esserle notificato il solo dispositivo”.
can. 1615 CIC: “La pubblicazione ovvero la intimazione della sentenza può essere eseguita o consegnando copia
della sentenza alle parti o ai loro procuratori, o alle medesime trasmettendo la stessa copia a norma del can.
1509”.
art. 258 §§ 1 e 2 D.C.: “La pubblicazione, ossia notifica, della sentenza, avviene o consegnandone un esemplare
alle parti o ai loro procuratori oppure trasmettendo loro l’esemplare a norma dell’art. 130 (cf. can 1615). § 2. La
sentenza deve essere notificata in pari tempo e nello stesso modo al difensore del vincolo, nonché al promotore
di giustizia se ha preso parte nel giudizio”.
Diverso è il caso contemplato dalla Cass. n. 10796/06, secondo cui le modalità di espletamento della C.T.U. posta
a base della decisione non sono censurabili, perché attinenti allo svolgimento del giudizio ecclesiastico, che non
può ai sensi della disciplina dettata dall’art. 797 c.p.c., essere esaminata dal Giudice della delibazione.
Art. 6 par. 1 della CEDU: “Ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole,
davanti a un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge, al fine della determinazione sia dei suoi
diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o una parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza
nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la tutela della vita privata
delle parti nel processo, o nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale quando, in speciali circostanze, la pubblicità potrebbe pregiudicare gli interessi della giustizia”.
Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza Pellegrini c. Italia, 20 luglio 2001, ricorso n.30882/96, divenuta definitiva il 20 ottobre 2001, in http://hudoc.echr.coe.int, pubblicata in italiano in Il principio del contraddittorio tra l’ordinamento della Chiesa e gli ordinamenti statali, a cura di S. Gherro, Padova, 2003, pp. 249-265.
Cfr Art. 8 n. 2, co 2 dell’Accordo di Villa Madama del 1984.
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE
Il mantenimento dei figli
naturali è di competenza
del tribunale per i
minorenni solo quando vi
è contestualità con una
domanda relativa
all’affidamento
Corte cost. 5 marzo 2010, n. 82
Presidente Ugo De Servio
Relatore Alfio Finocchiaro
Non sono manifestamente irragionevoli
l’attribuzione, sulla base del diritto vivente e
nell’ipotesi di prole naturale riconosciuta, alla
competenza del tribunale per i minorenni della
controversia relativa all’esercizio della potestà
genitoriale, qualora la stessa sia contestuale alla
determinazione dell’assegno di mantenimento, e
l’affermazione della competenza del tribunale
ordinario, quando si richiede al giudice solo
l’attribuzione di detto assegno: ciò soprattutto ove si
tenga presente che è lo stesso intervento
dell’autorità giudiziaria ad atteggiarsi in modo
diverso nelle due differenti ipotesi.
determinare una irragionevole disparità di trattamento non solo tra figli naturali e figli legittimi, considerata la diversità dell’ufficio giudiziario adito, ma
soprattutto tra gli stessi figli naturali a seconda del
petitum in concreto richiesto dal genitore. Inoltre, in
riferimento agli artt. 25 e 111 Cost, si assume l violazione del principio della immutabilità del giudice
naturale, essendo consentita al ricorrente la scelta
arbitraria di iniziare il procedimento davanti all’uno
o all’altro degli organismi ritenuti competenti; senza
dimenticare il profilo del contrasto rispetto alla ragionevole durata del processo, dovuta alla eventualità della mancata concentrazione delle tutele.
La Corte Costituzionale ricorda che l’art. 4 comma
2 della legge 54/2006 prevede che “Le disposizioni della
presente legge si applicano anche in caso di scioglimento,
di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio,
nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati”, e che l’art. 38 disp. att. c.c. che, comprendendo il riferimento all’art. 317-bis c.c., fissa la competenza del Tribunale per i minorenni per i soli provvedimenti di affidamento. Sennonché la rilettura
delle ultime disposizioni imposta dalla legge sull’affidamento condiviso ha permesso alla Cassazione di enucleare un diritto vivente, alla stregua del
quale la riforma avrebbe determinato l’attrazione
della competenza tra domande di provvedimenti
personali (esercizio della potestà ex art. 317-bis c.c.)
e provvedimenti economici (assegno di mantenimento ex art. 155 ss. c.c.). La Corte dichiara di fare
proprio questo principio giurisprudenziale considerandolo pienamente conforme al dettato costitu-
Il Tribunale ordinario di Roma, con ordinanza del
21 gennaio 2009 e in consapevole contrasto quindi
con la giurisprudenza della Corte di cassazione (ordinanza 8362/2007 sulla competenza del tribunale
per i minorenni solo in caso di contestualità delle
domande di mantenimento con quelle di affidamento1), ha sollevato la questione di costituzionalità dell’art. 4 comma 2 della legge 54/2006 nella
parte in cui “non prevede che i procedimenti relativi ai figli minori di genitori non coniugati sono sempre attribuiti
alla competenza del Tribunale per i minorenni”. Secondo
il Tribunale ordinario di Roma la norma sarebbe costituzionalmente illegittima, per contrasto con gli
artt. 3, 25 e 111 Cost. in quanto, statuendo la competenza del Tribunale per i minorenni nella sola ipotesi della contestualità delle domande di affidamento e dei provvedimenti economici, finirebbe per
luglio-agosto 2010 | Avvocati di famiglia | 25
GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE
zionale dell’art. 3 in quanto, nell’affrontare analoga
questione sulla base della precedente normativa,
aveva affermato che “il legislatore, al quale va riconosciuta, la più ampia discrezionalità nella regolazione generale degli istituti processuali, è in particolare arbitro di
dettare regole di ripartizione della competenza fra i vari
organi giurisdizionali, semprechè le medesime non risultino manifestamente irragionevoli” (sentenza n. 451 del
1997).
(omissis)
1. - Il Tribunale ordinario di Roma dubita della legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2, della
legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia
di separazione dei genitori e affidamento condiviso
dei figli), nella parte in cui non prevede la generalizzata competenza funzionale del Tribunale per i
minorenni in ordine alle decisioni sul contributo al
mantenimento del figlio minore di genitori non coniugati - la quale invece, nella interpretazione fornita dalla Corte di Cassazione, costituente diritto vivente, è limitata alle sole ipotesi in cui il contributo
sia richiesto contestualmente a misure relative all’esercizio della potestà e all’affidamento del figlio –
per contrasto con l’art. 3 della Costituzione, avuto
riguardo alla ingiustificata disparità di trattamento
26 | Avvocati di famiglia | luglio-agosto 2010
tra figli legittimi e naturali nonché tra gli stessi figli
naturali; con l’art. 25 Cost. per la violazione della garanzia costituzionale del giudice naturale precostituito per legge; con l’art. 111 Cost. per la violazione
del principio di ragionevole durata del processo.
1.1. - L’art. 4, comma 2, della legge n. 54 del 2006
estende l’applicabilità delle nuove disposizioni in
materia di affidamento condiviso dei figli minori,
dettate con riguardo alla separazione personale dei
coniugi, ad ogni ipotesi di scioglimento, cessazione
degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché
ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati.
In giurisprudenza - mentre è pacifico che, in tema
di separazione e divorzio, la competenza a conoscere delle controversie relative all’affidamento e al
mantenimento della prole appartiene al giudice ordinario - è sorto il problema della individuazione del
giudice competente a conoscere delle medesime
controversie ove esse riguardino la prole naturale,
in presenza dell’art. 317-bis cod. civ., concernente i
provvedimenti in tema di esercizio della potestà sui
figli naturali riconosciuti, ricompresi espressamente
dall’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile tra quelli attribuiti alla competenza del
tribunale per i minorenni.
GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE
Tale contrasto è stato risolto dalla Corte di cassazione (ordinanza n. 8362 del 2007 e successive conformi), con giurisprudenza divenuta ormai diritto vivente, secondo cui le controversie aventi ad oggetto
il mantenimento dei figli naturali riconosciuti appartengono alla competenza del tribunale minorile
qualora siano proposte contestualmente a quelle attinenti alla potestà sugli stessi e al loro affidamento,
mentre, ove la domanda riguardi esclusivamente le
questioni economiche, essa va proposta innanzi al
tribunale ordinario.
La richiamata giurisprudenza è contestata dal
giudice rimettente, che la ritiene «in contrasto con le
regole di razionalità e di uguaglianza tra figli minori
e naturali (che possono avere differenti tutele da
parte di organismi differenti) e tra gli stessi figli naturali (differentemente trattati a seconda che le domande siano contestuali o meno)».
Il giudice a quo sostiene che la contestualità delle
misure relative all’esercizio della potestà e all’affidamento del figlio, da un lato, e di quelle economiche inerenti al loro mantenimento, prefigurata dai
novellati articoli 155 e seguenti del codice civile, dovrebbe imporsi in ragione non della domanda eventualmente proposta in modo contestuale a quella
relativa alla potestà, ma dell’inevitabile considerazione complessiva degli istituti, i quali risulterebbero inscindibilmente legati e interdipendenti a seguito delle innovazioni apportate dalla legge di riforma. Ne dovrebbe conseguire la sussistenza della
competenza del tribunale per i minorenni con riferimento ad ogni richiesta di attribuzione, di adeguamento, di ripartizione degli oneri ordinari o straordinari, ivi compresa l’eventuale assegnazione
della casa “familiare”, a prescindere dalla occasionale circostanza che le relative azioni siano contestualmente o singolarmente proposte.
2. - La questione, sollevata in riferimento all’art. 3
Cost., non è fondata.
2.1. - Questa Corte, nell’affrontare analoga questione sulla base della precedente normativa, ha affermato che «il legislatore, al quale va riconosciuta,
la più ampia discrezionalità nella regolazione generale degli istituti processuali, è in particolare arbitro
di dettare regole di ripartizione della competenza
fra i vari organi giurisdizionali, sempreché le medesime non risultino manifestamente irragionevoli»
(sentenza n. 451 del 1997).
Nel caso di specie non sono manifestamente irragionevoli l’attribuzione, sulla base del diritto vivente
e nell’ipotesi di prole naturale riconosciuta, alla
competenza del tribunale per i minorenni della controversia relativa all’esercizio della potestà genitoriale, qualora la stessa sia contestuale alla determinazione dell’assegno di mantenimento, e l’affermazione della competenza del tribunale ordinario,
quando si richiede al giudice solo l’attribuzione di
detto assegno: ciò soprattutto ove si tenga presente
che è lo stesso intervento dell’autorità giudiziaria
ad atteggiarsi in modo diverso nelle due differenti
ipotesi.
Né è sufficiente a ritenere la irragionevolezza
della soluzione il rilievo in ordine alla stretta relazione che permane fra il contributo economico e le
regole dell’esercizio della potestà genitoriale o la circostanza che la questione dell’affidamento potrebbe
nuovamente prospettarsi in un momento successivo. Infatti, la relazione fra esercizio della potestà
e contributo economico, ove non si concretizzi in
specifiche domande, non incide sulla competenza,
mentre la possibilità di proporre successivamente
una questione sull’affidamento, trattandosi di circostanza puramente eventuale, è priva di rilevanza
e, in quanto tale, non può incidere sulla competenza.
3. - La questione sollevata in riferimento agli articoli 25 e 111 Cost. è manifestamente inammissibile,
perché priva di motivazione.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 4, comma 2, della legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli),
sollevata, in riferimento all’articolo 3 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Roma con l’ordinanza in epigrafe;
dichiara manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 4,
comma 2, della citata legge n. 54 del 2006, sollevata,
in riferimento agli articoli 25 e 111 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Roma con l’ordinanza in epigrafe.
Nota
1
“La contestualità delle misure relative all´esercizio
della potestà e all´affidamento del figlio. da un lato,
e di quelle economiche inerenti al loro mantenimento,
dall´altro, prefigurata dai novellati articoli 155 e ss.
c.c., ha peraltro determinato - in sintonia con l´esigenza di evitare che i minori ricevano dall´ordinamento un trattamento diseguale a seconda che siano
nati da genitori coniugati oppure da genitori non coniugati, oltre che di escludere soluzioni interpretative
che comportino un sacrifico del principio di concentrazione delle tutele, che è aspetto centrale della ragionevole durata del processo - una attrazione, in
capo allo stesso giudice specializzato, della competenza a provvedere, altresì, sulla misura e sul modo
con cui ciascuno dei genitori naturali deve contribuire
al mantenimento del figlio”.
luglio-agosto 2010 | Avvocati di famiglia | 27
GIURISPRUDENZA CIVILE
corso incidentale affidato ad un unico motivo; il ricorrente principale ha successivamente depositato
una memoria.
Motivi della decisione
Se nessuno dei coniugi in
separazione dei beni riesce
a provare la proprietà
esclusiva di un bene
questo è di proprietà per
metà di ciascuno
Cass. sez. II, 15 febbraio 2010, n. 3479
Presidente Elefante
Relatore Mazzacane
Sussiste una presunzione semplice di comproprietà
per i beni mobili dei quali nessuno dei coniugi sia in
grado di dimostrare la proprietà esclusiva.
(omissis)
Con sentenza del 2 maggio 2002 il Tribunale di
Monza, decidendo nella causa promossa da G. P. nei
confronti della moglie S. C., dalla quale era legalmente separato, respingeva entrambe le domande
proposte dall’attore, quella principale di simulazione del contratto di acquisto di un immobile, composto di due locali da ristrutturare sito in omissis, e
del contratto di acquisto di un appezzamento di terreno sito nello stesso Comune, nonché quella subordinata di condanna alla restituzione della
somma di lire 401 milioni; in accoglimento della domanda riconvenzionale, condannava l’attore alla restituzione di un importo pari ai canoni di locazione
dell’appartamento da esso indebitamente percepiti
a decorrere dal 1-2-1998 oltre rivalutazione ed interessi; revocava infine il provvedimento giudiziario
concesso con provvedimento del 10-3-2000.
Proposto gravame da parte del P. cui resisteva la
C. la Corte di Appello di Milano con sentenza dell’115-2004, in parziale accoglimento dell’impugnazione,
ha condannato la C. al pagamento in favore del P.
dalla somma di euro 14.980,00 rivalutata di anno in
anno e maggiorata degli interessi legali dal maggio
1992 al saldo.
Per la cassazione di tale sentenza il P. ha proposto
un ricorso articolato in cinque motivi cui la C. ha resistito con controricorso proponendo altresì un ri28 | Avvocati di famiglia | luglio-agosto 2010
Preliminarmente deve procedersi alla riunione dei
ricorsi in quanto proposti contro la medesima sentenza.
Venendo quindi all’esame del ricorso principale, si
rileva che con il primo motivo il P., deducendo nullità della sentenza ex artt. 112 e 360 n. 4 c.p.c., assume che il giudice di appello ha omesso di pronunciarsi sulla domanda di accertamento di simulazione
soggettiva, limitandosi ad escludere la configurabilità nella fattispecie dell’interposizione fittizia.
Con il secondo motivo il ricorrente rileva che,
qualora si ritenesse che la Corte territoriale abbia
esaminato la domanda di accertamento di simulazione soggettiva nella fattispecie contrattuale oggetto di causa, la sentenza impugnata dovrebbe comunque essere cassata per l’assoluta omissione
della motivazione, essendo quest’ultima stata
espressa soltanto in riferimento alla domanda di accertamento di interposizione fittizia.
Le enunciate censure, da esaminare contestualmente per ragioni di connessione, devono essere disattese.
Premesso che il giudice di appello ha confermato il
rigetto della domanda con la quale il P. aveva chiesto
di essere dichiarato proprietario dei cespiti immobiliari intestati al coniuge in regime di separazione dei
beni, citando una pronuncia di questa Corte riguardante l’acquisto di immobili asseritamente effettuato
per interposta persona, è evidente l’infondatezza dei
motivi in esame, posto che l’interposizione fittizia di
persona rientra proprio nell’ambito della simulazione
relativa soggettiva, e che pertanto la sentenza impugnata ha esaurientemente esaminato e deciso la questione prospettata dall’appellante.
Con il terzo motivo il ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto e
contraddittoria motivazione, censura la sentenza
impugnata perché, dopo aver richiamato la pronuncia di questa stessa Corte n. 1811 del 1990 secondo
la quale l’acquisto per interposta persona deve risultare da atto scritto contenente l’obbligo di trasferire l’immobile, la cui sussistenza non può essere
provata per testi o per presunzioni, ha poi aggiunto
che la mancata replica da parte dell’appellante delle
istanze istruttorie non ammesse in primo grado impediva ogni indagine sulla fondatezza della domanda di accertamento di interposizione fittizia; il
P. sostiene inoltre che, a parte l’evidente contraddittorietà di tali argomentazioni, non vi erano istanze
istruttorie da reiterare, posto che il giudice di primo
grado aveva ammesso la quasi totalità dei capitoli
di prova articolati dall’esponente.
Segue a pag. 37
DOSSIER
Dossier
I POTERI DEL GIUDICE ISTRUTTORE
DELLA SEPARAZIONE E DEL DIVORZIO
Principi generali
di GEREMIA CASABURI
MAGISTRATO DELLA CORTE D’APPELLO DI NAPOLI
1) PREMESSA
Napoleone affermava che nessuno, in Francia, ha più poteri
del giudice istruttore.
L’aforisma si riferiva, più precisamente, al giudice istruttore
penale, tuttora esistente oltralpe, anche se ne è prevista - tra
molte polemiche - la soppressione.
L’ordinamento giudiziario italiano che, specie in passato, ha
tratto molta ispirazione dal modello francese, non conosce più,
da oltre un ventennio, il giudice istruttore penale.
Nel settore civile, al contrario, la figura del Gi, introdotta dal
codice di procedura civile del 1942, è stata vista nei primi decenni con sospetto, ed “accusata” di essere espressione di una
concezione autoritaria del processo; tuttavia non solo ha resistito, ma ha visto moltiplicare i propri poteri con la riforma del
c.d. giudice unico, nel 1998.
Il giudice istruttore è ora investito anche da pieni poteri decisori del procedimento, quale giudice monocratico, essendo
ormai residuale la cognizione collegiale del procedimento, cfr
art. 50 bis c.p.c.
Quest’ultimo - sub 1) - prevede la riserva di collegialità per
le cause nelle quali è obbligatorio l’intervento del PM, tra cui appunto - i procedimenti di separazione e di divorzio, giusta
l’espresso richiamo dell’art. 70 c.p.c.
In tali procedimenti, quindi, il Gi non ha poteri decisori finali, anche in quelli più semplici, perché è sopraggiunto un accordo o non vi è prole (diversamente quindi che in Francia, ove
le juge aux affaires familiales è essenzialmente monocratico).
Nondimeno il Gi delle separazioni e dei divorzi è investito di
poteri estremamente ampi, che lo avvicinano al giudice del lavoro o al giudice delegato dei fallimenti prima della riforma.
Si tratta di poteri sia strettamente processuali che sostanziali, e che ne fanno il vero dominus del processo, ben più dello
stesso Collegio, che interviene in una fase finale, valutando oltretutto un quadro complessivo che è ampiamente frutto delle
scelte precedenti del Gi.
2) LA TUTELA DEI MINORI
I poteri del giudice della famiglia sono particolarmente incisivi allorchè entra in gioco la tutela dell’interesse dei minori.
Tanto vale per tutti i giudici che si occupano di minori ma,
evidentemente, soprattutto per il Gi delle cause di separazione
e divorzio, atteso che opera “in prima linea”.
Tali poteri sono stati esaltati proprio dalla l. 54\2006 sul c.d.
affido condiviso.
Infatti il legislatore del 2006, pur avendo manifestato una
sorta di “opzione ideologica” per l’affido conviso, quale forma
preferenziale di affidamento dei minori, nondimeno ha conservato al centro del sistema la tutela del “tradizionale” interesse del minore.
Assume allora un centralità ben maggiore rispetto al passato la figura del giudice (in primo luogo, come detto, il GI), tut-
tora prevalente sull’autonomia decisionale dei genitori, e
quindi lo stesso procedimento:
“nei processi di separazione e divorzio il giudice, se da un lato deve
tentare di comporre il conflitto attraverso un intervento più disteso ed
articolato di quello di mero diritto tradizionalmente riservatogli, dall’altro deve al contempo assumere una più salda auctoritas, nella misura in cui, per salvaguardare il superiore interesse del minore, può
esercitare poteri caratterizzati a margini di ampia discrezionalità”.
Ed infatti già il fondamentale art. 155, 2° comma c.c. prevede
che il giudice della separazione (e del divorzio), al fine di realizzare le finalità di cui al 1° comma (principio di bigenitorialità).
“adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento
all’interesse morale e materiale di essa”.
Non è questa la sede per valutare la compatibilità di una tutela tanto intensa del minore “in concreto” con la previsione,
in astratto, di una preferenza legislativa per l’affido condiviso.
Il giudice inoltre, decide sulle modalità dell’affidamento
(tempi e le modalità della presenza dei figli presso ciascun genitore) e sul loro mantenimento, atteso che gli accordi al riguardo tra i genitori possono recepirsi solo se non contrari all’interesse dei figli, cfr art. 155, 2° comma.
Egli adotta comunque “ogni altro provvedimento riguardo alla
prole”.
L’affidamento, d’altronde, sia pure in situazione di particolare gravità, tuttora può ver luogo a favore di terzi, e non dei genitori: un tale provvedimento, evidentemente, si pone di
norma “contro” le domande delle parti.
La gamma di interventi giudiziali è comunque vastissima, e
d’altronde lo stesso art. 155, 3° comma c.c., dispone che il giudice decide sulle questioni di maggior interesse relative alla
istruzione, alla educazione e alla salute dei figli, in caso di disaccordo tra i genitori (così innovando l’assetto previgente, e
notevolmente ampliando i poteri del giudice, cfr infra).
La norma trova riscontro, anche sanzionatorio, nell’art. 709
ter c.p.c., pure introdotta dalla l. 54\2006, su cui cfr infra.
Da qui anche l’ampiezza dei poteri istruttori del giudice, largamente ufficiosi (tanto penetranti quanto discrezionali), ed
ampliati dalla l. 54\2006, che h infatti introdotto gli artt. 155
u.c. e 155 sexies c.c., su cui pure cfr infra.
La stessa Corte Costituzionale fonda la tutela del minore nei
procedimenti di separazione e divorzio (e nonostante che il
minore non abbia legittimazione processuale alcuna) proprio
(e anche) su siffatta latezza di poteri del giudice, cfr Corte Cost.
14 luglio 1986, n. 185, Foro it., 1986, I, 2679.
È poi appena il caso di ricordare che le norme introdotte
dalla l. 54\2006, pur formalmente riferite solo alla separazione,
trovano applicazione - per espressa previsione normativa - anche per il divorzio.
3) IL POTERE DI MODIFICA\REVOCA DELL’ORDINANZA PRESIDENZIALE
L’ampiezza della potestà di intervento del Gi si misura nel potere di modifica\revoca dei provvedimenti “temporanei ed urgenti”
che il presidente del Tribunale adotta anche d’ufficio “all’esito
dell’udienza innanzi a sé”, cfr art. 708 c.p.c. e 4 8° comma l. div.
luglio-agosto 2010 | Avvocati di famiglia | 29
DOSSIER
Di contro gli artt. 709, ult. comma, c.p.c., art. 4, 8° comma l.
div. novellati nel 2005 prevedono che i provvedimenti presidenziali possono essere revocati o modificati dal giudice istruttore, senza necessità dell’intervento di circostanze sopravvenute: “I provvedimenti temporanei ed urgenti assunti dal presidente
con l’ordinanza di cui al terzo comma dell’art. 708 possono essere revocati o modificati dal giudice istruttore”.
Anteriormente al 2005 l’ultimo comma dell’art. 708 c.p.c. disponeva invece “Se si verificano mutamenti nelle circostanze, l’ordinanza del presidente può essere revocata o modificata dal giudice
istruttore a norma dell’art. 177”.
In realtà nulla sembra cambiato, perché già l’art. 4, 8°
comma, l. div. (come modificato dalla l. 74/1987, ed applicabile
anche al giudizio di separazione in virtù dell’art. 23 cit., in via
diretta o almeno analogica) disponeva che “l’ordinanza del presidente può essere revocata o modificata dal giudice istruttore a
norma dell’art. 177 del codice di procedura civile”, così tacitamente
abrogando l’art. 708 u.c. c.p.c. nella parte in cui limitava il potere di controllo del g.i. soltanto al ricorrere di “mutamenti nelle
circostanze”.
Sicché il potere di modifica del G.I. nel processo di separazione era ormai già ritenuto illimitato, cfr ex plurimis Trib. Napoli 14 novembre 1995, in Fam. e dir., 1996, 464.
È indubbio però che l’art. 709 novellato costituisca conferma
del pieno potere del Gi di revocare o modificare l’ordinanza
presidenziale - appunto anche in assenza di mutamenti nelle
circostanze - in base ad una diversa valutazione dei medesimi
elementi di fatto già noti al presidente.
Tanto, almeno a tutela dei minori, anche d’ufficio.
Una tale soluzione, si è ancora osservato, è rispondente alla
logica funzionalità del sistema, “ed è strettamente correlata alle
situazioni oggettive e soggettive presupposte, caratterizzate da mutevolezza e suscettive di rivisitazioni da parte del giudice anche sulla
base dei medesimi elementi di valutazione, ove ritenuto opportuno
nel precipuo interesse dei soggetti che ne sono coinvolti”, cfr Trib. Lucera, 31 gennaio 2007, Giur. merito 2008, 685.
Inoltre, dal punto di vista sistematico, questa disciplina è
apparsa perfettamente coerente con la nuova fase introduttiva “bifasica” del giudizio contenzioso dei procedimenti di separazione e di divorzio (si è più volte richiamata la struttura bifasica).
La norma va evidentemente posta in relazione con l’art. 155bis nuovo testo c.c. cit. che, nonostante il favore del legislatore
per l’affido condiviso, prevede la possibilità di ciascun genitore di chiedere “in qualsiasi momento”, e quindi anche nel corso
dei procedimenti di separazione e divorzio, l’affido esclusivo,
quando ricorrono le condizioni previste dal comma 1 (quindi
la contrarietà all’interesse dei minori dell’affido condiviso).
In termini più generali, d’altronde, il pure richiamato art.
155-ter cit. dispone che i genitori hanno il diritto di chiedere in
ogni tempo la revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli, l’attribuzione dell’esercizio della potestà su di
essi e delle disposizioni economiche relative.
La novellazione (ammesso che sia tale, beninteso) è comunque stata ritenuta di grande rilievo:
“il potere modificativo in oggetto pare aver subito una sorta di mutazione genetica: da strumento di adeguamento dello stato di diritto
al mutare dello stato di fatto, è strumento di eventuale revisione e
controllo (dell’esattezza) delle determinazioni presidenziali, e perciò
(anche) quale revisio prioris instantiae.”, cfr Trib. Modena 5 ottobre
2006, in Famiglie, persone, succ., 2007, 3, 221.
4a) I RAPPORTI TRA IL RECLAMO AVVERSO L’ORDINANZA
PRESIDENZIALE E IL POTERE DI REVOCA E MODIFICA DEL GI:
PROFILI GENERALI
L’introduzione del reclamo avverso le ordinanze presidenziali, con la legge 54\2006, immediatamente successiva alla più
generale novella processuale del 2005, ha però portato a nuovi
dubbi e problemi interpretativi, specie in ragione del mancato
coordinamento tra il (nuovo) reclamo e il (preesistente) potere
di revoca\modifica del Gi, a sua volta novellato pochi mesi
prima.
30 | Avvocati di famiglia | luglio-agosto 2010
Si tratta di una occasione mancata, tanto più grave in
quanto la novella del 2005 aveva disciplinato in termini esaustivi e coerenti - e soprattutto senza rischi di sovrapposizioni
- i rapporti tra il reclamo cautelare e la revoca\modifica delle
misure cautelari in atto, alla stregua dei novellati artt. 669-decies e 669-terdecies c.p.c., novellati nel 2005.
In sintesi, pronunciata l’ordinanza cautelare, la parte che si
ritenga lesa può percorrere l’una o l’altra strada, a seconda dei
motivi che intende far valere.
Infatti il reclamo può investire la misura in atto nella sua
interezza, attesane la natura devolutiva: esso è finalizzato ad
una rivisitazione illimitata dei provvedimenti presidenziali.
mentre con l’istanza di modifica\revoca possono farsi valere solo circostanze sopravvenute (intese in senso lato, in
quanto comprensive anche “di fati anteriori, di cui si è acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare.
In tal caso l’istante deve fornire la prova del momento in cui ne
è venuto a conoscenza”).
Vi è di più: una volta optato per il reclamo, con esso possono e devono farsi valere anche i nova (art. 669-terdecies, 4°
comma cit.: “le circostanze ed i motivi sopravvenuti al momento della proposizione del reclamo debbono essere proposti, nel rispetto del principio del contraddittorio, nel relativo
procedimento”).
Quella del legislatore è stata una precisa scelta di economia
processuale: il reclamo, infatti, preclude la proposizione dell’istanza di modifica\revoca al Gi in corso di causa (l’art. 669decies, 1° comma, prevede infatti che l’istanza di revoca\modifica può essere proposta in corso di causa al Gi, “salvo che sia
stato proposto reclamo ai sensi dell’art. 669-terdecies”).
Deciso il reclamo, potrà nuovamente proporsi istanza di
modifica\revoca al Gi, ma solo per nova rispetto al giudizio di
reclamo.
Il reclamo cautelare, in definitiva, costituisce un mezzo processuale più ampio della modifica\revoca, sia nel senso che
consente una revisione in toto della misura contestata, sia in
quanto con esso possono farsi valere questioni (nova) che pure
sono proprie della modifica\revoca medesima.
Nulla di tutto ciò si desume, almeno non direttamente, dagli artt. 708 e 709 cit c.p.c., che anzi sembrano presentare vere
e proprie lacune.
I problemi derivano essenzialmente dalla circostanza che il
tenore letterale delle norme non solo sembra rendere la parte
interessata libera di scegliere il rimedio più gradito, ma addirittura - in una sorta di forum shopping endoprocedimentale neanche esclude la sovrapponibilità tra i rimedi, nel senso che
la parte sarebbe libera di percorrere entrambe le strade, nella
speranza di ottenere soddisfazione da almeno uno dei giudici
aditi.
Una tale soluzione è però estremamente pericolosa, anche
sotto il profilo pratico, perché si darebbe luogo “a fenomeni di
proliferazione e sovrapposizione di fasi incidentali, non consentanee
con il principio di economia processuale e di ragionevole durata del
processo, oltre che foriere di un incremento della conflittualità processuale, già di per sé elevata nel contenzioso della crisi familiare”
(SIANI)
In termini più strettamente tecnici, ci si è chiesto:
- quali sono i rapporti tra il potere di reclamo e quello di modifica\revoca da parte del Gi, sotto il profilo delle condizioni di
proponibilità dei due rimedi?
- nella pendenza dei termini per il reclamo, o nelle more
della decisione del reclamo già proposto, il Gi può modificare\revocare i provvedimenti presidenziali, eventualmente
anche d’ufficio?
- Decorso inutilmente il termine per il reclamo, può chiedersi al Gi la revoca\modifica dell’ordinanza presidenziale solo
a fronte di sopravvenienze, o anche per originari errores in iudicando ed in procedendo contenuti nel provvedimento impugnato?
- esperito il reclamo, il GI detiene ancora il potere di intervenire - modificandoli o revocandoli - sui provvedimenti presidenziali, come confermati o riformati dalla Corte d’appello?
DOSSIER
Dottrina e giurisprudenza hanno offerto le risposte più varie, che qui si tenterà di illustrare sommariamente.
Le soluzioni variano, in particolare, a seconda che si tenti o
meno di distinguere l’ambito di operatività dei due rimedi e a
seconda della natura giuridica (cautelare o meno) che si riconosce ai provvedimenti presidenziali e a quelli successivi del Gi.
4b) REVOCABILITÀ\MODIFICABILITÀ DEI PROVVEDIMENTI
DELLA CORTE D’APPELLO: PIENA CUMULABILITÀ DEI RIMEDI…
Una prima tesi “estrema”- ma fondata, come detto, sul tenore letterale delle norme - è quella che ammette tout court il
potere del Gi di modifica\revoca sempre e comunque, anche
avverso i provvedimenti modificati (o confermati) dalla Corte
d’appello.
Alla stregua di tale impostazione, evidentemente, non vi sarebbe alcuna alternatività (su cui cfr infra) ovvero pregiudizialità in senso tecnico tra reclamo in corte d’appello e richiesta
di modifica\revoca al Gi, né tantomeno la necessità che - per
l’accoglimento di quest’ultima - siano dedotte sopravvenienze.
Essenzialmente solo in ambito cautelare, si osserva ancora,
reclamo, revoca, e modifica sono rimedi (pur nella diversità dei
presupposti) omogenei, in quanto espressione dei poteri dispositivi delle parti; nel settore in esame, invece, solo il reclamo costituisce un mezzo di impugnazione, espressione di
un potere dispositivo delle parti.
Il reclamo, inoltre, è pur sempre un rimedio facoltativo, non
necessario, che pone solo una tutela rafforzata delle parti.
Il potere di modifica\revoca del Gi, d’altro canto, è in realtà
un potere ufficioso, simile a quello che già gli appartiene ex
art. 177 c.p.c.
Ne segue che l’istanza di parte di modifica\revoca rivolta al
Gi non costituisce espressione di un potere processuale, un rimedio attribuito alla parte in concorso con il reclamo, ma solo
la mera sollecitazione di potere proprio del medesimo giudice:
“ne deriva che i poteri ufficiosi di revoca e di modifica non sono
impediti, nel loro esercizio, dalla pendenza del termine per proporre
reclamo e neppure dalla pendenza del giudizio di reclamo: il giudizio
di merito non è affatto sospeso e nel suo ambito il giudice ben può
esercitare tutti i poteri che la legge gli attribuisce, e anche ricevere
dalle parti sollecitazioni ad esercitarlo, e quindi anche il potere di revocare, salvi i riflessi che può avere sul giudizio di rclamo l’avvenuta
revoca del provvedimento impugnato… Reclamo e revoca non si pongono tra loro in concorso alternativo, quando l’uno sia esercizio del diritto al gravame e l’altra manifestazione di un potere giudiziario di
gestione del processo. Ne deriva che il giudice non vede limitati i propri poteri dal proposto reclamo, e la stessa parte reclamante ben può
eccitare il potere giudiziale con una istanza di revoca” (TOMMASEO)
4C) …E ORIENTAMENTO OPPOSTO
È stato però alquanto agevole replicare che siffatta impostazione rischia di rendere inutile il reclamo - per la cui proposizione pure sono previsti termini perentori - in quanto la
disciplina adottata dalla Corte d’appello potrebbe essere così
vanificata all’esito di una semplice, differente lettura e interpretazione da parte del Gi (DANOVI)
Di contro vi è l’esigenza di evitare una eccessiva instabilità
di provvedimenti di tanto rilievo, ciò per evidenti ragioni di razionalità, di economia processuale, e anche di certezza del diritto.
Da qui la tesi opposta (a sua volta pure discutibile), quella
che nega nega la stessa sopravvivenza del potere di modifica\revoca del Gi, una volta che la Corte d’appello si sia pronunciato (o - al limite - possa pronunciarsi).
Ciò sia in quanto tale potere è limitato ai soli provvedimenti
adottati dal presidente del tribunale, sia perché il giudice inferiore non può di norma modificare i provvedimenti del giudice superiore.
Si tratta di argomenti quantomeno deboli: basti osservare
che l’art. 709, 4° comma cit., peraltro antecedente all’introduzione del reclamo, rinvia per relationem ai provvedimenti comunque sostitutivi dell’ordinanza presidenziale.
Quanto poi alla gerarchia degli uffici giudiziari, è agevole osservare che il Tribunale, con la sentenza, può sicuramente modificare quanto statuito in sede presidenziale, pur se già oggetto di revisione in sede di reclamo in corte d’appello: non vi
è quindi alcuna insuperabile gerarchia da rispettare.
Resta poi il dato basilare che i provvedimenti in parola,
emessi dal Presidente del tribunale, dal Gi o anche dalla stessa
corte d’appello, restano provvisori, temporanei, in quanto “rispondenti a un assetto di interessi dei componenti del nucleo familiare
intrinsecamente variabile e tale da subire fisiologicamente alterazioni
o variazioni nel corso del giudizio” (DANOVI)
Non va infine trascurato un orientamento intermedio, che
muove sì dalla modificabilità\revocabilità dell’ordinanza presidenziale come modificata o confermata dalla corte d’appello
in sede di reclamo solo in presenza di nova, ma con una significativa eccezione.
Si afferma infatti che il potere del Gi di modifica\revoca è illimitato, e non vincolato alle sopravvenienze, allorchè si verta
in tema di affidamento dei figli minori.
In tal caso, infatti, non opera l’esigenza di assicurare la tendenziale stabilità dei provvedimenti, almeno quelli oggetto di
revisione (pur se risoltasi in una conferma) in sede di reclamo.
“tale esigenza non è dato cogliere con riferimento ai provvedimenti
emanati nell’interesse della prole. Ne costituisce prova evidente …il
tenore letterale dell’art. 155 c.c ter., che …stabilisce che i genitori
hanno il diritto di chiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni
concernenti l’affidamento dei figli e l’attribuzione della potestà su di
essi. Ciò del resto è conseguenza del fatto che il giudice, cfr art. 155,
2° comma c.c., è tenuto all’emanazione dei provvedimenti relativi ai
minori nelle cause di separazione dei loro genitori con esclusivo riferimento all’itneresse materiale e morale dei figli …i provvedimenti
resi nell’interesse dei minori nell’ambito dei giudizi di separazione
dei loro genitori sono provvedimenti di natura non contenziosa, essendo preordinati all’esigenza prioritaria della tutela dell’interesse
dei minori, e come tali sempre modificabili e 1 o revocabili, in quanto
inidonei a assumere, sia pure rebus sic stantibus, la tendenziale attitudine alla definitività. Tali considerazioni portano quindi ad escludere che l’avere confermato in sede di reclamo la corte d’appello …il
provvedimento impugnato determini la carenza di potere dell’istruttore di modifica di detto provvedimento”, cfr Trib. Napoli 1 agosto
2007, Famiglia, persone e succ., 2008, 3, 276
4d) REVOCABILITÀ\MODIFICABILITÀ DEI PROVVEDIMENTI
DELLA CORTE D’APPELLO SOLO IN PRESENZA DI NOVA
Si è poi diffusa, anche in giurisprudenza, una ulteriore soluzione, alla stregua della quale, una volta che la corte d’appello abbia deciso sul reclamo, il potere del Gi resta, ma in misura limitata; egli potrà si modificare\revocare anche le statuizioni adottate dalla Corte d’appello, ma non più incondizionatamente, ma solo subordinatamente alla presenza di circostanze sopravvenute.
Tanto in forza della clausola rebus sic stantibus, operante anche per i provvedimenti della Corte d’appello che quindi
hanno un limitato effetto preclusivo per il Gi, limitatamente
alle questioni oggetto di decisione.
Tale soluzione, oltretutto, esprime meglio l’alternatività tra
i due rimedi.
Nonostante il tenore letterale dell’art. 709, 3° comma c.p.c.,
quindi, la proposizione del reclamo “consuma” il potere delle
parti di chiedere illimitatamente la modifica\revoca dei profili
dell’ordinanza presidenziale investiti dal reclamo stesso.
D’altronde, si è osservato, l’art. 709 cit. è riferito ai provvedimenti presidenziali, ma non a quelli della corte, e a quelli
successivi dello stesso Gi, cui pertanto è corretto attribuire una
maggiore stabilità.
Di contro, l’art. 709 cit. opera con pienezza - e quindi revoca\modifica prescindono dai nova - nell’ipotesi in cui il reclamo
non sia stato esperito (e sia decorso il termine per proporlo).
Infatti la mancata proposizione del reclamo non comporta
una sorta di acquiescenza alle misure presidenziali, che restano temporanee, e quindi resta ferma la piena potestà di modifica del Gi in corso di causa, ex art. 709 c.p.c. cit..
luglio-agosto 2010 | Avvocati di famiglia | 31
DOSSIER
Tanto è affermato specie da chi reputa che il reclamo ex art.
708 cit.(a differenza di quello cautelare) non è devolutivo, ma
un mero riesame allo stato degli atti del provvedimento.
Nulla vieta allora che, nonostante la mancata proposizione
del reclamo, possa successivamente chiedersi al Gi la revoca\modifica del provvedimento non reclamato, rappresentando fatti e circostanze non allegate in precedenza, ma non
sopravvenute (ARCERI)
Così Trib. Modena 5 ottobre 2006 cit.:
“una volta scelta la via del reclamo in corte non è ammessa
istanza di revoca, se non in presenza di un mutamento delle circostanze. Non coltivata, e perciò perenta la via del reclamo, appare invece ammissibile il ricorso per revoca\modifica al Gi, allo scopo anche di rivedere il provvedimento presidenziale, rivalutabile anche
sotto il profilo dell’opportunità, posto che il potere del Gi non appare
più condizionato dal requisito del “mutamento delle circostanze”
4e) REVOCABILITÀ\MODIFICABILITÀ DEI PROVVEDIMENTI
PRESIDENZIALI IN PENDENZA DEL TERMINE PER IL RECLAMO: ORIENTAMENTO CONTRARIO…
Quid iuris quando il rimedio del reclamo non è stato ancora
esperito, ma non è ancora decorso il termine per proporlo?
Non manca chi reputa comunque ammissibile l’istanza di
modifica\revoca, almeno a fronte di sopravvenienze, ovvero allorché vi è l’esigenza di immediata tutela, non paralizzabile
per il mero fatto della proponibilità del reclamo, o anche dalla
avvenuta proposizione dello stesso.
È evidente, si osserva, che se è deciso prima il reclamo potrebbe derivare la cessazione della materia del contendere sull’istanza al Gi (in quanto viene meno il provvedimento su cui
decidere); viceversa, se decide prima quest’ultimo, il procedimento di reclamo potrebbe esaurirsi.
In giurisprudenza si è però affermato il principio di una rigida gerarchia tra i due rimedi: finchè il reclamo non sia stato
proposto - ma sia astrattamente ancora proponibile - non può
chiedersi l’intervento del Gi ex art. 709 cit. c.p.c.
Tanto è sostenuto specie da chi muove dalla considerazione
del reclamo ex art. 708 cit. come rimedio “a motivi illimitati in
fatto ed in diritto”, quindi come rimedio integralmente devolutivo, anche con riferimento a fatti sopravvenuti:
“solo una volta consumato il potere delle parti di reclamare l’ordinanza presidenziale potrà essere attivato il riesame del GI”.
Non solo quindi vi è alternatività tra i due sistemi, ma una
prevalenza del reclamo rispetto alla modifica\revoca: alla stregua di tale orientamento, il potere di revoca o modifica dell’ordinanza presidenziale da parte del giudice istruttore presuppone la consumazione del potere di reclamo. L’elemento
scriminante, vere e propria condizione di procedibilità del potere del Gi (presupposto per l’esercizio del potere di questi, che
sorge solo con il decorso del termine per l’impugnazione), è
quindi la notifica dell’ordinanza presidenziale, cfr. Trib. Modena 5 ottobre 2006 cit.; in termini anche Trib. Padova, 2 aprile
2007, Foro it., 2007, I, 1916
Il principio dell’alternatività è condiviso con analogo rigore
anche da Trib. Napoli 9 novembre 2006, Foro It., 2007, I, 302, che
- nell’ambito di un procedimento di separazione personale dei
coniugi- ha escluso che, in pendenza del termine per proporre
reclamo avverso l’ordinanza presidenziale, la revoca o la modifica possa essere chiesta, pur a fronte di sopravvenienze, al
GI.
Anche in tale ipotesi, infatti, l’unica strada percorribile è
quella del reclamo (più precisamente, il giudice istruttore della
separazione, adito anteriormente alla udienza di prima comparizione delle parti, ha dichiarato la propria incompetenza a
provvedere sulla domanda avanzata ai sensi dell’art. 156, 6°
comma c.c., di ordine di pagamento diretto dell’assegno fissato dall’ordinanza presidenziale, da parte del terzo datore di
lavoro del coniuge obbligato al versamento dell’assegno, a seguito dell’inadempimento di quest’ultimo, sul rilevo che era
proponibile reclamo in corte d’appello, anche in via incidentale, atteso che il reclamo era già stato proposto, per diverse ragioni, dall’altra parte).
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4f) …E PROFILI CRITICI
Tale soluzione, apprezzabile sotto il profilo della certezza
del diritto, si è però esposta a critiche, perché attribuisce alla
notifica dell’ordinanza presidenziale un ruolo che non sembra
avere riscontro normativo, appunto di presupposto (condizione di proponibilità o di ammissibilità) del potere del Gi e, a
ben vedere di conditio iuris, dello stesso reclamo.
Di contro si è osservato che
“la notifica dell’ordinanza come condizione anche per la proponibilità del reclamo arrecherebbe un beneficio in termini di certezza del diritto, ma di fatto costringerebbe la parte soccombente ad un adempimento, la notifica, che essa non ha interesse a compiere. Per questo motivo, deve più verosimilmente ritenersi che la notifica abbia tuttora unicamente la funzione di accelerare la formazione della stabilità del provvedimento, e in questa prospettiva la stessa sarà dunque di regola posta in essere dalla parte vittoriosa, ai fini della decorrenza del termine
breve (non diversamente da quanto avviene per tutte le impugnazioni)
…Non si può escludere che in sua mancanza, il reclamo possa essere
proposto anche successivamente …entro il consueto termine annuale
(decorrente dalla pronuncia dell’ordinanza presidenziale, se avvenuta
in udienza, o dalla comunicazione alle parti, se avvenuta all’esito di
scioglimento di riserva avvenuta all’udienza” (DANOVI).
Funzione della notificazione dell’ordinanza presidenziale,
invero, è esclusivamente quella di fare decorrere il termine
“breve” per il reclamo stesso, in ciò distinguendosi - ad es. dalla notificazione al convenuto non comparso all’udienza
presidenziale, come previsto dall’at. 709, 1° comma c.p.c., cfr
Trib. Padova 2 aprile 2007 cit.
4g) IL PRINCIPIO DELLA PREVENZIONE
Il principio di alternatività è stato ribadito - ma senza il riconoscimento di alcuna gerarchia tra i rimedi - anche da App.
Milano 29 marzo 2007, Famiglie, persone, successioni, 2007, 6,
503, secondo cui una volta che una parte abbia proposto
istanza di modifica\revoca al Gi, non possa più proporre reclamo per i medesimi motivi:
“l’attuale sistema …attribuisce alle parti la scelta tra due rimedi da
esperirsi avverso l’ordinanza presidenziale, di cui uno davanti al giudice superiore, l’altro davanti al giudice istruttore della causa, ma
electa una via altera non datur …non appare concettualmente coerente con il nostro sistema giuridico, né rispondente a criteri di ragionevolezza e di economia processuale, la possibilità di investire contestualmente due diverse autorità giudiziarie dell’esame di una medesima istanza fondata sui medesimi motivi, con l’inaccettabile ipotetica
conseguenza dell’emissione di due provvedimenti tra loro contrastanti,
entrambi dotati di uguale immediata efficacia esecutiva: pertanto, essendosi la parte reclamante avvalsa dello strumento di revisione costituito dall’istanza di revoca\modifica dell’ordinanza presidenziale
…anteriormente alla proposizione del presente reclamo, spetta a quest’ultimo esaminare la fondatezza di tale istanza, a differenza di
quanto è invece previsto per il provvedimento cautelare dal primo
comma dell’art. 669-decies c.p.c., che preclude al giudice istruttore del
merito ogni valutazione in pendenza di reclamo, così confermando anche per questo settore la natura dell’alternatività dei rimedi”
In sostanza, la concorrenza tra i due rimedi è solo potenziale, nel senso che la scelta in concreto operata dall’interessato, costituisce causa di inammissibilità della richiesta dell’altro, non fondata sugli stessi motivi.
4h) ESCLUSIONE DELLA REVOCABILITÀ\MODIFICABILITÀ DEI
PROVVEDIMENTI PRESIDENZIALI IN ASSENZA DI NOVA, IN
IPOTESI DI MANCATA PROPOSIZIONE DEL RECLAMO
Altri - in dottrina ed in giurisprudenza - vanno ancora oltre,
circa la ricerca di un diverso ambito di operatività tra i due istituti, giungendo a negare alla parte che non ha reclamato la facoltà (decorso il termine per il reclamo) di proporre istanza di
modifica\revoca dell’ordinanza presidenziale in mancanza di
sopravvenienze (NARDELLI)
Si afferma al riguardo che, con l’introduzione del reclamo, il
legislatore ha inteso precludere al giudice istruttore il potere di
entrare nel merito della correttezza o meno della decisione
presidenziale.
DOSSIER
Non è infatti ipotizzabile la duplicazione ovvero la sovrapposizione dei rimedi, “pena la possibilità di contrastanti statuizioni in ordine ad una medesima questione”
il potere del Gi è (nuovamente) subordinato all’intervento
di sopravvenienze, cfr Trib. Padova 2 aprile 2007, cit. Trib. Velletri 29 settembre 2006, Giur. merito 2007, p. 707
La parte che si duole dell’erroneità ab origine dell’ordinanza
presidenziale non ha quindi altra scelta che il reclamo, nel cui
ambito - come generalmente ritenuto - potrà anche “trasferire” i nova (fermo che per questi può presentare istanza di modifica\revoca).
Tanto discende anche da una esigenza di coerenza sistematica: non può riconoscersi la piena revocabilità\modificabilità dell’ordinanza non reclamata, in mancanza di nova: se
fosse così, infatti, non potrebbe riconoscersi alla mancata proposizione del reclamo, pur presidiata da termini perentori, alcun effetto preclusivo (e non si spiegherebbe poi la previsione
di uno speciale criterio di competenza per il reclamo).
Oltretutto l’istanza al Gi non è sottoposta alcun termine di
proposizione, sicché una parte, dopo aver infruttuosamente
tentato la strada del reclamo, potrebbe poi trasferire la questione negli stessi termini al Gi.
Di contro
“Non è possibile attribuire all’istruttore un potere decisorio concorrente con quello della medesima corte: se così fosse, nulla impedirebbe il ripristino dei provvedimenti riformati in sede di reclamo, vanificando in tal modo l’attività di controllo esercitata dalla corte…solo
fatti sopravvenuti ed in precedenza ignorati consentono al Gi di modificare i provvedimenti pronunciati in sede di reclamo dalla corte
d’appello” (TOMMASEO)
Più radicalmente, si osserva ancora, consentire che un provvedimento sia sottoposto, contemporaneamente, a due controlli, pur della stessa natura, ma affidati a soggetti diversi, significa disconoscere un principio fondamentale del diritto
delle impugnazioni, secondo cui ad un provvedimento corrisponda un mezzo di gravame (CEA).
4i) LA POSSIBILE ABROGAZIONE TACITA DELL’ART. 709, 4°
COMMA C.P.C.
Tale ricostruzione si muove nell’ambito di una configurazione almeno latamente cautelare dei provvedimenti in oggetto, con conseguente applicazione - diretta o analogica delle norme sul procedimento cautelare uniforme, e quindi
dell’art. 669-decies (sempre che ciò sia ritenuto consentito dalla
clausola di compatibilità di cui all’art. 669-quaterdecies cit.).
Tanto nonostante l’introduzione dell’art. 709, 4° comma
c.p.c. cit. e la perdurante vigenza dell’art. 4, 8° comma cit. l. div.
Si assume, anzi, che l’introduzione del reclamo, con la l.
54\2006, abbia comportato una sorta di abrogazione tacita dell’art. 709, 4° comma c.p.c. cit., introdotto - come detto - dalla
pur poco precedente l. 80\2005.
L’abrogazione del riferimento alle sopravvenienze, di cui al
“vecchio” art. 708 cit., infatti, si giustificava “nell’ottica di una
mancanza di controllo da parte di altro organo, poi individuato con l
l. 54\2006 nella corte d’appello” (Trib. Velletri 29 settembre 2006,
Giur. merito 2007, p. 707); tale giustificazione, evidentemente,
è ora venuta meno.
In altri termini, e ancora più chiaramente:
“va esclusa la ammissibilità della istanza al giudice istruttore di
revoca o modifica del provvedimento emesso dal presidente del tribunale sulla base delle medesime circostanze già valutate in sede di
comparizione dei coniugi, dal momento che gli eventuali rilievi critici
dell’ordinanza presidenziale devono formare oggetto di specifico reclamo al giudice di secondo grado. Diversamente opinando si giungerebbe per assurdo ad ammettere una duplice forma di impugnazione avverso il medesimo provvedimento interinale, con concreta
possibilità di contrastanti decisioni assunte dalla corte d’appello e
dal Gi e (laddove si sostenga la prevalenza dell’ordinanza ex art. 708
c.p.c.) sostanziale vanificazione degli effetti del reclamo… Logico corollario è il sostanziale uniformarsi (pur a fronte della eliminazione
dell’inciso “se si verificano mutamenti delle circostanze” nel nuovo
art. 709, u.c. c.p.c.) della disciplina della revoca o della modifica delle
ordinanze presidenziali a quella generale prevista per il processo cautelare dall’art. 669 decies c.p.c., non essendo più comprensibile la ratio di una diversa interpretazione di norme che intendono nella sostanza affermare per tutti i provvedimenti capaci di anticipare gli effetti della pronuncia di merito il principio giuridico della riforma sulla
base dei soli elementi sopravvenuti o di quelli preesistenti, ma incolpevolmente ignorati al momento della decisione da revocarsi o da modificarsi”, cfr Trib. Trani 28 aprile 2006, Foro It., 2006, I, 2213
Particolarmente incisiva è una decisione della Corte d’appello di Genova:
“pur essendo stata elisa la previsione dell’originario 4° comma dell’art. 708 c.p.c., comunque la vigenza di tale previsione debba ricavarsi dal disposto dell’art. 669-decies c.p.c., sì che non sarà più possibile sottoporre al Gi una istanza di modifica dei provvedimenti presidenziali che non si fondi su un quid novi (quanto meno la migliore conoscenza di circostanze preesistenti) rispetto a quanto prospettato dal
presidente, giacché diversamente la cognizione della corte e del Gi in
prima battuta sarebbero sovrapponibili, e si finirebbe per consentire
avverso un provvedimento una duplice modalità di reazione, con sostanziale inutilità del reclamo, il cui effetto potrebbe essere sempre vanificato dalla successiva decisione del giudice dell’appello, sulla scorta
della medesima situazione fattuale”, cfr App. Genova 10 novembre
2006 cit. Cfr anche Ttrib La Spezia 25 novembre 2006, in www.
minoriefamiglia.it, Trib. Pisa, 14 febbraio 2007, in Dir. famiglia,
2007, 1228, Trib. Mantova, 23 maggio 2007, in www.ilcaso.it, Trib.
Catania 31 marzo 2009, www.affidamentocondiviso.it.
Non tutti i sostenitori della natura cautelare dei provvedimenti in parola, e comunque della necessità del requisito dei
nova, reputano però che l’art. 709, 4° comma cit. e la corrispondente norma della l. div. siano da ritenersi tacitamente
abrogata.
Di contro, la norma sarebbe vigente, conservando una sua
utilità, in quanto vale a rimarcare che, a differenza di quanto
accade per le altre misure cautelari, il potere di revoca e di modifica è pieno, e prescinde dai nova, per quanto attiene alla tutela dei figli minori.
Qui l’unico criterio è quello dell’interesse dei figli stessi, che
va tutelato sempre, anche con la rivisitazione dei provvedimenti vigenti, alla stregua di una diversa valutazione in fatto
ed in diritto delle circostanze già acquisite e note, crr art. 155
ter c.c..
In altri termini anche qui l’interesse superiore del minore
prevale sulle esigenze del processo.
4l) ULTERIORI PROFILI OPERATIVI
Alla stregua della configurazione in ultimo esaminata, come
detto, gli errori dell’ordinanza presidenziale possono farsi valere solo con il reclamo; ci si è chiesti però se, proposta
l’istanza di modifica\revoca - per sopravvenienze - la medesima parta possa proporre anche il reclamo, beninteso se non
ne sono ancora decorsi i termini.
La risposta, ex art. 329 c.p.c., tende ad essere negativa:
l’istanza di revoca\modifica per nova ha valore di acquiescenza al provvedimento presidenziale (oltretutto,come detto,
le sopravvenienze si potevano far valere con il reclamo).
Altra questione è se una parte propone istanza di revoca e
modifica, mentre l’altra propone il reclamo; in tal caso prevale
il reclamo, ed il Gi non potrà provvedere sull’istanza ex art. 709
cit., atteso che il suo provvedimento rischia di essere inutiliter
datum.
La parte che aveva chiesto la modifica\revoca non è però
onerata al trasferimento della domanda in sede di reclamo: la
questione resta in stand by, in quanto il Gi potrà occuparsene
solo dopo la decisione del reclamo, e previa valutazione della
persistenza dell’interesse della parte.
5) I PROVVEDIMENTI DEL GI: POTERI D’UFFICIO (ISTRUTTORI
E DECISORI) E TUTELA DEL CONTRADDITTORIO
L’istanza al Gi di modifica\revoca dell’ordinanza presidenziale può essere anche informale, espressa verbalmente e raccolta nel verbale di udienza, sempre che sia tutelato il contraddittorio, con concessione di un termine a controparte.
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DOSSIER
Ben più delicata è la questione della cognizione del Gi allorché valuta l’istanza in questione, e - di riflesso - quella della
connessa attività istruttoria.
Si tratta di problematica che si inserisce - e talora si confonde - con quella più generale dell’attività istruttoria nei procedimenti di separazione e di divorzio, e dei poteri anche ufficiosi del Gi, cfr art. 155 sexies c.c.
Si tratta di aspetti che, a loro volta, in parte rientrano nell’ordinario processo di cognizione, in parte però presentano una disciplina speciale, in ragione della peculiarità della materia e del
rilievo degli interessi coinvolti, come già più volte osservato.
Così, qualora l’istanza di modifica\revoca non possa essere
decisa secondo le prove raccolte, l’introduzione di prove orali
o di accertamenti tecnici non può che essere rimessa ad una
valutazione di ammissibilità resa all’esito delle complessive
richieste delle parti nell’ambito dei termini di legge.
È indubbio che il Gi (quale giudice del procedimento) è investito di ampi poteri ufficiosi, sia istruttori che - indissolubilmente - decisori.
Quanto a questi ultimi, infatti, egli può, anche d’ufficio,
adottare i provvedimenti relativi ai figli minori, modificando
o integrando i provvedimenti presidenziali, come d’altronde
poteva provvedere d’ufficio già il presidente.
Tanto con riferimento non solo all’affidamento dei figli, e
alle problematiche connesse, ma anche ai profili attinenti al
mantenimento (e d’altronde proprio a quest’ultimo si riferisce
il potere ufficioso di disporre indagini di PT, su cui cfr infra).
Tale ufficiosità, invece, non si estende ai rapporti patrimoniali tra i coniugi, essenzialmente espressione di diritti disponibili.
A ben vedere, del resto, il Gi può adottare provvedimenti
non solo diversi, ma addirittura opposti rispetto a quelli chiesti dalle parti.
Tale ufficiosità va bilanciata con il rispetto, particolarmente
rigoroso, del principio del contraddittorio.
La piena tutela dei diritti delle parti esige quindi che sia
“consentito alle parti stesse di predisporre le difese ritenute necessarie anche nei confronti dell’iniziativa del giudice. Il principio del contraddittorio trae infatti vita dalla dialettica e risponde a una logica originaria che predilige ogni questione dibattuta rispetto a ulteriori aspetti
che non siano stati preventivamente posti in condizione di essere discussi. In questa prospettiva, dunque, l’effettiva possibilità di discussione deve essere garantita indipendentemente dalla fonte di acquisizione al processo del materiale cognitivo, e anche pertanto ove le questioni siano state introdotte in iudicio dal giudice stesso” (DANOVI)
Vi è di più: i poteri istruttori esercitabili ex officio, presuppongano una previa allegazione dei fatti da provare ad opera
delle parti, ovvero quanto meno una loro avvenuta acquisizione per effetto dell’istruttoria già espletata.
Sullo sfondo, evidentemente, è la problematica delle decisioni della c.d. terza via, che si pone allorchè il giudice si pronunci su questioni e su aspetti sulle quali non era stato preventivamente sollecitato il contraddittorio.
La giurisprudenza ormai riconosce che una tale decisione è
viziata, cfr. Cass. 9 giugno 2008, n. 15194, Giur. it., 2009, 910
L’esigenza di tutela del contraddittorio comporta quindi che
…In tutte le ipotesi in cui il giudice assuma d’ufficio mezzi di
prova, dunque, egli è tenuto a informare le parti delle proprie iniziative, consentendo a esse di interloquire sul punto. Da questo punto di
vista le parti devono sicuramente potere essere ammesse alla prova
contraria in relazione a tutti i mezzi istruttori officiosi (DANOVI)
Altra questione è quella dell’individuazione dei limiti temporali di esercizio dei poteri ufficiosi del giudice.
Si contrappongono qui due letture:
- i mezzi di prova ex ufficio possono essere disposti solo con
l’ordinanza di cui all’art. 187, 7° comma c.p.c., come indicato
dal tenore letterale delle norme (GRAZIOSI)
- il giudice è libero di esercitare in qualsiasi momento del
processo i propri poteri istruttori a fronte dei quali, la norma
cit. si limita a garantire l’esercizio del diritto di difesa, ne segue
che il giudice non è vincolato dalla decorrenza delle preclusioni istruttorie, operante per le sole parti (e fermo che queste
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dovranno essere poi rimesse in termini per la formulazione
della prova contraria).
6a) MEZZI ISTRUTTORI. LE INDAGINI DI POLIZIA TRIBUTARIA
La lege prevede - in materia di separazione e divorzio - speciali mezzi istruttori, che si cumulano, ovviamente, a quelli
propri del Gi per tutti i procedimenti.
In questa sede non sarà però trattato - come detto - quello
forse più peculiare, l’esame dei minori.
È poi appena il caso di ricordare che grandissima rilevanza
conoscitiva avrà, anche per il Gi, la possibilità di disporre la
comparizione personale dei coniugi, al fine di procedere al loro
interrogatorio libero, ormai consentito (non imposto) dalle generali norme processuali.
Le nuove norme hanno dimostrato attenzione all’esigenza
di ricostruire nel modo più preciso possibile “le risorse economiche dei genitori”, al fine di tutelare l’interesse del minore ad
ottenere un contributo proporzionale al loro reddito reale, e
non a quello dichiarato, come d’altronde espressamente previsto dall’art. 155, 4° comma c.c..
Particolare rilievo ha a tal fine l’art. 155, 6° comma, c.c., introdotto dalla l. 54\2006 e quindi applicabile anche al divorzio,
secondo cui “ove le informazioni di carattere economico fornite dai
genitori non risultino sufficientemente documentate, il giudice dispone
un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto
della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi”
La norma trova riscontro negli artt. 706, 3° comma, c.p.c. e
all’art. 4, 6° comma, l. div. cit., circa l’allegazione ai ricorsi introduttivi delle dichiarazioni dei redditi e, soprattutto, nell’art.
5, 9° comma l. div. (applicabile alla separazione ex art. 23 cit.)
secondo cui “in caso di contestazione il Tribunale dispone indagini
sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita, valendosi, se
del caso, anche della polizia tributaria”
Mentre tale ultima norma ha portata generale, e vale anche
per la determinazione dell’assegno per il coniuge economicamente più debole, la prima è espressamente limitata ai provvedimenti relativi al mantenimento dei figli.
Non casualmente l’art. 5 l. div. è riferito ai coniugi, mentre
l’art. 155 cit. richiama “i genitori” (e d’altronde trova applicazione anche per i figli di genitori non coniugati).
Beninteso, la nuova disposizione trova applicazione anche a
tutela dei figli maggiorenni ma non autosufficienti, al fine
della determinazione dell’assegno in loro favore, ex art. 155quinquies c.c.
“È infatti evidente che il quantum di tale assegno non potrà che essere stabilito in base ai criteri indicati dall’art. 155 c.c., con l’ausilio
dei medesimi strumenti” (LUPOI)
Ne segue che la norma divorzile non è più applicabile alle determinazioni patrimoniali relative ai figli, così come d’altronde
- quanto ai rapporti patrimoniali tra i coniugi, specie se senza figli - non potranno svolgersi indagini anche rispetto ai soggetti
terzi (ma è evidente che, quando si pone la questione del mantenimento sia dei figli che del coniuge economicamente più debole, quest’ultimo finirà per avvantaggiarsi delle indagini di più
ampio campo disposte in favore dei primi).
Ovviamente, comunque, occorre evitare indagini meramente esplorative, anche perché occorre evitare che il giudice
si trasformi in una sorta di organo inquirente.
A tal fine, le indagini andranno disposte, essenzialmente,
allorchè risulti una significativa discrasia tra il reddito dichiarato e quanto sia emerso in giudizio, anche a livello indiziario,
circa il tenore di vita tenuto in costanza di matrimonio, ed in
generale la situazione patrimoniale della famiglia.
“È in questi casi che… le informazioni economiche fornite dai genitori non appaiono sufficientemente documentate, ed è perciò legittimo il sospetto che il patrimonio e\o il reddito di uno dei genitori
siano stati intenzionalmente occultati” (GRAZIOSI)
L’accertamento demandato alla PT dovrà poi essere circoscritto all’accertamento dei fatti allegati dalle parti: quindi il
quesito da porre alla PT dovrebbe essere formulato nel modo
più possibile analitico, quanto alla individuazione delle circostanze da sottoporre a verifica.
DOSSIER
Così, ad s., quando deve procedersi ad indagini bancarie il
quesito dovrebbe indicare il periodo di riferimento, e riguardare l’acquisizione delle schede di movimentazione dei c.c.
bancari e\o estratti conto di carte di credito.
Le indagini dovrebbero essere poi riferite all’area territoriale
dove il soggetto concentra i suoi interessi economici.
Beninteso, si tratta di un mezzo istruttorio che rientra nei
poteri ufficiosi del giudice; pertanto da un lato, indubbiamente,
attesane anche l’invasività, dovrà farsene ricorso quando il
materiale probatorio acquisito non è univoco o non attendibile, dall’altro però il Giudice potrà disporre indagini di PT al limite anche in assenza di contestazioni delle parti, quando vi
è comunque l’esigenza di verificare la situazione patrimoniale
dei coniugi, nell’interesse dei figli.
Non va trascurato, infine, che il richiamo al “giudice” da
parte dell’art. 155 cit. rende indiscutibile la competenza a provvedere del Gi, consentendo così di superare i dubbi posti dall’art. 5, 9 l. div. cit., che - come detto - richiama il “tribunale”.
6b) LA POSIZIONE DEI SOGGETTI TERZI
La previsione di indagini anche riguardo terzi, di cui alla
norma in esame, è di grande rilievo, in quanto consente al giudice di fronteggiare le (nella pratica ricorrenti) operazioni di
intestazione patrimoniale fittizia a soggetti compiacenti o a
società fiduciarie di diversa natura: anzi, la stessa esistenza
della norma potrebbe valere a disincentivare tali pratiche.
È così derogata la previsione dell’art. 24 d.p.r. 196\2003, c.d.
codice della privacy, che vieta il trattamento dei dati personali
senza il consenso degli interessati.
Sorge però l’esigenza di tutela del terzo destinato a subire
un accertamento nell’ambito di un giudizio cui è estraneo, le
cui conseguenze però si produrranno sulla sua sfera patrimoniale, quanto all’accertamento fiscale.
Le indagini in oggetto andranno allora disposte, in una ottica
di equo contemperamento delle esigenze contrapposte, allorché vi siano elementi presuntivi da cui si desuma il carattere
fittizio dell’intestazione ad una persona di beni o di redditi:
Tale è il caso, frequente, “di occultamento di redditi, provenienti
dall’attività di impresa esercitata formalmente dalla parte fino all’insorgere della crisi matrimoniale ed improvvisamente cessata (attraverso la cessione simulata della quota di partecipazione societaria
o la cancellazione della ditta individuale cui segue per esempio l’intestazione della stessa al nuovo convivente della parte) o ancora la di-
sponibilità… di beni mobili registrati di lusso, nascosta dalla formale
intestazione degli stessi alla società nella quale la parte risulti avere
interesse” (NAPOLITANO)
7) ULTERIORI POTERI ISTRUTTORI DEL GI
Il Gi (ma già il presidente) può poi sicuramente avvalersi
della previsione di cui all’art. 210 c.p.c., e quindi domandare
l’esibizione di documenti a privati (es. istituti bancari), ed informazioni a terzi, in genere di carattere patrimoniale, ad es. al
datore di lavoro delle parti.
Si tratta di mezzi istruttori ammessi dalla giurisprudenza.
Sempre con riferimento alle questioni patrimoniali, poi, il
Gi ben può disporre una Ctu contabile: “essa appare opportuna,
onde evitare inutili appesantimenti dell’istruttoria, solo quando debbano essere accertate situazioni patrimoniali molto complesse”.
Le esigenze preminenti di tutela dei minori, da un lato, e gli
ampi poteri d’ufficio del Gi, dall’altro, hanno fatto ritenere che
sia avvenuta una sorta di «tipizzazione» di prove altrimenti
atipiche, vale a dire le relazioni ed informative (es. dei servizi
sociali) pur formate al di fuori del giudizio
“Quanto al loro possibile utilizzo, è innegabile che si tratti di moduli diversi da quelli tradizionali, e questo significa che occorre una
qualche flessibilità in ordine alla disciplina applicabile… Diviene in
ogni caso fondamentale che, anche laddove il contraddittorio sia mancato nel momento di formazione della prova, lo stesso possa correttamente esplicarsi in ordine al suo risultato. In questo modo, la funzione precipua di garanzia rimane comunque rispettata, nella misura
in cui il contraddittorio si realizzi anteriormente all’assunzione del
provvedimento da parte del giudice, nel rispetto dell’inviolabile diritto di difesa delle parti” (DANOVI)
8a) L’ART. 709 TER C.P.C., IN GENERALE
L’art. 2, 2° comma l. 54\2006 ha introdotto l’art. 709-ter c.p.c.,
disposizione di sicuro rilievo ma anche fonte di rilevanti problemi interpretativi, in primo luogo a causa della pessima tecnica legislativa, che di fatto ne pregiudicano l’applicazione
operativa.
L’art. 709-ter c.p.c. ha la funzione (anche come deterrente)
di indurre i genitori, direttamente o indirettamente, ad adempiere agli obblighi posti dall’autorità giudiziaria, introducendo
una ampia possibilità sia di interpretazione e di modifica dei
provvedimenti in atto, sia di previsione di sanzioni a carico del
genitore inadempiente.
luglio-agosto 2010 | Avvocati di famiglia | 35
DOSSIER
La norma prevede infatti due procedimenti, interferenti ma
non pienamente coincidenti.
Da un lato vi sono le controversie sull’esercizio della potestà genitoriale e sulle modalità in atto di affidamento, a fronte
di incertezze derivanti dallo stesso provvedimento o dal rifiuto
di uno o di entrambi i genitori di darvi attuazione. Rispetto a
tali fattispecie, il giudice ha una potestà determinativa ed attuativa “solutoria”: egli risolve le controversie insorte, adottando la soluzione che, nel caso concreto, reputa opportuna: dà
i provvedimenti opportuni, recita la norma in oggetto.
Con riferimento alla potestà genitoriale l’attività del giudice
richiama l’ambito tradizionale in cui si svolgeva, ai sensi dell’art. 337 cod. civ., l’attività di vigilanza del Giudice tutelare;
del pari, in caso di controversia sulle modalità di affidamento,
il giudice “interpreta” o specifica, ovvero attua, i provvedimenti
in atto (es., la individuazione concreta dei giorni in cui i minori restano con l’uno o l’altro genitore durante le vacanze
estive).
In termini più generali, siffatto procedimento integra - appunto sotto il profilo processuale - l’art. 155, 3° comma nuovo
testo cod. civ.
Ne deriva, rispetto all’assetto previgente, un notevolissimo
rafforzamento dei poteri del giudice, che - in sostanza - si sostituisce ai genitori nell’adozione di statuizioni di rilievo che
questi non sono in grado di adottare concordemente.
Si è subito posta la questione del coordinamento con il potere di vigilanza del giudice tutelare sull’osservanza delle condizioni disposte da Tribunale sull’esercizio della potestà e per
l’amministrazione dei beni, di cui all’art. 337 c.c.
Certamente lo spazio di intervento del GT è ormai del tutto
residuale: si è così ipotizzata la stessa tacita abrogazione dell’art. 337 cit. (DOSI).
Dall’altro lato però vi sono le controversie che si riferiscono
a condotte (anche omissive) risolventesi in gravi inadempienze, o in un (rischio di) pregiudizio per i minori, o - infinecomportino un ostacolo al corretto svolgimento dell’affidamento (ma il pregiudizio per il minore costituisce, a ben vedere, il presupposto unificante per l’individuazione della fattispecie): il relativo accertamento integra il secondo procedimento sopra richiamato.
In tale ipotesi il giudice - anche d’ufficio - può modificare i
provvedimenti in vigore, evidentemente perché inadeguati
proprio in ragione dei gravi eventi pregiudizievoli per il minore
sopra richiamati, nonché - e per quanto qui interessa soprattutto - può adottare le misure tipiche (non più innominate,
quindi) previste dall’art. cit.
Qui il potere di intervento del giudice è, anche punitivo\sanzionatorio, che però non è fine a se stesso, in quanto è comunque finalizzato alla concreta attuazione delle misure concernenti l’affidamento.
La giurisprudenza si è posta ampiamente la questione della
applicabilità d’ufficio, o solo su domanda di parte, delle misure previste dall’art. cit.
8b) COMPETENZA
In questa sede sarà però affrontato un solo problema: chi è
il giudice competente ad adottare le misure in oggetto, e quale
è la forma del provvedimento?
La norma si limita ad affermare, quanto al primo profilo, che
provvede il giudice del “procedimento” in corso.
Si tratta, evidentemente, del tribunale per i minorenni con
riferimento ai figli naturali, il collegio del tribunale in caso di
controversie ex art. 710 c.c. e 9 l. div (successive alla separazione o al divorzio (e ovviamente in sede di decisione della separazione e del divorzio), come già rilevato; ciascun giudice segue il rito che gli è proprio (ivi compreso quanto all’intervento
obbligatorio del PM), anche quanto alla forma del provvedimento (decreto, sentenza), cfr Trib. Napoli 27 febbraio 2007,
Foro it. 2007, I, 1610.
La questione si pone in termini ben più problematici con riferimento al’emanazione dei provvedimenti in parola in pendenza dei procedimenti di separazione e di divorzio.
36 | Avvocati di famiglia | luglio-agosto 2010
Chi è competente, il giudice istruttore o il collegio?
Si sono manifestati almeno due diversi orientamenti, attesa
la riserva di collegialità sottesa alle cause di famiglia:
- competenza del collegio, con sentenza o con decreto reclamabile ex art. 739 c.p.c.
- competenza del Gi con ordinanza
A favore della competenza del collegio si è richiamato l’art.
24 Cost., che imporrebbe per i diritti soggettivi una decisione
a cognizione piena, con provvedimenti idonei al giudicato.
Giudice del procedimento in corso - quindi - è quello del
merito, appunto il Collegio.
Per alcuni - quindi - i provvedimenti in oggetto potrebbero
essere contenuti in una sentenza parziale (impugnabile nei
modi ordinari), emessa però congiuntamente ad una ordinanza di modifica dei provvedimenti (OBERTO); altri invece reputano che la soluzione sia piuttosto quella dell’adozione delle
misure in parola con decreto, ex art. 737 c.p.c., integrandosi al
riguardo un sub-procedimento autonomo, contrassegnato dall’urgenza del provvedere, con carattere di volontaria giurisdizione contenziosa.
Alla stregua di tale orientamento non sarebbe invece configurabile una competenza a provvedere del Gi, in quanto - così
opinando - si darebbe luogo ad una lettura abrogante dell’at.
709-ter c.p.c., non esistendo mezzi di impugnazione dei provvedimenti del Gi, mentre la nuova norma ammette espressamente rimedi impugnatori, pur non precisando quali (si è
detto ovviamente che la tesi della non impugnabilità dei provvedimenti del Gi è tutt’altro che univoca), così PADALINO
In tal senso parte della giurisprudenza:
“In tema di separazione giudiziale dei coniugi il giudice legittimato
all’adozione dei provvedimenti opportuni volti a dare soluzione alle
controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà
e alle modalità dell’affidamento dei figli minori, anche nel corso del
procedimento è il tribunale in composizione collegiale e non il giudice
istruttore”, Trib. Pisa, 19 dicembre 2007, Foro it., 2008, I, 1689
Non manca una tesi intermedia che afferma la competenza
del Collegio, in corso di causa, ma solo quanto all’applicazione
delle sanzioni; ciò sul presupposto che queste sono misure definitive, mentre il Gi adotta solo provvedimenti temporanei ed
urgenti, tra cui appunto quelli interpretativi e di risoluzione
delle controversie (CEA, LUPOI).
Prevale però, in dottrina come in giurisprudenza, l’orientamento contrario, pur variamente articolato, favorevole alla
competenza del Giudice istruttore (non anche del presidente
in sede di udienza presidenziale di divorzio).
Tale opzione muove dal testo stesso della norma, che come
detto - prevede l’adozione delle misure anche “congiuntamente” alle statuizioni di modifica dei provvedimenti in atto
sull’affidamento, statuizioni che in corso di causa competono
senza dubbio alcuno al Gi.
Questi, d’altronde, è competente a provvedere anche sull’istanza di risoluzione delle controversie di cui all’art. in parola.
Di contro alcuna norma consente di fondare una competenza collegiale riguardo ai provvedimenti di cui alla norma
cit.
La competenza del Gi si risolve anche in una maggiore efficienza ed effettività del sistema, attesa la maggiore rapidità di
intervento del Gi rispetto al Collegio, ed atteso che egli è il soggetto che meglio conosce la situazione familiare, potendo valutare con immediatezza l’idoneità e l’opportunità di misure e
sanzioni.
Le misure - si è osservato - devono intervenire al momento
dell’inottemperanza, non a quello, che può essere molto successivo, della decisione; né ha senso prevedere che vengano
adottate da un organo diverso da quello che ha il potere di modificare i provvedimenti in atto.
In tal senso si sta - come detto - orientando la giurisprudenza.
Resta poi il problema delle interferenze con le istanze di
modifica\revoca ex art. 709, 4° comma c.p.c. cit., atteso del resto che - ai sensi dell’art. 709-ter cit., può farsi anche luogo alla
modifica dei provvedimenti in atto.
GIURISPRUDENZA CIVILE
Segue da pag. 28
La censura è infondata.
La Corte territoriale ha evidenziato l’insussistenza
della prova dell’accordo simulatorio in ordine all’acquisto dei suddetti immobili per la mancata produzione in giudizio da parte del P. dell’atto contenente la controdichiarazione sottoscritta dalle parti
in ordine all’effettivo soggetto acquirente di tali
beni; orbene tale autonoma “ratio decidendi”, non
oggetto di impugnazione da parte del ricorrente, è
del tutto idonea a sostenere il convincimento
espresso dal giudice di appello, con conseguente irrilevanza delle considerazioni contenute nella sentenza impugnata in ordine alla mancata replica da
parte dell’attuale ricorrente alle istanze istruttorie
non ammesse nel primo grado di giudizio.
Con il quarto motivo il P., denunciando violazione
e falsa applicazione di norme di diritto nonché contraddittoria motivazione, censura la sentenza impugnata per aver respinto parzialmente la domanda
di restituzione delle somme versate formulata dall’esponente in via subordinata sulla base di erronei
presupposti, ritenendo cioè che il versamento di tale
somme potesse essere qualificato come donazione
remuneratoria ovvero come adempimento di una
obbligazione naturale; il ricorrente sostiene sotto un
primo profilo l’inconfigurabilità come donazione remuneratoria della dazione delle suddette somme
per l’insussistenza sia del requisito della forma pubblica sia di motivi di riconoscenza da parte del preteso donante o di speciali meriti da parte dell’asserita donataria; inoltre non ricorrevano neppure i requisiti dell’obbligazione naturale, cioè di un dovere
morale o sociale in rapporto alla valutazione corrente nella società, né del verificarsi dell’adempimento spontaneo di tale dovere con una prestazione avente carattere di proporzionalità ed adeguatezza in relazione a tutte le circostanze del caso.
Con il quinto motivo il P., denunciando violazione
e falsa applicazione dell’art. 219 c.c., assume che il
giudice di appello ha accolto la domanda dell’esponente proposta in via subordinata per la restituzione
di somme di denaro limitatamente a quattro assegni
bancari tratti sulla BNL filiale di Monza ex art. 2041
c.c., ed ha ritenuto l’inapplicabilità dell’istituto dell’indebito arricchimento per l’ulteriore importo richiesto di euro 192.119,22 per la mancata prova che
tale denaro fosse appartenente in via esclusiva all’esponente; il ricorrente evidenzia l’erroneità di tale
assunto che non ha tenuto conto della normativa che
regola i rapporti patrimoniali intercorrenti tra le parti
con conseguente applicazione dell’art. 219 c.c. in base
al quale i beni mobili (comprese quindi le somme di
denaro) di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la
proprietà esclusiva risultano di proprietà indivisa per
pari quota di entrambi i coniugi.
Le enunciate censure, da esaminare contestualmente per ragioni di connessione, sono fondate.
La Corte territoriale ha condiviso il convincimento
del giudice di primo grado in ordine alla mancata
prova da parte del P. della proprietà esclusiva in proprio favore delle somme di denaro destinate all’acquisto, alla manutenzione, alla ristrutturazione ed
ai miglioramenti degli immobili suddetti - fatta eccezione per la somma di euro 14.980,00 - non
avendo per un verso l’appellante fornito alcuna indicazione circa i mezzi finanziari utilizzati per i pagamenti, ed essendo emerso d’altro canto che anche la C. aveva partecipato, sia pure in misura minore, al soddisfacimento delle esigenze familiari ed
alla formazione delle riserve finanziarie costituenti
la provvista degli investimenti successivi.
Orbene tale premessa, se da un lato spiega il mancato accoglimento della domanda di restituzione della
totalità della somma di denaro richiesta dal P., dall’altro è inidonea a comprendere le ragioni per le quali la
domanda stessa non è stata accolta limitatamente
alla metà dell’intero importo, atteso che le considerazioni espresse dal giudice di appello in ordine al concorrente contributo finanziario della C. alla costituzione del patrimonio familiare dei suddetti coniugi
avrebbe dovuto coerentemente condurre alla conclusione di ritenere, in assenza di specifiche prove di diverso segno, la sussistenza di una situazione di comproprietà tra le parti in ordine al denaro in questione;
in tal senso appare conferente il richiamo del ricorrente all’art. 219 secondo comma c.c. che, con riferimento alle ipotesi di separazione di beni tra i coniugi
(come nella fattispecie, vedi pag.5 della sentenza impugnata), sancisce una presunzione semplice di comproprietà per i beni mobili dei quali nessuno di essi
sia in grado di dimostrare la proprietà esclusiva.
Né tali conclusioni possono essere infirmate dall’ipotizzata riferibilità della dazione delle suddette
somme da parte del P. alla donazione remuneratoria
od all’adempimento di una obbligazione naturale,
posto che il richiamo alternativo a tali istituti è rimasto su di un piano meramente astratto e quindi
non corroborato da alcun elemento probatorio.
Alla luce di tali argomentazioni si impone quindi,
in sede di rinvio, un riesame di questo profilo della
controversia.
(omissis)
In definitiva la sentenza impugnata deve essere
cassata in relazione ai motivi accolti, e la causa deve
essere rinviata anche per la pronuncia in ordine alle
spese del predente giudizio ad altra sezione della
Corte di Milano.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, accoglie il quarto ed il
quinto motivo del ricorso principale, rigetta gli altri,
dichiara assorbito il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa anche per la pronuncia sulle spese del
presente giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Milano.
luglio-agosto 2010 | Avvocati di famiglia | 37
GIURISPRUDENZA CIVILE
IL PUNTO DI VISTA
di GIANFRANCO DOSI
AVVOCATO DEL FORO DI ROMA
Alla ricerca della causa perduta… La salvezza sta nell’art. 219 c.c.
La sentenza con cui la seconda sezione della Cassazione risolve il contenzioso tra due coniugi in separazione dei beni è emblematica di come in seguito
ad attribuzioni patrimoniali tra coniugi sia sempre
in agguato il tema dell’ammissibilità delle pretese
restitutorie.
Nella fattispecie - a dire il vero un po’ semplicisticamente ricostruita nella sentenza - un coniuge in
regime di separazione dei beni aveva intestato nel
corso del matrimonio all’altro un immobile e, dopo
la separazione, come per buona prassi, cerca di rientrare nella titolarità del bene ceduto. La pretesa restitutoria si fonda verosimilmente sulla natura fiduciaria dell’intestazione. Si tratta di una simulazione relativa (interposizione fittizia) e la giurisprudenza inesorabilmente richiede come unica prova
valida la controdichiarazione scritta tra i coniugi che
a quell’operazione ineriva l’obbligo di restituzione
dell’immobile. Poiché la controdichiarazione scritta
nello specifico non c’è, il marito perde la causa e il
bene resta nella proprietà della moglie.
Il marito non si perde d’animo e dopo aver perso
la casa cerca di recuperare quanto meno un po’ di
denaro. Sembra di capire che la moglie detenesse da
qualche parte, forse in un conto corrente bancario,
una disponibilità finanziaria che il marito dichiara
di aver egli provveduto a costituire, di quasi 200.000
euro destinati “all’acquisto, alla manutenzione, alla
ristrutturazione ed ai miglioramenti degli immobili”.
Il marito sostiene che si tratta di denaro suo mentre
la moglie, resistendo alle pretese del coniuge, dichiara che si tratta di una donazione remuneratoria
o di una attribuzione fatta in esecuzione di un dovere morale o sociale del marito e quindi irripetibile
come obbligazione naturale. Giochi di parole perché
i giudici di merito hanno buon gioco nel negare per
mancanza di prova sia la natura di donazione remuneratoria sia quella, per la verità un po’ audace,
della natura di obbligazione naturale dell’attribuzione.
Una donazione remuneratoria è pur sempre donazione e come tale necessiterebbe dell’atto pubblico, nella specie inesistente. L’inquadramento
come “obbligazione naturale” di una elargizione non
ha molto senso tra coniugi dal momento che una attribuzione di denaro o ha una causa specifica oppure è espressione del dovere di solidarietà economica previsto nell’art. 143 cc. Non è dato un terzo
inquadramento plausibile invece tra conviventi
more uxorio.
La soluzione sta proprio nell’art. 219 c.c. Si tratta
della norma più qualificante del regime di separa38 | Avvocati di famiglia | luglio-agosto 2010
zione dei beni. Dove è molto evidente l’influsso del
principio primario di solidarietà (art. 143 c.c.). I giudici avevano accertato che né il marito né la moglie
erano riusciti a dare la prova che quel denaro fosse
di propria spettanza. Perciò hanno fatto applicazione della regola, appunto, indicata nell’art. 219 c.c.
in base alla quale - in deroga al principio processuale generale secondo cui chi vuole vincere una
causa deve la prova dei fatti che costituiscono la
base della sua pretesa - quando nessuno dei due coniugi riesce provare che un certo bene è suo non
perde la causa ma divide il bene con l’altro. Una soluzione che non avrebbe senso se non vi fosse, come
detto, l’influsso del principio solidaristico primario
familiare.
La seconda sezione della Cassazione applica questo principio e annulla la sentenza della Corte d’appello che non ne aveva tenuto conto.
L’interessato che ricorre
contro una decisione di
interdizione chiedendo
l’amministrazione di
sostegno non deve
necessariamente indicare
il nominativo della
persona che dovrebbe
ricoprire l’incarico
Cass. sez. I, 1 marzo 2010, n. 4866
Presidente Maria Gabriella Luccioli
Relatore Stefano Schirò
In mancanza di indicazioni del ricorrente ovvero in
presenza di gravi motivi, spetta al giudice individuare
la persona incaricata della funzione di
amministrazione di sostegno
1. Con sentenza n. 1721/07 del 12 aprile 2007 la
Corte di appello di Roma rigettava l’appello proposto
da D.L.V. avverso la sentenza del Tribunale di Roma
che, in accoglimento della richiesta del Pubblico Ministero, aveva dichiarato la sua interdizione.
A fondamento della decisione la Corte di appello
di Roma così motivava:
1.a. Dalle consulenze tecniche espletate in primo
e in secondo grado era emerso che il grado di limitazione della capacità di intendere e di volere del
D.L. era tale da giustificare la sua interdizione legale
a norma dell’art. 414 c.c., non sussistendo comun-
GIURISPRUDENZA CIVILE
que gli estremi per l’applicazione nei confronti dello
stesso D.L. dell’istituto della inabilitazione, né di
quello dell’amministrazione di sostegno; sotto il
primo profilo entrambe le consulenze espletate
d’ufficio erano giunte alla medesima motivata conclusione sul piano clinico, rilevando che il D.L. era
affetto da un disturbo mentale grave e cronico, individuato dal primo consulente in una forma di
“schizofrenia disorganizzata con impoverimento
della personalità” e dal secondo in un “disturbo
schizoaffettivo misto”, tale da costituire per l’interessato severo impedimento alla cura dei propri bisogni e alla gestione dei propri interessi; in particolare il secondo consulente aveva ben illustrato la
funzionalità del provvedimento interdittivo non
solo alle esigenze di tutela e di oculata gestione
delle risorse patrimoniali del D.L., ma anche a quelle
di contenimento materiale e psicologico del paziente, rappresentate dai sanitari del Centro di Salute Mentale che lo aveva in carico e che erano i soli
a occuparsi della cura della sua persona, sia sul
piano dell’igiene personale, che delle sue necessità
terapeutiche, versando il paziente medesimo in
“scadute condizioni generali di salute, notevolmente
in sovrappeso”, oltre che trascurato nella persona,
tanto da indurre il consulente a segnalare la necessità di “un più efficace controllo del peso”, di “un
controllo costante della pressione”, nonchè di “una
attenta valutazione del trofismo degli arti inferiori”;
1.b. proprio tali esigenze, unitamente alla gravità
dell’infermità da cui era affetto il D.L. ed alle conseguenze di tale infermità sulla sua capacità di gestire
la propria vita personale e di relazione, inducevano
ad escludere la sussistenza delle condizioni di parziale capacità di intendere e di volere costituenti il
presupposto per una pronuncia di inabilitazione;
non ricorrevano, peraltro, neppure i presupposti per
l’applicazione dell’amministrazione di sostegno,
prospettata dalla difesa dell’appellante nelle memorie autorizzate, in quanto lo scopo precipuo di
tale istituto, volto ad affiancare e sostenere la persona nella cura dei suoi reali bisogni quotidiani e
non solo a sostituirla nella gestione dei suoi interessi patrimoniali, rendeva necessario, da un lato,
che le condizioni dell’eventuale beneficiario fossero
tali che egli stesso chiedesse personalmente o
quanto meno accettasse il sostegno, dall’altro che
fosse già individuata, o almeno individuabile, la persona o le persone che potessero in concreto esercitare il mandato eventualmente loro conferito; nel
caso di specie, invece, l’appellante neppure aveva indicato la persona da nominare, né i concreti bisogni
che l’amministratore di sostegno, meglio del tutore,
avrebbe potuto aiutare a soddisfare, mentre non era
dato comprendere l’interesse dei figli alla corretta
gestione degli interessi patrimoniali del padre, che
non fosse già tutelato dall’interdizione e dall’apertura della tutela; era anche emersa la inidoneità dei
più stretti familiari del D.L. a farsi carico dei suoi bisogni concreti e non solo della gestione delle sue risorse economiche.
2. Avverso tale sentenza D.L.V. ricorre per cassazione sulla base di tre motivi.
(omissis)
1. Con il primo motivo il D.L. - denunciando violazione degli artt. 404, 405, 406, 407, 408, 409 e 410 c.c.
- lamenta che la Corte di appello non abbia ritenuto
sussistenti i presupposti per l’applicazione nei suoi
confronti della misura dell’amministrazione di sostegno, senza tener conto delle importanti novità introdotte dalla L. n. 6 del 2004 - che hanno configurato l’interdizione come istituto di carattere residuale ed hanno introdotto altre misure di protezione destinate a limitare meno pesantemente l’autonomia e la libertà del soggetto debole - e omettendo di considerare che egli non è affetto da un’infermità totale, o comunque grave e costante nel
tempo, e, dopo aver conseguito una laurea in storia
e filosofia, ha lavorato per circa venticinque anni
presso l’Istituto Nazionale di Statistica.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia ancora violazione degli artt. 404, 405, 406, 407, 408, 409
e 410 c.c., e si duole che la Corte di appello abbia
escluso la possibilità di far ricorso all’applicazione
dell’amministrazione di sostegno in mancanza di
una sua richiesta in tal senso e a causa della omessa
indicazione, da parte sua, del nominativo della persona che avrebbe dovuto fungere da amministratore
di sostegno e dei bisogni a cui tale amministratore
avrebbe dovuto fare fronte.
Con il terzo motivo il D.L. lamenta vizio di motivazione in ordine alla decisione della Corte di appello di ritenere non applicabile, nel caso di specie,
luglio-agosto 2010 | Avvocati di famiglia | 39
GIURISPRUDENZA CIVILE
la misura dell’amministrazione di sostegno e di confermare il provvedimento di interdizione disposto
dal Tribunale.
2. I tre motivi, che vanno opportunamente esaminati in modo congiunto essendo attinenti a questioni strettamente connesse, sono fondati e meritano accoglimento. Osserva il collegio che l’amministrazione di sostegno - introdotta nell’ordinamento dalla L. 9 gennaio 2004, n. 6, art. 3, - ha la finalità di offrire a chi si trovi nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri
interessi uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di
agire, distinguendosi, con tale specifica funzione,
dagli altri istituti a tutela degli incapaci, quali l’interdizione e l’inabilitazione, non soppressi, ma solo
modificati dalla stessa legge attraverso la novellazione degli artt. 414 e 427 c.c.. Rispetto ai predetti
istituti, l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno va individuato con riguardo non
già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o
di impossibilità di attendere ai propri interessi del
soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla
maggiore idoneità di tale strumento ad adeguarsi
alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua
flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa. Appartiene all’apprezzamento
del giudice di merito la valutazione della conformità
di tale misura alle suindicate esigenze, tenuto conto
della complessiva condizione psico-fisica del soggetto da assistere e di tutte le circostanze caratterizzanti la fattispecie (Cass. 2006/13584; v. Cass.
2009/9628).
La Corte di appello di Roma - nell’affermare la necessità che, ai fini dell’applicazione della misura
dell’amministrazione di sostegno, il destinatario del
provvedimento abbia chiesto o accettato detta misura e nell’escludere che nel caso di specie ricorressero i presupposti per l’applicazione di tale istituto,
in quanto l’appellante non aveva indicato la persona
che avrebbe dovuto essere nominata, nè i concreti
bisogni che l’amministratore di sostegno avrebbe
potuto aiutare a soddisfare meglio del tutore, osservando inoltre che non era dato comprendere quale
fosse l’interesse dei figli alla corretta gestione degli
interessi patrimoniali del padre che non fosse già
tutelato dagli effetti dell’interdizione e dell’apertura
della tutela e che si doveva comunque tener conto
della accertata inidoneità dei più stretti familiari del
D.L. a farsi carico dei suoi bisogni concreti e non solo
della gestione delle sue risorse economiche - non si
è uniformata ai principi in precedenza enunciati in
ordine ai presupposti per l’applicazione della misura dell’amministrazione di sostegno e si è invece
riferita ad elementi di fatto che, alla stregua dei
principi medesimi, non costituiscono ragioni idonee
per escludere nel caso concreto il ricorso all’applicazione di tale misura.
40 | Avvocati di famiglia | luglio-agosto 2010
2.1. Sotto il primo profilo, la Corte di appello, confermando l’interdizione del D.L. disposta dal Tribunale, non ha in alcun modo tenuto conto che, dopo
l’entrata in vigore della L. n. 6 del 2004, e nell’ambito delle misure di protezione delle persone prive
in tutto o in parte di autonomia, l’interdizione può
trovare applicazione al maggiore di età o al minore
emancipato, che si trovino in condizioni di abituale
infermità di mente che li renda incapaci di provvedere ai propri interessi, quando ciò sia necessario
per assicurare la loro adeguata protezione (art. 414
c.c.), dovendosi comunque perseguire l’obiettivo
della minore limitazione possibile della capacità di
agire, attraverso l’assunzione di provvedimenti di
sostegno temporaneo o permanente (L. n. 6 del 2004,
art. 1).
In particolare, la Corte di merito, disponendo l’applicazione nei confronti del D.L. della misura dell’interdizione, non ha in alcun modo valutato, come
sarebbe stato suo compito, la conformità dell’amministrazione di sostegno alle esigenze del destinatario, alla stregua della peculiare flessibilità dell’istituto, della maggiore agilità della relativa procedura applicativa, nonchè della complessiva condizione psico-fisica del soggetto e di tutte le circostanze caratterizzanti il caso di specie.
2.2. Sotto altro aspetto, non costituisce condizione
necessaria per l’applicazione della misura dell’amministrazione di sostegno la circostanza che il beneficiario abbia chiesto, o quanto meno accettato, il sostegno ed abbia indicato la persona da nominare,
come invece affermato dalla Corte di merito. Infatti
- indipendentemente dalla constatazione che nella
specie il D.L., come risulta anche dalla sentenza impugnata, già nel corso del giudizio di appello ha manifestato, tramite il proprio difensore, la propria disponibilità ad accettare tale misura - a norma dell’art. 406 c.c., nel testo introdotto dalla L. n. 6 del
2004, art. 3, comma 1, il ricorso per l’amministrazione di sostegno può essere proposto, oltre che dallo
stesso beneficiario, anche da uno dei soggetti indicati dall’art. 417 c.c., e dai responsabili dei servizi sociali e sanitari direttamente impegnati nella cura e
nell’assistenza della persona, qualora a conoscenza
di fatti tali da rendere opportuna l’apertura del relativo procedimento. Neppure rileva, ai fini dell’esclusione dell’applicazione della misura, il fatto che il beneficiario non abbia indicato la persona da nominare, atteso che, secondo il disposto dell’art. 408 c.c.,
in mancanza di tale indicazione, ovvero in presenza
di gravi motivi, l’amministratore di sostegno può essere comunque nominato dal giudice tutelare. Del
pari inconferenti sono i riferimenti da parte dei giudici di appello alla mancata indicazione, da parte del
beneficiario, dei concreti bisogni che l’amministratore di sostegno dovrebbe aiutare a soddisfare, o la
mancanza in capo ai figli di un interesse alla gestione del patrimonio del genitore, che non sia già
GIURISPRUDENZA CIVILE
tutelato dall’interdizione e dall’apertura della tutela.
Infatti, ai sensi dell’art. 405 c.p.c., comma 5, nn. 3 e 4,
è il giudice tutelare che, nel proprio decreto di nomina dell’amministratore di sostegno, indica l’oggetto dell’incarico, gli atti che lo stesso amministratore ha il potere di compiere in nome e per conto del
beneficiario e quelli che il beneficiario può compiere
solo con l’assistenza dell’amministratore, fermo restando che nell’applicazione della misura deve
aversi riguardo all’esigenze del beneficiario stesso,
alla cui cura e ai cui interessi deve essere esclusivamente orientata la scelta dell’amministratore di sostegno (art. 408 c.c., comma 1).
3. Le considerazioni che precedono conducono all’accoglimento del ricorso, e all’annullamento della
sentenza impugnata.
IL PUNTO DI VISTA
di MATILDE GIAMMARCO
AVVOCATO DEL FORO DI CHIETI
Spetta al giudice individuare l’amministratore di sostegno ed indicarne i poteri
Con la sentenza in esame la Corte torna ad occuparsi del tema della tutela dei soggetti svantaggiati
e dell’ambito di applicazione dell’amministrazione
di sostegno, rimarcando in modo chiaro ed univoco
il rapporto tra l’istituto in questione e l’interdizione
alla luce delle novità introdotte dalla l. n. 6 del 2004.
L’amministrazione di sostegno, ribadisce la Corte,
ha rappresentato e rappresenta uno strumento flessibile, che va ad affiancarsi a quelli tradizionali dell’interdizione e dell’inabilitazione, ed ha certamente
dato luogo ad una tutela delle persone incapaci a
provvedere ai propri bisogni, che ha messo gli istituti tradizionali, su richiamati, in una sorta di funzione residuale (cfr. Tribunale Venezia 13.10.2005;
Tribunale Modena 02.09.2005; Tribunale Bologna
3.10.2006).
Sottolinea, infatti, la Corte: “…la Corte d’Appello
confermando l’interdizione, non ha in alcun modo
tenuto conto che l’interdizione può trovare applicazione a coloro che si trovino in condizione di abituale infermità che li rende incapaci di provvedere
ai propri interessi, quando ciò sia necessario per assicurare la loro adeguata protezione, dovendosi comunque perseguire l’obiettivo della minore limitazione possibile della capacità di agire, attraverso
l’assunzione di provvedimenti di sostegno temporaneo o permanente.”(cfr. conforme Cass. civ. sez. I
12.06.2006 n. 13584, Cass. civ. sez. I, 22.04.2009 n.
9628 - ribadisce la necessità di uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di agire, giurispr. di merito Trib. Milano 21.08.2007; Tribunale Bari, 09.02.2008; Trib. Reggio Emilia 9.1.2007).
Soggetti destinatari di protezione, secondo la
legge del 2004, sono, infatti, non solo gli incapaci di
mente ma tutti i “deboli”, ossia, chiunque si trovi in
difficoltà nell’esercizio dei propri bisogni, e, per ciò
stesso lo strumento protettivo, dovrà essere modulato in base alle concrete esigenze del beneficiario
ricavabili anche d’ufficio da parte del giudice tutelare in sede di esame del beneficiario con la presenza del pubblico ministero. (sull’intervento necessario del pubblico ministero si veda Cass. civ. sez.
I 14.02.2008 n. 3708)
luglio-agosto 2010 | Avvocati di famiglia | 41
GIURISPRUDENZA CIVILE
Il provvedimento in esame prende in considerazione l’ulteriore aspetto dell’omessa indicazione
della persona che dovrebbe ricoprire l’incarico e l’indicazione dei bisogni cui dovrebbe fare fronte nonché il consenso del beneficiario all’applicazione dell’amministrazione, quali condizioni necessarie per
l’applicazione della misura (cfr. Corte Cost.
19/01/2007 n. 4).
Il principio ribadito dalla Corte, per il quale “in
mancanza di indicazioni ovvero in presenza di gravi
motivi, l’amministratore può comunque essere nominato dal giudice tutelare, non fa che rimarcare la
prevalente funzione di tutela dell’istituto ed interpretare in maniera non equivocabile i compiti del
giudice tutelare indicati negli artt. 404, 405 e 408 del
c.c.: spetta al giudice tutelare nominare l’amministratore di sostegno con proprio decreto, indicare
l’oggetto dell’incarico, fissare i poteri di intervento
nella gestione del patrimonio dell’incapace, indicare
gli atti che lo stesso amministratore ha il potere di
compiere in nome e per conto del beneficiario e
quelli che il beneficiario può compiere solo con l’assistenza dell’amministratore.
Il giudice, quindi, deve individuare la persona che
deve assumere l’incarico fissandone i relativi poteri
valorizzando al massimo la possibilità di autodeterminazione della persona svantaggiata.
Tutto questo importa, certamente, una maggiore
responsabilizzazione del giudice tutelare il quale
nell’emanare il decreto è tenuto a considerare e a
trasferire nel medesimo atto le misure concrete di
tutela non potendo certamente ammettersi che il
provvedimento si estenda a tutti gli atti.
42 | Avvocati di famiglia | luglio-agosto 2010
Nella scelta della persona che dovrà assumere
l’incarico, tenuto conto che l’amministrazione di sostegno può essere proposta, oltre che dallo stesso
beneficiario, anche da uno dei soggetti indicati dall’art. 417 c.c. e dai responsabili dei servizi sociali e
sanitari direttamente impegnati nella cura e nell’assistenza della persona, il giudice dovrà, nell’esercizio del suo potere discrezionale, valutare preventivamente le ripercussioni positive o negative
sull’efficacia della misura stessa, tenendo conto
esclusivamente, della cura e degli interessi della
persona del beneficiario. (Trib. Roma 19.02.2005)
Tanto è che il giudice tutelare nel valutare la fondatezza di una messa in opera di una amministrazione di sostegno che si annunci necessaria o
quanto meno raccomandabile per il bene ed il conforto dell’amministrato, dovrà utilizzare tutti gli accorgimenti utili a favorire anche il superamento
delle paure del beneficiario addirittura dando un
mandato di natura esplorativa volto a far comprendere allo stesso il senso e l’obiettivo dell’intervento
poiché la disponibilità emotiva e l’adesione costruttiva dell’amministrato costituiscono elementi preziosi per il buon funzionamento della misura ed il
giudice tutelare dovrà ricercarla con ogni mezzo.
Per cui toccherà al giudice tutelare accertare se
l’interessato ha designato in precedenza una persona di sua fiducia e valutare se la scelta a suo
tempo fatta possa essere rispettata. Questo perché
potrà discostarsi dalle indicazioni del beneficiario
solo ove ricorrano gravi motivi ovvero solo quando
sia evidente che tale indicazione non sia coerente
con le attuali esigenze di cura e protezione per ca-
GIURISPRUDENZA CIVILE
ratteristiche soggettive del designato o per circostanze obiettive che evidenzino l’inidoneità della
persona a svolgere l’incarico. (cfr. artt. 30, 351 e 352
c.c.).
Così come dovrà accertare se sia in grado di portare avanti l’incarico uno dei soggetti indicati dall’art. 408 c.c., oppure se non sia più opportuno scegliere per l’incarico una persona esterna alla cerchia
familiare e dei conoscenti. Tale ipotesi ricorre sia
quando il beneficiario non abbia familiari disponibili o in grado di assumere l’incarico, sia quando i
familiari sono in conflitto tra loro.
Qualora la persona sia terza al nucleo familiare si
potrà rivelare efficace la scelta di una persona indicata dagli stessi familiari come persona di loro fiducia.
Scaturisce, da quanto detto, che si tratta di poteri
ampi e flessibili funzionalizzati sempre all’interesse
del beneficiario perché, come ribadisce la Corte
nella sentenza in commento, l’ambito di applicazione va individuato non già con riguardo al diverso
e meno intenso grado di infermità o di impossibilità
di attendere ai propri interessi del soggetto carente
di autonomia, ma piuttosto alla maggiore idoneità
di tale strumento di adeguarsi alle esigenze di detto,
in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa (Cass. civ.
sez. I 12.06. 2006, n. 13584; Cass. civ. sez. I 22.04.2009
n. 9628)
E non si può non ricordare che nell’esercizio dei
suoi poteri il giudice deve saper ascoltare l’interessato, deve mirare a conoscere in primo luogo i suoi
bisogni e sulla base di questa presa d’atto elaborare
un corretto concetto di sostituzione e/o di affiancamento,
Il modo stesso di operare, a livello istruttorio, dovrà svolgersi attraverso risorse sottili cui deve accedere, mezzi culturali e metodologici, spesso riconducibili anche al di fuori delle strette previsioni ordinamentali, che ne farà un professionista calato
nella realtà obiettiva, emozionale e relazionale di
ogni singola persona.
I provvedimenti che emanerà dovranno avere una
loro specificità distanti dal punto di vista culturale
e tecnico da quelli interdittivi che nell’unicità della
misura, ingabbiano i destinatari in una dichiarata
incapacità applicabile a qualsiasi sofferente nell’indentica maniera, insuscettibile di qualsivoglia variazione.
Non si può non concludere che l’amministrazione
di sostegno, passata anche al vaglio di questa pronuncia della Suprema Corte, “è l’unica tutela che
tiene conto della pluralità di combinazioni umane,
della disomogeneità delle storie individuali perchè
ogni persona disagiata è disagiata a suo modo, ed il
giudice tutelare si troverà dinanzi alla necessità di
confezionare per ognuno un vestito personalizzato,
una protezione, quindi, che tende a definirsi come
una realtà attivata dal basso secondo le tracce fornite dal giudice più che dall’alto in forza delle previsioni codicistiche.” (Paolo Cendon - Amministratore di sostegno e giudice tutelare - Persona e danno
- settembre 2008) (Cass. civ. sez. I 29.11.2006 n. 25366;
Cass. civ. sez. I 11.07.2008 n. 19233).
Al padre avvocato spetta,
in alternativa ed in
sostituzione della madre,
l’indennità di maternità
Tribunale Alessandria, Sezione
Lavoro, 27 maggio 2010
Giudice dott.ssa Lippi
La Cassa Nazionale di Assistenza e Previdenza
Forense deve corrispondere al padre avvocato, in
alternativa ed in sostituzione della madre, l’indennità
di maternità prevista dall’art. 70 del Decreto
Legislativo 151/2001.
Motivi della decisione
L’art.70 D.lgs 151/2001 prevede che alle libere professioniste iscritte ad un ente che gestisce forme obbligatorie di previdenza di cui alla tabella D allegata
al T.U. 151/2001 è corrisposta un’indennità di maternità per i due mesi antecedenti la data del parto
e i tre mesi successivi alla stessa.
L’articolo è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, unitamente all’art.72, nella parte in cui
non prevede il principio che al padre spetti di percepire in alternativa alla madre l’indennità di maternità, attribuita solo a quest’ultima (Corte Costituzionale 11-14 ottobre 2005 n.385).
Non è in contestazione il fatto che il ricorrente sia
iscritto all’Albo del foro di Genova dal 1.1.1999 né il
fatto, che in data 24.9.2004 tempestivamente abbia
chiesto la liquidazione in suo favore dell’ indennità.
La questione giuridica da affrontare riguarda il riconoscimento della indennità anche al padre sulla
base di una interpretazione costituzionalmente
orientata delle disposizioni del T.U. 151/2001.
Obietta la Cassa Nazionale di Assistenza e Previdenza Forense che la sentenza n.385/2005 della
Corte Costituzionale si riferisce esclusivamente ai
casi di adozione e affido e non al parto naturale e
che il D.lgs. n.151/2001 ha testualmente riconosciuto
il diritto all’indennità esclusivamente al padre adottivo o affidatario che sia lavoratore dipendente. Inoltre evidenzia che nella sentenza n.385/2005 è precisato che “nel rispetto dei principi sanciti da questa
Corte rimane dunque riservato al legislatore il compito di approntare un meccanismo attuativo che
luglio-agosto 2010 | Avvocati di famiglia | 43
GIURISPRUDENZA CIVILE
consenta anche al lavoratore padre una adeguata
tutela”. Da quest’ultimo passaggio ricava che la pronuncia abbia natura additiva di principio e quindi
non abbia natura precettiva, implicando la necessità di un successivo intervento legislativo che la
renda applicabile.
In primo luogo si deve evidenziare che l’esigenza
di assicurare alla madre ed al bambino una speciale
adeguata protezione consacrata negli artt. 31 e 37
della Costituzione ha determinato un progressivo
ampliamento delle fattispecie tutelate, al culmine
del quale può essere collocata la legge n.379 del
1990, la quale sancisce il diritto delle libere professioniste ad una indennità in caso di maternità, di
adozione, di affidamento preadottivo e di aborto. I
passaggi legislativi fondamentali di questo processo
sono stati: la legge 30 dicembre 1971 n.1204 (tutela
della lavoratrice madre), la legge 29 dicembre 1987
n.548 (indennità di maternità delle lavoratrici autonome) e, infine la legge 11 dicembre 1990 n. 379 (indennità dì maternità per le libere professioniste).
Con la legge n.1204/1971 è prevista, tra l’altro,
l’astensione dal lavoro della lavoratrice dipendente
nei due mesi antecedenti la data presunta del parto
e nei tre mesi successivi la nascita del bambino,
quale diretta conseguenza del divieto imposto dalla
normativa al datore di lavoro dì adibire la stessa al
lavoro nel periodo indicato; durante l’astensione obbligatoria la lavoratrice ha diritto ad un’indennità
pari all’ottanta per cento della retribuzione.
Le successive leggi 548/1987 e 379/1990 prevedono
entrambe, rispettivamente per le lavoratrici autonome e per le libere professioniste, una indennità
per il periodo di maternità (comprendente due mesi
precedenti la data presunta del parto ed i tre mesi
successivi alla nascita del bambino) o in caso di adozione, affidamento preadottivo, di aborto spontaneo
o terapeutico.
Entrambe le leggi indicate non contengono alcun
riferimento ad un obbligo in base al quale, durante
i periodi precedente e successivo al parto considerati, le lavoratrici autonome e le libere professioniste si debbano astenere da ogni attività a tutela della
propria salute e di quella del bambino, limitandosi a
prevedere un’indennità “per i periodi di gravidanza
e puerperio”
Neppure nei lavori parlamentari preparatori della
legge n. 379/90 vi è alcun accenno ad una astensione
dal lavoro delle libere professioniste nei periodi di
gravidanza e puerperio, in cui è prevista l’indennità
di maternità.
Ciò consente di ritenere che l’indennità abbia natura di sostegno economico in un momento particolarmente delicato del nucleo familiare, e che per
la sua corresponsione non sia richiesta né l’astensione dal lavoro né la diminuzione del reddito.
Il parto naturale, l’adozione, l’affidamento sono
situazioni riconosciute meritevoli di tutela in con44 | Avvocati di famiglia | luglio-agosto 2010
siderazione della necessità che i genitori soddisfino
le esigenze primarie del bambino.
L’evoluzione legislativa, di cui si sono sopra evidenziati i passaggi, non consente di discriminare in
termini dì tutela il lavoro autonomo da quello subordinato.
Nella pronuncia n.385/2005 della Consulta si sottolinea la centralità della tutela del minore e l’attuazione della stessa attraverso la presenza delle figure genitoriali che assicurano il soddisfacimento
dei bisogni fisiologici e delle esigenze affettive e relazionali alle quali è collegato lo sviluppo della personalità.
È evidente perciò che non hanno ragione di essere
le distinzioni tra lavoratore dipendente e lavoratore
autonomo né tra adozione e parto naturale.
Il legislatore e la giurisprudenza costituzionale
hanno esteso la tutela prevista per la maternità e paternità biologica alla maternità e paternità adottiva
e i principi costituzionali che consacrano i diritti della
famiglia non possono che essere i medesimi.
Quanto alla difesa svolta dalla parte resistente in
ordine alla necessità di un intervento del legislatore
si osserva che le pronunce additive di principio contengono un principio di diritto che può orientare sia
l’azione del legislatore che l’attività interpretativa
del giudice.
Nel caso di specie il Giudicante ritiene di condividere l’orientamento di altri giudici di merito che
hanno aderito ad una interpretazione costituzionalmente orientata delle sopracitate norme.
In quest’ottica il diritto del ricorrente deve essere
pacificamente riconosciuto.
Atteso che la Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense è uno degli enti trasformati dal
D.lgs. n.509/94 in fondazioni in quanto non destinatari di finanziamenti pubblici non appare applicabile la norma di cui all’art.l6 VI c. L. n.412/1991. Infatti tale norma trova giustificazione nella misura
in cui assolve ad esigenze di finanza pubblica, esigenze che non riguardano la
fondazione Cassa Nazionale Previdenza Avvocati,
in quanto si tratta di un ente privato non destinatario di finanziamenti pubblici.
Il conteggio operato dalla parte ricorrente, supportato dalla documentazione sul reddito del ricorrente, non è stato contestato ed è immune da vizi.
Ne consegue la condanna della Cassa alla corresponsione della somma di € 4.937,33 oltre accessori
di legge.
Il pagamento delle spese segue la soccombenza.
P.Q.M.
visti gli artt.429,281 sexies cpc
accoglie il ricorso e per l’effetto condanna la Cassa
Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense a corrispondere al ricorrente la somma di € 4.937,33 oltre interessi e rivalutazione.
GIURISPRUDENZA CIVILE
IL PUNTO DI VISTA
di ANNA MARIA OCCASIONE
AVVOCATO DEL FORO DI GENOVA
Il tribunale di Alessandria conferma un orientamento
già fatto proprio dai giudici di merito
Il Tribunale di Alessandria (Sezione Lavoro, Giudice dott.ssa Lippi, sentenza 27/05/2010) con la recentissima suindicata decisione ha confermato l’indirizzo giurisprudenziale già tracciato da altri giudici di merito (Tribunale Termini Imerese, 2-4 novembre 2009 n. 1290 in Guida al Diritto, 6 marzo
2010, n. 10, pag. 72 e seguenti; Tribunale di Firenze,
20 giugno 2008, in commento su www.personaedanno.it) secondo cui al padre libero professionista (nella specie, avvocato) spetta, in alternativa ed
in sostituzione della madre, l’indennità di maternità
prevista dall’art. 70 del D. Lgs. 151/2001.
La vicenda, sorta nel 2004, prese inizio dalla richiesta della madre, anch’essa avvocato, di ottenere
l’indennità di maternità a seguito della recente nascita del figlio, istanza che peraltro venne respinta
dalla Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza
Forense per un asserito scollamento di date a fini
contributivi e retributivi.
Nel marzo 2008 il padre del piccolo, come accennato anch’egli avvocato, reiterò l’istanza diretta al
riconoscimento dell’indennità in sostituzione della
moglie, ma anche questa volta la Cassa respingeva
l’istanza sia in sede di Giunta Esecutiva che in sede
di reclamo.
Nell’aprile 2009, il padre adiva quindi con ricorso
il Tribunale di Alessandria, in funzione del Giudice
del Lavoro, al fine di ottenere giustizia in forza del
coacervo di norme (interne e comunitarie) e principi
espressi anche dalla Corte Costituzionale, posti a tutela della genitorialità e della centralità del minore.
Il Giudice piemontese ha accolto la tesi del ricorrente ed è quindi pervenuto al riconoscimento dell’indennità al padre, in forza di un’interpretazione
costituzionalmente orientata della sentenza della
Corte Costituzionale 11-14 ottobre 2005 n. 385 (di cui
un estratto può leggersi in Guida al Diritto, cit., pag.
75) che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale
degli artt. 70 e 72 del decreto, nella parte in cui non
prevedono che al padre spetti di percepire, in alternativa alla madre, l’indennità di maternità, attribuita solo a quest’ultima.
Compito non agevole quello del Tribunale di Alessandria, almeno prima facie, a fronte del fatto che la
suindicata decisione a livello costituzionale era
stata emessa in fattispecie ristretta di minori adottati o di affidamento preadottivo (nei primi tre mesi
dall’ingresso della famiglia) e che la dichiarazione
in parte qua di illegittimità, concludeva ritenendo
“comunque riservato al legislatore il compito di apportare
un meccanismo attuativo che consenta anche al lavoratore padre un’adeguata tutela”.
Il Giudice alessandrino supera, peraltro, entrambe
le questioni, ritenendo che il riconoscimento di parità espresso dalla Corte Costituzionale nella medesima sentenza 385/2005 debba estendersi anche al
parto naturale (in via paritaria rispetto alle fattispecie di cui sopra) e che la pronuncia stessa abbia portata precettiva, dovendo ritenersi il principio ivi
espresso possa e debba orientare sia l’azione del legislatore che l’attività interpretativa del giudice.
Nella motivazione della sentenza in commento, la
richiamata decisione della Corte Costituzionale,
viene quindi calata in un contesto normativo di progressione normativa interna volta a garantire l’esigenza primaria ed insopprimibile di assicurare alla
madre ed al bambino una speciale protezione, via via
concretatasi nelle leggi 30/12/1971 n. 1204 (tutela
della lavoratrice madre), 29/12/1987 n. 548 (istituzione
dell’indennità di maternità per le lavoratrici autonome) e 11 dicembre 1990 n. 379 (istituzione dell’indennità di maternità per le libere professioniste).
Contesto plasmato in sé di parità sotto ogni profilo
possa essere considerato, ove parto naturale, adozione, affidamento sono ritenute tutte situazioni meritevoli di tutela in considerazione della necessità che i genitori soddisfino le esigenze primarie del bambino, ove non
avrebbe alcuna ragione di essere la distinzione tra lavoratore dipendente e lavoratore autonomo, ove infine fuori di ogni luogo apparirebbe la separazione di
regime normativo tra la posizione materna e quella
paterna (ovviamente, sempre in alternativa tra di
loro), dovendosi ritenere i medesimi i principi costituzionali che consacrano la tutela della famiglia.
La decisione si inserisce, come accennato, in un
filone giurisprudenziale favorevole alla completa
parificazione di situazioni e posizioni, che hanno inteso condividere, con portata immediatamente precettiva, il principio della centralità della tutela del
minore nell’ambito della più ampia tutela della famiglia espresso dalla Corte Costituzionale con la più
volte richiamata sentenza n. 385/2005.
luglio-agosto 2010 | Avvocati di famiglia | 45
GIURISPRUDENZA CIVILE
Nella motivazione di quest’ultima, emessa in rapporto agli artt. 3, 29 secondo comma, 30 primo
comma e 31 Cost.) si sancisce l’illegittimità degli
artt. 70 e 72 del D.Lgs. 151/2001, ritenendoli letteralmente un vulnus sia del principio di parità di trattamento tra le figure genitoriali e fra lavoratori autonomi e
dipendenti, sia del valore della protezione della famiglia e
della tutela del minore, apparendo discriminatoria l’assenza di tutela che si realizza nel momento in cui, in presenza di un’identica situazione e di un medesimo evento,
alcuni soggetti si vedono privati di provvidenze riconosciute, invece, in capo ad altri che si trovano nelle medesime condizioni.
Per conchiudere in commento alla sentenza alessandrina, essa si fa a respingere anche la domanda
subordinata proposta dalla Cassa Forense di dichiarare non spettante il cumulo tra interessi e rivalutazione monetaria; il giudice ha infatti ritenuto la Cassa
Forense ente trasformato in fondazione ex D.Lgs n.
509/1994 non destinatario di finanziamenti pubblici,
per cui non trova applicazione invocazione la norma
di cui all’art. 16, VI comma della Legge 412/1991 (secondo cui “…l’importo dovuto a titolo di interessi è portato
in detrazione dalle somme eventualmente spettanti al titolare della prestazione a titolo di risarcimento del maggior
danno cagionatogli dalla diminuzione di valore del suo credito”) invocata dalla convenuta.
Nel suo più ampio contesto, la decisione del giudice piemontese, avvalla altre precedenti ed in apertura ricordate, a far data dalla giustamente definita
pionieristica sentenza del Tribunale fiorentino, che si
distingue per la dovizia di argomentazioni e approfondimenti in materia.
In particolare, il giudice di Firenze, richiama ad ulteriore sostegno della assoluta parità di posizioni tra
padre e madre liberi professionisti con riguardo alla
spettanza (sempre in alternativa tra loro) della indennità di cui trattasi, il dettame della normativa
comunitaria (Direttiva 96/34/CE del Consiglio del 3
46 | Avvocati di famiglia | luglio-agosto 2010
giugno 1996 contenente l’“Accordo quadro sul congedo parentale” recepita dal nostro ordinamento
dalla Legge 53/200 e dal successivo D. Lgs. 151/2001)
il cui fine era proprio quello di porre sulla stessa linea di meritevolezza le posizioni paterna e materna
nella cura del nascituro.
In questo ambito, il giudice fiorentino richiama
anche precedente sentenza della Corte Costituzionale, 179/1993 (anch’essa leggibile in estratto in
Guida al Diritto, cit. pag. 75) che giustifica ontologicamente la predetta parità genitoriale, in forza del
prevalente interesse del bambino, dovendosi superare – precisa la Corte - la rigida concezione della diversità dei ruoli dei due genitori ed invece incoraggiare e favorire la reciproca integrazione di ciascuno
di essi alla cura ed allo sviluppo fisico e psichico del
loro figlio.
Viene naturale, a questo punto, il richiamo alla più
recente Legge 08/02/2006 n. 54 sull’affido condiviso,
che ha sancito con portata legislativa il diritto del figlio minore alla bigenitorialità, da valersi in ogni
momento e circostanza della vita, sia in costanza di
rapporto (coniugale o di fatto) che nella successiva
fase di crisi, senza distinzioni di sorta, in un clima di
prioritaria parità di ruoli rispetto al minore, derogabile solo laddove vi sia un suo contrario interesse
come tale riconosciuto dal giudice.
Per quanto i principi di cui si è fatta portatrice la
legge sull’affido condiviso non siano stati espressamente menzionati nella citata giurisprudenza, essi
senza dubbio rafforzano ulteriormente il contesto
normativo già invocato dalla giurisprudenza di merito appena ricordata, che, ad avviso di chi scrive, ha
correttamente suffragato un’interpretazione costituzionalmente orientata della sentenza 385/2005
della Corte Costituzionale.
Sotto questo profilo, il Tribunale di Firenze cit. definisce soluzione obbligata quella di verificare anzitutto se sia consentita un’interpretazione (estensiva
o riduttiva) conforme a Costituzione delle norme da
applicare, prima di sollevare questione di legittimità, negando che nella specie debba eccepirsi dubbio in tal senso.
Di avviso opposto, vale tuttavia segnalare, la altrettanto recente decisione della Corte di Appello di
Venezia (sezione Lavoro, 28/05/2009, in www.avvocatidifamiglia.net) che invece ha sollevato questione
di costituzionalità in merito all’art. 70 del D.Lgs.
151/2001 con particolare riferimento alla diversa situazione tra lavoratrice autonoma e lavoratrice subordinata, essendo imposto solo a quest’ultima il
dovere di astensione dal lavoro, ciò incidendo sul regime di estensione dei diritti al lavoratore autonomo padre, potendo la lavoratrice autonoma continuare a prestare la propria attività.
La parola sull’indennità genitoriale è passata
quindi nuovamente al vaglio della Corte Costituzionale e se ne attende con indubbio interesse l’esito.
GIURISPRUDENZA PENALE
Lo stalking (art. 612-bis c.p.)
arriva in Cassazione
I
Corte di cassazione, penale, Sezione
V, 17 febbraio 2010, n. 6417
Presidente Renato Luigi Calabrese
Relatore Alfonso Amato
(omissis)
Il GIP del tribunale di Ravenna rigettava l’istanza
di revoca o di sostituzione della misura della custodia domiciliare, avanzata da O. P., indagato per il delitto di cui all’art. 612 bis c.p.
Il tribunale di Bologna ex art. 310 c.p.p. confermava, osservando che l’ O.P. si era reso autore di minacce, violenza privata e danneggiamento nel periodo dal 2 gennaio ’09 al 21 febbraio ’09 e che ulteriori condotte aveva posto in essere nei giorni 25 e
26 febbraio ’09.
- Ricorre il difensore, assumendo che gli episodi
precedenti l’entrata in vigore della norma incriminatrice in questione non possono essere oggetto di
considerazione alcuna; che due sole condotte, quali
quelle contestate nella specie, non sono suscettibili
di integrare l’illecito gravato, qualificato da condotta
plurima.
- In punto di adeguatezza si evidenzia che le esigenze cautelari potrebbero essere soddisfatte con la
misura cautelare introdotta dall’art. 282 ter c.p.p. (divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla
p.o.).
- Le censure sono prive di fondamento.
Le condotte di minaccia o molestia devono essere
“reiterate”, sì da cagionare un perdurante e grave
stato di ansia o di paura nella vittima ovvero un fondato timore per la propria incolumità o per quella
di persone vicine o, infine, costringere la p.l. a modificare le sue abitudini di vita.
Il termine “reiterare” denota la ripetizione di una
condotta una seconda volta ovvero più volte con insistenza.
Se ne deve evincere, dunque, che anche due condotte sono sufficienti a concretare quella reiterazione cui la norma subordina la configurazione della
materialità del fatto.
Del resto, l’assunto difensivo è smentito dal provvedimento impugnato, atteso che l’indagato, nel
corso del 25 e del 26 febbraio ’09, “è giunto tre volte
dinanzi al bar gestito dal C., senza altro vero scopo, se
non quello di indirizzare verso di lui sguardi eloquenti,
gesti minacciosi e di tenere atteggiamenti di sfida”.
- Ineccepibile e diffusa appare la motivazione in
punto di adeguatezza della misura cautelare adottata, posto che il tribunale evidenzia i numerosi e
gravi precedenti penali dell’indagato, che ne rivelano la capacità a delinquere e la proclività all’uso
della violenza.
- Il ricorso va rigettato, con la condanna del ricorrente alle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
II
Corte di cassazione, penale, Sezione
V, 26 marzo 2010, n. 11945
Presidente Aniello Nappi
Relatore Antonio Bevere
(omissis)
Con ordinanza emessa in sede di riesame il
4.8.2009, il tribunale di Messina ha confermato il
provvedimento del g.i.p. del tribunale di Barcellona,
con il quale è stata disposta la misura cautelare degli arresti domiciliari, nei confronti di AAA, in ordine
al reato ex art. 612 bis c.p.
Il difensore ha presentato ricorso per violazione
di legge in riferimento all’art. 612 bis c.p., agli artt.
273, 274, 275, 282 c.p.p., nonché per vizio di motivazione.
Secondo il ricorrente, il tribunale ha ridotto la parte
motiva relativa alla qualificazione giuridica del fatto
a poche espressioni con cui esprime giudizio positivo
sulle argomentazioni contenute nell’ordinanza cautelare, senza specificare per quali ragioni i comportamenti dell’imputato avrebbero integrato l’ipotesi di
molestia o avrebbero il carattere di abitualità.
Quanto all’elemento psicologico il tribunale
esprime la sussistenza del dolo generico, senza fornire alcun elemento a sua giustificazione.
A giudizio del ricorrente, il giudice del riesame ha
complessivamente omesso di effettuare un’analitica dimostrazione della sussistenza di tutti gli elementi legittimanti il riconoscimento della base indiziaria del provvedimento coercitivo e delle esigenze cautelari.
Altra censura riguarda l’assenza di valutazione
sull’adeguatezza e proporzionalità della misura degli arresti domiciliari, valutazione sollecitata dai rilievi critici della difesa.
luglio-agosto 2010 | Avvocati di famiglia | 47
GIURISPRUDENZA PENALE
I motivi del ricorso sono manifestamente infondati.
II tribunale del riesame, ha delineato il quadro indiziario grazie a un’accurata analisi delle principali
fonti conoscitive, attivate nel corso delle indagini
preliminari. Ha fondato così il suo convincimento
sulle dichiarazioni della minore nonché su quelle
della nonna, BBB, e della madre CCC, con le quali la
fanciulla si era confidata. Dalle loro deposizioni è
emerso che, in più giorni, compresi tra fine marzo e
fine aprile dell’anno allora in corso, spesso quotidianamente, la minore, dell’età di 12 anni, mentre
era in attesa dell’autobus di linea, alla fermata posta
nei pressi della propria abitazione, era stata avvicinata da un uomo, alla guida di un furgone, che le
aveva rivolto apprezzamenti, mandandole dei baci e
l’aveva invitata a salire sul veicolo. Il giorno 3 aprile,
l’uomo si era recato alla scuola della minore, rimanendo dinanzi all’istituto, rivolgendole sguardi insistenti e minacciosi.
Questi fatti avevano fortemente turbato la minore,
tanto da indurla a chiedere ai familiari di non recarsi più a scuola per timore per la propria incolumità fisica.
Grazie ad operazioni di osservazione, effettuate dai
carabinieri è risultato che effettivamente il conducente del furgone - identificato con certezza nell’attuale indagato - era più volte, anche a brevi intervalli,
passato dinanzi all’abitazione della minore rivolgendovi lo sguardo con insistenza. Sulla base di questa ricostruzione dei fatti, l’ordinanza del tribunale del riesame - esaminata adeguatamente la piena credibilità delle principale fonte conoscitiva - ha ritenuto
sussistenti gravi indizi di colpevolezza, in ordine al
reato ex art. 612 bis c.p., esponendo argomentazioni
tecnicamente corrette, in ordine alla collocazione dei
comportamenti del AAA nell’ipotesi criminosa (cd
stalking, letteralmente “atto di fare la posta alla
preda”) introdotta con l’art. 7 del decreto legge
23.2.2009 n. 11, convertito in legge 23.4.2009 n. 38.
Come è noto, la norma sul reato di “atti persecutori”è stato inserita nel nostro ordinamento a tutela
della libertà morale della persona e ha ad oggetto
condotte reiterate di minaccia e molestia che determinano nella vittima, alternativamente:
- un perdurante e grave stato di ansia o paura,
- un fondato timore per la propria incolumità o
per quella di persona comunque affettivamente legata,
- la costrizione ad alterare le proprie abitudini di
vita.
È evidente la precisa conformità alla norma in
esame, della qualificazione giuridica delle condotte
del AAA contenuta nella motivazione dell’ordinanza
impugnata, laddove pone in evidenza i caratteri di
reiterazione nel tempo delle illecite condotte del
AAA, che si sono succedute per un ampio arco di
tempo, con cadenza anche quotidiana, tanto da giu48 | Avvocati di famiglia | luglio-agosto 2010
stificare, nel corso delle indagini preliminare, l’accertamento del perdurante stato patologico da esse
causato nella vittima. Pienamente corretta è la definizione di tali atti come molesti, cioè forieri di alterazione della serenità e dell’equilibrio della minore,
in quanto diretti a forzare la sua attenzione e a stringere con lei un rapporto, percepito evidentemente
come anomalo e pericoloso dalla destinataria. L’ordinanza ha poi analizzato la realizzazione di uno dei
tre tipici eventi, delineati dalla norma in esame e
cioè il perdurante e grave stato di ansia e di paura, in
quanto ha compiutamente descritto il destabilizzante turbamento psicologico della minore, che ripetutamente ha manifestato il suo stato nei racconti
alla nonna e alla madre, giungendo fino a esprimere
l’intento di rinunciare a recarsi a scuola. La non realizzazione di questo intento ha evitato che la condotta del AAA determinasse anche un altro evento
previsto dalla norma (l’alterazione delle proprie abitudini di vita). Sul dolo generico ravvisabile in questi
comportamenti seriali del AAA, l’ordinanza si è
ugualmente espressa in maniera del tutto adeguata
e completa, avendo messo in risalto come l’indagato,
passando ripetutamente nei luoghi frequentati dalla
minore, proprio negli orari in cui ella era solita ivi
trovarsi, abbia dimostrato di rappresentarsi gli effetti
psicologici concretamente realizzati.
L’ordinanza ha dato una giustificazione pienamente corretta alla prognosi negativa, ex art. 274
lett. c) c.p.p. sui futuri comportamenti del AAA, mediante:
a) il richiamo alla gravità dei fatti e alle modalità
di esecuzione in danno della persona offesa,
GIURISPRUDENZA PENALE
b) il richiamo ad altro gravissimo comportamento
del AAA, tenuto il 2 luglio successivo, in danno di altra minore.
Ugualmente è aderente alla disciplina sui requisiti di adeguatezza e proporzione della coercizione
personale in atto, il rilievo dato dall’ordinanza alla
capacità a delinquere del AAA e all’inidoneità di altra misura meno gravosa a far fronte a esigenze di
prevenzione speciale di così alto spessore. La manifesta infondatezza dei motivi del ricorso comporta
la declaratoria della sua inammissibilità, cui consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di € 1.000 alla
cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e
della somma di € 1.000 in favore della cassa delle
ammende.
IL PUNTO DI VISTA
di GIOIA SAMBUCO
AVVOCATO DEL FORO DI RIETI
Prime interpretazioni del Giudice di legittimità per contrastare gli atti persecutori
1. Vengono sottoposti al supremo vaglio di legittimità una decisione resa dal Tribunale di Bologna che
aveva confermato un provveidmento del GIP di Ravenna e una decisione del Tribunale della libertà di
Messina, che aveva confermato il provvedimento del
G.i.p. del Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto. In
entrambi i casi era stata disposta la misura cautelare degli arresti domiciliari per il reato di cui all’art.
612 bis c.p. I ricorrenti assumono quali motivi di doglianza, il vizio di motivazione in ordine alle ragioni
per cui i comportamenti incriminati avrebbero integrato il reato in questione, in ordine alla mancanza
all’elemento psicologico, nonché, con riferimento
alla misura degli arresti domiciliari, all’insussistenza
degli elementi legittimanti le esigenze cautelari ed i
criteri di adeguatezza e proporzionalità.
La Suprema Corte, nel dichiarare l’inammissibilità
dei ricorsi, coglie l’occasione per delineare i confini
del reato di cui all’art. 612 bis c.p. e, non fossilizzandosi sull’impreciso tenore letterale della nuova formulazione legislativa, interpreta la disposizione in
modo conforme alla ratio che la sottende.
I giudici di legittimità reputano assolutamente corretta la qualificazione giuridica operata dal giudice di
prime cure, riscontrando nel caso in esame tutti i requisiti fissati dal disposto di cui al’art. 612 bis c.p.
Si tratta di vicende nelle quali gli atti persecutori
hanno avuto come vittima non un ex partner - come
per lo più avviene nella prassi di questo reato - ma
il titolare di un bar e una bambina di 12 anni. Una
utilizzazione quindi del reato di stalking per finalità
alle quali originariamente la legge non era principalmente diretta.
Nella prima vicenda l’indagato si era reso autore
di minacce, violenza privata e danneggiamento nei
confronti del titolare di un esercizio pubblico nel periodo dal 2 gennaio al 21 febbraio 2009 e aveva posto
in essere ulteriori condotte nei giorni 25 e 26 febbraio in cui era “giunto tre volte dinanzi al bar gestito
dal C., senza altro vero scopo, se non quello di indirizzare
verso di lui sguardi eloquenti, gesti minacciosi e di tenere
atteggiamenti di sfida”.
Nella seconda vicenda la vittima è una bambina
di 12 anni. In più giorni, compresi tra la fine marzo
e la fine aprile del 2009, spesso quotidianamente, la
minore, dell’età di 12 anni, mentre era in attesa dell’autobus di linea, alla fermata posta nei pressi della
propria abitazione, era stata avvicinata da un uomo,
alla guida di un furgone, che le aveva rivolto apprezzamenti, mandandole dei baci e l’aveva invitata
a salire sul veicolo. In due occasioni, l’uomo si era
anche recato presso la scuola frequentata dalla minore, rimanendo dinanzi all’istituto, rivolgendole
sguardi insistenti e minacciosi.
In ordine alla condotta criminosa ascritta agli imputati, i giudici prendono atto della loro reiterazione
nel tempo succedutasi per un ampio arco di tempo,
con cadenza anche quotidiana.
Integrato il primo dei presupposti del delitto di cui
all’art. 612 bis, c.p., i giudici di legittimità esaminano
anche la sussistenza o meno di uno dei tre tipici
eventi delineati dall’art. 612 bis c.p.
2. Le sentenze che si annotano, arricchiscono la
casistica di quei provvedimenti che, per primi, si
sono trovati a fare i conti con la nuova fattispecie
incriminatrice di cui all’art. 612 bis, c.p., disposizione
inserita recentemente dal legislatore con il d.l.
23.2.2009 n. 11 intitolato “Misure urgenti in materia di
sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale,
nonché in tema di atti persecutori”.
La nuova fattispecie delittuosa trae origine da un
termine anglosassone “stalking”, che indica tutte
quelle minacce o molestie o comunque tutti quegli
atti persecutori ed assillanti che si prefiggono di indurre la vittima in un vero e proprio stato di soggezione psicologica.
La dottrina più attenta (MACRÌ, Commento al d.l. n.
11/2009, in Diritto penale e processo, 2009, 7, pag. 816)
precisa come possano esistere diverse forme di
“Stalking”:
- lo “stalking vigilante” al quale sono riconducibili
condotte di sorveglianza, inseguimento, appostamenti connotati dall’assidua presenza dello stalker
e dal controllo quotidiano sul destinatario;
- lo “stalking comunicativo” che si estrinsecherebbe in intraprendere condotte finalizzate a metersi in contatto, con ogni mezzo, con la vittima;
luglio-agosto 2010 | Avvocati di famiglia | 49
GIURISPRUDENZA PENALE
- il “cyberstalking” al quale sono riconducibili condotte di intrusione molesta nella vita altrui attraverso l’utilizzo di tecnologie informatiche.
Con l’emanazione del d.l. 23.2.2009 n. 11 anche in
Italia, si è finalmente apprestata una disciplina finalizzata a porre rimedio alla indubbia crescita di
episodi di violenza sessuale che, negli ultimi anni,
sono stati perpetrati, talora anche in modo efferato,
in danno delle donne.
Peraltro, tale drammatica situazione è stata amplificata dalle cronache giornalistiche che, destando
un diffuso allarme nell’opinione pubblica, hanno ulteriormente accresciuto nella comunità l’esigenza
di predisporre una specifica tutela nei confronti di
episodi di atroci violenze che hanno avuto come vittima delle donne. Tutela, che il legislatore italiano
ha prontamente apprestato, ricorrendo alla decretazione d’urgenza, introducendo, con l’art. 7 del d.l.
23.2.2009 n. 11, nell’ambito dell’attuale sistema penale italiano, all’interno della sezione codicistica dedicata ai delitti contro la libertà morale, una nuova
fattispecie di reato, residuale rispetto ad altri più
gravi, che sanziona con la reclusione da 6 mesi a 4
anni, episodi di minacce e molestie reiterate in una
logica di prevenzione della possibile consumazione
di condotte ben più gravi.
Il reato, di cui all’art. 612 bis, c.p., rubricato «Atti
persecutori» è un reato comune, di evento a condotta
vincolata, la cui sussistenza dipende non dalla mera
realizzazione, ancorché reiterata, di atti di minaccia
o molestia, ma dal verificarsi, in capo alla vittima,
di conseguenze quali un «perdurante e grave stato
di ansia o di paura», «un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto» o di persona legata alla vittima da relazione affettiva, ovvero ancora un’alterazione necessitata delle proprie
abitudini di vita.
L’evento, o meglio il triplice alternativo evento descritto sub art. 612 bis, c.p., rende la disposizione autonoma e differente, quanto a presupposti applicativi, rispetto a quelle norme che, precedentemente
all’intervento legislativo del 2009, erano sovente impiegate, talora inefficacemente, per reprimere condotte persecutorie e precisamente, il delitto di violenza privata, disciplinato all’art. 610 c.p., e quello di
molestia e disturbo alle persone, di cui all’art. 660, c.p.
Il quid pluris che caratterizza il reato di cui all’art.
612 bis, c.p. rispetto alle minacce ed alle molestie, in
sintesi, è costituito da due elementi:
a) la reiterazione delle condotte;
b) la produzione di un grave e perdurante stato di
ansia o di paura o di un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da una relazione affettiva
o una alterazione, non voluta, delle proprie abitudini di vita.
Per ciò che concerne la sua classificazione nell’ambito dei reati di evento a condotta vincolata, oc50 | Avvocati di famiglia | luglio-agosto 2010
corre precisare come la condotta deve risultare connotata da un duplice presupposto: in primis, questa
deve essere reiterata e, pertanto tale presupposto
tecnicamente inquadrerebbe ulteriormente il reato
de quo nell’ambito dei reati abituali; di poi, la condotta delittuosa, deve concretizzarsi in minacce ovvero in molestie.
Ne consegue, in ordine al presupposto della reiterazione della condotta, che implicitamente è necessario che la condotta delittuosa si estrinsechi almeno in due occasioni. Il legislatore,tuttavia non ha
proceduto alla fissazione di alcun limite tale per cui
determinate condotte siano effettivamente da connotarsi come persecutorie. Emergerebbe infatti dal
tenore letterale della nuova disposizione penale relativamente alla condotta, una formulazione, precisamente quella della rubrica dell’art. 612 bis. C.p.,
«Atti persecutori» eccessivamente polivalente, fumosa, dai contorni non effettivamente definiti, che
inevitabilmente potrebbe implicare una dilatata discrezionalità nella applicazione concreta della
norma da parte dell’organo giudicante, in quanto
appare lasciata alla sua discrezionalità la qualificazione di ciò che dovrebbe essere ricompreso nella
nozione «atti persecutori».
La medesima considerazione relativa ad una certa
vaghezza legislativa della formulazione della norma
riguarda anche l’ulteriore elemento costitutivo del
reato de quo, l’evento.
Infatti, gli eventi dannosi tipizzati in via alternativa dall’art. 612 bis c.p., sono altrettanto definiti in
maniera poco compatibile con i canoni di precisione
e tassatività delle disposizioni incriminatrici (In argomento: RESTA, Il decreto legge in materia di sicurezza
pubblica e contrasto alla violenza sessuale, in Giurisprudenza di merito, 2009, 4, p. 891).
Precisamente, sono alternativamente individuabili tre tipologie di evento: il perdurante stato di ansia e paura; il fondato timore; ovvero la costrizione
della vittima ad alterare le proprie abitudini di vita.
I termini «ansia» e «paura» che connoterebbero
secondo il legislatore il primo evento, non esprimono vere e proprie categorie nosografiche o psichiatriche per cui è effettivamente difficoltoso che
le valutazioni in ordine alla sussistenza dell’uno ovvero dell’altro stato, non siano esclusivamente rimesse alla sola percezione del destinatario ed alla
sua soglia di sopportazione. Tuttavia si è rilevato
come una diversa opzione da parte del legislatore
che avesse tentato di vincolare questi stati d’animo
della vittima non alla sua percezione ma ad effettive e documentate patologie, sebbene sarebbero di
certo state più conformi ai principi di chiarezza e di
precisione, inevitabilmente avrebbero comportato
una restrizione del campo di applicazione della
nuova fattispecie incriminatrice.
In ordine all’espressione del secondo evento delineato dal legislatore nell’art. 612 bis, c.p., “fondato
GIURISPRUDENZA PENALE
proposizione, da tre mesi a sei mesi. Tuttavia la disposizione de qua è temperata dalla previsione della
procedibilità d’ufficio nel caso in cui vittima degli
atti persecutori sai un soggetto minorenne ovvero
un disabile.
timore” ha, anche questo concetto, destato molti
dubbi in dottrina giacché sembrerebbe implicare un
giudizio ex ante sulla idoneità della condotta a suscitare timore (BRICCHETTI-PASTORELLI, Gli atti persecutori. Entra nel codice la molestia reiterata, in GDir., 2009,
10, p. 61).
Infine il terzo evento alternativamente configurabile è quello della costrizione della vittima ad alterare le proprie abitudini di vita e, anche in ordine a
tale profilo, è evidente come la formulazione risulti
imprecisa in quanto disancorata a precisi ed oggettivi parametri.
Il secondo comma dell’art. 612 bis, c.p., si indirizza
nei confronti di una precisa categoria di soggetti nei
confronti dei quali è previsto un incremento di pena
fino ad un terzo nel caso in cui autore della condotta
sia il coniuge legalmente separato ovvero divorziato
o comunque, sia una persona legata alla vittima da
una relazione affettiva. Anche nei confronti di quest’ultima categoria di soggetti, la dottrina più attenta ha evidenziato una improprietà di linguaggio
e comunque, una eccessiva indeterminatezza della
categoria.
Il terzo comma inoltre dell’art. 612 bis, c.p. non
pone invece alcuna problematica in termini di formulazione imprecisa e/o vaga giacché, sancendo un
incremento di pena fino alla metà ove il fatto sia
commesso in danno di un minore ovvero nei confronti di una donna in stato di gravidanza, delinea
situazioni che si reputano essere contrassegnate da
un maggiore disvalore in ragione della vulnerabilità
della persona offesa e che sovente ricorrono anche
quali circostanze aggravanti in diverse disposizioni
incriminatrici del diritto penale sostanziale.
Per ciò che concerne la procedibilità, il reato di cui
all’art. 612 bis c.p. è procedibile a querela ma il legislatore ha operato una estensione del regime ordinariamente previsto nel codice di rito per la relativa
3. È considerazione innegabile che la nuova disposizione di cui all’art. 612 bis c.p. pecca quanto a
determinatezza e precisione.
Tuttavia la vaga formulazione potrebbe trovare giustificazione nell’esigenza di reprimere ogni qualsivoglia condotta che sia sussumibile nel reato di nuovo
conio, di cui pertanto volontariamente non se ne
sono tracciati i confini ed i limiti di applicazione.
È opportuno ricordare come il legislatore stia, negli ultimi tempi, utilizzando una tecnica legislativa
volontariamente poco aderente ai canoni di cui all’art. 25 Cost., ogni qualvolta si prefigge lo scopo di
non circoscrivere al massimo le ipotesi nelle quali
poter applicare quella disposizione.
A titolo esemplificativo, l’espressione contenuta
nel disposto normativo di cui all’art. 20 ter della L.
n. 94 del 2009, relativa alle gravi e comprovate ragioni di urgenza che legittimerebbe la polizia giudiziaria a presentare l’imputato direttamente dinnanzi al Giudice di pace, senza attendere la fissazione nei 15 gg. successivi della udienza, appare, parimenti alla formulazione del testo normativo di cui
all’art. 612 bis c.p., imprecisa e dal significato tecnico giuridico di non immediata comprensione.
Inevitabilmente le formulazioni di questo tipo assumono una connotazione polivalente e, come tale,
non corrisponderebbero ai criteri di esattezza e di
stabilità che il legislatore impone in ordine alla tecnica di formulazione delle disposizioni.Costituisce
infatti principio assodato nell’ambito di un sistema
demoratico che siano necessarie leggi precise,
chiare, contenenti riconoscibili direttive di comportamento per permettere che il soggetto destinatario
della norma possa agevolmente trovare, in ogni momento, cosa gli è lecito e cosa invece gli è vietato.
Tuttavia, aldilà di tali considerazioni, invero indubbie, in ordine alla attuale formulazione dell’art.
612 bis c.p. la tecnica utilizzata dal legislatore non
può sic et simpliciter essere giudicata in negativo
giacché ha comunque il meritevole pregio di non
erigere a priori un insormontabile argine a fronte degli imprecisati fenomeni assillanti e persecutori che
ad oggi potrebbero essere perpetrati.
Spetterà pertanto al giudice de iure condendo verificare se e in che termini possa o meno sussumere
il caso di specie che gli si presenterà nell’aula di giustizia, sub art. 612 bis c.p. e questi non potrà ad libitum esercitare la propria discrezionalità giacché ha
l’obbligo di ricostruire e spiegare, nella motivazione
del provvedimento, il ragionamento dallo stesso seguito per formare anche in ordine a tale profilo il
suo convincimento.
luglio-agosto 2010 | Avvocati di famiglia | 51
GIURISPRUDENZA PENALE
Giurisprudenza di merito in tema di atti persecutori
Tribunale di Bari, 6 aprile 2009
Il reato di atti persecutori (c.d. stalking) si sostanzia in condotte reiterate che ingenerano un fondato
timore da parte della vittima di un male più grave,
pur senza arrivare ad integrare i reati di lesioni o
maltrattamenti (nel caso di specie, il tribunale del
riesame ha osservato che le condotte di appostamento, continue telefonate, minacce e aggressioni
fisiche alla vettura non possono non essere lette
come «atti persecutori» tali da ingenerare nelle vittime uno stato di continua paura per se stesse e da
doversi continuamente «guardare alle spalle» così
modificando le proprie normali abitudini di vita).
Tribunale di Napoli, Sezione IV, 30 giugno 2009
Perché sussista la fattispecie delittuosa degli atti
persecutori introdotta dal d.l. 23 febbraio 2009 n. 11,
invero, è necessario il ripetersi di una condotta di
minaccia o di molestia. Le condotte, inoltre, debbono produrre l’effetto di provocare disagi psichici
(un perdurante e grave stato di ansia o di paura) ovvero timore per la propria incolumità e quella delle
persone care o ancora una alterazione delle proprie
abitudini di vita.
L’estorsione in famiglia
I
Cass. penale, Sez. VI, 19 aprile 2010,
n. 14194
Presidente Giovanni De Roberto
Relatore Luigi Lanza
Si configura il delitto di tentata estorsione in danno
dei genitori qualora il figlio chieda loro del denaro
con il ricorso a maltrattamenti e a lesioni, ovvero “in
assenza di condizioni legittimanti la pretesa
consegna” della somma di denaro
(omissis)
Ricorre, a mezzo del suo difensore, contro la sentenza 22 aprile 2009 delia Corte di appello di Napoli,
la quale, in parziale riforma della sentenza 29 settembre 2008 del G.U.P. del Tribunale di Napoli, previo
riconoscimento dell’attenuante ex art, 62 n.6 GP. dichiarata equivalente alla contestata recidiva- lo
ha condannato alla pena di anni 2 e mesi 4 di reclusione per i reati, unificati ex art. 81 capoverso C.P., di
tentata estorsione, maltrattamenti in famiglia e lesioni in danno della madre,
I giudici di merito hanno ritenuto la sussistenza
dei tre delitti, ritenendo:
a) attendibili e reciprocamente riscontrate le convergenti dichiarazioni del genitori dell’accusato,
52 | Avvocati di famiglia | luglio-agosto 2010
b) indiscutibile l’entità e la causa delle lesioni, certificate nell’immediatezza di uno dei fatti violenti,
posti in essere dal figlio nei confronti della madre;
c) corretta della qualificazione giuridica del fatto
di tentata estorsione di cui al capo -A dell’imputazione, in assenza di condizioni legittimanti la pretesa consegna di una somma di denaro.
Con un unico motivo di impugnazione la ricorrente difesa deduce vizio di motivazione sotto due
distinti profili:
1) sul punto della mancata verifica di attendibilità
intrinseca ed estrinseca dei genitori;
2) sulla affermazione della “non legittimità della
pretesa dei figlio” di ricevere da denaro dai genitori,
considerato che egli all’epoca era privo di lavoro e,
per lo stretto legame di parentela, aveva titolo per
ottenere un contributo da parte dei genitori stessi.
Il motivo per la parte sub a) è inammissibile posto
che, sotto il profilo di una pretesa inadeguatezza
motivazionale, esso finisce con proporre una ricostruzione alternativa dei fatti, esclusa -senza vizinella giustificazione a supporto che è stata offerta
in modo integrato e sintonico dai giudici di merito,
i quali hanno rigorosamente ed ampiamente soppesato l’attendibilità intrinseca ed estrinseca delle
conformi dichiarazioni dei genitori dell’imputato.
Invero, per pacifica giurisprudenza, gli aspetti del
giudizio, che consistono nella valutazione e nell’apprezzamento del significato degli elementi acquisiti,
attengono interamente al merito e non sono rilevanti nel giudizio di legittimità se non quando risulti viziato il discorso giustificativo sulla loro capacità dimostrativa e che, pertanto, restano inammissibili, in sede di legittimità, le censure che siano
nella sostanza rivolte a sollecitare soltanto una rivalutazione del risultato probatorio (Cass. pen. sez.
V, 8094/2007)
Quanto al secondo profilo di doglianza, pur essendo pacifico il principio che l’obbligo dei genitori di
concorrere al mantenimento dei figli, secondo le regole degli artt. 147 e 148 cod. civ., non cessa, “ipso
facto”, con il raggiungimento della maggiore età da
parte di questi ultimi, ma perdura, immutato, finché
il genitore interessato alla declaratoria della cessazione dell’obbligo non dia la prova che il figlio ha raggiunto l’indipendenza economica, ovvero che il
mancato svolgimento di un’attività economica dipende da un atteggiamento di inerzia di rifiuto ingiustificato dello stesso (Cass. Civ. Sez. 1, 23673/2006),
va nella specie rilevato come non risulti affatto la
prova che le somme, chieste con le modalità violente
che risultano accertate fossero destinate. al “mantenimento” dell’imputato.
Ne consegue che, in difetto di tale essenziale connotazione causale dell’agire del ricorrente, si è nella
specie verificata fazione esecutiva e fa soggettività
del delitto di estorsione e non la minore fattispecie
criminosa disciplinata dall’art. 393 C.P..
GIURISPRUDENZA PENALE
Il ricorso pertanto, nella verificata palese infondatezza delle critiche, formulate alla gravata sentenza, va dichiarato inammissibile con condanna
dell’imputato al pagamento delle spese processuali
e della somma di €. mille in favore della Cassa delle
ammende.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e
della somma di €. 1.000,00 in favore della Cassa
delle ammende.
II
Cass. penale, Sez. II, 20 aprile 2010,
n. 15111
Presidente Giuliano Casucci
Relatore Giuseppe Bronzini
Si configura il reato di estorsione nel comportamento
del coniuge che rientra nella disponibilità della casa
familiare, utilizzando minacce nei confronti della
parte cui la stessa sia stata assegnata nel corso del
giudizio di separazione o di divorzio
(omissis)
Con sentenza del 26.2.2008 la Corte di appello di
Napoli confermava la sentenza emessa dal GUP del
Tribunale di S. Maria C.V. in data 4.6.2006 di condanna del ricorrente per il reato di estorsione alla
pena di anni due, mesi due di reclusione ed Euro
300,00 di multa.
L’imputato avrebbe costretto la moglie alla quale
prima in sede di separazione poi in sede di divorzio
era stato affidata l’abitazione coniugale di proprietà
dei familiari del ricorrente con ingiurie e minacce di
morte ad abbandonare la detta abitazione e trasferirsi altrove.
Ricorre l’imputato che con un primo motivo allega
che manca l’elemento dell’ingiusto profitto perchè
l’abitazione non era di proprietà della parte offesa e
questa aveva già manifestato l’intenzione di trasferirsi altrove.
Inoltre le dichiarazioni della donna erano prive di
sostanziali conferme.
Infine, al più, era ravvisabile il reato di cui all’art.
393 c.p. in quanto il ricorrente poteva adire il giudice
per ottenere l’immobile che era di sua proprietà.
Il ricorso, stante la sua manifesta infondatezza, va
dichiarato inammissibile.
Circa il primo motivo i giudici di merito hanno accertato che in seguito alle minacce, insulti ed atti di
violenza posti in essere dall’imputato la moglie fu
indotta a lasciare l’abitazione che le era stato affidato sia in sede di separazione che di divorzio. Tali
episodi emergono dalle precise ed univoche dichiarazioni erse dalla p.o. e il giudice di primo grado ha
indicato i riscontri derivanti dalle dichiarazioni rese
dai testi I., G.S., S.A., M.G..
Il motivo è assolutamente generico perchè ignora
le dette dichiarazioni e non sottopone neppure a
specifiche censure le dichiarazioni della moglie.
L’ipotesi che la stessa abbia volontariamente abbandonato l’appartamento perchè desiderava spostarsi altrove è smentita dalle sentenze di merito e
non vengono indicati gli elementi dai quali questa
ipotesi sarebbe confermata.
Pur essendo l’appartamento di proprietà dei familiari del ricorrente l’ingiusto profitto è evidente,
posto che l’imputato, essendo stato l’immobile affidato alla moglie sia in sede di separazione che di divorzio, non ne aveva la disponibilità.
Quanto all’ultima doglianza circa l’applicabilità
dell’art. 393 c.p., il motivo è generico. Certamente
l’imputato poteva in astratto adire il giudice ma facendo valere ragioni di diritto che non vengono
nemmeno indicate.
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonchè - ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della
causa di inammissibilità - al pagamento a favore della
Cassa delle ammende della somma di mille Euro, così
equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al
versamento di Euro mille alla Cassa delle ammende.
luglio-agosto 2010 | Avvocati di famiglia | 53
GIURISPRUDENZA PENALE
IL PUNTO DI VISTA
di GIOIA SAMBUCO
AVVOCATO DEL FORO DI RIETI
Punti fermi in tema di estorsione
La violenza che si riversa nel privato e nel quotidiano
(...) funge da canalizzazione di conflitti, tensioni, aggressività, cui si impedisce l’irrompere nel pubblico. La famiglia, la rete dei rapporti primari, lo spazio del tempo libero, sono i luoghi di contenimento, individualizzazione,
patologizzazione, e naturalmente di legittima espressione
di vissuti conflittuali e frustranti. Sono i luoghi dove si
concentra il disagio e la sofferenza si svela. Dove quindi
l’aggressività è confinata e separata, privata, soggettivamente e oggettivamente, di contenuti sociali.” (T. Pitch e
G. Creazzo, in “Studi sulla questione criminale” Genocidio. La violenza maschile sulle donne, Carocci, 2009)
1. Le sentenze che si annotano arricchiscono la
casistica di quelle pronunce che hanno per oggetto
fatti di rilevanza penale perpetrati all’interno del
contesto familiare.
Il comune denominatore delle due sentenze integralmente sopra riportate, è dato dal fatto che, in
entrambe, i giudici di legittimità ravvisano il delitto
di estorsione, l’una (Cass., sezione VI, 19.4.2010 n.
14194) nella condotta di un figlio che, privo di lavoro, aveva con violenza e minaccia richiesto ai propri genitori una somma di denaro; l’altra (Cass., sezione II, 20 aprile 2010, n. 15111), in quella di un
coniuge che, con ingiurie e minacce di morte, aveva
costretto la moglie, alla quale prima in sede di separazione, poi in sede di divorzio, era stato affidata
l’abitazione coniugale di proprietà dei familiari del
ricorrente, ad abbandonare la detta abitazione ed a
trasferirsi altrove.
Le due sentenza meritano approfondimento giacché ognuna affronta il delicato rapporto del delitto
punito e previsto sub art. 629 con altre tipologie di
reato.
2. I giudici di legittimità, con la sentenza del 19
aprile 2010 n. 14194, escludendo nel caso sottoposto
al loro scrutinio la sussistenza del reato di esercizio
arbitrario delle proprie ragioni di cui all’art. 393 c.p.,
ritenendo, invece ravvisabile quello ex art. 629 c.p.,
esaminano il rapporto intercorrente tra i due delitti.
In verità, l’orientamento espresso nella pronuncia
de qua si inserisce nell’ambito di un solco già effettivamente tracciato da pronunce, sia di merito che
di legittimità, che individuano, quale parametro per
operare un distinguo tra le due fattispecie di reato,
il criterio di carattere soggettivo.
Sul punto sussiste un consolidato indirizzo ermeneutico secondo il quale la differenza tra l’uno e l’altro delitto non risiederebbe nella materialità del
fatto, ma piuttosto nell’elemento soggettivo atteso
che nell’estorsione l’agente mira a conseguire un ingiusto profitto con la coscienza che quanto pretende
non gli è dovuto, mentre nel reato di esercizio arbi54 | Avvocati di famiglia | luglio-agosto 2010
trario lo stesso agisce al fine di esercitare un suo
preteso diritto con la convinzione che quanto vuole
gli compete (Cass., sez. II, 27-06-2007, Della Rocca,
C.E.D. Cass. n. 237992; Id., sez. II, 15-02-2007, Mezzanzanica, ivi, n. 236457; Cass., sez. II, 16-02-2006,
Caratozzolo, ivi, n. 234117; Cass., sez. V, 09-11-2005,
Picca, Giur. it., 2006, 1926; Cass., sez. II, 01-10-2004,
Caldara, Riv. pen., 2005, 728; T. Pesaro, 16-07-2005,
B.V., inedita; T. Roma, 10-07-2003, Leandri Riv. pen.,
2003, 1090).
Peraltro, sussiste anche un filone giurisprudenziale, al quale sembra aderire anche la sentenza oggetto di odierna disamina, secondo cui in tutte
quelle ipotese nelle quali la minaccia si estrinseca
con modalità dotate di una intensa forza intimidatoria e di sistematica pervicacia tali da rendere evidente il superamento di ogni ragionevole intento di
far valere un diritto, la condotta de qua deve essere
ricondotta immediatamente sub art. 629 c.p. giacché
la coartazione dell’altrui volontà è certamente finalizzata a conseguire un profitto che assume ex se i
caratteri della ingiustizia (Cass., Sez. II, 10.12.04, n.
47972; Id. sez. II, 30.10.2003 n. 41453).
Nel caso di specie, la qualificazione del fatto sub
art. 629 c.p., è stata correttamente operata e confermata dai giudici di legittimità i quali hanno precisato, a fronte della doglianza sul punto eccepita dal
difensore dell’imputato come, in difetto della connotazione causale dell’agire del ricorrente e della
prova che le somme richieste con le modalità violente fossero destinate all’accertamento del mantenimento dell’imputato, la condotta dell’imputato integrava gli estremi del delitto di cui all’art. 629 c.p.,
sia relativamente all’azione esecutiva nello stesso
disciplinata, sia relativamente alla soggettività richiesta nel delitto di estorsione e non quella minore
fattispecie criminosa disciplinata dall’art. 393 c.p.
3. La sentenza resa dai giudici di legittimità in
data 20 aprile 2010, n. 15111, affronta invece due
profili di assoluto rilievo: in primis viene puntualizzato l’elemento che differenzia la fattispecie di
estorsione da quella di violenza privata, di poi, la Suprema corte si sofferma sui connotati del requisito
dell’ingiusto profitto, su quest’ultimo punto adita
dalla difesa che asseriva nel caso di specie l’assenza
del suddetto requisito, atteso che l’immobile non
era di proprietà della parte offesa.
In ordine al primo profilo, anche in questo caso la
pronuncia de qua si inserisce nell’ambito di un
orientamento consolidato espresso dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui il delitto di estorsione differisce da quello della violenza privata proprio in ragione della indefettibile sussistenza nel
primo reato del profitto e del connesso danno in
capo alla persona offesa (Cass., Sez. II, 11.1.1978, n.
6134; Id., Sez. I; 22.4.1993, n. 1683, Cass. Pen., 1994,
2072; Id., 10.6.1997, Nicosia, ivi, 1998, 2007 Cass., sez.
II, 18-11-2005, Terrenghi, Giur. it., 2007, 196).
GIURISPRUDENZA PENALE
Non è pertanto escluso al riguardo che il reato di
violenza privata possa concorrere con quello di
estorsione giacché il primo non può ritenersi assorbito da quello di cui all’art. 629 c.p., qualora la minaccia proferita, sia pure contemporaneamente a
quella estorsiva, operi un’altra forma di costrizione
sulla parte lesa finalizzata ad una ulteriore limitazione della sua libertà (Cass., sez. II, 11-07-2008,
Mangeli, C.E.D. Cass. n. 240637).
Occorre però rilevare come i due reati che tutelano entrambi la libertà di autodeterminazione
dell’individuo, pur avendo apparentemente in comune l’uso della violenza e della minaccia per costringere taluno ad un comportamento, omissivo
ovvero commissivo, non soltanto si differenziano
per l’elemento materiale dell’ingiustizia del profitto con altrui danno presente nel solo delitto di
cui all’art. 629, c.p., ma anche per l’elemento psicologico caratterizzato, nell’estorsione, dalla consapevolezza in capo all’agente di utilizzare la violenza ovvero la minaccia al precipuo fine di costringere la persona offesa a fare od omettere di
fare qualcosa. La qualificazione giuridica del dolo
necessario per l’integrazione del delitto di estorsione non appare però pacifica: taluni propendono
per il dolo specifico poiché, secondo tale orientamento, occorre nel 629 c.p., lo scopo precipuo di
perseguire un profitto ingiusto con altrui danno
(Cass., 11.6.1991, Battista, Cass. Pen., 1993, 51); tuttavia un orientamento più recente e attualmente
maggioritario sostiene invece la tesi del dolo generico sul presupposto che il requisito del profitto
con altrui danno sia in realtà l’evento del reato che,
in quanto tale, deve essere voluto (Cass., sez. II,
17.3.2004, n. 18380; Id., 19.91990, Matarazzo, C.E.D.
Cass. n. 185945).
Per ciò che concerne il secondo profilo analizzato
dalla pronuncia oggetto del presente commento,
l’elemento dell’ingiusto profitto, è individuato dagli
ermellini, nel caso di specie, nel danno obiettivo ed
evidente che la parte offesa, la moglie, ha subito,
consistente nel mancato godimento dell’appartamento di proprietà dei familiari del ricorrente, alla
stessa assegnatole sia in sede di separazione che di
divorzio.
D’altra parte anche questa conclusione alla quale
è arrivata la Suprema corte costituisce un punto
fermo, in argomento, relativamente ai requisiti dell’ingiusto profitto di cui all’art. 629 c.p.
Infatti in tema di estorsione, l’elemento dell’ingiusto profitto si individua in qualsiasi vantaggio,
non solo di tipo economico, che l’autore intenda
conseguire e che non si collega ad un diritto, ovvero
è perseguito con uno strumento antigiuridico o con
uno strumento legale ma avente uno scopo tipico
diverso (Cass., sez. II, 31-03-2008, Colucci, C.E.D.
Cass. n. 239780; Id., sez. II, 17-11-2005, Calabrese, ivi,
n. 234963).
Emerge pertanto con lampare evidenza che il profitto ingiusto è, dunque, quello contra jus ovvero
quello sine jure e, come già precisato, tale elemento
intenzionale permette agevolmente di differenziare
la fattispecie di cui all’art. 629 c.p. da quella di cui
all’art. 393 c.p.
Nel caso di specie tuttavia, la Suprema corte non
si sofferma puntualmente in ordine agli elementi
che differenzierebbero i reati di cui agli artt. 629 e
393 c.p. giacché si limita a censurare l’inammissibilità della doglianza della difesa relativa alla asserita
applicabilità nel caso di specie dell’art. 393 c.p., poiché ritenuta formulata in modo eccessivamente generico.
Tuttavia, dalle argomentazioni svolte sul punto
dalla Cassazione, appare plausibile ipotizzare che la
chiesta derubricazione avrebbe anche potuto avere
rilievo giuridico qualora la difesa dell’imputato
avesse opportunamente indicato le reali ragioni di
diritto ed ove avesse specificato come il contenuto
del diritto vantato fosse giudizialmente realizzabile.
4. Aldilà delle osservazioni relative al corretto inquadramento del reato di estorsione e dai punti
fermi cristallizzati in entrambe le pronunce rese
dalla Suprema corte, non ci si può esimere dal constatare come il contesto familiare, pur essendo un
sistema prevalentemente determinato da vincoli di
natura affettivi, quali il rispetto, la condivisione e
l’amore, talora possa anche presentare connotati di
forte negatività quali l’odio, la sopraffazione, la violenza, la prevaricazione e la perversione.
Infatti, la famiglia pur rappresentando, per definizione, uno degli ambiti di potenziale protezione
per ciascun componente, talora può anche trasformarsi in un vero e proprio ambiente ostile e pericoloso per la stessa integrità fisica e psichica dei suoi
membri.
Quando si parla di violenza nella famiglia, vengono immediatamente alla mente tutti quegli episodi agghiaccianti che, quasi con cadenza quotidiana, ci sono ricordati dai mass-media: atroci violenze fisiche e psicologiche, abusi sessuali consumati o tentati che in talune ipotesi minano irrimediabilmente ed in tal’altre seriamente lo sviluppo
mentale e psichico della vittima.
Con profonda tristezza ed amarezza siamo consapevoli che anche le mura domestiche spesso diventano il teatro per la consumazione di atroci nefandezze, talora ancor più gravi rispetto a quelle oggetto delle pronunce sopra annotate della Suprema
corte del 20 aprile 2010, n. 15111 e del 19 aprile 2010
n. 14914. Tuttavia, non per questa considerazione, i
fatti oggetto delle suddette sentenze risulterebbero
meno degni di nota o di risonanza emotiva poiché,
relativamente alle condotte perpetrate in danno dei
propri familiari così come accertate dai giudici, queste, in ogni caso, meritano un giudizio di profondo
sdegno.
luglio-agosto 2010 | Avvocati di famiglia | 55
OSSERVATORIO LEGISLATIVO
Obiettivi de iure condendo:
Le proposte
di legge
di modifica
in tema di
affidamento
condiviso
dei figli
a cura di EMANUELA COMAND
AVVOCATO DEL FORO DI UDINE
Le proposte e/o disegni di legge
successivi alla legge n. 54 dell’8
febbraio 2006 sono cinque.
Più precisamente:
- Proposta del 29 aprile 2008
d’iniziativa dei deputati Brugger,
Zeller e Nicco;
- Proposta del 17 giugno 2008
d’iniziativa del deputato Angela
Napoli;
- Disegno di legge del 29 luglio
2008 d’iniziativa dei senatori Valentino, Ciarrapico, Cossiga, Tofani, Bevilacqua, Thaler Auseerhofer, Giai, Santini, Ramponi,
Izzo, Amoroso, Di Girolamo, Di
Giacomo, Saccomanno, Serafini,
Asciutti, De Gragorio, Speziali,
Stradiotto, De Lillo, Amato e
Boldi;
- Proposta di legge del 16 febbraio 2009 d’iniziativa dei deputati Lussana, Volontà, Fedriga,
Drago, Di Cagno Abbrescia, Romano, Minardo, Mannucci, Marantelli, Savino, Cera, Fugatti, Orlando, Pagano, Porfidia, Salvini.
- Proposta di legge del 12 gennaio 2010 d’iniziativa del deputato Torrisi.
56 | Avvocati di famiglia | luglio-agosto 2010
Bigenitorialità: doppio domicilio del minore
(art. 155, 2°comma, c.c …. ‘Il giudice determina i tempi e le modalità
della loro presenza presso ciascun genitore, stabilendone il domicilio presso
entrambi, salvi accordi diversi del genitori, e tenendo conto della capacità
di ciascun genitore di rispettare la figura e il ruolo dell’altro.’…).
La nuova formulazione evidenzia la scelta a favore di due case
purché ciò permetta di continuare ad avere due genitori (Belgio e Francia);
Biparentalità: possibilità per gli
ascendenti del minore di adire
l’Autorità Giudiziaria per la disciplina dei loro diritti di visita
(art. 155 c.c.… ‘Agli ascendenti è
data facoltà di chiedere al giudice che
sia riconosciuta e disciplinata la propria possibilità di contatto con i minori’).
La nuova formulazione si preoccupa di rendere effettivo il diritto dei figli a mantenere rapporti significativi con i due ambiti parentali al completo, ovviando al problema di una lettura
dell’articolato che sembrava voler riservare ai nipoti la possibilità di tutelare il loro rapporto
con i nonni a condizione di essere loro stessi ad attivarsi;
Mantenimento diretto: ciascuno dei genitori provvede in forma
diretta e per capitoli di spesa al
mantenimento dei figli in misura
proporzionale alle proprie risorse
economiche
(art. 155, 4°comma, c.c. …. ‘Salvo
accordi diversi delle parti, ciascuno
dei genitori provvede in forma diretta
e per capitoli di spesa al mantenimento dei figli in misura proporzionale alle proprie risorse economiche.
Le modalità sono concordate direttamente dai genitori o, in caso di disaccordo, sono stabilite dal giudice. Il costo dei figli è valutato tenendo conto:
1) delle attuali esigenze del figlio;
2) delle attuali risorse economiche
complessive dei genitori.
Quale contributo diretto il giudice
valuta anche la valenza economica
dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.
Ove necessario al fine di realizzare
il principio di proporzionalità di cui al
sesto comma, il giudice può stabilire
la corresponsione di un assegno perequativo periodico. L’assegno è automaticamente adeguato agli indici
ISTAT, in difetto di un altro parametro
indicato dalle parti o dal giudice.
Qualora un genitore venga meno,
comprovatamene, al dovere di provvedere alle necessità del figlio nella
forma diretta per la parte di sua
spettanza, il giudice stabilisce, a domanda, che provveda mediante assegno da versare all’altro genitore’);
Mantenimento figlio maggiorenne: attribuzione al figlio maggiorenne della titolarità dell’assegno di mantenimento
(art. 155 quinquies, 1°comma, c.c.
‘Dell’assegno perequativo eventualmente stabilito per il figlio, o degli assegni che entrambi i genitori siano obbligati a versare in un conto corrente
comune a favore del figlio, è titolare
quest’ultimo quando diventa maggiorenne; il figlio maggiorenne è altresì
tenuto a collaborare con i genitori e a
contribuire alle spese familiari, finché
convivente. Ove il genitore obbligato
si renda inadempiente, in caso di inerzia del figlio è legittimato ad agire anche l’altro genitore, come persona che
ne subisce un danno’);
Assegnazione casa coniugale:
il cessato uso della casa familiare come abitazione, o l’introduzione in essa di un soggetto
estraneo al nucleo originario, fa
venire meno quei requisiti di
“nido”, di habitat consueto dei
figli che in via del tutto eccezionale permette di superare le
normali regole di godimento dei
beni immobili
(art. 155 quater c.c. ‘Nel caso in
cui l’assegnatario della casa familiare non vi abiti o cessi di abitarvi
stabilmente o conviva more uxorio,
la sua assegnazione in godimento, a
tutela dell’interesse dei figli a conservare intatto il luogo di crescita,
OSSERVATORIO LEGISLATIVO
perde efficacia e il giudice dispone, a
domanda, secondo i criteri ordinari’);
Mediazione familiare: obbligo
di mediazione familiare
(art. 709 bis c.c. ‘In tutti i casi di disaccordo nella fase di elaborazione del
progetto condiviso le parti hanno l’obbligo, prima di adire il giudice e salvi
i casi di assoluta urgenza o di grave
ed imminente pregiudizio per i minori
di acquisire informazioni sulle potenzialità di un eventuale percorso di mediazione familiare, rivolgendosi ad un
centro pubblico o privato… In ogni
caso la parte ricorrente deve allegare
al ricorso la certificazione del passaggio presso il centro di cui al primo
comma o concorde dichiarazione circa
l’avvenuto passaggio’).
Le proposte
di modifica
sulla
disciplina
della potestà e
della filiazione
naturale
Disegni di
legge n. 1211
e 1412
Il 25 maggio 2010 si è concluso
l’esame da parte della 2° Commissione permanente (Giustizia) del
Senato in sede referente dei disegni di legge n. 1211 di iniziativa dei
senatori Berselli ed altri, presentato in data 17 novembre 2008,
avente ad oggetto la modifica dell’attuale disciplina in materia di
esercizio della potestà genitoriale
e n. 1412 sempre di iniziativa dei
senatori Berselli ed altri avente ad
oggetto la modifica alla disciplina
in materia di filiazione naturale,
disegno di legge presentato in
data 26 febbraio 2009.
La Commissione Giustizia ha
scelto di esaminare i due disegni
di legge congiuntamente essendo evidente la loro connessione.
È opportuno tuttavia analizzare prima separatamente le due
proposte, che se verranno tradotte in legge, apporteranno significativi cambiamenti nell’ambito della disciplina della filiazione naturale.
DISEGNO DI LEGGE
n. 1211 del 17
novembre 2008.
Modifica alla disciplina
in materia di esercizio
della potestà
genitoriale.
Il disegno di legge si articola in
un solo “articolo” che riproponiamo integralmente:
1) L’art. 317 bis del codice civile
è abrogato 2) All’art. 38, primo
comma, delle disposizioni per
l’attuazione del codice civile e disposizioni transitorie, la parola
317 bis è soppressa.
Come sovente accade i grandi
cambiamenti, non richiedono
provvedimenti normativi particolarmente complessi.
L’art. 317 bis del codice civile
disciplina l’esercizio della potestà nell’ambito della filiazione
naturale ed attribuisce al genitore naturale che ha riconosciuto
il figlio come proprio la potestà ai
sensi dell’art. 261 del codice civile
ovvero i diritti ed i doveri del genitore legittimo.
La norma poi distingue in base
a criteri temporali e di convivenza la “ripartizione” della potestà, da intendersi quale esercizio
della medesima.
In sintesi viene prospettata la
seguente scaletta:
- in caso di riconoscimento
congiunto, l’esercizio della potestà sarà congiunto
- in caso di mancanza o interruzione della convivenza la potestà spetta al genitore convivente
ed in caso di convivenza del minore con terzi, al genitore che per
primo ha fatto il riconoscimento
- il genitore che non esercita la
potestà ha il diritto di vigilare
sull’istruzione, educazione e condizioni di vita del figlio, così riproponendo il contenuto degli
artt. 147 e 155 del codice civile in
tema di filiazione legittima. Osserviamo tuttavia che mentre per
la filiazione legittima il dovere di
luglio-agosto 2010 | Avvocati di famiglia | 57
OSSERVATORIO LEGISLATIVO
vigilare è circoscritto al mantenimento, all’istruzione ed all’educazione del figlio, l’art. 317 bis codice civile fa riferimento anche
alle condizioni di vita del figlio.
Infine il giudice-ora Tribunale
per i minorenni del luogo di residenza abituale del minore può,
sempre nell’esclusivo interesse
del minore, disporre che la potestà venga esercitata da un tutore
e che comunque i genitori possano essere privati del potere-dovere di educare i figli.
Secondo la Relazione introduttiva la legge 8 febbraio 2006 n. 54
non ha superato la dicotomia tra
figli naturali e legittimi, mantenendo la competenza del Tribunale per i Minorenni per i figli naturali con riferimento alla disciplina del regime di affidamento e
mantenendo inalterata la competenza per le questioni economiche inerenti il mantenimento
dei figli naturali riconosciuti al
Tribunale Ordinario.
In realtà secondo i firmatari
della proposta n. 1211 la legge n.
54 avrebbe dovuto allargare al
Tribunale Ordinario la competenza anche per i figli nati al di
fuori dal matrimonio.
La giurisprudenza invece ha
recuperato la competenza del Tribunale per i Minorenni sia per
quanto attiene al regime di affi58 | Avvocati di famiglia | luglio-agosto 2010
damento dei minori naturali sia
per quanto attiene al loro trattamento economico, se la domanda di regolamentazione dei
rapporti è congiunta.
In sostanza al Tribunale ordinario permane la competenza
dei rapporti economici tra genitori naturali solo se distinti dalla
domanda avente ad oggetto la disciplina dell’affidamento. (Corte
Cassazione Sez. I ordinanza del 3
aprile 2007 n. 8362).
Secondo la Relazione questa
interpretazione contrasta con il
nuovo art. 155 del codice civile
che, avendo introdotto l’affidamento condiviso, ha di fatto tolto
valore alla “discriminazione” disciplinata dall’art. 317 bis (che
trattava in maniera differente
l’esercizio della potestà tra genitori naturali e legittimi) e l’art. 38
delle disposizioni d’attuazione
del codice civile che sanciva la
competenza esclusiva del Tribunale per i Minorenni in relazione
all’esercizio della potestà nella filiazione naturale.
Sebbene la Relazione non lo
dica espressamente l’aver introdotto una disciplina diversa per
quanto attiene al regime di affidamento e della potestà all’interno della famiglia legittima, superando il concetto di fisica “collocazione” e “possesso” del mi-
nore con quello della responsabilità condivisa dei genitori a prescindere dall’esclusione dell’affidamento, ha aperto nuove prospettive anche per quanto attiene alla filiazione naturale.
Si richiama il grave pregiudizio
per la giurisdizione civile in materia di stato e capacità delle persone con specifico riferimento
alla lunghezza dei procedimenti
davanti al Tribunale per i Minorenni.
Si contesta l’attribuzione di
competenza a favore del Tribunale per i Minorenni sia per
quanto attiene alla disciplina del
regime di affidamento dei figli
naturali, sia con riferimento alla
possibilità di intervento ai sensi
degli artt. 330, 336 del codice civile anche in ordine alla potestà
dei genitori legittimi.
L’entrata in vigore della legge n.
54 avrebbe introdotto una serie di
principi e criteri incompatibili
con l’attuale ripartizione frammentaria delle competenze.
L’introduzione del principio di
bigenitorialità, della mediazione
familiare, la disciplina introdotta
dall’art. 709 ter del codice civile
ha fatto il resto: in “questo quadro, una riforma ordinamentale
che unifichi le competenze è indilazionabile, anche perchè la
giustizia minorile -così come era
stata pensata nel secolo scorsonon risponde più ai bisogni della
società”.
DISEGNO DI LEGGE
n. 1412 del 26 febbraio
2009
Modifica alla disciplina
in materia di filiazione
naturale
All’origine, anche questo disegno di legge, si limitava ad un articolo che per brevità riportiamo
integralmente.
Art. 1
1 L’art. 38 delle disposizioni di
attuazione del codice civile di-
OSSERVATORIO LEGISLATIVO
sposizioni transitorie è sostituito
dal seguente: art. 38 - Sono di
competenza del Tribunale per i
Minorenni i provvedimenti contemplati dagli artt. 84, 90, 330,
332, 333, 334, 335, 371, ultimo
comma del codice. Sono emessi
dal Tribunale ordinario i provvedimenti per i quali non sia
espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità
giudiziaria. In ogni caso il Tribunale provvede in camera di consiglio, sentito il Pubblico Ministero. Quando il provvedimento
è emesso dal Tribunale per i minorenni, il reclamo si propone
davanti alla sezione di corte
d’appello per i minorenni.
Anche all’interno della nuova
disciplina viene mantenuta la
competenza del Tribunale ordinario, qualora non vi sia un’attribuzione specifica di competenza
ad altro giudice.
Tuttavia la competenza del Tribunale per i Minorenni viene “decapitata” e non di poco.
Attualmente il Tribunale per i
minorenni si occupa di:
art. 84 c.c.: condizioni necessarie per la celebrazione del matrimonio
art. 90 c.c.: nomina di un curatore in caso di matrimonio autorizzato di ultrasedicenne
art. 171 c.c.: cessazione del fondo patrimoniale in caso di annullamento o scioglimento del matrimonio ed i presenza di figli minori
art. 194 c.c.: modalità di divisione dei beni della comunione
legale
art. 250 c.c.: riconoscimento figli naturali
art. 252 c.c.:affidamento del figlio naturale e inserimento nella
famiglia legittima
art. 262 c.c.:attribuzione del cognome al figlio naturale
art. 264 c.c.: impugnazione da
parte del riconosciuto del riconoscimento da parte del genitore
naturale
art. 269 c.c.: dichiarazione giudiziale di paternità se riguarda
minori
art. 316 c.c.: potestà dei genitori legittimi
art. 317 c.c.: potestà dei genitori naturali
art. 330 c.c.: decadenza della
potestà
art. 332 c.c.: reintegra della potestà
art. 333 c.c.: condotta pregiudizievole al figlio
art. 334 c.c.: rimozione dall’amministrazione di un genitore
art. 335 c.c.: riammissione all’amministrazione sospesa
art. 371 c.c: autorizzazione all’esercizio di un impresa durante
la tutela.
Con la nuova proposta di legge
verranno devolute alla competenza del Tribunale ordinario
l’art. 171, 194, 250, 252, 262, 264,
269, 316, 317 del codice civile.
Tentando una semplificazione
delle competenze tutto ciò che
attiene alla disciplina dei rapporti tra genitori e figli, naturali o
legittimi, con genitori separati o
non conviventi verrà deciso dal
Tribunale Ordinario che si presume sia quello della stabile residenza del minore.
Ciò che riguarda la “patologia”
del rapporto, con la necessità di
un indagine più incisiva sulla capacità genitoriale degli adulti
coinvolti, verrebbe deciso dal Tribunale per i Minorenni.
Quanto al coordinamento tra
l’art. 155 ed il nuovo articolo 316
del codice civile la Relazione contiene un chiaro richiamo alla
competenza del Tribunale ordinario anche in ordine all’esercizio della potestà.
Inoltre l’impugnazione da
parte del minore riconosciuto diventerà di competenza del Tribunale ordinario, mentre ora è devoluta al Tribunale per i Minorenni; la disciplina dell’art. 263
codice civile in tema di impugnazione per difetto di veridicità,rimarrebbe attribuita alla competenza del Tribunale ordinario.
Resta ferma la competenza del
Tribunale per i Minorenni per
tutto ciò che attiene all’affida-
mento, all’adozione ed alla revoca dell’adozione, nonché alla
domanda di legittimazione ai
sensi dell’art 35 disposizioni d’attuazione del codice civile.
I testi ora esaminati sono stati
riuniti in un unico testo proposto dalla Commissione per i disegni di legge n. 1211 e 1412 che
assume il nuovo titolo:
Modifica alla disciplina in materia di potestà genitoriale e filiazione naturale
Il “nuovo” testo proposto è costituito da 5 articoli che riprendono i disegni di legge unificati,
ma prevede all’art. 1 anche la
soppressione del 4° comma dell’art. 316 codice civile che attribuisce al padre il potere di adottare in presenza di un grave pregiudizio per il figlio i provvedimenti urgenti ed indifferibili.
Viene mantenuta invece la previsione che il giudice, in caso di
contrasto tra genitori non separati, possa attribuire al genitore
più idoneo a curare gli interessi
dei figli la facoltà di decidere. È
evidente che il comma soppresso
è da tempo sotto il mirino degli
interpreti, violando il principio di
uguaglianza dei coniugi sancito
dagli artt. 2 e 29 della Costituzione.
L’articolo 2 non si limita ad
abrogare l’art. 317 bis codice civile come nel primitivo disegno
di legge, ma lo sostituisce attribuendo la potestà sul figlio naturale riconosciuto al genitore che
lo ha riconosciuto (e in questo
caso nulla cambia rispetto all’attuale regime) ed in caso di riconoscimento fatto da entrambi ad
entrambi congiuntamente. Rispetto all’attuale art. 317 bis,
manca il riferimento alla convivenza. Ciò significa che se il riconoscimento è fatto da entrambi i
genitori, per quanto attiene all’esercizio della potestà la convivenza è irrilevante.
Osserviamo che la nuova formulazione è diversa dall’attuale
art. 317 bis codice civile che opera
luglio-agosto 2010 | Avvocati di famiglia | 59
OSSERVATORIO LEGISLATIVO
un distinguo netto tra genitore
convivente (attribuendogli la potestà) ed il genitore non convivente cui spetterà sicuramente la
titolarità della potestà, ma non
l’esercizio.
Sempre l’art. 2 estende l’applicazione dell’art. 316 codice civile
alla filiazione naturale ed in caso
di mancata convivenza tra genitori l’applicazione degli artt. 155,
156 commi 4, 5, 6 e 7 codice civile.
È evidente l’intento di uniformare la disciplina dei rapporti tra
genitori e figli, a prescindere dall’origine della loro nascita. Rimane tuttavia il dubbio dell’inciso, riferito agli artt. 155 e 156
codice civile la cui applicazione
viene subordinata “in quanto
compatibili”.
L’art. 3 del nuovo progetto di
legge congiunto modifica -come
già visto nel progetto originariol’art. 38 delle disposizioni d’attuazione del codice civile, nonché
le disposizioni transitorie.
Permane l’attribuzione delle
competenze al Tribunale per i Minorenni limitatamente agli artt.
84, 90, 330, 332, 333, 334, 335 e 317
ultimo comma del codice civile.
Permane la vecchia formulazione dell’art. 38 laddove attribuisce al Tribunale ordinario le
competenze relative ai minori
se non diversamente riconosciute ad una diversa autorità
giudiziaria.
Si prevede l’applicazione dell’art. 710 codice procedura civile
(modificabilità dei provvedimenti
relativi alla separazione dei coniugi) anche per i procedimenti
in materia di affidamento e mantenimento dei figli naturali.
Dato che l’art. 710 codice procedura civile è applicato in presenza di un provvedimento giudiziale di separazione o di un
omologa di un verbale di separazione consensuale, è evidente
che ci si riferisce alla filiazione
naturale e quindi alla mancata
convivenza tra genitori naturali.
In questo caso il Tribunale
competente provvede in camera
60 | Avvocati di famiglia | luglio-agosto 2010
di consiglio sentito il pubblico
ministero ed i provvedimenti
emessi sono immediatamente
esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente. Attualmente i decreti emessi in camera
di consiglio sono efficaci quando
sono decorsi i termini per la proposizione del reclamo che va proposto nel termine perentorio di
dieci giorni dalla comunicazione
o dalla notificazione in presenza
di più parti (art. 739-741 codice
procedura civile). Solo se vi sono
ragioni d’urgenza il giudice può
disporre che il decreto abbia efficacia immediata. Con la nuova
formulazione il principio viene
capovolto.
Il richiamo alla presenza del
pubblico ministero è stata determinata dalla decisione della
Corte Costituzionale che con sentenza del 9-11-1992 n. 416 ha dichiarato l’illegittimità dell’art.
710 codice procedura civile nella
parte in cui non prevede la partecipazione del pubblico ministero
per la modifica dei provvedimenti riguardanti la prole.
Infine l’art. 3 del testo - 1211 +
1412 - stabilisce che in ordine alla
competenza restano ferme le
norme in materia di azioni di
stato ovvero l’azione di disconoscimento di paternità (art. 235 244 c.c), l’azione di contestazione
della legittimità (art. 248 c.c) ed
infine l’azione di reclamo della
legittimità (art. 249 c.c).
Le azioni di stato sono di competenza del Tribunale ordinario
in composizione collegiale, sia
che riguardino minori che maggiorenni e ciò ai sensi dell’art. 50
bis comma 1° n. 1 e 70 comma 1°,
n. 3 c.p.c., essendo ben noto che
l’elenco contenuto nell’art. 38 disposizioni d’attuazione del codice civile è tassativo. Ne consegue che ai sensi della nuova proposta di legge, tutti i provvedimenti che riguardano i minori,
sia davanti al Tribunale ordinario
che davanti al Tribunale per i Minorenni dovrebbero svolgersi con
rito camerale.
L’art. 4 prevede le disposizioni
transitorie e si indica che ai processi relativi all’affidamento ed
al mantenimento dei figli naturali pendenti alla data di entrata
in vigore della legge si applichi
comunque l’art. 710 codice procedura civile nel rispetto delle
garanzie costituzionali del giusto
processo, mentre l’art. 5 circoscrive l’applicazione della legge
ai giudizi instaurati dopo la sua
entrata in vigore.
Conclusioni
Negli ultimi anni numerosi
sono stati i tentativi di eliminare
la discriminazione tra filiazione
legittima e naturale. Ogni tanto
compare una nuova proposta di
legge che ingenera negli operatori del settore la speranza che
questa immotivata ed antistorica
dicotomia venga eliminata.
Eppure, sempre, prima di raggiungere la meta accade qualcosa che “blocca” l’iter normativo
e ci rimanda alle vecchie abitudini processuali.
Le possibilità di risistemare
l’intera materia per il legislatore
sono state infinite, ma è corretto
affermare che anche la giurisprudenza si è lasciata sfuggire la
possibilità di intervenire sotto il
profilo interpretativo.
C’è chi sostiene che compete al
legislatore decidere se il nostro
ordinamento vuole l’effettiva e
concreta parità tra figli legittimi
e naturali o meno e che non possiamo sempre demandare all’interprete la responsabilità di sciogliere i nodi di scelte sociali, etiche, religiose.
Questa proposta di legge pur
nella sua “essenzialità” potrebbe
accelerare le procedure che vedono coinvolte famiglie di fatto
ed allargate, semplicemente attribuendo la competenza al Tribunale ordinario.
Per chi è abituato a dover quotidianamente giustificare “liste”
d’attesa di anni per ottenere un
provvedimento davanti al Tribunale per i minorenni sarebbe già
un bel vantaggio.
IN LIBRERIA
In libreria
a cura dell’avv. GIANFRANCO DOSI
GIOVANNI BATTISTA CAMERINI
ed ENZO SECHI (a cura di)
Riabilitazione psicosociale
nell’infanzia e nell’adolescenza
Principi ed esperienze
Maggioli, 2010
Un libro di grande interesse
scientifico e clinico curato da Camerini (docente di neuropsichiatria generale e infantile all’Università di Roma La Sapienza) e de
Sechi (docente di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza all’Università dell’Aquila).
La riabilitazione può essere intesa come un processo di apprendimento e riapprendimento
capace di stimolare e sostenere le
risorse adattive in rapporto al
processo di sviluppo.
Al di là degli ambiti d’intervento
legati alla disabilità, oggi si va
sempre più delineando un’area
di intervento riabilitativo riguar-
dante il cosiddetto rischio psicosociale.
La riabilitazione psicosociale si
rivolge quindi a quelle condizioni
familiari e sociali che, al di là dell’esistenza di una patologia psichica più o meno invalidante,
configurano un rischio in grado
di porre a repentaglio i potenziali
evolutivi del bambino o dell’adolescente, compromettendo la sua
salute mentale.
In essa confluiscono i contributi
della psicologia clinica e dello
sviluppo, della neuropsichiatria
infantile, della psicologia della famiglia, della psicologia sociale e
giuridica, della psichiatria forense, designando un’area che risulta particolarmente feconda
per le potenziali applicazioni
operative.
Le situazioni di rischio psicosociale sono innumerevoli:
- bambini e adolescenti vittime di
maltrattamento, abuso, violenza intrafamiliare, o in condizione di trascuratezza;
- bambini e adolescenti cresciuti
in famiglie con genitori affetti
da disturbi mentali o da gravi
sociopatie;
- problemi connessi all’adozione
o all’affidamento extrafamiliare;
- bambini e adolescenti vittime di
eventi traumatici di origine ambientale;
- bambini e adolescenti portatori
di disturbi mentali cronici e di
condizioni di disabilità;
- giovani e adolescenti devianti,
autori di comportamenti aggressivi e violenti, individuali o
di gruppo.
Il volume si rivolge agli operatori
che agiscono in questo settore
(neuropsichiatri infantili, psicologi, assistenti sociali, educatori),
offrendo, all’insegna di un approccio integrato e multidisciplinare, principi ed esperienze.
cliniche utili per valutare le situazioni a rischio e per programmare e monitorare gli interventi
più efficaci.
DALE CARNEGIE
Come parlare in pubblico
e convincere gli altri
Bompiani, 2008
La prima edizione di questo libro
comparve nel 1962 con il titolo
“The Quick & Easy Way to Effective Speaking” a New York. Dopo
la morte del suo autore (1889 1955) fu la moglie Doroty a darlo
alla stampa.
Raccoglieva interventi e lezioni
del corso di oratoria che Dale
Carnegie tenne dal 1912 all’YMCA di New York. Un libro
quindi datato ma proprio per
questo originale.
Tradotto in undici lingue, ha superato negli Stati Uniti le cinquanta ristampe.
Nella nostra esistenza - scriveva
Doroty nella presentazione della
prima edizione italiana nel 1990
- ogni attività è in qualche modo
comunicazione, ma è la parola
che distingue l’uomo dalle altre
forme di vita.
Tra tutti gli animali l’uomo soltanto ha il dono della comunicazione verbale e mediante la qualità del discorso esprime al meglio la sua individualità, la sua
essenza. Quando non è in grado
di dire chiaramente quello che
intende esprimere, per nervosismo, timidezza o perché i processi di pensiero sono nebulosi,
la sua personalità è ostacolata,
luglio-agosto 2010 | Avvocati di famiglia | 61
IN LIBRERIA
offuscata, fraintesa. La soddisfazione, a livello personale, sociale,
di lavoro, dipende in larga misura
dalla capacità di comunicare con
chiarezza ai nostri simili chi
siamo, che cosa desideriamo, in
che crediamo.
Non solo i grandi oratori e le personalità pubbliche ma tutti
siamo chiamati quotidianamente
a prendere la parola in situazioni
che richiedono coerenza di pensiero e forza espressiva.
Il segreto del successo di questo
libro - si legge in quarta di copertina - sta nell’aver saputo rispondere a queste aspettative partendo dal presupposto che esprimersi con chiarezza e convinzione è una capacità che qualsiasi
persona dotata di normale intelligenza e armata di buona volontà è in grado di acquisire e sviluppare.
Pagina dopo pagina Dale Carnegie ci insegna, attraverso il training della fiducia in se stessi e il
superamento della paura, ad ottenere prestigio personale e riconoscimento professionale.
ANTONIO FUCCILLO
Giustizia e religione.
L’agire religioso
nella giurisprudenza civile
Giappichelli, 2009
Il volume di Antonio Fuccillo,
professore associato presso la seconda università degli Studi di
62 | Avvocati di famiglia | luglio-agosto 2010
Napoli e notaio nel distretto di
Latina, si segnala perché costituisce una indagine assolutamente
originale sul rapporto tra diritto e
religione nelle decisioni della
giurisprudenza civile.
Il libro, che raccoglie i risultati di
una ricerca effettuata con la collaborazione di Giovanna Guarnaccia, Elisa Mattu, Massimo Prodigo, Pierfrancesco Rina, Raffaele
Santoro e Francesco Sorvillo,
dopo una prima parte dedicata al
“diritto ecclesiastico civile vivente”, agli enti religiosi e agli
edifici di culto e agli enti ecclesiastici e al loro regime giuridico,
contiene una rassegna di grande
interesse per lo studioso ma anche per il prativo del diritto sul
tema dei rapporti tra famiglia,
matrimonio e fattore religioso e
prende in considerazione alcune
decisioni della Corte di cassazione sull’indipendenza, applicata al matrimonio concordatario,
tra l’ordinamento civile e quello
della Chiesa; alla libertà religiosa
anche alla luce delle nuove
norme sull’affido condiviso e al
matrimonio di coscienza.
Una parte è, poi, dedicata al tema
della tutela dei minori da un
punto di vista della identità religiosa ed esamina il sistema della
Kafalah islamica alla luce dei
principi operanti nel nostro ordinamento.
Un approfondimento viene riservato alla trascrizione del matrimonio religioso e al tema della
delibazione delle sentenze ecclesiastiche.
L’ultimo capitolo passa in rassegna i dirirtti fondamentali della
persona nella prospettiva della
tutela della libertà religiosa ed
esamina la querelle sulla esposizione del crocifisso nei luoghi
pubblici, il tema della protezione
dei dati sensibili di interesse religioso, del trattamento dei dati sanitari e del testamento biologico
e del risarcimento del danno connesso alle violazioni della libertà
religiosa. Un libro ben fatto e ottimamente articolato. Da leggere
assolutamente.
LUIGI FADIGA
Il giudice dei minori
Il Mulino, 2010
Nella felice collana “farsi una
idea” de Il Mulino esce una pubblicazione encomiabile di Luigi
Fadiga, che è stato per molti anni
presidente del tribunale per i minorenni di Roma e della Sezione
famiglia della Corte d’appello, oltre che Direttore dell’Ufficio Minori del Ministero della giustizia.
Nel libro, il cui sottotitolo è “I nostri ragazzi di fronte alla giustizia” Fadiga ci dice chi sono e cosa
fanno i giudici che giudicano i
minorenni illustrando il sistema
della giustizia minorile italiana:
29 tribunali per i minorenni con
quasi 200 giudici togati (oltre a
100 pubblici ministeri) - pari al
3% dell’organico della magistratura italiana - e 700 componenti
psicologi e esperti di problemi
dell’età evolutiva, i cosiddetti giudici onorari nominati per un
triennio dal Consiglio superiore
della Magistratura. Il numero di
giudici è decisamente basso - fa
notare Fadiga - considerato che
poco meno di un quinto della popolazione italiana è costituita da
minorenni ma bisogna considerare che alle questioni minorili per esempio l’affidamento dei figli in sede di separazione e divorzio - si dedicano ogni giorno anche i giudici dei tribunali ordi-
IN LIBRERIA
nari. La funzione più importante
del giudice che lavora nel tribunale per i minorenni è quella di
occuparsi in sede penale dei reati
commessi dai minorenni e in
sede civile delle procedure di
controllo della potestà dei genitori e di quelle di adozione.
Il libro passa in rassegna la storia
della giustizia minori con un
primo divertito e curioso sguardo
alla realtà della fine dell’800 nel
nostro continente e negli Stati di
oltreoceano per arrivare poi a descrivere la formazione del sistema giudiziario minorile italiano che si deve ad una normativa del 1934 ancora per alcune
sue parti oggi in vigore.
Fadiga si sofferma molto sui
cambiamenti negli anni Cinquanta - decisivi per imprimere
al sistema una funzione educativa e poi promozionale prima
che punitiva - e sulla creazione
nel 1971 di una pianta organica
della magistratura minorile, atto
d’inizio di quella specializzazione
che sarà negli anni successivi la
principale caratteristica della
funzione giudicante nel settore
dei minori.
Molto critico nei confronti dei ricorrenti progetti di “demolizione”
della giustizia minorile e del suo
accorpamento all’interno del sistema giudiziario ordinario (l’autore ironizza sulle competenze
ingegneristiche dell’ex Ministro
Castelli, autore di un progetto di
ristrutturazione non andato in
porto), Fadiga non nasconde la
sua critica nei confronti della attribuzione ai giudici minorili
delle competenze economicistiche sul contenzioso in materia di
filiazione naturale che ha privato
i giudici del tempo e degli spazi
di lavoro nel contenzioso tradizionale e più qualificante sulla
potestà.
L’idea di molti - auspicata anche
da Fadiga - è quella di una collocazione unitaria delle competenze concernenti la famiglia in
un unico organismo decentrato
sul territorio in modo tale da essere più vicino ai cittadini degli
attuali 29 tribunali per i minorenni e meno decentrato degli attuali 165 tribunali ordinari.
Un libro da leggere assolutamente per l’assoluta straordinarietà e originalità del contributo,
sintetico e del tutto appagante.
GUGLIELMO GULOTTA
Commedie e drammi
nel matrimonio
Feltrinelli, XIV edizione, 2008
Mi è capitato di trovare in libreria
un cimelio al quale non ho saputo resistere. Si tratta di un libretto - la cui prima edizione è
del 1976 ed è ormai quasi introvabile - di Guglielmo Gulotta (allora già noto per il suo “Psicoanalisi e responsabilità penale”).
Lo rende poi addirittura prezioso
la prefazione dell’insigne Paul
Watzlawick del Mental Research
Institute di Palo Alto, illustre psicologo (scomparso nel 2007) noto
al grande pubblico per la sua famosa “pragmatica della comunicazione umana”, una pietra miliare della psicologia mondiale.
Quando la comunicazione umana si interrompe - scriveva Watzlawick nell’introduzione alla
prima edizione - i comunicanti
invariabilmente fanno ricorso
alla reciproca accusa di malattia
mentale o di malvagità. La coppia
coniugale non fa certo eccezione
a questa regola.
Ed è questo proprio il contenuto
del saggio di Gulotta dedicato “a
tutti quelli che non vanno d’accordo”. Un saggio che seguiva alcuni articoli su “Psicologia e terapia del disaccordo coniugale”
comparsi nel 1973 e 1974 sulle
pagine della rivista “Il diritto di
famiglia e delle persone”.
Molte pagine di questo saggio,
lette oggi, ci appaiono senz’altro
ingenue. D’altro lato la psicologia
della comunicazione e le teorie
psicologiche sulla famiglia in
trentacinque anni non avrebbero
certo potuto rimanere identiche
ad allora. Il tema di fondo è sempre, però, appetibile nella sua
semplicità.
Che il matrimonio, cioè, non è il
risultato della banale somma degli individui che lo compongono
(moglie + marito) ma è un insieme di relazioni e porre le cose
in questi termini aiuta a capire
fatti che altrimenti sarebbero incomprensibili.
Qualunque cambiamento che avviene in uno degli oggetti appartenenti a questo sistema di relazioni comporta una variazione in
tutte le altre parti e in tutto il sistema. Solo comprendendo questi meccanismi si possono comprendere le dinamiche coniugali.
Ancora oggi il saggio di Gulotta,
illustrato dal grande disegnatore
Alfredo Chiappori, ci aiuta ad entrare in questi argomenti con entusiasmo e semplicità.
UGO SABATELLO (a cura di)
Lo sviluppo antisociale:
dal bambino al giovane adulto
Raffaello Cortina Editore, 2010
Bambini aggressivi, violenti, difficili, antisociali. Il libro curato da
Ugo Sabatello, protagonista di
primo piano della neuropsichiatria infantile italiana, clinica e forense, si occupa dello sviluppo
antisociale in età evolutiva e
passa in rassegna i principali disturbi della condotta che caratterizzano una percentuale stimata
luglio-agosto 2010 | Avvocati di famiglia | 63
IN LIBRERIA
tra il 5 e il 10% della popolazione
infantile tra gli 8 e i 16 anni di età.
Il periodo dello sviluppo in cui si
manifestano in misura maggiore
l’aggressività e la violenza non è
l’adolescenza ma i primi anni di
vita - affermano i ricercatori mentre con il crescere dell’età
l’aggressività tende a diminuire.
Per questo i primi contributi raccolti nel libro vanno alla ricerca
proprio dei precursori, dei segni e
dei significati della violenza in
età evolutiva; delle precoci alterazioni dello sviluppo e della condotta.
Con la precisazione che le condotte violenti si differenziano in
relazione alle caratteristiche specifiche dello sviluppo individuale
nel rapporto tra fattori di rischio
e fattori di protezione del bambino e dell’adolescente.
Fattori personali, ambientali, del
gruppo dei coetanei, familiari.
Non tutte le manifestazioni di aggressività evolvono verso l’antisocialità.
Il libro esamina le forme di aggressività autolesionistiche, quelle sessuali, quelle che evolvono
nel vandalismo, nel bullismo,
nella violenza di gruppo.
La seconda parte del libro, pratico-operativa è dedicata alla valutazione e al trattamento dei disturbi della condotta nel contesto
degli interventi della giustizia so64 | Avvocati di famiglia | luglio-agosto 2010
prattutto minorile e quindi si sofferma sull’uso degli strumenti
principali di valutazione indagine
e valutazione peritale e testologica in ambito penale minorile.
Di interesse pratico e di buona
stesura i contributi sulla perizia e
sul processo penale.
Il merito di grande rilievo di Ugo
Sabatello è quello di aver saputo
raccogliere con un ottimo risultato d’insieme i contributi dei
principali protagonisti della neuropsichiatria infantile clinica e
forense proponendo un dibattito
per nulla ideologico ma attento
alla complessità dei diversi percorsi umani che si nascondono
dietro alle sempre più numerose
segnalazioni di disturbi della
condotta nei bambini e nei ragazzi.
SIMONETTA AGNELLO HORNBY
Vento scomposto
Feltrinelli, terza edizione, 2009
L’autrice è nata a Palermo ma lavora e svolge la professione di avvocato a Londra nel quartiere di
Brixton. È stata presidente del
Tribunale di Special Edicatational
Needs and Disability di Londra
per otto anni. E’ docente universitario e come avvocato si occupa
di diritto di famiglia.
Un romanzo giudiziario sulle
inefficienze dei servizi sociali nel
sistema di welfare inglese. I coniugi Pitt si sono appena trasferiti
nella loro nuova casa nelle’legante quartiere di Kensington ed
hanno due figlie, Amy e Lucy.
Qualcosa cambia nella vita di
questa famiglia quando la maestra di Lucy legge nei comportamenti della bambina segnali di
turbamento e di disagio.
È l’inizio di un incubo per i genitori. Accuse di incesto per il padre
e la difesa strenua del suo comportamento da parte della moglie
innocentista. Il tutto sullo sfondo
di una realtà giudiziaria sospettosa e ostile. Scrive nella sua introduzione l’autrice: Il Children’s
Act del 1989 ha rivoluzionato il sistema legale inglese ed è stato
giustamente ammirato in tutto il
mondo.
Il minore ha diritto a un suo tutore legale e a un suo avvocato a
spese dello Stato, come i suoi genitori. Scopo della legge era
quello di sostenere le famiglie e
tutelare i minori. Per raggiungerlo
il processo dovrebbe essere basato sulla collaborazione anziché
sull’antagonismo. Noi avvocati lo
chiamavamo la Rolls Royce dell’assistenza pubblica. Come la famosa automobile, ormai quasi
scomparsa, così il Children’s Act
nella sua applicazione è diventato
l’ombra di quello che era.
Nell’ultimo ventennio numerose
inchieste pubbliche su tragedie
causate dall’inefficienza dei servizi sociali nel contesto di un sistema assistenziale multidisciplinare, carente hanno sconvolto
il pubblico inglese.
Troppi assistenti sociali - conclude l’autrice - sono incompetenti e dunque arroganti; troppe
famiglie di utenti vengono considerate alla stregua di oggetti e
non come persone; troppi periti
godono di un senso di impunità,
al riparo come sono dal giudizio
del pubblico, in quanto i procedimenti sui minori avvengono a
porte chiuse per proteggere il minore. E tristemente, molte volte,
la voce dle minore rimane inascoltata.
DIRITTO DI FAMIGLIA E QUESTIONI SUCCESSORIE
Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia
Avvocati di famiglia
IX FORUM NAZIONALE
Roma 22 - 23 ottobre 2010
VENERDÌ 22 OTTOBRE
Introduzione ai lavori Avv. Gianfranco Dosi (FORO DI ROMA)
ore 09,30
La morte e i suoi riflessi nel processo civile di cognizione
Prof. Avv. Giovanni Arieta (ORDINARIO DI DIRITTO PROCESSUALE CIVILE, CAMERINO)
ore 11,30
La successione del coniuge (manente matrimonio e nel caso di separazione)
Prof. Michele Sesta (ORDINARIO DI DIRITTO CIVILE, BOLOGNA)
Pensione di reversibilità e pignoramento delle pensioni Avv. Antonino Sgroi (AVVOCATO INPS)
Il diritto di abitazione del coniuge superstite e riflessi nella divisione ereditaria
Prof.ssa Maria Giovanna Falzone (UNIVERSITÀ DI CAGLIARI)
ore 13,30
Lunch
ore 15,00
La successione dei figli (legittimi, naturali, adottivi) Prof. Avv. Alberto Figone (FORO DI GENOVA)
Il risarcimento dei danni in caso di morte di un familiare Dott. Giuseppe De Marzo (MAGISTRATO, PISTOIA)
Coffee break
ore 17,00
Azioni di status (riconoscimento e disconoscimento) e legittimazione attiva e passiva degli eredi
Prof. Mauro Paladini (ASSOCIATO DI ISTITUZIONI DI DIRITTO PRIVATO, BRESCIA)
Il divorzio e la tutela successoria dell’ex coniuge: l’assegno a carico dell’eredità e la pensione di
reversibilità. Aspetti sostanziali e processuali
Dott. Geremia Casaburi (MAGISTRATO, NAPOLI)
SABATO 23 OTTOBRE
ore 09,30
Diritto successorio in Europa. Quali prospettive di integrazione e riforma?
Prof. Avv. Salvatore Patti (ORDINARIO DI ISTITUZIONI DI DIRITTO PRIVATO, ROMA)
ore 10,30
La divisione ereditaria
Prof. Avv. Vincenzo Cuffaro (ORDINARIO DI ISTITUZIONI DI DIRITTO PRIVATO, FIRENZE)
Coffee break
Il testamento biologico Prof. Avv. Lorenzo D’Avack (ORDINARIO DI FILOSOFIA DEL DIRITTO, ROMA)
L’azione di riduzione Notaio Dott.ssa Maria Claudia Andrini (NOTAIO)
ore 13,30
Lunch
ore 14,30
Il patto di famiglia Dott. Giacomo Oberto (MAGISTRATO, TORINO)
ore 15,30
Vincoli di destinazione e diritti dei legittimari Marina Comenale Pinto (NOTAIO)
ORGANIZZAZIONE: CENTRO STUDI GIURIDICI SULLA PERSONA
Via Nomentana, 257 - 00161 Roma - tel. 06.44242164 - fax 06.44236900
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