Progetto di ricerca - Ministero della Difesa

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Economia della difesa
Ovvero: Analisi delle azioni dello Stato che sono volte a conseguire
il fine della sicurezza globale, attraverso la struttura militare e quella
civile, e che implicano un impegno delle risorse nazionali
(Catia Eliana Gentilucci)
INDICE
Prologo
Introduzione
La natura dell’Economia Politica
La natura della Economia della Difesa
La Geopolitica
Capitolo 1 – Alcune definizioni
1. Di cosa si occupa l’Economia
2. Il sistema pubblico militare
3. Il bene pubblico della sicurezza globale
4. L’economia etica e difesa
5. Il mercato e lo scambio
Capitolo 2 – Le forme di mercato
1. La concorrenza perfetta
2. Il monopolio, l’oligopolio, il monopsonio e la concorrenza
monopolistica
3. La Teoria dei Giochi: produzione di armi e strategia militari
4. L’industria militare
5. L’industria militare in Italia
6. Disarmo e conversione del settore degli armamenti
7. Cenni storici sulla riconversione dell’industria militare
italiana
2
Capitolo 3 – Il ruolo dello Stato nell’Economia
1.La teoria keynesiana
2. Il keynesismo militare
3. La curva della Domanda Aggregata
4. La spesa pubblica per la Difesa: il modello della Frontiera
delle Possibilità Produttive
Capitolo 4- Il contesto internazionale
1. La globalizzazione
2. L’internazionalizzazione: alcune riflessioni
3. Le esportazioni di armi italiane
4. Vantaggi competitivi della Difesa
5. La teoria del costi comparati e successivi sviluppi: il caso
Europa Cina
Capitolo 5 – Spesa per la Difesa e sviluppo
1. La spesa militare in Italia e nel Mondo
2. La spesa militare e la spesa civile-sociale
3. La rilevanza della spesa militare sulla crescita
4. L’approccio empirico di Landau
5. Minacce esterne e crescita endogena
6. Spesa militare e sviluppo: un connubio controverso
Capitolo 6 - Organizzazioni internazionali per la sicurezza
1. I Regimi internazionali
2. Politiche di sicurezza post Guerra Fredda
3. Istituzioni Internazionali per la sicurezza
4. Organizzazioni Europee
5. Agenda Europea per la Difesa
6. Evoluzione degli Affari Militari
Capitolo 7 - Conflitti e minacce
1. Evoluzione del quadro di sicurezza internazionale
2. Ostacoli allo studio scientifico delle guerre
3
3. Definizione di conflitto armato
4. La guerra asimmetrica
5. Tra la Guerra Fredda e l’11 Settembre
6. Minacce future
7. Credibilità delle minacce
Capitolo 8 - Istituire sicurezza e stabilità globale
1. Pace è
2. Pace e ideologia della democrazia
3. Operazioni di sostegno alla pace
4. Diritto alla pace
5. Pagine sparse. La situazione geopolitica e sue prospettive
A L'Asia Centrale
B. Sicurezza transfrontaliera nell’Europa comunitaria
(di Febo Ulderico della Torre di Valsassina)
C. L’asse del caos: rivisitazioni di uno scenario
(di: Elvio Ciccardini)
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PROLOGO
Perché un libro di Economia della Difesa
Lo studio attento delle vicende storiche deve far parte del
bagaglio culturale di ognuno di noi perché ci dà la dimensione
dell’ambiente che ci circonda, una sorta di quadrimensionalità
della realtà.
Per il militare che opera negli scenari operativi nazionali e
internazionali, però, non è sufficiente un bagaglio culturale
“tradizionale”, occorre una conoscenza sistematica delle
tradizioni culturali che sono presenti in quello specifico teatro.
Così il militare sarà messo in condizione di affrontare,
comprendere e risolvere le problematiche contingenti
dell’ambiente con cui interagisce.
Le contingenze storiche dell’11 Settembre del 2001 hanno
reso necessario al mondo occidentale di formare una nuova
professionalità il Soldato di pace, che non vuole essere una
figura retorica ma una professionalità ben definita che richiede
conoscenze complesse e capacità di interazione che solo una
solida formazione può fornire.
La figura professionale del Soldato di Pace è sostenuta a gran
voce dal Ministro della Difesa proprio perché l’esigenza della
interazione tra forze armate e contesto sociale è percepita in
modo forte; è come se, affianco alla globalizzazione dei
mercati, fosse nata l’esigenza della globalizzazione degli
ambienti sociali.
Ogni area operativa richiede, sempre più, una professionalità
interdisciplinare (pensiamo a come è cambiata la figura del
medico, del docente, dell’avvocato che non è più allocata in un
limbo sociale, raggiungibile solo a pochi, ma è diventata un
riferimento diretto per la società).
5
Il militare, dalla fine del XX secolo, ha acquisito una nuova
professionalità che è aperta alle esigenze dell’ambiente in cui
collabora; esso deve avere pertanto una preparazione
interdisciplinare valida sotto molteplici punti di vista.
Il militare è, in senso assoluto, la figura professionale che più
interagisce in modo radicale con la microstruttura sociale
(pensiamo non solo ai soldati impegnati nelle azioni di
peacekeeping, ma anche ai carabinieri impiegati a controllare
la sicurezza locale e, più in generale, alle attività svolte dalle
forze dell’ordine); esso è, pertanto un agente sociale che deve
essere formato per pianificare e risolvere interventi operativi,
con gli strumenti a sua disposizione e con obiettivi dati.
Al militare che opera fuori area viene chiesto un impegno
notevole che lo coinvolge come risorsa umana che produce
difesa e sicurezza, attraverso la potenza dei sistemi d’arma, e
interazione sociale attraverso la conoscenza acquisita nelle
strutture che lo hanno formato.
Se il primo aspetto, la difesa e la sicurezza, è abbastanza
facile da ottenere con un buon addestramento tecnico e con
una buona dose di audacia; il secondo aspetto, l’interazione
sociale con la popolazione civile del luogo di azione, è più
difficile da ottenere perché richiede una sensibilità verso le
problematiche sociali, una conoscenza storico-culturale a tutto
tondo e l’acquisizione di competenze scientifiche e
umanistiche che vanno dalla antropologia, alla psicologia, alla
sociologia e all’economia.
In particolare quest'ultima conoscenza, l’economia, è utile
perché dà la dimensione di come “funzionano i rapporti umani
basati sul principio della scarsità delle risorse”: il “dare e
avere”, in senso buono, che rappresenta uno degli aspetti
6
basilari di tutte le civiltà storiche e che ha determinato il
progresso economico e lo sviluppo sociale.
Lo scambio è alla base di tutte le economie; dalla sua logica e
dalle sue motivazioni si può capire il perché di molte azioni tra
individui e il perché di molti comportamenti sociali.
In sostanza, la formazione militare è uno degli strumenti più
rilevanti per lo sviluppo globale e omnicomprensivo della
società. Ma la formazione militare necessita, anche, di
discipline sociali che richiedono un’apertura delle strutture di
formazione militare al mondo scientifico accademico e civile.
Grazie a questa consapevolezza, negli ultimi dieci anni, gli
ambienti militari si sono aperti al mondo civile cercando il
dialogo e l'interscambio culturale e accademico.
Ciò ha reso possibile formare i militari che operano fuori area
in modo da fornire loro un bagaglio denso di conoscenze
interculturali, multietiniche e geopolitiche che ha contribuito a
creare, in area NATO, il mito del “buon soldato italiano”1, fiore
all’occhiello dello Stato Maggiore della Difesa.
Perché dunque un libro di Economia della Difesa? Perché con
un pizzico di ambizione, ma con molta modestia, si spera di
poter contribuire a formare quel bagaglio culturale dei militari
che con abnegazione, coraggio e senso del dovere si sentono
partecipi alle missioni a cui sono comandati.
1 Vedi gli Atti del Convegno: Soldati di pace in scenari operativi, a cura di
Catia Eliana Gentilucci, Ce.Mi.SS, Roma, 2008.
7
INTRODUZIONE
La natura dell'Economia Politica
Lo studio dell'Economia Politica è molto in voga tra storici,
economisti e scienziati sociali. Questo interesse riflette un
crescente riconoscimento del fatto che i mondi della politica e
dell'economia, un tempo concepiti separatamente, in realtà
hanno esercitato una forte influenza l'uno sull'altro.
La politica è molto più influenzata dagli eventi economici di
quanto molti scienziati della politica non abbiano riconosciuto,
e l'economia è molto più dipendente dagli sviluppi politici e
sociali di quanto gli economisti non abbiano ammesso.
Il riconoscimento dell'interazione tra le due sfere ha suscitato
una attenzione crescente da parte di storici e scienziati sociali.
Durante gli ultimi tre secoli sono state avanzate diverse
definizioni dell'espressione “economia politica”. Una breve
sintesi dell'evoluzione di queste definizioni fornisce indicazioni
sulla natura dell'oggetto.
Per Adam Smith, in The Wealth of Nations (1776), l'economia
politica era una branca della scienza dello statista e del
legislatore e una guida alla gestione prudente dell'economia
nazionale, ovvero, come osservò più tardi J. Stuart Mill (1830),
l'economia politica è la scienza che insegna a una nazione
come diventare prospera.
Verso la fine del diciannovesimo secolo questa ampia
definizione fu notevolmente ristretta. Alfred Marshall non
enfatizzò più il concetto di nazione come un tutto. Nel suo
libro, Principles of Economics (1890), Marshall sostituì
l'espressione “economia politica” con quella di “teoria
economica” (economics) e restrinse grandemente il campo
della scienza economica che iniziava a specializzarsi per
8
branche: la teoria dei consumatori, la teoria dell'impresa, la
teoria della moneta, la teoria del commercio, l'economia
dell'istruzione, l'economia della sanità, ecc.; ma non ancora
l'economia della difesa.
La specializzazione dell'economia, purtroppo, ha continuato
negli anni divenendo ricerca esasperata della spiegazione di
fenomeni microeconomici di alto contenuto euristico ma
lontani dalla complessità della realtà.
Seguendo il precetto marshalliano secondo il quale la teoria
economica era una scienza empirica esente da giudizi di
valore, il suo discepolo Lionel Robbins in The Nature and
Significance of Economic Science (1932) formulò la
definizione che è rimasta la più condivisa dagli economisti: “La
teoria economica è la scienza che studia il comportamento
umano come una relazione tra fini e mezzi scarsi che hanno
usi alternativi”.
Durante gli anni '30, del XX secolo, la Grande Depressione,
che costò milioni di posti di lavoro e una crisi economica
spaventosa, fece riflettere gli economisti sulla capacità del
mercato di autoregolarsi e di crescere autoregolandosi. Molti
economisti iniziarono a spostare la loro attenzione verso il
ruolo che lo Stato poteva avere per sostenere l'economia
nazionale. Nasce in questo periodo un interessante dibattito
sulla pianificazione e sulla programmazione economica.
L'esperienza della Grande Depressione obbligò, quindi, gli
economisti a considerare lo Stato non più come attore passivo
della vita economica di un paese, ma come attore attivo e
propositivo che attraverso la spesa pubblica può influenzare le
sorti del mercato.
La teoria di J.M. Keynes dell'interventismo è stata quella
maggiormente seguita e applicata, specie negli Stati Uniti. Per
9
l'economista inglese, la spesa pubblica, per qualsiasi voce di
spesa (istruzione, sanità, infrastrutture, difesa) era considerata
incentivante dell'economia, e rappresentava una sferzata di
ossigeno per le economie che si trovano in una situazione di
stallo.
Dopo la Teoria keynesiana l'analisi dell'intervento dello Stato
nell'economia assume una sua sistematizzazione nella Politica
Economica che studia gli strumenti e gli effetti dell'intervento
del potere pubblico nella vita economica. Gli strumenti più
importanti della Politica Economica sono: la politica monetaria
e la politica fiscale che agisce rispettivamente sul livello della
quantità di moneta in circolazione e sul livello delle entrate e
delle uscite (Bilancio Pubblico) dello Stato.
La natura della Economia della Difesa
Adolf Wagner nel 1891 definisce l'Economia Militare come: lo
studio della condotta degli organi militari come realizzazione
fra il fine della difesa, eletto dalla collettività, e i mezzi scarsi
applicabili a usi alternativi2.
Prima ancora, Rau nel 1826, considerava l'Economia di
Guerra come: quella materia che considera le condizioni che
concernono il fabbisogno finanziario della flotta e dell'esercito3.
La distinzione tra Economia di Guerra e Economia Militare è
superabile ai nostri giorni.
Fino al Secondo Dopoguerra i primi due termini indicavano
rispettivamente: la relazione tra guerra e economia, durante
un periodo di guerra o post-bellico; in sostanza si considerava
2 A. Wagner (1891), La scienza delle finanze, Biblioteca Economica, serie
III, parte X, pp. 227-252.
3 K.H. Rau (1826), Letture di politica economica, Lipsia.
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L'Economia di Guerra quella disciplina che si occupava dei
costi dei conflitti, delle loro conseguenze economiche e dei
modi in cui era possibile finanziare una guerra4.
Mentre l'Economia Militare era intesa come analisi del costo di
mantenimento della struttura militare, anche in tempo di pace.
Oggi è prevalsa la convinzione che l'organizzazione militare,
anche in una situazione di non-conflitto è istituita per la
prevenzione e la difesa, e pertanto le spese militari rientrano in
una unica disciplina detta Economia della Difesa, che studia:
l'insieme delle azioni dello Stato volte a conseguire, attraverso
gli organi militari, il fine della sicurezza globale implicando un
impegno delle risorse nazionali5.
La sicurezza globale dall'11 Settembre è diventata un concetto
ampio che ingloba non solo la difesa nazionale ma anche
quella regionale.
In questo lavoro intendiamo riflettere nella dimensione
concettuale che vede la sicurezza globale come una
condizione necessaria e sovrastrutturale, nella quale si
svolgono tutte quelle azioni e relazioni economico-sociali che
permettono una crescita economica normale; cioè stabile e in
linea con le potenzialità di crescita del paese, che sia duratura
e non disturbata da shock o da repentine recessioni. Nella
situazione di crescita normale è possibile instaurare un
4 L'Economia di guerra ha una smisurata bibliografia negli anni compresi
5
dalla seconda guerra mondiale agli anni '50. Per una bibliografia
sull'economia di guerra si rinvia alla rassegna di C. Ruini contenuta in
“Rassegna di Studi sulla Politica Economica e finanza della guerra”,
Studi Economici, Napoli, 1941; e a Giuseppe Mayer, Teoria economica
delle spese militari, Roma, 1963.
La prima definizione di Economia Militare è stata utilizzata da Wagner in
La Scienza delle Finanze, Biblioteca degli economisti III Serie, Volume X,
Parte II, pp. 227-252, Torino, 1891.
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processo di aumento del benessere sociale inteso, in senso
ampio, anche come crescita culturale.
Inoltre, in una situazione globalizzata come quella che
caratterizza le nostre economie la sicurezza è ancora più
importante, poiché un evento che renda instabile e insicuro il
mercato di un qualsiasi paese può avere gravi ripercussioni
sulla struttura economica di altri paesi, anche molto distanti
territorialmente o facenti parte di continenti diversi (vedi il caso
della Cina).
Possiamo affermare che, a livello internazionale si ha
sicurezza quanto è possibile svolgere nella più completa
stabilità le relazioni internazionali utili a sostenere la crescita
economica dei paesi. La sicurezza globale può essere
garantita solo da azioni istituzionali (nazionali o internazionali)
volte a annullare le minacce (militari, terroristiche, sanitarie,
politiche, climatiche, ecc.) potenziali o effettive allo
svolgimento della normale vita relazionale tra individui e tra
paesi.
Gli attacchi terroristici hanno imposto la rivalutazione del
concetto di difesa che, se fino agli anni settanta alla fine della
Guerra Fredda, poteva essere considerata legata alla
salvaguardia dei confini nazionali, dall'inizio del XXI secolo ha
acquisito una valenza così ampia da richiedere l'impiego di
nuove professionalità militari e civili addestrate alla reciproca
collaborazione negli scenari operativi (forze operative
interforce).
La messa in opera di azioni fuori area che vedono impiegate
competenze operative civili e militari richiede un impegno
finanziario forte e strutturato negli anni.
I nuovi scenari operativi, nei quali le forze armate sono
chiamate a intervenire, hanno comportato la necessità di
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approntare e mantenere un potenziale militare che sia in grado
di dare la giusta formazione e il potenziale bellico che
costituisca, almeno, strumento di dissuasione.
Le risorse nazionali richieste per realizzare l'armamentario
necessario rappresentano un peso rilevante per la nazione e
comportano scelte di opportunità dell'impiego delle risorse,
non solo all'interno delle strutture militari, ma anche in
relazione a ciò cui il sistema pubblico civile deve rinunciare per
impiegare una parte delle risorse per fini militari.
L'economia della difesa si interessa di tutti questi aspetti.
Quando, nel linguaggio comune, si fa riferimento alla
“relazione tra eventi bellici e economia” dobbiamo pensare che
tale legame è bidirezionale, nel senso che le risorse spese per
organizzare la struttura militare per fini bellici hanno effetti
diretti sul sistema economico interno:
1. sia perchè quelle stesse risorse potevano essere utilizzate
per fini civili (la costruzione di un strada, di un ospedale, di un
monumento, di un giardino pubblico, ecc.);
2. sia perchè la realizzazione di tutto ciò che serve alla
struttura militare, anche per affrontare una situazione di
rischio, dà lavoro a coloro che producono quei beni o
forniscono quei servizi.
Dal punto di vista del sistema pubblico civile6, il primo effetto
può essere considerato “negativo” per il comparto civile,
mentre il secondo effetto lo possiamo considerare “positivo”. Il
“saldo” di questi due effetti è sicuramente positivo, nel senso
che le risorse spese per fini militari soddisfano alcuni bisogni
primari per la collettività che le giustificano, primo tra tutti il
bisogno di sicurezza.
6 Vedi Prologo.
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Altra distinzione metodologica superabile è quella tra Politica
economica di guerra e Politica economica di pace: la prima si
riferisce all’insieme delle decisioni e azioni prese dallo Stato
nel regolare il sistema economico in situazioni di un conflitto
armato, mentre con la seconda si intendono quelle decisioni
prese in situazione di pace.
Anche questa distinzione appare superabile: è noto, infatti che
le risorse assegnate alle strutture militari devono, per
definizione, essere impiegate per mantenere una struttura atta
ad assolvere al bisogno del mantenimento o della
instaurazione della pace (anche fuori dai confini nazionali),
con l'uso delle armi.
La Geopolitica
Importante riferimento per l'Economia della Difesa è la
Geopolitica. Non è chiaro se essa abbia le caratteristiche per
essere considerata “scienza” o se debba, invece, essere
intesa come branca di una scienza compresa tra la geografia
e le relazioni politiche.
Una delle prime definizioni di geopolitica è stata formulata da
Y. Lacoste che nel 1978, che scrisse: la geografia serve
innanzi tutto a fare la guerra e a organizzare i territori per
controllare più agevolmente gli uomini sui quali l'apparato
dello Stato esercita la sua autorità7.
Vi è una evidente relazione tra geografia e fattori storicoistituzionali, economici e culturali. La Geografia che analizza
solo la morfologia del territorio è fine a sé stessa, una
geografia ragionata richiede considerazioni sul perchè e come
7 M. Simoncelli, Guerre senza confini. Geopolitica dei conflitti nell'epoca
contemporanea, Ediesse, 2003, Roma.
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le popolazioni del dato territorio hanno specifiche strutture
politiche e istituzionali. Che poi la geografia ci aiuti a
comprendere i motivi delle guerre è un dato di fatto: la storia è
piena di guerre scatenate dal desiderio di conquistare nuovi
sbocchi commerciali fluviali, marittimi e terrestri o ricchezze
naturali; o di espansione territoriale o di controllo delle
economie (pensiamo al colonialismo o all'imperialismo).
Sotto questo aspetto la geopolitica può essere considerata
come una evoluzione della geografia in un'epoca globalizzata,
dove le relazioni internazionali sono sempre più integrate sia
in senso politico che economico.
In questo quadro la geopolitica si allarga fino a analizzare gli
eventi esterni che possono modificare i confini territoriali di
macro regioni e la stabilità politica di queste. La sicurezza
diventa un concetto che si estende oltre i confini territoriali di
una nazione poiché coinvolge intere aree territoriali
sovranazionali; attraverso la geopolitica è possibile individuare
le aree suscettibili di intervento militare volte a contrastare le
minacce alla sicurezza delle aree sovranazionali.
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CAPITOLO 1
Alcune definizioni
1. Di cosa si occupa l’Economia
L’Economia Politica si occupa del sistema economico, vale a
dire delle relazioni che intercorrono tra i soggetti che sono
impegnati nella produzione e nello scambio dei beni
economici atti a soddisfare i bisogni umani.
La produzione, lo scambio, il consumo e la fruizione dei beni
economici rappresentano le azioni fondamentali di un sistema
economico. Ogni sistema, storicamente e geograficamente
inteso, determinerà il modo in cui si sviluppano le azioni della
produzione, dello scambio e del consumo. In un sistema
economico industrializzato e democratico queste azioni si
svolgeranno in un ambito liberista, nel quale lo Stato interverrà
solo marginalmente nel dare indirizzi a queste azioni. La
produzione e lo scambio avverranno in un sistema di
concorrenza nel quale i prezzi verranno determinati dalle leggi
di mercato e non imposti dallo Stato.
Passiamo ad alcune definizioni.
Produzione: l’attività svolta da parte dell’impresa che ha il
fine di produrre beni e servizi (detti output) attraverso l’impiego
e la combinazione dei fattori produttivi (lavoro, terra, capitale e
capacità imprenditoriale). Le possibili combinazioni attraverso
cui i fattori produttivi (input) possono essere impiegati per
produrre dati livelli di beni e servizi (output) si chiamano
funzioni di produzione.
Scambio: si intendono tutte quelle attività volte a far circolare
i beni all’interno del sistema economico (e all’esterno
attraverso le esportazioni).
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Bene economico: i beni che soddisfano un bisogno
dell’individuo e che sono scarsi. Quest’ultima peculiarità
implica che l’individuo è disposto a pagare un prezzo per
ottenere il bene. L’aria ad esempio seppur importante per
l’individuo non è considerata un bene economico poiché non
si deve pagare un prezzo per la sua disponibilità.
Bene pubblico: è un bene che è difficile, o impossibile, per il
singolo produrre per trarne un profitto privato, pertanto la sua
produzione viene effettuata dallo Stato. L’interesse alla
tematica dei beni pubblici, o collettivi, si fa solitamente risalire
a un originale lavoro di J. Dupuit (1844) nel quale l’ingegnere
francese, proprio nel discutere il modo in cui misurare l’utilità
delle opere pubbliche realizzate dal suo ministero, coglie le
caratteristiche che contraddistinguono questi beni.
Per definizione, un bene pubblico è caratterizzato da assenza
di rivalità nel consumo (la fruizione di un bene pubblico da
parte di un individuo non implica l'impossibilità per un altro
individuo di goderne allo stesso tempo, si pensi ad esempio a
forme d'arte come la musica, o la pittura); e dalla non
escludibilità della fruizione (una volta che il bene pubblico è
prodotto, è difficile o impossibile impedirne l'uso da parte di
altri utenti, si pensi ad esempio all'illuminazione stradale). I
beni pubblici si dicono “puri” quando possiedono in senso
assoluto tali proprietà (come nel caso della sicurezza globale).
“Assenza di rivalità” nella fruizione significa che più soggetti
possono simultaneamente beneficiare di quel bene senza per
questo ridurre l’utilità che altri traggono dal suo uso: la luce
solare, la vista di un bel panorama. Il benessere di un
individuo derivante dalla fruizione di questi beni non è
influenzato, in questo caso, dalla concomitante fruizione degli
stessi da parte di altri consumatori.
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“Assenza di escludibilità” significa, invece, che qualora il bene
sia reso disponibile per qualche individuo non è possibile o
non è conveniente da un punto di vista economico escludere
altri individui dai benefici che il bene produce. L’escludibilità
può essere di duplice natura: tecnica o economica. La prima
trova la propria ragione d’essere in caratteristiche fisicooggettive del bene (pensiamo a un sistema di ripetitori per
stazioni televisive) mentre la seconda deriva dall’elevato costo
cui si incorrerebbe se si decidesse di escludere taluni individui
dalla fruizione del servizio (pensiamo a un sistema di
sicurezza per una certa area geografica, sarà costosissimo
escludere qualche individuo dal godimento del bene nella
stessa area).
Un bene pubblico puro è caratterizzato dalla assenza di
rivalità e dall’inescludibilità dei benefici. Altra distinzione
interessante in tema di beni pubblici è quella tra bene pubblico
opzionale e bene pubblico non opzionale. La prima
caratteristica la troviamo nei beni pubblici che pur messi a
disposizione per l’intera collettività si rimanda alla volontà di
ognuno il volere godere dei suoi effetti (ad esempio un parco
pubblico seppur a disposizione della collettività il singolo
individuo può decidere di non usufruirne; o il sistema
scolastico pubblico che è a disposizione di tutti ma qualcuno
potrebbe preferire la scuola privata).
Il bene pubblico non opzionale, invece, è quel bene che una
volta offerto dallo Stato alla collettività i singoli individui non
possono decidere di rimanere esclusi dai suoi effetti. Il caso
tipico è quello della difesa nazionale della quale i cittadini di
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una determinata zona geografica ne consumano tutti la
medesima quantità8.
Bene pubblico della “difesa militare”: tutte le attività svolte
dalla struttura organizzativa e operativa dello Stato che hanno
lo scopo di difendere un territorio o una macroarea da minacce
e attacchi alla sicurezza.
Utilità: la percezione soggettiva, di un individuo o della
collettività, che un bisogno è stato soddisfatto. L'utilità che un
soggetto prova dopo aver bevuto un bicchiere di acqua stà nel
senso di soddisfazione che esso percepisce dopo aver
soddisfatto la propria sete. L’utilità della sicurezza stà nella
percezione che non vi sono minacce incombenti alla
quotidianità, percezione che la collettività recepisce dalla
fruizione del bene difesa.
Concorrenza: in economia si possono distinguere due regimi
di concorrenza, quella perfetta e quella imperfetta. La prima si
ha quando le imprese non possono influenzare in modo
percepibile il prezzo di mercato del bene da loro prodotto; la
concorrenza imperfetta, invece, si ha quando le imprese
possono influenzare il prezzo del bene. In quest’ultimo caso si
avrà concorrenza imperfetta le cui forme di mercato sono:
monopolio, oligopolio o concorrenza monopolistica.
Prezzo: la quantità di moneta che un individuo è disposto a
scambiare con una unità di bene o servizio.
Bisogno: stato soggettivo negativo dato dalla mancanza di
determinati beni o da necessità di servizi. Il bisogno può
essere sentito da un privato (bisogno privato) o dalla
collettività (bisogno pubblico). Il primo verrà soddisfatto con il
8 Per un approfondimento sulla Difesa come bene pubblico cfr.: Catia
Eliana Gentilucci, Le forme multifunzionali della sicurezza globale, a cura
di, Ce.Mi.SS, Roma, 2008.
19
consumo di un bene disponibile sul mercato; il secondo,
invece, dalla fruizione del bene pubblico. In economia i bisogni
sono teoricamente illimitati, mentre le risorse necessarie a
produrre i beni atti a soddisfare i bisogni sono soggette a
vincoli restrittivi. A questo proposito il problema fondamentale
di un sistema economico è come allocare le risorse limitate in
modo da rendere disponibile il maggior numero di beni
possibile, per poter soddisfare il più alto livello di bisogni
pubblici e privati.
Altro quesito a cui lo Stato deve rispondere è come sia
possibile allocare le risorse tra pubblico e privato, tale per cui
sia possibile raggiungere un livello massimo di soddisfazione
collettiva. Cioè, come il sistema economico deve comportarsi
in modo da ottenere una produzione efficiente che al
contempo raggiunga il livello di soddisfazione dei bisogni più
alto possibile.
Oltre ad allocare le risorse un sistema centralizzato deve
anche provvedere a determinare la distribuzione, cioè ciò che
riceveranno coloro che partecipano all’attività economica.
In definitiva possiamo affermare che le funzioni della
produzione, scambio, consumo, allocazione e accumulazione
costituiscono l’oggetto dell’Economia Politica.
In questo ampio contesto consideriamo l’Economia della
Difesa come una branca dell’Economia Politica che si occupa,
da un lato, di come lo Stato decide di allocare le risorse per i
fini della difesa e, dall’altro, degli effetti che produce tale
spesa sull'evoluzione del sistema economico.
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2. Il sistema pubblico militare
In senso accademico dovremmo distinguere il sistema
economico in privato, pubblico civile e pubblico militare.
Nell’immaginario collettivo, però, questa distinzione non trova
corrispondenza sia perchè le relazioni economiche tra
pubblico e privato si intrecciano fortemente; sia perchè il
sistema militare viene considerato estraneo al sistema
economico. Cioè tendenzialmente gli individui tendono a
considerare le strutture militari un corpo estraneo della
società, attribuendo ad esse una sorta di extradimensionalità.
Forse per questo motivo le spese che lo Stato deve affrontare
per il funzionamento, il mantenimento e l'adeguamento
operativo del comparto militare vengono viste come
impopolari e superflue, specialmente nei periodi di crisi
economica.
La ragione di questa situazione si può far risalire al periodo
della Guerra Fredda, quando il top secret era la parola chiave
della politica militare; tanto più che negli anni '80 la politica
economica favoriva e sosteneva lo sviluppo del settore
pubblico, anche militare, suscitando critiche sulla sua
necessità.
Inoltre, il settore pubblico civile (istruzione, sanità,
comunicazioni, infrastrutture e opere pubbliche in genere)
pubblicano un Bilancio annuale di rendiconto sull'impiego
delle risorse messe a loro disposizione; il settore pubblico
militare, invece, tendenzialmente segue una politica volta alla
gestione autonoma (anche se annualmente deve presentare
al Governo La Nota Aggiuntiva).
Tutto ciò non vuole essere una critica, poiché è chiaro che la
riservatezza deve necessariamente avvolgere la politica
militare, ma ciò ha contribuito a tenere distanti le questioni
21
militari dal mondo civile, comportando: una difficoltà di
comunicazione tra civile e militare e l'instaurazione di un
senso di diffidenza del civile verso il militare; l'esclusione delle
questioni militari dal ragionamento scientifico civile; la
chiusura degli studiosi militari verso i fenomeni economici e
sociali del comparto civile. In poche parole, si sono creati due
contesti privi di dialogo pur avendo, tra loro, strette
interconnessioni economiche e sociologiche.
Alla luce di queste considerazioni in questo lavoro verranno
utilizzati i termini “sistema pubblico civile” e “sistema pubblico
militare” solo per semplificare il ragionamento, ma
sottointendo che i due sistemi sono tra loro interconnessi e
facenti parte di un unico settore pubblico.
Lo scenario internazionale è cambiato (la globalizzazione), le
minacce alla sicurezza nazionale sono diventate più infide per
l'imprevedibilità e la asimmetricità della minaccia (prima il
nemico era entità ben identificabile, ora il nemico è astatuale,
aterritoriale, irrazionale, non ha entità propria ed è sfuggente e
fluente negli spostamenti territoriali). Lo stesso concetto di
sicurezza per la singola nazione è cambiato non è più
identificato nel territorio nazionale, ma è a livello di sistema
regionale. Tutto questo con l'abolizione dei confini nazionali e
la creazione di macro-aree ha comportato il cambiamento
degli obiettivi delle Forze Armate e, di conseguenza, dei modi
operativi di intervento nelle aree di crisi che richiedono
sempre più competenze e conoscenze che sono presenti nel
sistema sociale “civile”9.
Vi è stata pertanto un'apertura del mondo militare verso quello
civile, beneficiandone entrambi poiché sono state condivise a
livello di sistema-paese problematiche sociali, economiche e
9 Vedi gli Atti del Convegno: Soldati di pace in scenari operativi (op. cit.).
22
politiche che pongono interrogativi seri, come: il ruolo che il
nostro sistema nazionale vuole svolgere nella Comunità
Europea; quanto e come l'attività militare può sostenere
l'economia nazionale (per questo aspetto, a differenza di altri
studiosi confido che ciò possa avvenire).
Il primo passo verso l’integrazione riconoscibile del contesto
militare in quello civile, è incentivare la comunicazione e la
visibilità dell'attività che svolgono le forze armate.
La conoscenza allontana la diffidenza. Un sistema sociale in
cui non vi è diffidenza tra l’ambiente civile e quello militare è
un sistema vincente, poiché le azioni delle FF.AA. sono
condivise dalla collettività, che si sente partecipe dei risultati e
degli obiettivi perseguiti.
In sostanza, il settore civile deve prendere consapevolezza
che le forze armate rappresentano una delle istituzioni che
possono garantire la sicurezza globale; la quale, come già
ribadito, rappresenta la condizione necessaria che permette
all'economia di migliorare il proprio livello di benessere
sociale.
Solo in un contesto in cui vi è sicurezza si possono instaurare
meccanismi di “speranza” volti alla crescita economica
desiderabile. Sotto questo aspetto la sicurezza diventa un
bene pubblico globale10.
Una società civile ha bisogno delle forze armate per poter
realizzare il bene sicurezza. Questa affermazione rappresenta
una ovvietà poiché non c'è, e non c'è mai stata in passato,
una soluzione alternativa seria alla affidabilità e alla capacità
delle FF.AA. e dei reparti dell'ordine pubblico di procurare
sicurezza.
10 Catia Eliana Gentilucci, Le forme multifunzionali...(op.cit.).
23
3. Il bene pubblico della sicurezza globale11
Il concetto di sicurezza negli USA, sancito nel National
Security Act del 1947, ha subito un cambiamento adattandosi,
dalla Guerra Fredda al post 11 Settembre 2001, alle nuove
situazioni internazionali.
Il primo tentativo di rilievo di trovare una specificazione al
concetto di sicurezza è indubbiamente quello di Arnold
Wolfers del 195212; ma nei successivi anni sessanta e settanta
11 idem
12 I capisaldi teorici della corrente di pensiero detta del “strutturalismo”, che
rientra nella scuola neorealista delle relazioni internazionali ,sono stati
formulati da Waltz, secondo il quale a livello internazionale ogni Stato
cerca di massimizzare il suo potere difensivo assoluto. Il pensiero
realista si è imposto gradualmente, soprattutto a partire dagli Stati Uniti
del secondo dopoguerra, come paradigma teorico dominante per lo
studio delle relazioni internazionali. La sua ricchezza e complessità
analitica lo rende ancora oggi una prospettiva fondamentale per
chiunque voglia accostarsi allo studio della politica internazionale. Nel
corso del tempo, esso ha assunto sempre più i caratteri di un complesso
paradigma teorico in cui si intrecciano più livelli analitici e numerose
teorie, spesso in disaccordo tra loro, ma tutte tenute insieme
coerentemente dal filo conduttore costituito da pochi e semplici assunti di
base condivisi: la natura anarchica del sistema internazionale e la
centralità degli stati, principali attori della realtà internazionale.
Nonostante il realismo politico sia uno degli approcci teorici più antichi,
che possiamo far risalire addirittura all’opera di Tucidide, e sebbene la
tradizione di Realpolitik domini da secoli i circoli diplomatici, solo a partire
dagli anni Sessanta del secolo scorso il mondo accademico ha mostrato
un rinnovato interesse per il pensiero realista, principalmente grazie alla
rivoluzionaria opera di Kenneth Waltz. Incentrando la sua analisi sul
concetto di struttura del sistema internazionale, è stato proprio il
neorealismo waltziano ad aver stabilito l’autonomia della politica
internazionale dagli altri ambiti analitici e, di conseguenza, a porre le
fondamenta di una teoria generale della politica internazionale. Il
neorealismo waltziano, anche definito realismo strutturale, proprio per la
centralità assegnata al concetto di struttura internazionale, risvegliando
l’interesse del mondo accademico per il pensiero realista, si è imposto,
fin dalla pubblicazione di Teoria della Politica Internazionale1, al centro
dei principali dibattiti teorici che hanno contribuito a plasmare e
rimodellare fino ai giorni nostri la disciplina delle Relazioni Internazionali.
24
alcuni autori si sono lamentati della mancanza di una
definizione di sicurezza che fosse oggettivamente condivisibile
e che fosse non soggetta ad ambiguità terminologiche13.
Durante la Guerra Fredda la sicurezza era considerata come
l’assenza di conflitto tra due blocchi ed era un concetto che
comprendeva la capacità dello Stato di difendersi da attacchi
militari.
Con la fine della Guerra Fredda, in virtù dell’Alleanza Atlantica,
viene costituita un’area sicura nella quale gli Stati collaborano
sotto l’aspetto politico, economico e sociale non solo per porre
le condizioni di sviluppo al loro interno, ma anche per
difendersi dagli attacchi esterni. La sicurezza diviene un
concetto più ampio fondato sulle relazioni politiche,
economiche, religiose e sociali; la sua attuabilità è, comunque,
demandata alla capacità dei singoli Stati alleati di armarsi e di
difendersi.
Negli anni novanta la sicurezza da concetto nazionale diventa
un concetto collettivo che riguarda cioè gli individui di un’area
geografica o di una coalizione. Viene superata la prospettiva
meramente nazionale e il concetto di sicurezza abbraccia gli
interessi di una collettività internazionale per salvaguardarne
la libertà, l’identità e il benessere14.
Arnold Wolfers (1952), “National Security as an Ambiguous symbol”, in
Political Science Quarterly, n. 67.
13 Tra questi studi ricordiamo: P. G. Bock and M. Berkowitz [1966], “The
Emerging Filed of National Security”, in World Politics, n. 19; Frank N.
Trager and Philip S. Kronenberg [1973], National Security and American
Society; Thoery, Process and Policy, Laurence, KS.
14 Per una ipotesi di calcolo del valore della sicurezza vedi: Catia Eliana
Gentilucci, Le forme multifunzionali della sicurezza globale, Capitolo 5,
Indicatori e costi delle missioni militari. Cfr.: O. Wæver (1995),
“Securitization and Desecuritization”, in R.D. Lipschutz, On Security,
Columbia University Press, New York; anche: B. Buzan (1991), People,
State and Fear. An Agenda for International Security Studies in the post-
25
Alla fine degli anni novanta, con l’affermazione della
globalizzazione dei mercati, la sicurezza assume un’accezione
omnicomprensiva che riguarda l’intero globo. In questa ampia
accezione la sicurezza diviene un concetto relativo, ancor più
generale, che non è: né statico né univoco. Non è statico nel
senso che il suo contenuto concreto e la sua estensione
dipendono dalla definizione degli interessi che si intende
proteggere. Questi ultimi variano a seconda del contesto
interno e internazionale15.
Tale ampliamento richiede la ricerca di un più preciso
contenuto oggettivo16. Questa esigenza nasce dal fatto che la
sicurezza viene tendenzialmente indicata come un concetto
che comprende i valori di libertà civile e di pace.
Tra questi valori dobbiamo considerare il rispetto dei diritti
umani, il controllo dell’inquinamento, del traffico di stupefacenti
e delle armi, la salvaguardia della salute e del benessere, la
lotta alla criminalità e all’ingiustizia sociale. La sicurezza
implica, inoltre, anche il riconoscimento di quei valori sociali
che fanno parte della struttura socio-economica di un paese e
che raccontano la storia della società, le sue credenze e le
sue tradizioni. Questi valori, facendo parte del patrimonio
culturale, assicurano modelli che mirano alla stabilità del
contesto sociale locale, pur in una situazione politica ed
economica in continuo cambiamento.
La globalizzazione ha dato l’opportunità alle economie
avanzate di sfruttare nuove possibilità che hanno permesso di
ampliare la disponibilità delle risorse produttive grazie alla
Cold War Era, Boulder, CO.
15 Cfr: C. Jean (2007), Geopolitica, sicurezza e strategia, Franco Angeli,
Milano.
16 Cfr.: Buzan, op. cit.; S. M. Walt, “The Renaissance of Security Studies”,
in International Studies Quarterly, n. 35.
26
crescente interdipendenza dei mercati internazionali. Anche in
un contesto globalizzato i fattori che giocano il ruolo più
rilevante per lo sviluppo sono il progresso tecnico e scientifico,
il miglioramento delle risorse umane e la facilità di interazione
e di scambio tra mercati17.
Sotto questo aspetto la sicurezza può essere intesa come
quella situazione nella quale gli individui sono nella condizione
di poter migliorare il proprio capitale sociale18. Cioè nella
condizione di migliorare la propria posizione nella società,
ampliando o diversificando le reti relazionali interpersonali e
con le istituzioni pubbliche e private.
L’identificazione del concetto di sicurezza in quelle azioni che
migliorano il capitale sociale e l’integrazione dei mercati
17 Cfr.: V. D. Cha, ( 2000), “Globalization and the Study of International
Security”, in Journal of Peace Research, vol. 37/3, pp. 391-403.
18 Tra gli autori che per si sono occupati del capitale sociale ricordiamo L.
J. Hanifan (1920), The Community Center, Burdette and Co., Boston.
Secondo Hanifan deve intendersi per capitale sociale quei beni intangibili
(come la buona volontà, il cameratismo, la simpatia, le relazioni sociali e
familiari) che sono alla base di una comunità e che rappresentano un
valore intrinseco della stessa comunità. Le teorie che si sono occupate
del capitale sociale possono essere distinte a seconda che seguano un
approccio individualista, olista o relazionale. Il primo paradigma
percepisce il capitale sociale come una risorsa costituita da un insieme di
relazioni che un individuo o un gruppo, può usare per i propri interessi. In
questo caso il capitale sociale è come una varietà di differenti entità che
facilitano le azioni degli individui che si trovano in una data struttura
sociale. Il secondo paradigma concepisce il capitale sociale come
legame tra individui all’interno di una società e che consiste nelle norme
e nei valori che promuovono un comportamento cooperativo fra individui
e gruppi sociali. Infine il paradigma relazionale concepisce il capitale
sociale come particolare qualità e configurazione delle reti di relazione
che alimentano e rendono sinergiche le opportunità di vita delle persone
coinvolte.
(Cfr.:
G.
Rossi,
“Il
capitale
sociale”,
in
www.action.org/ital/publicat). Cfr.: F. Fukuyama (1999), “Social Capital
and Civil Society”, in The Institute of Public Policy, n. 1.; J. Coleman
(1988), “Social Capital in the Creation of Human Capital”, in American
Journal of Sociology, vol. 94, pp. 95-120.
27
presenterebbe alcuni vantaggi poiché darebbe occasione di
confronto tra tipi diversi di politica di sicurezza.
In questa prospettiva si inserisce la definizione proposta da
Jean secondo il quale: la sicurezza è il grado con cui un
sistema – nelle sue varie componenti informative, decisionali,
e operative – riesce a svolgere le funzioni che gli sono
deputate in condizioni di rischio accettabili; in pratica come se
il rischio non esistesse19.
In sintesi possiamo affermare che la sicurezza globale è:
quella situazione, che comprende anche la sicurezza
collettiva, e che permette il normale svolgimento delle
relazioni economiche, politiche e sociali.
In una situazione di sicurezza globale, inoltre, è possibile il
miglioramento del capitale sociale, che rappresenta il
presupposto fondante del normale svolgimento della vita
sociale e relazionale.
In questo quadro le politiche di sicurezza rappresentano tutti
quegli interventi di politica interna e di politica internazionale
che permettono l’instaurarsi di una situazione fisiologica di
sviluppo sociale e di auspicata crescita economica. Tra queste
azioni si inseriscono quelle volte alla difesa nazionale, alla
deterrenza e alla prevenzione.
In sostanza, in un contesto globalizzato, la flessibilità delle reti
relazionali internazionali deve essere garantita da un livello di
sicurezza globale, che protegge il sistema da quelle minacce
che possono destabilizzarlo.
E’ ovvio attendersi che questi presupposti siano presenti in un
contesto nel quale regna la pace. In un contesto, cioè, che
non è sottoposto a minacce di origine umana dirette e
19 Cfr.: C. Jean (2005), Sicurezza: le nuove frontiere, Centro Studi di
Geopolitica Economica, Franco Angeli, Milano, p. 61.
28
probabili, di qualsiasi genere (militare o terroristica), che
possano procurare danni tangibili o intangibili (come la paura
e l’incertezza) agli individui e alle infrastrutture.
4. L'economia etica e difesa
Lo studio delle relazioni economiche non avviene
necessariamente per scopi e motivazioni particolarmente
elevati sotto l'aspetto etico.
L'economia studia i modi attraverso i quali vi sia la ripartizione
di risorse scarse tra obiettivi alternativi (sia a livello privato sia
a livello pubblico) che permette la massimizzazione del
benessere collettivo, qualsiasi sia il fine di questa ripartizione.
Così, i giudizi morali non trovano un loro spazio nelle
discipline economiche, ad oggi.
La scienza economica dà allo studioso gli strumenti per capire
i meccanismi del comportamento umano; stà poi a costui, e
alla sua sensibilità, inserire nel ragionamento il rispetto dei
valori sociali, senza però inficiare la correttezza della sua
analisi.
Ci può essere un ottimo studio, sotto il profilo scientifico, sui
problemi economici della schiavitù anche se l'uso dello stesso
verrà utilizzato per rafforzare questo istituto che è ripugnante
alla coscienza sociale odierna.
Così ci sono studi di carattere economico sulle spese che gli
Stati affrontano per partecipare ai conflitti presenti negli
scenari internazionali, anche se la coscienza comune
vorrebbe la pace assoluta.
La guerra è un evento imprescindibile dalla volontà dell'uomo
è insito nell'evoluzione della storia delle società, caratterizza
ed è conseguenza delle tradizioni storiche di ogni civiltà. Ogni
29
popolo ha i suoi conflitti armati; e nell'era dell'economia
globale, come si sono aperti i mercati e fatte più intense le
relazioni politiche tra Stati e persone, così gli eventi bellici
sono diventati globali nel senso che i loro effetti si espandono
anche nelle zone in cui non vi è conflitto, e non lo si vuole. E’
noto che l'Europa risente economicamente dei conflitti accesi
nel sud-est del mondo anche se persegue obiettivi di pace.
L'economista deve studiare le interconnessioni tra guerra ed
economia anche se rifugge l'idea di conflitto. E' importante
che lo studioso si sforzi di mettersi in una posizione neutrale
rispetto ai temi che tratta ponendosi in un'ottica di positività.
Cioè è necessario affrontare lo studio dei fatti concreti senza
pregiudizi in modo da analizzare le conseguenze economiche
dei fatti con mente aperta verso tutti i risultati che possono
emergere dall'analisi stessa.
In sostanza, nello studiare le conseguenze economiche dei
conflitti, o dei costi dei conflitti, lo studioso non deve inficiare
la sua analisi dal coinvolgimento emotivo rispetto all'azione
armata. Se si vuole uno studio realistico delle conseguenze
economiche della guerra è necessario porsi in modo asettico
di fronte agli eventi da analizzare20.
20 Secondo alcuni autori, come F. Caffè, la Politica Economica che si
occupa dell'intervento dello Stato nel sistema di mercato, deve essere
rispondente, nei suoi precetti, alle linee guida all'azione governativa. I fini
che persegue uno Stato, attraverso le sue azioni, sono tendenzialmente
legate a una struttura culturale e storica. Un governo non può adottare
linee politiche “impopolari”, ma preferirà seguire una condotta politica
che sia accettata dalla collettività che rappresenta. Gioco forza che tali
azioni debbano rispecchiare anche i principi etici di quella società. La
politica economica, secondo questa prospettiva, appare dunque non
come insieme di strumenti volti a raggiungere obiettivi alternativi, ma
come complesso di azioni suggerite che risentono di una valutazione
sociale etica e ideologica.
30
Metodologicamente, dunque, l'Economia della Difesa rientra
nel quadro euristico che, avulso dai giudizi di valore, indaga
sulla relazione tra spesa per la difesa e sviluppo economico,
indipendentemente dalla natura etica degli obiettivi perseguiti
dalla politica militare.
I giudizi di valore sulla opportunità etica e morale di attuare
specifiche politiche militari non devono rientrare nella analisi
della Economia della Difesa perchè ne inficerebbero il
risultato.
Così, ad esempio, se le Nazioni Unite nel 2003 hanno
considerato opportuno intervenire a Darfur, ma non in Iraq, ciò
dipenderà da considerazioni di geopolitica che non rientrano
in una riflessione di Economia della Difesa, che invece studia i
modi attraverso i quali lo Stato può allocare le risorse
nazionali in ambito e per fini militari di difesa o di
stabilizzazione di aree a rischio.
5. Il mercato e lo scambio
Nella società odierna i mezzi idonei all’appagamento dei
bisogni sono ottenuti per mezzo dello scambio. In ogni società,
infatti, il singolo individuo produce una gamma di prodotti più
ristretta rispetto a quella necessaria per la sua sopravvivenza.
Il mercato è il luogo in cui si svolge lo scambio di beni e
servizi, e nel quale si verrà a istituire una trama di relazioni tra
coloro che sono interessati ad esso.
Nelle moderne economie di mercato lo scambio avviene
attraverso l'incontro tra domanda e offerta di beni e servizi. La
domanda viene espressa dagli individui per soddisfare i loro
bisogni, mentre l'offerta viene effettuata dalle imprese che
31
producono e mettono sul mercato i beni domandati dagli
individui.
Lo scambio può essere un atto che si conclude in natura (il
baratto) o un atto che si conclude dietro la corresponsione di
un quantitativo di moneta, identificativo del prezzo del bene e
servizio che viene domandato.
A livello teorico il pagamento di una somma di denaro può
essere considerato come un “baratto”, poiché la somma di
denaro che viene spesa per acquistare beni e servizi può
essere spesa per acquistare altri beni e servizi.
Pertanto l’individuo nell’acquistare un bene o servizio
rinuncerà all’acquisto degli altri beni e servizi che poteva
acquistare con quella stessa somma di denaro. Idealmente
l’individuo baratta ciò che poteva acquistare con ciò che
effettivamente acquista.
Sotto questo aspetto possiamo considerare il prezzo di un
bene come il costo relativo della rinuncia dei beni che
l'individuo poteva acquistare con la stessa somma di denaro.
Non tutte le transazioni che si realizzano nei sistemi economici
passano attraverso il mercato. La pubblica amministrazione
non riscuote le sue entrate per questa via, ma per il tramite
dell’imposizione fiscale.
Il mercato, pertanto, non è il solo luogo in cui prende corpo
materialmente l’interazione economica tra individui. Nelle
moderne economie troviamo accanto al mercato tutta una
serie di altre istituzioni economiche attraverso le quali i
soggetti entrano in rapporto di interazione.
Caratteristica fondamentale del mercato è che esso
presuppone lo scambio volontario, uno scambio cioè dove non
vi sono imposizioni di prezzo o di quantità. L'individuo è libero
32
di non acquistare il bene se il prezzo, o le sue caratteristiche,
non rispondono al soddisfacimento dei suoi bisogni.
Lo scambio volontario implica una serie di condizioni che sono
presenti nell'economia capitalistica. Non basta la protezione
legale e la garanzia della esecutività del contratto, deve
esserci anche adeguata informazione sulle caratteristiche del
bene e servizio che si compra.
Una adeguata informazione permette di conoscere del bene
che si vuole acquistare, e dei beni sostitutivi e complemetari,
le caratteristiche merceologiche e il prezzo.
In questo contesto se per beni esclusivi (che hanno pochi
produttori), come un certo tipo di arma, raggiungere una
adeguata informazione è abbastanza semplice, per altri beni di
più comune scambio (scarpe) è praticamente impossibile che
l’individuo riuscirà ad ottenere una perfetta informazione su
tutte le tipologie di quel bene.
I beni esclusivi non implicano però una situazione di mercato
libero e concorrenziale (nel quale l’individuo è libero di ritirarsi
dalla transazione se non la considera adeguata alle sue
esigenze) poiché i beni esclusivi vengono prodotti da poche
imprese e non trovano sufficienti analoghi sostituti nel
mercato.
Quel che è importante ricordare è che dietro a ciascuna
economia di mercato vi sono secoli di lento sviluppo dei diritti
di proprietà e di tutta una serie di istituzioni funzionali ad essa
ed alla società in cui si svilupparono. In particolare è
necessario che i soggetti che in essa operano aderiscano a un
codice che sancisca quali comportamenti sono leciti e perciò
ammissibili.
33
Senza l’adesione a un codice mercantile che affermi valori
come quello dell’onestà e della fiducia nessun sistema di
scambi volontari potrebbe a lungo durare.
Un’economia di mercato libero e volontario non si può
improvvisare. Ciò ci aiuta a comprendere le ragioni delle gravi
difficoltà incontrate da quei paesi che sono sulla via di
transizione da economie di comando a economie di mercato e
le difficoltà incontrate dai paesi Occidentali nell’esportare il
loro modello economico nelle zone di intervento militare
dell’Asia Centrale.
Questo tipo di forzatura ha ostacolato ancor più lo sviluppo di
questi paesi poiché la libertà economica deve rispecchiare la
cultura e il modo di essere degli individui di una nazione. Il
capitalismo economico ha tempi di insediamento più lunghi di
quelli della libertà politica, che passa attraverso la formazione,
l’educazione e la cultura di un popolo. Pertanto non in tutti i
sistemi lo scambio volontario rappresenta la soluzione migliore
per una adeguata crescita economica.
La sfida dei paesi Occidentali, che attraverso le operazioni
fuori area hanno in animo di stabilizzare gli scenari
internazionali che minacciano la sicurezza globale, è quella di
saper indicare a questi paesi la strada, ritenuta migliore, da
percorrere per istituire un livello di benessere sociale e
economico nel rispetto dei loro bisogni e delle loro aspettative
di sviluppo. Non avrebbe senso, ad esempio, portare loro la
conoscenza informatica (fondamentale per la vita sociale
dell'Occidente) se non gli si dà modo di percepirne
l'importanza e la dimensione. La conoscenza tecnologica deve
essere preceduta dalla conoscenza dei vantaggi che questa
può portare al benessere sociale.
34
Per stabilizzare politicamente una società è importante dare gli
strumenti atti a creare quel sistema di mercato che sia in linea
con le tradizioni storico-culturali di quella società.
In alcuni casi, ad esempio, se la moneta ha basso potere di
scambio (a causa di squilibri monetari) è più opportuno istituire
il baratto piuttosto che la vendita, cercando nel frattempo di
intervenire sulle cause della iperinflazione e cercando di
individuare la struttura legislativa che possa regolarizzare i
rapporti economici tra gli individui.
Il processo della democratizzazione e della pacificazione deve
avvenire utilizzando gli strumenti di intervento istituzionalizzati
in quei luoghi, che sono il risultato della storia e della cultura di
quei luoghi21.
La domanda e l’offerta
Nel mercato, dunque, si svolge lo scambio tra chi domanda e
chi offre beni e servizi. Colui che domanda è detto
consumatore o acquirente ed è disposto a scambiare moneta
per il bene di cui sente il bisogno del consumo (il suo obiettivo
è quello di massimizzare il suo livello di utilità o
soddisfazione); colui che offre il bene è l’impresa che affronta i
costi di produzione per produrre il bene stesso e per ottenere
in cambio un profitto (il suo obiettivo è quello di massimizzare
il profitto).
Si raggiunge una situazione di equilibrio quando tutto ciò che è
offerto è anche domandato allo stesso prezzo, detto: prezzo di
equilibrio.
Nella situazione di equilibrio le imprese realizzano dei profitti
normali, quelli cioè che coprono i costi di produzione (in altre
21 Vedi A. Margelletti in Soldati di pace in scenari operativi (op. cit.).
35
forme di mercato, dette imperfette, l’impresa può realizzare
degli extraprofitti); e i consumatori ottengono il massimo livello
di utilità possibile, dato il prezzo del bene domandato e il
reddito loro disponibile.
Nel formalizzare una situazione di equilibrio dobbiamo
utilizzare la scheda di domanda e quella di offerta.
La scheda che rappresenta la domanda è una funzione che
mette in relazione la quantità domandata del bene con il suo
prezzo. Se aumenta il prezzo di un bene la domanda, dello
stesso bene, diminuirà; se, invece, diminuisce il prezzo del
bene la sua domanda aumenterà22.
Graficamente possiamo rappresentare la curva di domanda e
di offerta nel seguente modo. Sull’ascissa del grafico
indichiamo la quantità domandata dai consumatori di un bene
x ai vari livello di prezzo; mentre, in ordinata indichiamo i livello
del prezzo del bene x.
Px
Offerta
Prezzo equilibrio
Domanda
Qd di equilibrio
Qd
22 Quando la domanda del bene è caratterizzata da una relazione inversa
tra prezzo e quantità (se aumenta l'uno diminuisce l'altra) si dice che il
bene è “normale”. Se invece la relazione tra prezzo e quantità
domandata è diretta si dice che il bene è un bene di Giffen.
36
La retta della domanda e dell’offerta sono la risultante di una
equazione lineare che per la domanda sarà: Qd = a -bP; e che
l’offerta sarà: Qs = a + bP.
La quantità domandata (Qd = a -bP) del bene x dipenderà:
- da una costante “a” che indica la quantità domandata
nel caso in cui il prezzo sia pari a zero (“a” indica la
massima quantità che l'individuo potrà domandare);
- e dal prezzo del bene x (Px) moltiplicato una costante
“-b” che descrive la relazione tra variazione del prezzo
e variazione della quantità.
Se -b fosse uguale a 4 significherebbe che al variare di una
unità del prezzo la quantità domandata varierà in senso
inverso di 4 unità. Così, se il prezzo aumenta di 1 Euro la
quantità domandata diminuirà di 4 unità.
Se per esempio la costante “a” fosse pari a 100 e il parametro
“-b” fosse pari a 2 si avrebbe che: Qd = 100 – 2P.
Mentre, la quantità offerta (Qs = a +bP.) del bene x dipenderà:
- da una costante “a”, che indica la quantità offerta nel
caso in cui il prezzo sia pari a zero (“a” indica la
massima quantità che l’impresa potrà produrre);
- e dal prezzo del bene x (Px) moltiplicato una costante
“+b”, che descrive la relazione tra variazione del prezzo
e variazione della quantità.
Se “+b” fosse uguale a 4 significherebbe che al variare di una
unità del prezzo la quantità offerta varierà di 4 unità.
Cioè se il prezzo aumenta di 1 Euro la quantità prodotta
aumenta di 4 unità.
Se per esempio la costante “a” fosse pari a 50 e il parametro
“+b” fosse pari a 2 si avrebbe che: Qs = 50+2P.
37
In equilibrio siccome la quantità domandata e uguale a quella
offerta si avrà che Qd = Qs, quindi:
100 – 2P = 50 +2P;
risolvendo: P= (-100+50) / 4 = 12,5
sostituendo P=12,5 nella equazione della domanda e in quella
del prezzo verifico che la quantità di equilibrio è pari a 75. Cioè
se il prezzo del bene x si attesta a 12,5 Euro nel mercato verrà
domandata una quantità pari a 75 che corrisponde alla
quantità offerta dalle imprese. Ogni volta che si realizza una
situazione di equilibrio l’impresa massimizza il suo profitto (in
questo caso vendendo 75 unità del bene x) e il consumatore
massimizza la sua soddisfazione (in questo caso acquistando
75 unità del bene x).
Graficamente avremo che:
Px
50
Domanda
Offerta
12,5
50
75
100 Qd
La situazione di equilibrio è di più facile raggiungimento se il
mercato opera in una situazione di concorrenza perfetta.
I requisiti su cui si basa la concorrenza perfetta, però, sono
poco vicini alla realtà, nel senso che non forniscono una
descrizione soddisfacente della maggior parte dei mercati del
38
mondo reale. Le tipologie di mercato presenti nel contesto
reale, infatti, sono dette imperfette e soddisfano solo alcuni dei
requisiti della concorrenza perfetta.
39
CAPITOLO 2
Le forme di mercato
1. La concorrenza perfetta
I requisiti che caratterizzano una situazione di concorrenza
perfetta sono: esistenza di un rilevante numero di acquirenti;
esistenza di un rilevante numero di venditori; la quantità del
bene acquistata da qualsiasi acquirente o venduta da qualsiasi
venditore è così esigua, in rapporto alla quantità complessiva
scambiata, che le variazioni di quella quantità non influiscono
sul livello del prezzo di mercato; le unità del bene vendute dai
diversi venditori sono identiche, cioè il prodotto è omogeneo.
La concorrenza perfetta è, in pratica, una situazione che si
può verificare in mercati semplici, come quelli che si possono
istituire in piccoli paesi, dove esistono piccole imprese
artigianali che producono beni non particolarmente
differenziati tra loro; e nei quali vi è un contatto diretto tra
produttori e acquirenti, tale per cui questi ultimi hanno
conoscenza della qualità dei beni e dei prezzi applicati dai
produttori.
La concorrenza perfetta è quella situazione caratterizzata dalla
presenza di particolari presupposti che la rendono poco
conciliabile con la realtà delle economie più avanzate.
La concorrenza perfetta si distingue dalla concorrenza pura
per la presenza in quest’ultima di ulteriori presupposti, anche
se le due definizioni sono spesso usate come sinonimi.
Nella concorrenza pura: vi è informazione perfetta nel senso
che tutti gli acquirenti e tutti i venditori possono avere una
conoscenza completa dei prezzi che sono domandati e offerti
in tutte le altri parti del mercato; vi è perfetta libertà di entrata,
40
vale a dire che i nuovi venditori sono in grado di entrare nel
mercato e di vendere i beni alle stesse condizioni dei venditori
in essere; è assente ogni attrito economico, inclusi i costi di
trasporto.
Per la presenza di questi caratteri il mercato si adatta
sollecitamente ai divari tra offerta e domanda, garantendo
l’equilibrio di mercato.
Nonostante la sua limitata rappresentatività della realtà la
teoria della concorrenza perfetta è utile agli economisti perchè
dà un criterio di confronto su come il mercato dovrebbe agire
se non ci fossero imperfezioni.
Possiamo considerare come forme di mercato imperfetto quei
sistemi che non hanno alcuni caratteri della concorrenza
perfetta, tra questi: il monopsonio, il monopolio, l'oligopolio e la
concorrenza monopolistica.
2. Il monopolio, l’oligopolio, il monopsonio e la
concorrenza monopolistica
Il monopolio è quella situazione in cui esiste una sola impresa
in grado di produrre una determinata merce o di fornire un
servizio; quando le imprese in grado di produrre tale merce o
servizio sono poche si parla di oligopolio le conseguenze sul
mercato sono simili a quelle determinate dal monopolio:
mancanza di concorrenza e quindi possibilità per chi produce
di fissare il prezzo di vendita a propria discrezione.
In genere, perché si stabilisca un monopolio devono verificarsi
alcune condizioni: il controllo o la disponibilità esclusiva delle
materie prime necessarie per fabbricare un determinato
prodotto; la capacità tecnologica di effettuare determinate
lavorazioni o di fornire un servizio a prezzi convenienti; il
41
controllo in esclusiva di un brevetto o di un sistema di
lavorazione; l'assenso delle autorità.
Norme antimonopolio sono oggi in vigore in quasi tutti gli stati;
una particolare attenzione è dedicata all'attività dei cosiddetti
mergers, in cui le aziende, di solito multinazionali, si
organizzano attraverso forme di concentrazione 'verticali',
ossia controllando tutto il ciclo produttivo (pozzi di petrolio,
raffinerie, oleodotti, autocisterne, distributori di carburante),
oppure 'orizzontale', con il controllo di altre aziende che
operano nello stesso settore e che altrimenti sarebbero
concorrenti.
Nell’Unione Europea, è prevista l'esistenza di un Commissario
alla concorrenza, che può emanare direttive per modificare in
senso liberale eventuali leggi restrittive esistenti nei singoli
paesi e controlla che di fatto non si instaurino situazioni di
monopolio all'interno dell'Unione; effettua, inoltre, controlli
anche su eventuali accordi tra produttori, che nel linguaggio
economico prendono il nome di cartello, creati allo scopo di
limitare la libera determinazione dei prezzi (ad esempio tra le
nazioni produttrici di petrolio consociate nell’Organizzazione
dei paesi esportatori di petrolio o tra le aziende petrolifere per
fissare un unico prezzo di riferimento del carburante, oppure
tra le società di assicurazione per uniformare i costi delle
polizze).
In Italia è stato istituito un Ufficio del garante alla concorrenza,
che ha il compito di controllare che non si verifichino casi di
monopolio. Esistono tuttavia alcune attività che lo Stato decide
di gestire in forma monopolistica, direttamente o attraverso
aziende pubbliche: in questi casi, come anche in altri settori da
poco liberalizzati e ancora in situazione di quasi-monopolio, ad
esempio le trasmissioni radiotelevisive, le comunicazioni tele-
42
foniche, la fornitura di energia elettrica, si riteneva che il monopolio fosse necessario per tutelare il pubblico interesse, cioè
l'interesse di tutti i cittadini a ricevere un servizio uguale per
tutti e a un costo fissato in base a criteri politici (i cosiddetti
prezzi amministrati) e non rapportato a criteri strettamente
economici.
L’oligopolio può essere definito come la forma di mercato caratterizzata dalla presenza di un numero ristretto di produttori
e venditori di un determinato bene, o servizio, in grado di controllare una quota considerevole dell’offerta.
L’impresa oligopolistica esercita un potere di controllo sul mercato ma questo è inferiore a quello che può avere il monopolista, mentre è superiore a quello che può esercitare una impresa in concorrenza perfetta. Ciascuna delle poche e di solito
grandi imprese è in grado di influire direttamente o indirettamente attraverso la quantità venduta sul prezzo, ma tale influenza è condizionata dalle altre imprese concorrenti.
L’oligopolio può essere concentrato (od omogeneo): il prodotto
offerto è sostanzialmente identico (benzina, acciaio…) per cui
non esiste alcuna ragione da parte dei richiedenti di preferire il
prodotto di una certa impresa rispetto a quello di un’altra; oppure può essere differenziato: il prodotto offerto è simile ma
non identico (automobili, computer, armi, ecc.), per cui le imprese fanno in modo di influenzare le conoscenze e le preferenze dei potenziali acquirenti attraverso una abile azione di
differenziazione del prodotto e mediante il ricorso alla pubblicità.
Diversamente da forme di mercato quali la concorrenza perfetta o il monopolio, non esiste un modello universale di oligopolio. Ciò è almeno in parte dovuto al fatto che le imprese che
operano all'interno di un mercato oligopolistico hanno la possi-
43
bilità di adottare comportamenti di tipo strategico (ossia di effettuare le proprie decisioni di produzione o di prezzo) in funzione delle scelte effettuate dalle imprese concorrenti. Questa
caratteristica dà adito a una maggiore varietà di possibili comportamenti, che si traduce nel gran numero di modelli di oligopolio proposti dalla teoria economica. Per dare una idea delle
diverse e complesse strategie rilevate nei mercati oligopolistici
è da notare che le imprese possono scegliere una delle seguenti strategie: farsi la guerra mediante una politica al ribasso
sui prezzi o stabilire accordi, taciti od espliciti, ispirati al principio vivi e lascia vivere.
In base a queste osservazioni si può comprendere perché gli
economisti abbiano ritenuto valido ricercare nella teoria dei
giochi la soluzione al comportamento strategico delle imprese
oligopolistiche. I prezzi dei beni possono essere stabiliti in due
modi diversi.
Il primo, oligopolio collusivo, è più probabile quando le imprese
possono identificarsi a vicenda e quando producono beni a
alto contenuto tecnologico, come per i sistemi d’arma; o
quando una impresa, essendo di dimensioni superiori ai
concorrenti, può fissare i prezzi costringendo le altre a
seguirla; tale collusione può essere tacita o esplicita (con la
creazione di cartelli).
Sarà più facile che le imprese colludano se ci sono le seguenti
condizioni: ci sono poche imprese e si conoscono a vicenda;
non ci sono segreti riguardo a costi e tecniche di produzione;
le imprese hanno tecniche di produzione e costi medi simili e
sono disposte a variare il prezzo nello stesso momento e nella
stessa proporzione; le imprese producono beni simili e
possono quindi accordarsi facilmente sul prezzo; c’è una
impresa dominante; ci sono barrire all’entrata e quindi scarso
44
timore di concorrenza da parte di nuove imprese; il mercato è
stabile, ovvero se i costi di produzione o la domanda
dell’industria fossero altamente volatili, sarebbe difficile
accordarsi, a causa della difficoltà di fare previsioni e per la
necessità di rivedere frequentemente gli accordi; d’altra parte
se il mercato è in declino, il problema può essere che ciascuna
impresa è tentata di tagliare il proprio prezzo per mantenere il
livello delle vendite; non ci sono leggi contrarie alle pratiche
collusive.
Il secondo, oligopolio non collusivo, presuppone la
concorrenza con le altre imprese oligopolistiche: il prezzo
viene fissato sulla base di ipotesi sul comportamento di queste
ultime (come per i sistemi d’arma a bassa tecnologia dei quali
possono esistere modelli diversi per la stessa arma). Nel
considerare se rompere un accordo collusivo, anche se tacito,
una impresa deve valutare quanto sia possibile ottenere,
senza innescare una reazione da parte delle altre imprese; e
se dovesse iniziare una guerra di prezzo quali possono essere
le possibilità di vincerla. In sostanza si tratta di scegliere la
strategia più appropriata che consente all'impresa di rendere il
profitto più alto possibile.
Naturalmente la strategia di una impresa non dovrà tenere
conto soltanto del prezzo ma anche della pubblicità e dello
sviluppo del prodotto. La scelta della strategia dipenderà sia
dalle congetture dell’impresa circa le reazioni delle altre
imprese, sia dalla sua disponibilità a rischiare.
Il monopsonio è quella forma di mercato nella quale vi è un
solo compratore. Nel caso dell’industria militare l’acquirente
privilegiato è lo Stato.
45
La domanda di beni militari che lo Stato dirige verso l’industria
militare23 dipende dal bisogno della sicurezza interna e
globale.
La produzione mondiale di beni e servizi destinati alle forze
armate è estremamente concentrata (oligopolistica dal lato
della produzione), al pari delle spese militari e delle
esportazioni di armamenti che la finanziano.
Al mondo esistono quattro poli industriali militari in cui si
fabbrica più di del 90% dei sistemi d’arma e servizi per la
difesa. Il primo per importanza economica, politica e capacità
industriale, si trova negli Stati Uniti, il secondo è rappresentato
dalle strutture produttive dei grandi paesi dell’Europa
occidentale e del Giappone, il terzo è costituito dall’industria
bellica ex sovietica ereditata dalla Russia, il quarto, infine, dal
comparto bellico della macchina manifatturiera cinese.
L’attuale struttura monopsonistica dell’industria militare
(dovuta al fatto che il compratore privilegiato è lo Stato) ha
origine dalla Guerra Fredda, quando la produzione di
armamenti era fortemente nazionale e gli Stati spendevamo
23 L’industria militare (ovvero industria degli armamenti o dell’industria della
difesa) non è definita come settore industriale a sè stante. Nella
classificazione dell’attività economica le imprese che producono beni e
servizi militari sono inserite in diversi comparti produttivi, come quelli ch
fabbricano aerei e veicoli spaziali, sostanze chimiche, autoveicoli,
equipaggiamenti da trasporto, armi e munizioni in generale. La
definizione ufficiale della industria militare è quella proposta dal SIPRI
(Stockholm International Peace Research Institute), secondo la quale si
può considerare industria militare (o della difesa o degli armamenti)
quella che è qualsiasi azienda produttrice di beni e servizi militari per
acquirenti militari anche se produce beni civili e anche se la produzione
di beni militari è meno rilevante di quella per fini civili. La definizione del
SIPRI non è rigorosa, ma è un importante linea guida per individuare la
produzione militare. Cfr.: C. Bonaiuti – D. Dameri – A. Lodovisi,
L’industria militare e la Difesa Europa, Annuario Armi-Disarmo Giorgio La
Pira, 2008.
46
molto (in riferimento al Pil nazionale) per avere disponibilità di
armi con alti livelli tecnologici. Ciò ha creato forti barriere
all’entrata del settore, per gli alti costi di produzione, ed ha
determinato la creazione di poche grandi imprese nazionali
produttrici di materiale militare.
La concorrenza monopolistica è una forma di mercato molto
diffusa nel commercio al minuto (nel settore della distribuzione
alimentare, prodotti per la pulizia della casa, ecc.) e nel settore
dei servizi (ristoranti, pizzerie, bar, ecc.). Si caratterizza per la
presenza delle seguenti caratteristiche: molte imprese sono
presenti nel mercato; i prodotti venduti dalle imprese sono
differenziati. Esiste un elevato grado di sostituibilità tra i
prodotti, tuttavia essi non sono sostituti perfetti; vi è la
possibilità di entrare ed uscire liberamente dal mercato. Non vi
sono cioè barriere all’ingresso legate alla marca del prodotto.
Un mercato di concorrenza monopolistica è simile ad una
industria in concorrenza perfetta poiché vi sono numerose
imprese che sono libere di entrare ed uscire da essa.
Nello stesso tempo, tale industria differisce dalla concorrenza
perfetta poiché il prodotto è differenziato e ciascuna impresa
vende un modello del prodotto che differisce da quello venduto
dalle altre imprese nella qualità, nel packaging, nella
reputazione di marca, nelle caratteristiche di prestazioni, ecc.
Ciascuna impresa è il solo produttore di un particolare
modello. Il grado di potere di monopolio di una impresa
dipende dalla sua capacità di differenziare il prodotto da quello
delle altre imprese. Maggiore è la sostituibilità dei prodotti, più
elastica è la curva di domanda di ciascuna impresa, più basso
è il suo potere di monopolio.
47
3. La Teoria dei Giochi: produzioni di armi e strategia
militare
La teoria dei giochi si basa sul concetto di equilibrio stabile,
cioè sulla situazione in cui le forze che operano in direzioni
opposte si controbilanciano, in modo tale che non vi è
nessuna tendenza al cambiamento poiché la situazione che si
è creata è la migliore per tutti coloro che sono coinvolti.
Caso tipico di equilibrio è quello in cui il venditore e
l'acquirente di un bene, che tendono l'uno ad alzare il prezzo e
l'altro ad abbassarlo, si accorderanno per un livello di prezzo
che mette d'accordo entrambi e che permette che tutto ciò che
viene offerto dal venditore viene acquistato dal compratore.
Come abbiamo visto, questa situazione è percepita come la
migliore possibile poiché entrambi soddisfano pienamente il
loro obiettivo presente: il venditore di vendere tutto ciò che ha
prodotto e l'acquirente di soddisfare al massimo il bisogno che
prova per quel bene.
Il comportamento tenuto dal venditore e dall'acquirente, per
addivenire alla situazione di equilibrio, può essere sintetizzato
nella teoria dei giochi che prevede due situazioni
fondamentali: quella di conflitto puro nella quale i guadagni
conseguiti da una delle parti (giocatore) rappresentano le
perdite dell'altro; quella di cooperazione nella quale i giocatori
possono accordarsi (cooperare) al fine di accrescere il risultato
complessivo per il quale concorrono24.
Questo tipo di situazione strategica può essere utilmente
rappresentato attraverso un albero di gioco formato da nodi di
24 Una situazione particolare della teoria dei giochi è il “gioco a somma
zero” in cui le vincite e le perdite dei giocatori hanno per somma “zero” in
ogni possibile scelta delle strategie. Cioè l'ammontare della vincita
corrisponde all'ammontare della perdita. La particolarità di questa
situazione è che i giocatori si trovano in una situazione di puro conflitto.
48
decisione, rami e nodi finali. I nodi di decisione rappresentano
gli stadi del gioco in cui un giocatore è chiamato a prendere
una decisione (il numero sopra il nodo indica il giocatore che
in quello stadio del gioco è chiamato a giocare).
I nodi finali rappresentano invece il termine del gioco e in essi
sono indicati i payoff di entrambi i giocatori, dove il primo
payoff è quello del giocatore che è chiamato a decidere per
primo. I rami del gioco che originano da un certo nodo
rappresentano le possibili azioni o mosse che il giocatore può
intraprendere a partire da quel nodo.
Si consideri, ad esempio, il seguente gioco (per semplicità)
con due giocatori, 1 e 2. Il Giocatore 1 decide per primo, e può
scegliere di giocare Alto (A) o Basso (B). Il Giocatore 2
osserva la decisione del Giocatore 1 e poi prende una
decisione. Se 1 ha giocato A, allora 2 può decidere di giocare
Destra (D) o Sinistra (S). Se invece 1 ha giocato B, allora 2
può giocare rosso (r) o blu (b).
Si noti che abbiamo chiamato con lettere maiuscole e
minuscole le azioni di 2 per evidenziare il fatto che sono azioni
disponibili in nodi di decisione diversi. Alla fine del gioco i
giocatori ricevono i payoff specificati nella sottostante.
Ad esempio, se il Giocatore 1 gioca A e il Giocatore 2 gioca D,
il primo giocatore prende 1, mentre il secondo giocatore
prende 0.
49
1
A
B
2
S
(1,0)
2
D
(0,2)
r
(3,1)
b
(2,0)
Per trovare l’equilibrio del gioco si ragiona come segue.
Quando il Giocatore 2 è chiamato a giocare, egli conosce
l’azione intrapresa dal Giocatore 1, quindi sa di trovarsi o nel
suo nodo di sinistra o nel suo nodo a destra della figura.
Pertanto la scelta migliore del Giocatore 2 sarà D se prima 1
ha giocato A (confronta 2 con 0) e sarà r se 1 ha giocato B
(confronta 1 con 0).
D’altra parte, il Giocatore 1 sceglie per primo, ma sa che se
gioca A si arriva al nodo di sinistra nel quale 2 giocherà D ed
egli avrà un payoff pari a 0. Se, invece, gioca B, 2 giocherà r e
prenderà 3.
Segue che al Giocatore 1 converrà giocare B e l’equilibrio del
gioco è dato dalla coppia di azioni (B,r) che corrisponde ai
payoff (3,1). Il concetto di soluzione che è stato utilizzato per
trovare l’equilibrio di un gioco in forma estesa è definito
induzione a ritroso: si parte, infatti, trovando la decisione del
giocatore che interviene a giocare per ultimo (che considera
50
data la decisione di chi lo ha preceduto) e si risale a ritroso
fino al nodo della decisione iniziale. A quel punto, il primo
giocatore sceglie la sua azione ottima tenendo conto della
reazione del giocatore che lo segue. E’ possibile dimostrare
che l’equilibrio trovato con induzione a ritroso è anche un
equilibrio di Nash25.
L’equilibrio di Nash può essere sinteticamente enunciato: data
una situazione di equilibrio fra soggetti, ad esempio due
venditori di uno stesso prodotto, un equilibrio di Nash ha la
caratteristica che nessuno dei due concorrenti, data la
strategia dell’altro, è in grado di fare di meglio.
Una situazione che si verifica spesso in un mercato
oligopolistico è la leadership del prezzo, per cui una delle
imprese, generalmente la più innovativa o quella con maggior
quota di mercato, stabilisce il prezzo del prodotto. Il suo
comportamento, nel mantenimento o nella variazione del
prezzo viene seguito di conseguenza dalle altre imprese del
settore.
Questo perché ogni impresa oligopolistica persegue un
duplice obiettivo: conservare il proprio margine di profitto e
salvaguardare la propria fetta di mercato. Ne deriva che in una
situazione di questo tipo l’indagine è rivolta principalmente ad
accertare le motivazioni economiche che spingono l’impresa
leader a fissare il prezzo.
E’ normale, ad esempio, che un incremento di qualche
componente del costo di produzione indurrà l’impresa ad
25 John
Forbes Nash Jr. (Bluefield, 13 giugno 1928) è un matematico ed
economista statunitense. Tra i matematici più brillanti e originali del
Novecento, Nash ha rivoluzionato l'economia con i suoi studi di
matematica applicata alla "Teoria dei giochi", vincendo il premio Nobel
per l'economia nel 1994.
51
aumentare il prezzo del prodotto finale per mantenere
inalterato il proprio margine di profitto.
Ma è pure possibile che l’impresa leader fissi un prezzo
volutamente contenuto in modo da ostacolare l’ingresso di
altre nuove imprese nel mercato.
Un’altra teoria molto seguita è che il problema della
determinazione del prezzo venga risolto dall’impresa
oligopolistica
con
un
metodo
particolare;
anziché
massimizzare il profitto totale, l’impresa prefissa il profitto
unitario che intende realizzare. Questo criterio è espresso dal
principio del costo pieno, mediante il quale l’impresa calcola
l’ammontare del costo variabile unitario e aggiunge un
determinato valore percentuale, chiamato mark up, allo scopo
di coprire i costi fissi di impianto e assicurarsi un certo margine
di profitto.
52
In questa struttura di mercato oligopolista rientrano le industrie
che producono sistemi d'arma come la Oto Melara26 e la
FinMeccanica27 (nel cui gruppo oggi troviamo la Oto Melara).
26 Breve storia della Oto-Melara. La necessità dell'Italia di ridurre la sua
dipendenza nel campo della siderurgia dall'industria estera portò nel
1905 alla fondazione della compagnia tramite una joint-venture tra la
"Vickers" e le Acciaierie di Terni. La nuova compagnia denominata
"Vickers Terni" impiantò un nuovo stabilimento a La Spezia,
specializzato nella produzione di cannoni per artiglierie sia navali che
terrestri. Dopo il completamento dell'impianto avvenuto nel 1908, la
compagnia si è aggiudicata significativi contratti per la fornitura di
cannoni per le navi della Regia Marina in costruzione. Durante la Prima
guerra mondiale negli stabilimenti della compagnia vennero costruite
mitragliere da 40mm cannoni da 381mm ed aerei e da addestramento.
Nel successivo periodo post-bellico, l'azienda concentrò i suoi sforzi per
convertire ad usi civili la sua produzione con la costruzione di motori a
vapore e diesel, turbine, caldaie ed eliche per navi e materiale
ferroviario. Nel 1922 la "Vickers" decise di mettere fine alla joint venture
con le "Acciaierie di Terni" che rimasero unici proprietari della società.
Nel 1929 le "Acciaierie di Terni" con i Cantieri Odero di Genova e
Orlando di Livorno, si unirono per dare vita alla società "Odero-TerniOrlando" nome abbreviato in OTO. Nello stabilimento della Spezia venne
anche impiantata una fonderia per aumentare ulteriormente le potenziale
produttive per la costruzione di cannoni fino a 100 tonnellate di peso. Nel
1933 la OTO passa sotto il controllo dell' IRI, l'Istituto per la
Ricostruzione Industriale. Intanto le tensione in Europa portarono ad un
incremento della produzione militare, con la costruzione soprattutto di
cannoni navali di grande calibro per le navi da battaglia e incrociatori
pesanti e di medio calibro per gli incrociatori leggeri, mentre la crescente
minaccia aerea portò allo sviluppo di un cannone da 76mm per la difesa
delle unità di superficie e cannoni da 100mm e 120mm per i
sommergibili. Al termine della Seconda guerra mondiale, nei primi anni
del dopoguerra la produzione dell'azienda venne convertita sulla
realizzazione di prodotti civili come trattori (Trattori OTO Melara) e telai. Il
19 aprile 1951 la società assume la denominazione Società Meccanica
della Melara con sede a Roma e nel 1953 la denominazione "OTO
53
4. L’ Industria militare
L’industria militare è l’insieme delle attività di produzione di
armi, attrezzature e servizi militari, e delle relative operazioni
di manutenzione, riparazione e riadattamento. L’industria degli
armamenti non costituisce una voce autonoma delle attività
produttive o degli scambi commerciali di prodotti industriali.
Per cui i dati che la riguardano devono essere ottenuti con
procedimenti indiretti come la somma degli scambi degli
acquisti di armi da parte del Ministero della Difesa e delle
Melara", dal nome del quartiere spezzino di Melara su cui sorge
l'impianto. Dopo l'entrata dell'Italia nella NATO, la società riprese la
produzione nel settore della difesa e nella seconda meta degli anni
cinquanta la produzione del cannone navale 76/62mm MMI, per le navi
della Marina Militare, sarebbe diventato uno dei più grandi successi nella
storia della produzione OTO Melara. Nello stesso periodo la società ha
iniziato a produrre, sotto licenza USA il VTT M113 e il Carro armato M60
e il carro armato Leopard 1 su licenza tedesca. Il 1° luglio 1975 la società
passa dall'IRI all'EFIM. Nel 1994 in seguito alla liquidazione dell'EFIM e
alla fusione con Breda Meccanica Bresciana, diventa Otobreda, divisione
di Alenia Difesa. Dal 2001 l'azienda è controllata da Finmeccanica e fa
parte del consorzio Iveco Fiat - Oto Melara S.c.a.r.l.
27 Finmeccanica è oggi, grazie agli accordi con BAE Systems, il secondo
operatore europeo ed il sesto mondiale nel settore dell'Elettronica per la
Difesa. Il nuovo raggruppamento si articola in SELEX Sensors and
Airborne Systems e Galileo Avionica (rappresentate dal nuovo marchio
SELEX Galileo) , SELEX Communications e SELEX Sistemi Integrati,
attive rispettivamente nell'avionica, nelle comunicazioni militari e protette,
nella gestione e controllo del traffico aereo. Ad esse si aggiungono
ELSAG DATAMAT, che opera nella progettazione e produzione di
sistemi, servizi e soluzioni per l'automazione, la sicurezza, i trasporti, la
difesa, lo spazio e l'informatica e SELEX Service Management, fornitore
di servizi integrati di comunicazione per la sicurezza militare e civile.
Anche nei sistemi d'arma la Finmeccanica ha una leadership tecnologica
riconosciuta e consolidata nella progettazione, sviluppo e produzione di
sistemi missilistici, siluri, artiglieria navale e veicoli corazzati. La
Finmeccanica opera nel settore sia con la joint venture MBDA, prima
società europea nel campo dei sistemi missilistici, sia con società
direttamente controllate Oto Melara e WASS, leader nei rispettivi campi
di attività (vedi: www.finmeccanica.it).
54
esportazioni nette (esportazioni meno importazioni); o la
somma dei fatturati militari, variamente stimati delle principali
imprese con produzioni militari di una certa area o settore.
Tra le principali caratteristiche dell’industria degli armamenti
va ricordata la sua concentrazione in ristretto numero di paesi
industriali. Tra questi solo Stati Uniti, Regno Unito, Francia,
Germania e Unione Sovietica sono in grado di produrre la
gamma completa dei prodotti militari, mentre altri come l’Italia
si avvicinano ma non sono del tutto indipendenti; infine vi è
una terza fascia di paesi come Svizzera, Svezia e Austria che
sono specializzati solo in alcune produzioni di eccellenza.
L’esistenza di un settore degli armamenti presuppone quella di
una vasta rete di settori che la riforniscano di mezzi di
produzione e di componenti spesso assai sofisticate, cioè di
una base produttiva molto sviluppata che può essere presente
solo in paesi pienamente industrializzati.
Inoltre nel corso degli anni Ottanta, in relazione alle continue
tensioni nel Medio Oriente e al conflitto armato tra l’Iraq e l’Iran
si è verificato un processo di trasferimento di mezzi di
produzione, componenti e personale scientifico e tecnologico
verso numerosi paesi di quell’area, quali l’Iran, l’Iraq e l’Egitto
che sono riusciti a creare delle isole produttrici di armi nonché
di vari tipi di missili.
Per completezza vanno infine ricordate le industrie militari di
Israele (dove la produzione si è sviluppata per motivi di
sicurezza di quel paese); e del Giappone sostenuta da una
domanda interna costituzionalmente vincolata a non superare
l’1% del prodotto nazionale, ma ovviamente rilevante.
L’industria militare giapponese è alimentata da un flusso di
licenze e accordi di coproduzione con imprese statunitensi, ma
si sta basando sempre più sull’eccezionale livello tecnologico
55
raggiunto dalle industrie elettroniche e delle comunicazioni di
quel paese.
Un secondo aspetto dell’industria militare è il suo grado
notevole di concentrazione territoriale. In Italia, fino agli anni
’90, la gran parte di questa industria era concentrata in quattro
regioni, Lombardia, Piemonte, Liguria e Lazio, e all’interno di
queste zone era caratterizzata da produzioni specifiche: aerei
a Torino; elicotteri e aerei a Varese; armi pesanti e leggere a
Brescia; armi pesanti, altri veicoli e navi a La Spezia,
equipaggiamenti elettronici a Roma e a Milano. In gran parte
di questi casi l’economia della zone è dipesa dalle produzioni
militari28.
In terzo luogo l’industria militare si caratterizza per gli
investimenti per l'alta tecnologica, sia nei settori tradizionali
delle armi e dei mezzi di trasporto, sia quelli più moderni
dell’aeronautica, delle telecomunicazioni e dell’elettronica.
Invero il crescente ricorso a componenti ed equipaggiamenti
elettronici incorporati in ogni sistema d’arma, dagli aerei ai
carri armati e alle navi, rappresenta una delle più significative
tendenze della tecnologia militare.
Molte tecnologie aeronautiche, elettroniche e delle
telecomunicazioni presentano una duplicità di usi (civili e
militari) e poiché i governi sono tradizionalmente impegnati nel
sostegno alle attività nazionali di ricerca e sviluppo, si pone
un problema di coordinamento tra gli interventi indirizzati a
questi due usi.
28 Cfr.: G. Gambarelli, Giochi competitivi e cooperativi per l’applicazione a
problemi decisionali di matrice economica, 2003, Giappichelli; E. La
Grasta, Le armi del Bel Paese. L’Italia e il commercio internazionale di
armi, 2005, Ediesse; AA.VV., L’industria militare e la difesa Europea,
Jaka Book, 2008; F. Degli Espositi, Le armi proprie. Spesa pubblica,
politica militare, Unicopli, 2006.
56
Purtroppo tale coordinamento fa fatica a realizzarsi lasciando
una barriera tra il progresso tecnico nell’area civile e quello
nell’area militare. Ma i recenti progressi in tecnologie civili
come quelle dell’elettronica e delle telecomunicazioni,
unitamente ai costi sempre più alti della ricerca e sviluppo
militare, stanno forzando la barriera e favorendo una
crescente integrazione tra ricerca e sviluppo civile e militare.
Gli alti costi della ricerca e sviluppo e i fenomeni delle
economie di scala e del learning by doing che caratterizzano
la corrispondente produzione spiegano una quarta
caratteristica dell’industria militare: la presenza di imprese
abbastanza grandi che operano in un sistema di mercato in
concorrenza imperfetta nel quale lo Stato, nazionale o estero,
è il consumatore; e nel quale accanto alle imprese di armi di
grandi dimensioni si sviluppano imprese di medie e piccole
dimensioni che producono parti di armi o di specifiche
componenti o dei mezzi di produzione.
Questo sistema di imprese satellite ha la particolarità di far
abbassare i costi medi di produzione delle grandi imprese
(delocalizzazione delle fasi di produzione). Tale caratteristica,
unitamente alle scelte tendenzialmente protezionistiche nei
confronti delle industrie militari attuate dai paesi della Nato, ha
fatto si che solo negli Stati Uniti le dimensioni notevoli della
domanda militare interna abbiano consentito il formarsi di una
industria oligopolistica e in grado di effettuare vendite al
governo a prezzi rispecchianti costi medi ridotti per effetto
delle economie di scala e della crescente specializzazione dei
processi produttivi associati alle vendite di grandi numeri.
In Europa i protezionismi nazionali hanno invece portato a
situazioni localmente monopolistiche con costi medi molto alti
e con alti profitti dovuti ai sostenuti prezzi di vendita.
57
Le vie di uscita da questa situazione indicano altre due
caratteristiche dell’industria militare. La forte spinta alle
esportazioni verso i paesi del Terzo Mondo (che consentono
una riduzione dei costi medi con immediati benefici per i
bilanci nazionali della difesa); e la ricerca di collaborazioni
internazionali che permettano di ripartire i costi e i rischi della
ricerca e sviluppo e di garantire mercati più vasti.
Altra caratteristica dell’industria militare riguarda il ruolo svolto
dallo Stato nei suoi confronti. Le politiche seguite dai vari
paesi della Nato sono state per lo più vicine al modello
francese: intervento dello Stato al fine di determinare la
struttura produttiva e proprietaria, spesso pubblica,
protezionismo nazionale negli appalti e con vari tipi di sussidi
per la ricerca e sviluppo, sostegno alle esportazioni di armi,
ecc.
Si noti che sia il trattato istitutivo della Cee (art. 223) sia il
recente Atto unico escludono i prodotti militari dalle norme che
stabiliscono l’unificazione economica europea. Questo
modello, pertanto, porterà a una discrasia tra la produzione
civile e quella militare, spesso connesse tra loro a livello
nazionale, poiché la prima dovrà essere compatibile con il
Trattato della Cee e con le norme previste con l’unificazione
europea; mentre, la seconda potrà essere svincolata dalla
normativa prevista in ambito europeo.
Con la fine della Guerra Fredda, e con il venir meno
dell’esigenza della produzione nazionale per motivi di
sicurezza, e con l’apertura dei mercati avvenuta dagli anni ’90
alcuni studiosi avevano ipotizzato che anche l’industria degli
armamenti avrebbe decentralizzato la sua produzione
abbassando i costi (e le barriere all’entrata), creando una
58
maggiore concorrenza internazionale della produzione; ciò
avrebbe verificato un cambiamento strutturale.
In particolare vi è stata una internazionalizzazione delle
industrie nazionali ma con gradi decisamente inferiori rispetto
a quelli del comparto civile. Questo processo si è trasformato
in una maggiore concentrazione delle industrie verso le
strutture oligopolistiche multinazionali. Il ruolo dello Stato nella
produzione è risultato ancora rilevante sia per la produzione e
per il commercio, sia nel ruolo di principale acquirente.
Il cambiamento avvenuto nella struttura produttiva dei sistemi
d’arma ha riguardato, dunque, non un aumento della
concorrenza, con conseguente riduzione dei costi di
produzione, ma un aumento della concentrazione della
produzione nelle industrie multinazionali, soprattutto
statunitensi.
Si è verificato dunque: un aumento del predominio
statunitense nella produzione globale degli armamenti; un
incremento della concentrazione nelle imprese maggiori
produttrici di armi; un ulteriore aumento della dimensione delle
maggiori impresi costruttrici di armi.
In sostanza con la globalizzazione dei mercati e la
internazionalizzazione della produzione la produzione di armi
delle industrie medio-piccole è stata assorbita dalle
multinazionali già presenti sul mercato che hanno così
ampliato ulteriormente la loro dimensione.
Ma la sfida più rilevante che l’industria militare deve vincere
nell’era della globalizzazione è quella di dare una risposta
nuova alle esigenze sorte dalle profonde trasformazioni sulla
59
percezione delle minacce alla sicurezza internazionale che,
come è noto, è un concetto divenuto multiforme29.
5. L’industria militare in Italia30
Le imprese armiere che operano in Italia sono veramente
italiane? Nell’era della globalizzazione, ha ancora senso
parlare di impresa “nazionale”? La prima osservazione è che
l’industria italiana delle armi è fortemente internazionalizzata.
Appare ovvio che l’industria delle armi non esisterebbe in Italia
se il cliente fosse esclusivamente rappresentato dalle forze
armate italiane. Il grosso dei clienti sono le forze armate degli
altri paesi. E’ realmente difficile trovare un esercito od una
marina od un’aviazione che non abbia in dotazione un’arma
italiana.
Il secondo punto riguarda il fatto che le armi sono sempre più
soggette al fenomeno della obsolescenza. Inoltre la ricerca in
questo settore è sempre più costosa e sempre più difficilmente
sopportabile in proprio da piccole imprese.
Da qui sorge una crescente necessità di integrazione,
soprattutto transnazionale, fra imprese dello stesso settore. Le
forme di integrazione sono le più diverse. Si va dalla
formazione di consorzi (es. MBDA) a vere e proprie fusioni
aziendali (es. AgustaWestland). Certamente questa tendenza
non è propriamente favorevole al sistema Italia, che vede da
una parte allontanarsi dal proprio territorio i centri decisionali,
29 C. E. Gentilucci, Le forme multifunzionali della sicurezza...(op.cit.); C.
Bonaiuti (2008), Industria militare e politiche europee: spunti di
riflessione, in: Bonaiuti-Dameri-Lodovisi, L’industria militare e la difesa
europea, Jaka Book.
30 Cfr.: L. Barbato, La produzione di Armi in Italia, Archivio Disarmo, 2008.
60
e dall’altra perdere quote non trascurabili, soprattutto in
prospettiva, di posti di lavoro.
Questa tendenza è in qualche modo facilitata dal fatto che in
Italia esiste una legislazione, la legge 185/90, più restrittiva in
materia di esportazione di armi convenzionali rispetto a molte
altre legislazioni di paesi europei. Molte imprese di diritto
italiano sono controllate da entità finanziarie od industriali
estere. E’ il caso di Alcatel Alenia Space, MBDA, Avio, Simmel
Difesa, Oerlikon Contraves (ora diventata Rheinmetall Italia);
nel capitale sociale delle aziende italiane sono presenti quote
importanti di entità straniere ( ad esempio Telespazio, Piaggio
Aero, ecc).
Un altro aspetto dell’internazionalizzazione dell’impresa
italiana, riguarda la sempre più marcata delocalizzazione delle
linee produttive. Sono numerose le aziende italiane che hanno
vere e proprie società consociate che, spesso per conquistare
nuove commesse, producono, attraverso società controllate,
proprio in quei paesi che sono i loro maggiori clienti,
soprattutto in Usa.
In Italia non esiste nel settore nessuna public company.
Solamente Finmeccanica è quotata in borsa. Il capitale
flottante è pari al 67,55% del capitale sociale, e risulta
detenuto dal pubblico indistinto italiano e da investitori
istituzionali italiani ed esteri. Lo Stato italiano è il primo
acquirente di armi del paese. Finmeccanica e Fincantieri sono
la conferma che lo Stato ha ancora un ruolo economico diretto
nel mercato per garantire lo sviluppo tecnologico, per acquisire
imprese nel mondo e nel contempo fare utili.
Infatti la positività dei bilanci, sia di Finmeccanica sia di
Fincantieri a decorrere dal 2001, ha consentito riconoscimenti
di dividendi significativi al Ministero dell’Economia.
61
Risultato straordinario, se si pensa che per decenni il ruolo di
tale Ministero è stato quello di stanziare fondi di dotazione, di
rimpolpare i capitali sociali delle maggiori aziende, di ripianare
le perdite delle sue Società controllate. Comunque anche per
Finmeccanica, e soprattutto per Fincantieri, gli assetti
proprietari non sono ancora del tutto scontati.
Per Finmeccanica si parla da qualche tempo di un progetto di
restringere il core-business ai settori tecnologicamente più
avanzati e più caratterizzati dal “dual use”, cioè elicotteristica,
aeronautica, elettronica per la difesa/sicurezza e spazio.
La Finmeccanica balza al settimo posto tra le principali
aziende di armamenti nel mondo: con vendite per oltre 9,8
miliardi di dollari nel 2005, che segnano un incremento di oltre
2,67 miliardi di dollari (più 37,5%) rispetto al 2004, l'azienda
italiana - controllata per il 32,3% dal Ministero dell'Economia e
delle Finanze - scala in pochi anni la graduatoria delle
principali ditte produttrici di armi (era decima nel 2003).
La tabella del Sipri delle 100 principali aziende di armi segnala
inoltre che nel 2005 quasi il 70% delle vendite di Finmeccanica
sono rappresentate da armamenti. A questo vanno aggiunte le
vendite, per oltre 4 miliardi di dollari, della MBDA, il consorzio
missilistico compartecipato da Bae Systems, Eads e di cui
Finmeccanica detiene una quota del 25% e che produce solo
sistemi militari.
6. Disarmo e conversione del settore degli armamenti
In senso generale le politiche della diversificazione e della
conversione produttiva sono imperniate sul miglioramento dei
risultati dinamici dell’economia nel suo complesso, rendendola
molto più flessibile e capace di adattarsi ai cambiamenti nelle
62
condizioni di mercato. Esempi di politiche di questo tipo
possono essere la liberalizzazione del commercio estero, lo
sviluppo di infrastrutture, l’assistenza alle imprese di piccola
dimensione o ai trasferimenti tecnologici.
In questa tipologia di politica economica spesso è rientrato
anche il dibattito sul disarmo, sulla sua opportunità e sugli
effetti positivi che esso può avere per instaurare situazioni di
pace e migliorare i rapporti internazionali. Posto che il nostro
punto di vista esula dal considerare il disarmo un’azione, in sè
per sé, atta a evitare conflitti, sembra importante verificare fino
a che punto il disarmo può rientrare in una prospettiva di
miglioramento dinamico dell’economia e quale atteggiamento,
a livello internazionale, è stato assunto relativamente a questa
politica economica.
Tra la fine degli anni ’80 e la prima metà degli anni ’90 ha
avuto luogo un processo di disarmo. La conseguente riduzione
di risorse destinate a scopi militari e il riuso di queste risorse
per la conversione del civile ha costretto i governi a misurarsi
con una serie di problemi e con nuove potenzialità.
L’idea comune, a sostanziale fondamento ideologico, è che il
disarmo comporti rilevanti vantaggi socio economici. C’è stata
l’attesa di una redistribuzione internazionale di risorse, il
cosidetto “dividendo della pace”31.
31 Dopo enormi investimenti in risorse umane e monetarie a sostegno di
decenni di guerra fredda si pensa, con la fine dell’URSS, di incassare un
dividendo per la pace. In alcuni paesi la diminuzione delle spese per le
forze armate fu realmente significativa, vale a dire per gli USA, la
Germania appena unificata, la Gran Bretagna e la Spagna. Per quel che
riguarda gli USA, la riduzione della spesa militare in termini monetari per
il periodo 1983-1993 non è così elevata; occorre infatti considerare la
variazione di spesa rispetto al PIL per si vedere un calo dell’1,5% nei
primi anni novanta. Altri paesi non diminuirono in modo significativo le
spese per il settore militare, fra questi Francia e Italia
63
La realtà ha dimostrato che il processo di conversione ha
incontrato molti ostacoli32.
La smilitarizzazione può avvenire in diversi modi: la riduzione
degli armamenti, la riduzione della spesa militare, la
smobilitazione delle forze armate, la chiusura di basi e siti
produttivi. Le risorse economiche in precedenza impiegate a
scopi militari possono essere usate in campi civili. Ma non
tutto il potenziale di conversione è utilizzabile. L’aspetto più
banale di questa considerazione è che spesso gli impianti per
la produzione di armi sono ad alto costo di funzionamento e
non sono totalmente convertibili nella produzione civile, per cui
può essere conveniente dismetterli piuttosto che riadattarli ad
altre produzioni.
Alla produzione militare sono legati un certo ammontare di
investimenti, affinchè la conversione abbia effetti positivi è
necessario che gli investimenti liberati dal disarmo si rivolgano
al settore civile.
Inoltre, per far uscire dalla dipendenza militare le aziende o i
distretti territoriali, si deve investire in ricerca e sviluppo, nel
marketing, nella comunicazione e nella formazione. La
conversione va, quindi, vista come un processo di investimenti
con una predominanza di costi nel breve periodo, e probabili
vantaggi a lungo termine.
32 Gianni Alioti, “Conversione da produzioni militari a civili: storia e
prospettive”, in Bonaiuti-Dameri-Lodovisi, L’industria militare e la difesa
Europea, Jaca Book, 2008, Milano.
64
7. Cenni storici sulla riconversione dell’industria militare
italiana
Storicamente la riconversione dell’industria militare sembra
aver avuto successo quando alle politiche di disarmo si
accompagnava un’espansione dell’economia, sostenuta anche
da politiche keynesiane di investimenti pubblici sostitutivi di
quelli civili, in modo che si potesse assorbire la
disoccupazione che proveniva dal processo di riconversione
dell’industria militare.
La riconversione non è un processo economico semplice. Le
industrie militari crescono, generalmente, operando al
massimo dei costi e dei sussidi in un mercato sostanzialmente
protetto. Elevato costo del lavoro, manodopera altamente
specializzata per la particolare attenzione alla qualità del
prodotto, tecnologie dedicate, una cultura manageriale
dedicata al prodotto, e non al mercato, fanno dell’industria
militare una struttura poco flessibile alla riconversione e alla
concorrenza.
E’ importante, quindi, che lo Stato intervenga per sostenere
l’impiego della capacità produttiva non più utilizzata nella
produzione militare quando il mercato civile non è in grado di
assorbirla.
La riconversione non ha avuto grande successo, almeno in
Italia, ed è costata molto alla società in termini di diminuzione
del livello della capacità produttiva impiegata.
Le difficoltose vicende che hanno caratterizzato la vita della
San Giorgio, della Oto Melara e dell’Ansaldo dal primo conflitto
al secondo dopoguerra ripercorrono le fasi dello sviluppo
dell’industria italiana e della riconversione dal militare al civile
in Italia.
65
La politica coloniale seguita dall’Italia aveva sostenuto la
domanda dei beni militari dando impulso alla crescita delle
industrie a produzione militare.
La San Giorgio, ad esempio, nata nel 1905 e specializzata in
automobili, nel 1911 inizia a produrre strumenti di precisione
per l’artiglieria. Nel 1917 la San Giorgio concentra la sua
produzione, in collaborazione con la Piaggio e l’Ansaldo, nel
settore dell’aeronautica militare. Finita la prima guerra
mondiale la San Giorgio tenta di riconvertire nel civile la sua
attività, ma incontra da un lato problemi di liquidità e la
difficoltà di sostituire l’ingente domanda militare con domanda
di prodotti civili. Maggiori, ma analoghi, problemi li ha incontrati
l’Ansaldo, impresa di più grandi dimensioni.
L’aspetto più delicato della riconversione è l’assorbimento
della manodopera che prima era impiegata per la produzione
militare. Spesso si sono resi necessari preganti interventi dello
Stato, come quelli previsti nel piano dell’IRI degli anni Trenta.
L’esperienza della riconversione avvenuta nei due dopoguerra
ha dimostrato che è difficile per le imprese inserirsi con
prodotti civili nel libero mercato affrontando anche la
concorrenza internazionale33.
Per quanto riguarda il periodo più vicino alla nostra realtà dopo
una fase di blocco della produzione militare in Italia durata dal
1943 al 1948, dal 1949 al 1956 si assiste ad una ripresa del
settore, in totale dipendenza della produzione offshore
finanziata dagli Stati Uniti.
Negli anni Ottanta si sviluppa una fase nella quale l’industria
italiana raggiunge la sua massima espansione dal periodo del
33 Per un approfondimento dell’esperienza storica della riconversione vedi:
Gianni Alioti, “Conversione da produzioni militari a civili: storia e
prospettive”, in Bonaiuti-Dameri-Lodovisi, L’industria militare e la difesa
Europea, Jaca Book, 2008, Milano.
66
dopoguerra ad oggi. In questa fase la presenza pubblica
nell’industria militare italiana si rafforza con il controllo della
totalità della cantieristica navale militare.
Inizia un periodo di costante aumento delle spese militari e
delle spese per armamenti. L’industria italiana sostenuta dalla
domanda pubblica e dall’aumento dell’export, favorito da una
azione permissiva, conosce un periodo di continua ascesa del
suo trend.
Negli anni Novanta l’industria militare italiana, come nel resto
dei Paesi europei e del mondo, attraversa uno stato di crisi,
determinato dal calo della domanda e della produzione
determinando una eccedenza occupazionale. Ciò non ha,
comunque, procurato un impatto sociale perché vi sono state
adeguate misure di accompagnamento alla pensione e di
ammortizzatori sociali, sia perché parte dell’occupazione
militare è stata assorbita dalla produzione civile.
67
CAPITOLO 3
Il ruolo dello Stato nell’Economia
1. La teoria keynesiana
John Maynard Keynes (Cambridge 1883-1946) è considerato
uno dei più rappresentativi economisti del XX secolo. Con lo
scoppio della prima guerra mondiale collabora al Ministero del
Tesoro riguardo il finanziamento della guerra. Al termine del
conflitto fa parte della delegazione inglese alla conferenza di
pace di Versailles.
In polemica con le sanzioni economiche imposte alla
Germania si dimette dalla delegazione considerandole
insostenibili per l'economia della Germania a rischio di grave
recessione, su tale questione Keynes scriverà uno dei suoi
famosi libri Le conseguenze economiche della pace. Negli
anni '30 pubblicherà i suoi lavori più importanti che fonderanno
una
nuova
visone
dell'analisi
economica,
quella
macroeconomica, tra i quali: Trattato della moneta e Teoria
generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta.
Nel 1940 viene nominato Consigliere del Cancelliere dello
Scacchiere e torna ad interessarsi dei problemi di finanza di
guerra. Con la fine della seconda guerra mondiale partecipa
alla Conferenza di Bretton Woods.
Dall'impostazione dell'analisi teorica di Keynes emerge
l'influenza esercitata dalle principali vicende economiche di
quel tempo. Il suo forte interesse per i problemi di carattere
politico, fanno di Keynes un economista il cui mestiere si fonde
con il suo impegno civile.
Il suo obiettivo di studioso non era solo teorico (come per la
maggior parte degli economisti di allora, che si occupavano di
teorizzare leggi dell'economia che spiegavano come il sistema
68
avrebbe raggiunto situazioni di equilibrio senza preoccuparsi
della loro congruenza con la realtà) ma anche pratico, nel
senso che con la sua opera voleva contribuire all'affermazione
ed allo sviluppo di un capitalismo nuovo e attento anche alle
questioni redistributive e di equità sociale.
I punti salienti e innovativi, per quel periodo storico, della sua
analisi erano: il sistema economico tende verso situazioni di
sottocupazione delle risorse; sono da considerare non
attendibili le teorie che sostengono che il sistema economico è
governato da leggi naturali che lo conducono, in modo
spontaneo, verso situazioni di crescita e di sviluppo.
Secondo Keynes, invece, l'economia è soggetta a un
andamento instabile che rallenta fortemente il percorso dello
sviluppo, comportando disoccupazione e recessioni. Le sue
idee sono state influenzate e rafforzate dalla crisi economica
mondiale degli anni Trenta, che è costata all'economia
mondiale milioni di disoccupati.
Per Keynes bisognava ripensare al ruolo dello Stato nel
sistema economico poiché, in caso di depressione, è il solo
attore che ha gli strumenti per rilanciare e dare impulso
all'economia attraverso la spesa pubblica.
L'economista inglese inizia il suo ragionamento contrastando
un fondamento della teoria economica di quel tempo, detta
Legge di Say, secondo la quale l'offerta crea la propria
domanda. Secondo tale teoria per sostenere la crescita è
sufficiente che aumenti la produzione di beni e servizi; ciò,
comportando un aumento della occupazione, determinerà un
aumento anche della domanda degli stessi beni e servizi
prodotti.
Per Keynes, invece, è la domanda che crea la propria offerta,
cioè è la domanda di beni di consumo e di investimenti che
69
stimola nuova produzione e un aumento del reddito nazionale.
I comportamenti delle imprese e delle famiglie non sono
interdipendenti, per cui anche se le imprese aumentano la loro
produzione nulla garantisce che i beni poi vengano
effettivamente domandati dai consumatori, potendo rimanere
invenduti.
Se, invece, aumenta la domanda di beni di consumo con
maggiore certezza le imprese attente a realizzare sempre
nuovi profitti tenderanno a produrre (e quindi a aumentare
l'offerta di beni) ciò che viene domandato sul mercato. Questa
impostazione teorica si basa sulla curva della domanda
aggregata che abbiamo visto sopra e si sviluppa nella Teoria
del Moltiplicatore del Reddito o keynesiano.
Ipotizziamo un caso semplificato, in cui il sistema economico è
chiuso ai rapporti con il resto del mondo e il settore pubblico è
assente, in cui sono presenti solo due operatori: le famiglie
che acquistano beni e servizi; e le imprese che investono.
In questa semplice sistema l'equilibro macroeconomico si avrà
quando Y = DA, cioè quando il prodotto nazionale uguaglia il
livello della domanda aggregata.
Riprendendo la funzione della DA, in una economia senza
presenza l'intervento dello Stato e in assenza di relazioni
internazionali, si avrà che: DA = C + I.
Siccome la funzione del Consumo è: C = C0 + bY;
allora: DA = (C0 + bY) + I.
Abbiamo detto che in equilibrio si avrà che Y = DA, così:
Y = (C0 + bY) + I.
Pertanto il livello di equilibrio del Reddito Nazionale (Y) sarà:
Y – bY = I + Co.
Raccogliendo Y a fattor comune tra i termini a sinistra
dell’uguale, si avrà:
70
(1-b) Y = I + Co.
La variazione del reddito nazionale che assicura l'equilibrio tra
domanda e offerta sarà espressa dalla seguente equazione
che rappresenta la funzione del moltiplicatore del reddito:
varY = (1/1-b) (I+Co).
Secondo questa funzione se aumenta il Consumo o
l'Investimento il Reddito Nazionale aumenterà in misura tanto
maggiore quanto maggiore è la propensione al consumo delle
famiglie.
Se continuiamo nel nostro ragionamento possiamo complicare
il sistema economico e inserire la spesa pubblica (G)
(dobbiamo considerare anche l'imposizione fiscale (t) che per
semplicità supponiamo essere una aliquota fissa del reddito)
così l'equazione di equilibrio tra domanda e offerta
macroeconomica sarà:
varY = [1/(1-b)-t (I+Co+G)].
Per chiudere il nostro ragionamento dobbiamo inserire anche
le relazione con il resto del mondo, cioè le esportazioni (E,
domanda estera di beni nazionali) e le importazioni (M,
domanda nazionale di beni stranieri); le importazioni sono una
funzione del reddito nazionale (si importa tanto più quanto più
alto è il reddito), pertanto avremmo che M=zY, dove z
rappresenta la propensione marginale a importare (cioè la
percentuale di reddito che viene spesa per domandare beni
provenienti dall'estero)34 si avrà che l'equazione del
moltiplicatore del reddito che esprime la condizione di
equilibrio sarà:
varY = [1/(1-b(1-t)+z)] *(I+Co+G+E-M).
34 Le importazioni determineranno un effetto negativo sul reddito nazionale
poiché esprimono un aumento del reddito per il paese importatore.
71
Esempio del funzionamento del moltiplicatore del reddito:
poniamo che in una economia il consumo sia C=0,8Y, che il
livello degli investimenti delle imprese sia I=100, che la spesa
pubblica sia G=80, che l'imposizione fiscale sia t=0,3; che le
importazioni siano pari a: 70=0,3Y, e che le esportazioni siano
M=80.
La variazione del reddito nazionale sarà pari a:
varY = [1/(1-0,8(1-0,3)+0,3)]*(100+80+70-80)= (1/0,74) * 170 =
1,35 * 170 = 229,7
La variazione del reddito nazionale dovuta a un livello della DA
pari a 170 sarà dunque 229,7.
La variazione del reddito nazionale sarà tanto maggiore
quanto minore è l'imposizione fiscale (t) e la propensione
marginale a importare (z) e tanto maggiore è la propensione
marginale al consumo (b).
Se in questo modello consideriamo la spesa pubblica come
spesa militare possiamo osservare come un aumento di
questa possa determinare un maggiore aumento del reddito
nazionale.
La spiegazione pratica dell’effetto moltiplicativo è la seguente:
un aumento della spesa pubblica (G), ad esempio per
ristrutturare le caserme, determina un aumento della
occupazione di coloro che lavoreranno alla ristrutturazione
(imprese edili civili) e determinerà un aumento della domanda
dei beni necessari a realizzare la ristrutturazione stessa. Ciò
causerà, oltre a un aumento della domanda dei prodotti edili
(che si trasformerà in aumento della produzione di questi beni
e della occupazione nei settori produttivi di riferimento), anche
un aumento del reddito di coloro che lavorano alla
ristrutturazione. Reddito che verrà speso per l’acquisto di
72
nuovi beni di consumo (abbigliamento, elettrodomestici,
computer, libri..).
Questa nuova domanda si trasformerà in sostegno alla
produzione dei beni domandati e in nuovo reddito per coloro
che producono i beni stessi. Reddito che verrà nuovamente
speso per l’acquisto di altri beni di consumo, e così via.
La spesa iniziale affrontata dallo Stato per la ristrutturazione
delle caserme determina, pertanto, non solo l’aumento della
produzione e degli stipendi dell’indotto, ma anche la
produzione e gli stipendi di altri comparti produttivi.
Tutto ciò garantisce che a fronte di un aumento della spesa
pubblica pari a 100 si avrà un aumento del reddito nazionale
maggiore di 100. Questo effetto è tanto maggiore quanto più le
famiglie utilizzeranno il nuovo reddito per il consumo, tanto più
alta è la propensione al consumo e tanto meno la spesa per
consumo sarà rivolta a beni importati.
Dai dati sul consumo e sulla spesa militare per l'anno 2008 si
è potuto osservare che la variazione del reddito nazionale
dovuta alla spesa militare (varY) e la sua incidenza sul livello
del reddito nazionale (%PIL) è la seguente:
73
Tabella 1. Incidenza della variazione del Reddito Nazionale sul
Prodotto Interno Lordo nell'anno 2008
Dati in Euro
Paesi
Var Y
Pil Miliardi
% sul Pil
Francia
14,6
2.098,7
0,7
Germania
18,6
2.863,8
0,65
Italia
5,8
1.535,5
0,38
Spagna
8,3
1.987,1
0,42
Gran Bretagna
14,2
2.498,4
0,57
Giappone
33,19
4.201,8
0,79
USA
41,3
4.543,2
0,91
2. Il keynesismo militare
Per keynesismo militare si intende lo studio degli effetti che la
spesa militare sortisce sull'economia nazionale.
L'effetto più immediato è quello sulla domanda nazionale. Una
maggiore spesa militare determina un aumento della domanda
di beni e servizi da parte del settore pubblico; infatti, solo una
parte del budget della difesa è destinata all'acquisto di armi,
per mantenere l'apparato militare è necessario destinare
risorse anche a voci come infrastrutture, manutenzione, pasti,
alloggi e così via.
L’aumento della domanda per la difesa innesca un processo
moltiplicativo della crescita del reddito nazionale e sostiene
l'occupazione, in quanto il mantenimento dell'apparato militare
richiede anche l'impiego di personale civile.
74
Alcuni considerano l'arruolamento una opportunità per uscire
da una situazione di disoccupazione, soprattutto per le fasce
meno qualificate professionalmente. Dunque, è abbastanza
ovvio considerare che la spesa militare possa fungere da
politica anticiclica, volta cioè a contrastare situazioni di crisi.
Ma la spesa militare presenta anche degli effetti negativi per lo
sviluppo economico. Le politiche anticicliche sono la causa di
un tendenziale aumento dei prezzi.
Le politiche anticicliche sono state impiegate, nel periodo della
programmazione economica (fino agli anni '80); ma dagli anni
Novanta, le spinte inflazionistiche provenienti dall'aumento del
prezzo delle materie prime importate, hanno limitato questo
tipo di intervento di politica economica nel nostro paese.
Per non creare inflazione, la spesa militare dovrebbe essere
finanziata con debito pubblico, con tagli alle altre spese dello
Stato o con un aumento della tassazione35.
Prima della moneta unica europea era possibile da parte del
Governo
di un nazione far emettere nuova moneta e
finanziare, attraverso questo canale, la spesa militare; ciò,
però, aveva il difetto di innescare un processo inflazionistico, a
volte recrudescente.
Ogni manovra macroeconomica di sostegno alla spesa
militare deve, quindi, essere valutata attentamente poiché se
35 Queste manovre a loro volta però hanno un rovescio della medaglia
procurando effetti che contengono l’aumento del Reddito Nazionale: il
finanziamento con debito pubblico causerà un aumento del tasso di
interesse e una riduzione degli investimenti privati che causerà, appunto,
una riduzione del reddito nazionale (detto anche effetto spiazzamento); i
tagli alla spesa pubblica ridurranno la domanda nazionale di beni e
servizi, contenendo l’effetto moltiplicativo sul reddito nazionale (vedi più
avanti il moltiplicatore keynesiano); infine, l’aumento della tassazione
oltre a essere una manovra impopolare per l’opinione pubblica, riduce la
domanda di consumo delle famiglie determinando effetti di contenimento
del livello della produzione e della occupazione.
75
da un lato può essere positiva per lo sviluppo, dall'altro i modi
attraverso cui viene finanziata possono portare a risultati
opposti nel lungo periodo.
Inoltre, oggi, con la moneta unica, le economie nazionali
devono controllare l'aumento dei prezzi per mantenere
competitivi i loro prodotti nel mercato internazionale. Ma, al di
là del risultato netto sulla crescita del reddito, tra gli effetti
positivi dell’aumento della spesa militare e l’effetto negativo
che essa può scaturire dal suo finanziamento, la difesa
produce il bene pubblico della sicurezza, che solo lo Stato può
realizzare.
Abbiamo visto che un ulteriore ambito in cui si possono
osservare gli effetti della spesa militare, è quello dell'apparato
industriale non solo per gli effetti di sostegno alla occupazione
ma anche per lo stimolo alla Ricerca e Sviluppo nelle stesse
industrie militari, e di conseguenza, nella produzione civile.
La critica più frequente che viene mossa ai governi con
elevata spesa militare è quella derivante dalla corrente di
pensiero detta del Keynesismo militare, secondo la quale la
spesa per la difesa distrae risorse nazionali a favore della
difesa, trascurando altre forme di spesa sociale. La spesa
militare viene indicata con il termine warfare State per
contrapporlo, impropriamente, al welfare State.
In realtà la spesa militare, siccome è produttrice di difesa e
sicurezza, deve rientrare a pieno titolo nel welfare state perché
difesa e sicurezza sono importanti per garantire il normale
svolgimento delle relazioni socio-economiche e il conseguente
sviluppo economico.
Come sostiene J. O'Connor36 la spesa militare, e la spesa
assistenziale, hanno importanti risvolti per lo sviluppo
36 J. O'Connor, La crisi fiscale dello Stato, Einaudi, 1977.
76
capitalistico: il welfare assorbe la parte di capitale eccedente
che non trova sbocchi all'interno e che potrebbe creare crisi di
sottoconsumo; mentre il warfare può fungere da manovra di
sostegno per l'impiego della manodopera eccedente,
mantenendo la domanda a un livello adeguato.
Secondo i sostenitori del keynesismo militare una spesa
pubblica sbilanciata verso il settore militare può comportare
delle conseguenze nel tessuto sociale: nel lungo periodo si
legittimerebbe la produzione di armi e, quindi, il loro impiego
affievolendo lo spirito sociale del pacifismo; comporterebbe il
rafforzamento delle industrie degli armamenti che
tendenzialmente hanno struttura oligopolistica e che
potrebbero modificare il comportamento concorrenziale del
libero mercato della struttura produttiva; in aggiunta, una
eccessiva importanza al warfare state potrebbe legittimare
posizioni di potere dei vertici militari.
E' giocoforza che la spesa militare svolga un ruolo importante
nello sviluppo di un paese, se non altro perché i conflitti hanno
costituito un fattore imprescindibile dello sviluppo capitalistico.
Essa, inoltre, essendo conseguenza anche della politica
economica di un paese, dipende dalle inclinazioni politiche
della nazione e dalle sue ambizioni internazionali.
Un paese come gli Stati Uniti che hanno voluto giocare il ruolo
di attori dello scacchiere internazionale hanno utilizzato ampie
risorse nazionali per avere un sistema militare all'avanguardia
e efficiente, che fungesse da monito al mondo intero; e hanno
creato situazioni che possono giustificare all'opinione pubblica
mondiale la loro leadership (è opinione prevalente che tra
questi comportamenti ci sia la guerra del Vietnam e la guerra
contro l'Iraq).
77
Inoltre l'industria militare produce merci che se non utilizzate
perdono il loro valore poiché subiscono un naturale processo
di obsolescenza.
I sostenitori del keynesismo militare utilizzano queste
affermazioni per sostenere che le economie che hanno un
comparto industriale militare devono promuovere una
mentalità internazionale favorevole alle guerre in modo da
vendere o da impiegare le armi depositate negli loro arsenali.
Le critiche alla produzione di armi in realtà solo perlopiù di
carattere politico-ideologico; sotto l'aspetto tecnico-economico
la spesa per la difesa è per tutto paragonabile alla spesa per
gli altri settori pubblici poiché, come più volte ribadito, il bene
sicurezza e difesa determinano effetti positivi per il benessere
sociale.
Il sostegno all’industria militare, in termini economici, è
paragonabile al sostegno dei comparti della produzione civile,
come quello dei trasporti e delle infrastrutture in generale.
Anche l'effetto moltiplicativo della spesa militare sul reddito
nazionale ha gli stessi effetti della spesa per l'istruzione o la
sanità.
I pro e contro alla spesa della difesa ricadono, dunque, solo in
considerazioni di carattere ideologico e politico che non
devono rientrare in un discorso di economia della difesa, ma al
limite in un ragionamento di geopolitica nel quale vengono
presi in considerazione anche le reazioni degli altri paesi verso
la politica degli armamenti seguita da una specifica nazione
(pensiamo alle preoccupazioni internazionali della politica
nucleare dell'Iran).
Alla luce di queste considerazioni analizziamo gli effetti positivi
che la spesa per la difesa può avere sulla crescita del reddito
nazionale.
78
3. La curva della Domanda Aggregata
La domanda aggregata (DA) è la quantità di beni di consumo
e di investimenti che un sistema economico esprime.
La DA è, in sostanza, la somma della domanda di beni e
servizi proveniente dagli agenti del sistema macroeconomico
(famiglie, imprese, Governo e resto del mondo).
Ciascun settore, con i propri comportamenti, influisce sul
livello della DA: le famiglie con i consumi (C); le imprese con i
loro investimenti (I); il settore pubblico con la spesa pubblica
(G) e con il prelievo fiscale (T); il resto del mondo con le
esportazioni (E), che sono una componente positiva della
domanda aggregata e con le importazioni (M) che sono,
invece, una componente negativa.
Così, nel sistema economico il livello della domanda
aggregata è dato dalla somma delle sue componenti: DA=C+I
+G+(E-M).
Tra le variabili della DA non figura il prelievo fiscale perché
viene computato nella funzione del consumo delle famiglie,
che dipende dal reddito percepito al netto dell’imposizione
fiscale; pertanto il reddito disponibile per il consumo sarà
Yd=Y-T; e la funzione del consumo sarà: C=C0 + b (Yd)
Dove C0 è il consumo di sussistenza, quello cioè indipendente
dal reddito; e b è la propensione marginale al consumo, cioè la
percentuale di reddito che le famiglie impiegano per il
consumo (il complemento a 1 della propensione marginale al
consumo è la propensione marginale al risparmio, poiché il
79
reddito che non viene consumato viene, per definizione,
risparmiato).
In questo modo si può costruire una catena di relazioni: il
settore pubblico determina il livello di tassazione (T) e, quindi,
il reddito disponibile (Yd=Y-T); questo, a sua volta, influisce sul
consumo delle famiglie (C) e sul livello della domanda
aggregata; anche, il settore pubblico attraverso la spesa
pubblica (G) influenza il livello della DA.
Considerando che in un sistema economico si ha equilibrio
quando il Prodotto Nazionale (Y, che coincide con il Reddito
Nazionale37) è uguale alla DA, (come dire che in
macroeconomia si ha equilibrio quando ciò che viene prodotto
viene anche domandato) si avrà che: Y=DA=C+I+G+(E-M).
Questa relazione presenta però due caratteristiche che non le
consentono di raggiungere in modo spontaneo l’equilibrio tra Y
e DA: le decisioni di consumo e di spesa, relativamente alla
DA, avvengono ex-post rispetto alle decisioni di produzione
delle imprese (Y), per cui non necessariamente si avrà
equilibrio tra offerta e domanda di beni; il livello della DA
dipende dalle decisioni di spesa (C,I,G,E-M), che sono
autonome rispetto al reddito Y.
Anche se in questa sede non approfondiremo le componenti
della Domanda Aggregata è importante sapere che:
37 Ciò che viene prodotto in un sistema economico (Prodotto Interno
Lordo) può essere espresso in forma quantitativa (numero di beni
prodotti da tutto il sistema economico in un certo arco di tempo) o in
forma di valore (attraverso i prezzi). In quest’ultimo caso il valore di ciò
che viene prodotto coincide con il livello del reddito nazionale poiché tale
ammontare verrà distribuito tra coloro che sono intervenuta nella
produzione nazionale di beni. Il reddito nazionale verrà pertanto
distribuito tra salari, profitti e rendite. In questo contesto è gioco forza
che esista una identità tra Prodotto nazionale (ciò che viene prodotto) e
Reddito nazionale (il valore di ciò che viene prodotto).
80
l’Investimento dipende dalle aspettative del settore industriale
relativamente all’andamento futuro della domanda dei beni e
servizi (se le imprese hanno aspettative negative sul trend
della domanda non aumenteranno i loro investimenti) e dal
livello del tasso di interesse (se questo aumenta le imprese
ridurranno i loro piani di investimento); la spesa pubblica
dipende dalle decisioni di politica economica adottate dal
governo; le relazioni con il resto del mondo dipendono dalle
decisioni di scambio tra gli operatori di un paese con gli
operatori degli altri paesi. Le esportazioni hanno un effetto
positivo sul livello del reddito nazionale, poiché si traducono in
domanda di beni di consumo interni; mentre le importazioni
hanno un effetto negativo, poiché rappresentano domanda di
beni esteri e rinuncia al consumo di beni nazionali.
4. La spesa pubblica per la difesa: il modello della
Frontiera delle possibilità produttive
Un problema rilevante del bene pubblico è la determinazione
della quantità da produrre. Una soluzione viene proposta
dall'economista Paul Samuelson secondo il quale: la somma
delle utilità marginali degli individui derivanti dal consumo del
bene pubblico deve essere uguale al suo costo marginale di
produzione.
Spieghiamo i passaggi che ci permettono di capire il senso di
questa affermazione. Innanzi tutto immaginiamo di essere in
un sistema economico che produce solo due categorie di beni
(pubblici e privati) e che vi sia una data quantità di risorse
produttive disponibili per la produzione, che possiamo
identificare con un dato ammontare di reddito nazionale.
81
Per trovare una situazione di massima efficienza economica
(nella quale tutte le risorse nazionali sono impiegate al minor
costo possibile) dobbiamo individuare come le risorse
nazionali possono essere impiegate per produrre la massima
quantità di una categoria di beni, senza diminuire le altre
categorie.
Lo strumento utilizzato dagli economisti, a questo proposito, è
la Frontiera delle Possibilità Produttive (FPP) che rappresenta
una curva concava, verso l'origine degli assi, i cui punti
indicano le allocazioni dette efficienti. Una allocazione
efficiente è quella in cui non è possibile aumentare la quantità
di uno dei due beni senza diminuire la quantità prodotta
dell'altro bene.
Questa situazione si potrà avere solo quando il sistema
economico, per produrre una quantità, ha impiegato tutte le
risorse produttive utilizzando al meglio la tecnica di produzione
esistente.
Bene
Pubblico
A
*
C
*
B
D
*
*
Bene Privato
I punti sulla curva mostrano le combinazioni efficienti, poiché
spostandosi dalla combinazione B alla combinazione A non
82
sarà possibile aumentare il bene pubblico senza ridurre al
contempo quello privato.
Le combinazioni di beni allocati sul contorno di una curva della
FPP costituisce un limite ideale per una società, poiché
presuppone che la produzione dei beni avvenga senza sprechi
di risorse, al minimo costo di produzione e utilizzando tutte le
risorse disponibili.
In un sistema economico reale, invece, il livello di produzione
si allocherà tendenzialmente sotto la curva della FPP (ad
esempio il punto D che indica una situazione di sottoutilizzo
delle risorse produttive e delle risorse umane) poiché la
struttura produttiva e le decisioni di produzione, dei privati e
del settore pubblico, non hanno quelle peculiarità (di flessibilità
dei prezzi, di piena informazione, dello sfruttamento efficiente
delle risorse) necessarie a raggiungere la massima quantità
producibile dei beni privati e pubblici date le risorse nazionali.
L'altezza della FPP dipende dal livello tecnologico, un
miglioramento della tecnologia corrisponderà graficamente a
un innalzamento della Frontiera (che passerà sulla
combinazione di beni C) poiché, date le risorse produttive, se
aumenta la produttività del lavoro e degli impianti aumenterà
anche la quantità di beni producibili nel sistema economico.
Ora proviamo a dare un maggiore dettaglio al nostro
ragionamento.
Data la distribuzione del reddito nazionale tra settore pubblico
e privato; e, quindi, data la quantità di risorse nazionali
disponibili per il settore pubblico distinguiamo come sia
possibile distribuire tali risorse tra impieghi alternativi: ad
esempio, tra difesa e altri impieghi.
Poniamo che il sistema politico decida di destinare un
ammontare di risorse per i beni pubblici (H), lo Stato avrà tante
83
alternative nel definire l’allocazione tra bene pubblico e bene
privato quanti sono i punti ipotetici che compongono la curva
della FPP.
Per semplicità poniamo che lo Stato decida di distribuire le
risorse tra pubblico e privato per realizzare l’allocazione H1.
La scelta dello Stato di impiegare le risorse disponibili per un
comparto pubblico piuttosto che per un altro (per la difesa
piuttosto che per l'istruzione, per la sanità piuttosto che la
viabilità, ecc.; nel nostro caso per il finanziamento delle spese
militari (Gm) piuttosto che per il finanziamento degli altri beni
pubblici (Gciv)) influenza la crescita economica, cioè la
crescita del reddito nazionale.
Il primo grafico rappresenta come può essere distribuito il
reddito nazionale H tra i due impieghi (militare e civile). La
retta a-b indica il vincolo di bilancio dello Stato (pari a:
Gtot=Gm+Gciv); ogni punto della retta indica come lo Stato
può impiegare le risorse nazionali tra beni militari e altri beni
pubblici; ogni punto della retta corrisponderà pertanto a una
spesa statale pari a H.
I punti a e b indicano, invece, le due intercette della retta. Nel
punto a lo Stato spende il reddito solo per la Difesa, mentre
nel punto b lo Stato spende le risorse disponibili solo per
produrre gli altri beni civili.
I grafici a destra e sotto indicano le curve di DA dalle quali è
possibile verificare il livello del reddito nazionale. Il grafico a
destra indica il reddito nazionale (Y(d)) dovuto alla spesa
militare; mentre, il grafico sotto indica il livello del reddito
nazionale (Y(a)) che deriva dalla spesa pubblica per altri beni
a uso civile.
84
Così per ogni allocazione delle risorse pubbliche (H) il reddito
nazionale di equilibrio (Y=DA) calcolato secondo il
moltiplicatore del reddito sarà Ytot=Y(d) + Y(a).
Bene Difesa
Bene Difesa
DA=C+Difesa
●a H2
H1
●b
Altri Beni
Y1(d)
Y2(d)
Reddito 1
Reddito 2
Y1(a)
DA=C+Altri beni
Y2(a)
Altri Beni
Immaginiamo che lo Stato decida di allocare le risorse come
indicato nel punto H1 vedremo, dal grafico a destra, che il
livello del reddito nazionale dovuto alla spesa militare sarà pari
a Y1(d); e che il livello del reddito nazionale dovuto alla spesa
per beni civili è pari a Y1(a); così che il Reddito Nazionale sarà
pari a Ytot=Y1(d)+Y(a).
85
Se lo Stato dovesse decidere, invece, di allocare le risorse,
come indicato dalla allocazione H2, vedremo che il reddito
nazionale aumenterà relativamente nel settore difesa, mentre
diminuirà nel settore degli altri beni pubblici. Anche in questo
caso la somma dei due redditi indicherà il reddito nazionale
complessivo (Ytot2= Y2(d) + Y2(a)).
La differenza di reddito realizzata passando dalla allocazione
H1 a quella H2 indicherà se lo Stato ha fatto una scelta
ottimale per la crescita economica: seYtot2 è maggiore di
Ytot1 lo Stato aumentando le risorse per la Difesa, e
riducendole per gli altri settori pubblici, avrà fatto una scelta
ottima perchè è aumentata la ricchezza e il benessere della
collettività; se invece il Ytot2 è minore di Ytot1 allora la sua
scelta non sarà stata efficiente almeno sotto il profilo della
crescita economica. Le frecce dei due grafici indicano il path
di crescita del reddito nazionale relativamente alla spesa
militare e alla spesa per altri beni.
Ma da quali fattori dipende la variazione del reddito nazionale
relativamente alla variazione della spesa per la Difesa e per gli
altri beni pubblici? Graficamente è intuitivo rispondere:
dall'inclinazione della curva DA che dipende dalla propensione
della collettività a spendere per il consumo).
Se la collettività percepisce l'intervento a favore del sostegno
della spesa militare positiva e rassicurante allora si sentirà
incentivata a consumare, in questo modo l'effetto moltiplicativo
sarà alto.
Se, invece, la collettività percepisce un intervento dello Stato a
favore della difesa come inopportuno, relativamente al
momento storico o alla ideologia dominante, allora sorgerà
una situazione di sfiducia verso la politica adottata dal governo
e le relazioni economiche potranno rallentare.
86
E' noto, infatti, che se gli individui sono fiduciosi verso l'attività
svolta dal governo saranno più propensi a spendere,
stimolando l'economia; se, invece, gli individui non
condividono le scelte del governo rallenteranno la loro attività
aspettando di l'evolversi degli eventi.
In questa prospettiva affermare che le spese militari sono alte
o basse è vuoto di significato, poiché bisogna valutarne
l'opportunità alla luce di quanto gli individui considerano
importante il bene pubblico della sicurezza globale.
Nel momento in cui la collettività percepisce la sicurezza come
un bene necessario, perchè non sono certi della loro
incolumità, allora saranno più predisposti verso politiche
militariste, anche di sostegno alle missioni negli scenari fuori
aerea.
Far percepire alla collettività quanto sia importante la
sicurezza (cioè rendere consapevole l'individuo che essa è un
bene raro e prezioso, mentre spesso viene data per scontata)
e quanto le Forze Armate possono fare per garantirla è un
obiettivo che gli Stati Maggiori devono perseguire.
Il modo più diretto per dare questo tipo di informazione è
diffondere la conoscenza su quanto le Forze Armate siano
importanti negli scenari operativi, qual è la loro missione, quali
sforzi anche economici sono necessari per stabilizzare zone di
crisi che possono pregiudicare l'equilibrio tra Occidente e
Oriente del mondo38.
38 Sul concetto di sicurezza globale vedi: C.E. Gentilucci, Le forme
multifunzionali della sicurezza...(op.cit.). Sulla nuova professionalità
acquisita dalle forze armate nell'ultimo decennio e sull'importanza della
“percezione” della sicurezza come bene raro, cfr.: C. E, Gentilucci,
Soldati di pace in scenari operativi...(op.cit.).
87
CAPITOLO 4
Il contesto internazionale
1. La globalizzazione
La globalizzazione può essere considerata un processo
economico di integrazione dell'economia mondiale in un unico
mercato, con conseguente superamento delle barriere
nazionali.
Conseguenza della globalizzazione è l'allargamento degli
orizzonti culturali, sociali, di costume dello scenario mondiale;
ciò, però, può creare tensioni e attriti a livello di politica
internazionale se non si è pronti ad acquisire un processo di
integrazione tra popoli; e modifica gli equilibri economici in atto
dei paesi coinvolti dal processo di globalizzazione.
Diverso è, invece, il processo della internazionalizzazione, che
precede quello della globalizzazione, poiché ne pone le basi
legislative e commerciali.
A partire dalla fine della Guerra Fredda, la globalizzazione ha
rappresentato il fenomeno più saliente del quadro economico
internazionale e politico. Allo stesso tempo, però, la
globalizzazione è stata grandemente esagerata, quanto a
estensioni e significato; e male interpretata sia nelle
discussioni pubbliche che nell'ambito professionale, dato che
non ha ancora assunto i caratteri travolgenti come alcuni
economisti vogliono far credere. Le politiche nazionali o
territoriali, in sostanza, sembrano ancora essere le determinati
principali del quadro economico.
Per ora il mondo ha assistito a una crescente interdipendenza
tra le economie nazionali e paradossalmente (come rilevato da
88
Vincent Cable del Royal Institute International Affairs)39 il
maggior risultato economico del secondo dopoguerra è stato il
ripristino del livello di integrazione economica che esisteva
negli anni che precedettero la prima guerra mondiale.
Negli anni Sessanta e Settanta, l’incremento degli scambi ha
trasformato la scena economica internazionale. Verso la metà
degli anni Ottanta, il mondo degli affari internazionali è stato
rivoluzionato quando le multinazionali e l’investimento estero
hanno cominciato ad avere un profondo impatto su quasi ogni
aspetto dell’economia mondiale. L’espansione delle imprese
multinazionali ha integrato le economie nazionali sempre più.
Le
multinazionali
hanno
aperto
la
strada
alla
internazionalizzazione sia dei servizi sia della produzione
manifatturiera. Per gran parte della seconda metà del secolo
scorso, la Guerra Fredda e le sue strutture di alleanza hanno
fornito la cornice entro la quale l’economia funzionava.
L'enfasi sull’interesse della sicurezza e la coesione
dell’alleanza era il collante politico che teneva insieme
l’economia mondiale e facilitava la messa in sordina di
importanti differenze nazionali su questione economiche.
Con la Guerra Fredda si era definita una stabile rete di
alleanze internazionali che rendevano il sistema mondiale tutto
sommato stabile; con la sua fine la leadership americana e la
stretta cooperazione economica tra potenze capitaliste si
indebolì. Nello stesso tempo il mondo, orientato alle politiche
di mercato, si estendeva a mano a mano che i paesi ex
comunisti e i paesi del Terzo Mondo divenivano più inclini a
partecipare al sistema di mercato.
39 V. Cable, “The Diminished Nation-State: a Study in the Loss of Economic
Power”, in What Future for the State?, 124, n.2 1995.
89
Tale evoluzione ha reso più impegnativo il compito di gestire il
sistema economico globale ed ha annullato il precedente
assetto politico. Sono cambiate le alleanze e la mancanza di
una minaccia (seppur potenziale) ha reso vuote di significato
le alleanze che disegnavano le relationship tra aree
geografiche.
Si sono in sostanza posti i fattori della destabilizzazione del
contesto internazionale favorendo la comparsa di cellule
terroristiche che hanno determinato, in questo secolo, una
nuova minaccia subdola, aterritoriale, astatuale, più difficile da
definire e da annientare.
La globalizzazione economica ha comportato alcuni sviluppi
decisivi nel commercio internazionale, nella finanza e
nell'investimento estero diretto da parte delle imprese
multinazionali. Il commercio internazionale è cresciuto più
rapidamente del prodotto economico mondiale. Oltre alla
grande espansione degli scambi di merci, anche il commercio
dei servizi è aumentato in misura considerevole; con la
diminuzione del costo del trasporto una varietà sempre
maggiore di merci è apparsa sui mercati internazionali; con
espansione del commercio mondiale la concorrenza
internazionale è fortemente aumentata.
Benchè i consumatori e i settori esportatori all'interno dei
singoli paesi beneficiassero della crescente apertura, molte
imprese si sono trovate a competere con imprese straniere
che avevano migliorato l'efficienza.
Durante gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, la
concorrenza commerciale è diventata ancora più intensa a
mano a mano che un numero crescente di economie in via di
industrializzazione dell'Asia Orientale passavano dalla
sostituzione delle importazioni a una strategia di crescita
90
guidata dalle esportazioni. Ciò ha innescato quello che oggi
possiamo definire una silente colonizzazione della Repubblica
Cinese nei gangli nevralgici dell'economia dei Paesi
Occidentali40.
L’espansione del commercio globale è inseparabile da una
quantità di altri processi. Dopo la seconda guerra mondiale le
barriere commerciali sono state abbassate in misura
significativa. Durante la seconda metà del XX secolo i livelli
tariffari degli Stati Uniti e degli altri paesi industrializzati sono
calati da circa il 40 a solo il 6 per cento, e le barriere al
commercio dei servizi sono state anch’esse fortemente ridotte.
Per di più, dai tardi anni Settanta in poi, deregulation e
privatizzazioni hanno ulteriormente aperto le economie
nazionali alle importazioni. I progressi tecnologici nelle
comunicazioni e nei trasporti hanno ridotto i costi e in tal modo
incoraggiato significativamente l’espansione commerciale.
Traendo vantaggio da queste trasformazioni economiche e
tecnologiche, un numero sempre maggiore di imprese ha fatto
il suo ingresso nei mercati internazionali. Ciò nondimeno,
nonostante questi sviluppi, la gran parte degli scambi ha luogo
fra Stati Uniti, Europa e Paesi Asiatici.
Anche il mercato finanziario ha raggiunto una maggiore
integrazione. L’investimento estero è aumentato ed è costituito
40 Una vecchia teoria, quella dei costi comparati di David Ricardo del 1817,
può aiutarci a comprendere perchè il blocco asiatico cinese è diventato
una minaccia per lo sviluppo economico dei Paesi Occidentali europei.
La Cina sta soffocando lo sviluppo delle economie europee poiché il
costo del lavoro cinese è bassissimo rispetto a quello europeo, inoltre la
Cina ha acquisito una competenza tecnologica di altissimo livello. La
sola strada di salvezza, insegna la teoria de costi comparati è quella di
tornare ad una economia fondata sull'agricoltura ma questa rappresenta
una alternativa poco sostenibile e proponibile per le economie
occidentali.
91
da fondi presi a prestito. Questa rivoluzione finanziaria ha
collegato le economie nazionali le une alle altre molto più
strettamente e incrementato il capitale a disposizione per i
paesi in via di sviluppo. Poiché molti di questi flussi finanziari
sono altamente volatili e speculativi, la finanza internazionale
è diventata l’aspetto più instabile dell’economia globale
capitalistica.
Gli effetti della integrazione finanziaria dei mercati sono
controversi. Mentre per qualche autore la globalizzazione della
finanza porterebbe maggior benefici del capitalismo, per altri
autori il sistema finanziario internazionale sarebbe fuori
controllo e soggetto a bolle speculative, i cui effetti possono
manifestarsi nelle economie e nei mercati diversi da quelli in
cui si sono manifestate le cause. Il mercato finanziario
internazionale andrebbe, quindi, monitorato poiché tra le
prossime minacce non è esclusa la cyber war41.
Ciò apre un dilemma: in base ai principi del libero mercato si
sostiene la globalizzazione come mezzo per lo sviluppo
economico, ma proprio la globalizzazione che vede mercati,
culture, economie diverse e in stretta interrelazione tra loro
richiede un controllo per evitare forti perturbamenti economici.
La globalizzazione è stata spinta da diversi fattori, tra cui:
nuove tecnologie di trasporto che hanno determinato una forte
caduta dei costi, specialmente nei viaggi transoceanici,
aprendo la possibilità di un sistema di scambi globali; il
computer e i progressi delle telecomunicazioni hanno
aumentato i flussi finanziari globali. Di questi sviluppi ne hanno
41
L'Alleanza Atlantica auspica una forza di pronto intervento per
respingere gli attacchi digitali. Tra le iniziative del 2008 era prevista
l'istituzione di un centro operativo cyberwar in Estonia, al quale sarebbero
stati coinvolta una task force europea: Italia, Germania, Lituania,
Slovenia, Lettonia e Spagna contribuiranno al progetto.
92
goduto soprattutto le multinazionali che hanno imposto al
mondo le loro strategie di carattere globale.
La globalizzazione è stata anche un prodotto della
cooperazione economica internazionale e delle nuove politiche
economiche. Sotto la leadership americana, sie le economie
industrializzate sia quelle in via di industrializzazione hanno
adottato numerose iniziative per abbassare le barriere al
commercio e all'investimento.
Molti negoziati commerciali internazionali nell'ambito del GATT
(General Agreement on Tariff and Trade), il principale foro per
la liberalizzazione del commercio internazionale, hanno
significativamente abbattuto le barriere commerciali.
Durante l'ultimo decennio del XX secolo benchè gli Stati Uniti
e le altre economie industrializzate ancora possiedano una
parte preponderante della ricchezza e dell'industria del mondo,
le economie in via di industrializzazione, in special modo la
Cina, hanno accresciuto la propria importanza sul mercato
mondiale in termini relativamente maggiori.
Dall'inizio di questo secolo, superata la crisi del 1997 che
prese avvio in Thailandia, il successo economico dell'Asia del
Pacifico è impressionante: molte di queste economie
conseguono tassi di crescita annua superiori al 6%-8%. E
nonostante il susseguirsi di crisi finanziarie nei mercati
mondiali, i “fondamentali” delle economie asiatiche sono
stabili, come gli alti tassi di risparmio e il basso costo del
lavoro. Ciò è indicativo del fatto che lo sviluppo di queste
economie tenderà a schiacciare quello delle economie
occidentali.
93
2. L'internazionalizzazione: alcune riflessioni
Una voce ascoltata nella storia del pensiero economico e che
ancora oggi rappresenta un importante punto di riferimento in
materia di politica economica è quella di Federico Caffè, che
nel 1983 sostiene: Appare insostenibile sul piano dell’analisi
economica, che il capitalismo contemporaneo abbia bisogno
degli armamenti per sopravvivere e, su un piano più limitato,
che l’economia italiana abbia necessità di avvalersi del suo
complesso industriale militare per attenuare le sue difficoltà
sul piano produttivo e occupazionale42.
Questa affermazione dà il via a una serie di considerazioni.
Innanzitutto lo scenario geopolitico è profondamente mutato
dagli anni ’80 è ovvio, pertanto, che la spesa militare oggi non
deve essere vista fine a se stessa; non è più una spesa per gli
armamenti ma una spesa volta a sostenere una serie di attività
militari volte a istituire le condizioni di stabilità negli scenari di
crisi internazionale.
Inoltre, anche contestualizzando le affermazioni di Caffè nel
suo periodo storico (della Guerra Fredda) è difficile pensare
che un sistema capitalistico possa vivere e sopravvivere senza
un piano militare serio e credibile verso i suoi potenziali
nemici.
Le spese per gli armamenti non rappresentano un inno alla
guerra, ma hanno una valenza difensiva e di deterrenza. E’
risaputo, ormai, che per prepararsi alla difesa è necessario
avere un bagaglio militare già pronto, non si può improvvisare
una struttura militare al momento del bisogno.
D’altro canto è errato ragionare sulla opportunità della spesa
militare partendo dall’argomentazione che questa possa
42 Cfr.: F. Caffè, “Un grande economista italiano, Francesco Ferrara, sulla
efficacia “delle militari istituzioni””, Il Mulino, 1983/2, pp. 326-329.
94
essere un antidoto alla disoccupazione. Quello che il sistema
economico deve fare è decidere le politiche economiche da
seguire per sostenere la crescita del benessere della
collettività, in queste scelte ci sarà posto per l’istruzione,
l’edilizia, la sanità, le politiche sociali e le politiche militari. Una
volta definito, a livello politico, quale peso dare ai settori di
intervento pubblico si potrà elaborare, sempre a livello politico,
un piano di assorbimento della disoccupazione.
La difesa militare risponde a un bisogno della società:
svolgere la propria attività economica e le proprie relazioni
sociali in un sistema di sicurezza pubblica e globale.
E solo da questa considerazione che bisogna iniziare il
ragionamento sull’ammontare delle risorse finanziarie da
destinare al comparto militare. Più una nazione sentirà la
necessità di essere protetta da potenziali attacchi esterni più
sarà disposta a spendere per la difesa.
Appare d’altra parte incongruo collegare i problemi del
disarmo con quelli della fame nel mondo: questi ultimi, in
quanto poggiano su squilibri demografici e concernenti la
distribuzione della ricchezza e del reddito rimarrebbero
scarsamente scalfiti da qualsiasi riduzione degli armamenti.
3. Le esportazioni di armi italiane
Dopo la Guerra Fredda l’industria militare ha subito un
cambiamento straordinario: da comparto esclusivamente
nazionale si è assistito ad un’ondata di acquisizioni e di fusioni
che ha dato origine a una tendenza sempre più diffusa alla
internazionalizzazione della industria militare. In sostanza
l’industria della difesa è stata soggetta a quel processo di
95
globalizzazione che ha caratterizzato il comparto industriale
civile.
La principale fonte statistica sulle esportazioni e importazioni
dei sistemi d'arma italiani è la Relazione annuale che la
Presidenza del Consiglio dei Ministri presentata ogni anno al
Parlamento italiano: Relazione sulle operazioni autorizzate e
svolte per il controllo dell'esportazione, importazione e transito
dei materiale di armamento, nonché dell'esportazione e del
transito dei prodotti ad alta tecnologia.
Dalla Relazione del 2008 emerge che il contesto
internazionale è caratterizzato da due fattori: la costante
crescita delle spese militari mondiali; e l'aumento del
commercio internazionale dei grandi sistemi d'arma. L'Italia si
colloca al decimo posto tra i Paesi esportatori di sistemi
d'arma fino al 2006, ma nei successivi anni un trend
discendente sembra coinvolgerla43.
Così ad esempio, dopo il preannunciato annullamento per
Finmeccanica del programma VH-71, dei nuovi elicotteri
presidenziali, il Pentagono riduce l’ordine di USAF/US Army
per i cargo tattici C-27J da 78 a 38.
Il programma C-27J costituisce un fiore all’occhiello per il
gruppo italiano non solo per il successo di vendite in ambito
NATO e internazionale (39 esemplari a clienti europei e 4 al
Marocco) ma, soprattutto, per la fornitura alle forze armate
USA. Come per il programma VH-71, anche la riduzione dei
velivoli cargo dovrà essere confermata dal Congresso insieme
43 G. Beretta - F. Tirreni, “Le esportazioni di armi italiane”, in Le spese
militari nel mondo: il costo della insicurezza, (a cura di) C. Bonaiuti – A.
Lodovisi, Jaca Book, 2006. Per una prospettiva storica dell'industria
militare vedi: F. Battistelli, Armi: nuovo modello di sviluppo? L'industria
militare italiana, Einaudi, Torino, 1982.
96
ad altri 119 tagli ad altrettanti programmi militari operati
dall’Amministrazione Obama44.
Inoltre le esportazioni di armi italiane sembrano avere un
mercato frammentato, caratterizzato da una serie di
commesse che singolarmente sono di basso valore, ma che
nel totale raggiunge una percentuale di rilievo che vede l'Italia,
nel 2008, tra i primi dodici paesi esportatori di armi del mondo.
I Paesi importatori delle armi italiane sono la Gran Bretagna,
Spagna, Portogallo, Francia, Stati Uniti e la Norvegia.
4. Vantaggi competitivi della Difesa
Le relazioni economiche tra Paesi avvengono solo se vi è un
vantaggio, assoluto o relativo, per i paesi interessati dalle
transazioni.
Ossia ciò che considera un paese che entra in rapporti
economici con altro paese è non solo il suo vantaggio diretto
ma, anche, la dimensione del proprio guadagno relativamente
al guadagno degli altri attori.
Tra i guadagni che vengono computati in termini relativi
ricordiamo: il tasso di cambio, la distribuzione dei proventi da
investimenti esteri, i tassi di crescita economica relativi agli
altri paesi e il livello di sicurezza e visibilità del paese sugli
scenari internazionali.
Il dibattito sui vantaggi assoluti e relativi è vecchio almeno
quanto gli scritti economici del filosofo del XVIII secolo David
Hume. Il dibattito moderno trova maggiori riferimenti nella tesi
di Joseph Grieco, studioso americano di Istituzioni
Internazionali, secondo cui i paesi sono più interessati ai
vantaggi relativi (specialmente quelli legati alla difesa e alla
44 Analisi Difesa, 9 maggio 2009.
97
visibilità politica) che a quelli assoluti; ciò è causa delle
difficoltà che si incontrano nella cooperazione internazionale
poiché di difficile identificazione.
L'importanza dei guadagni assoluti, rispetto a quelli relativi, per
uno Stato è fortemente dipendente dalle circostanze in cui una
scelta specifica avviene. Nelle fasi più acute della Guerra
Fredda, per esempio, gli Stati Uniti favorivano l'unificazione
economica dell'Europa Occidentale per ragioni politiche,
nonostante i sacrifici dei propri interessi economici tale politica
comportava.
Kenneth Waltz ha notato che la consapevole decisione degli
Stati Uniti, verso la fine degli anni Quaranta, di costruire la
potenza dei suoi alleati europei a proprie spese fu un'azione
storicamente senza precedenti45.
Gli Stati sono particolarmente interessati alla distribuzione dei
guadagni che influenzano il benessere interno, la ricchezza
nazionale e la potenza militare. Quando uno stato confronta
guadagni assoluti e relativi, la potenza militare è di gran lunga
la variabile più importante. Gli stati sono riluttanti, ad esempio,
a scambiare sicurezza militare con vantaggi economici.
I moderni stati-nazione sono estremamente attenti alle
conseguenze delle attività economiche internazionali per la
distribuzione dei vantaggi economici.
Una distribuzione ineguale di questi vantaggi cambierà
inevitabilmente l'equilibrio internazionale, economico e
militare, influenzando il livello della sicurezza globale.
All'inizio del XXI secolo l'attenzione si concentra sulla
distribuzione della potenza industriale, specialmente delle
industrie high-tech. Anche perchè al livello tecnologico è
45 K. Waltz, Theory of International Politics, Reading, Addison-Wesley,
1979.
98
legata anche la produzione di sistemi d'arma, nell'ultimo
decennio ha visto quali principali produttori i paesi asiatici e
latinoamericani.
Ciò ha provocato un significativo contraccolpo sulla
competitività internazionale dei produttori occidentali di
armamenti, e in particolare ha determinato un forte calo delle
esportazioni delle aziende italiane.
Uno dei temi dominanti nello studio dell’economia politica
internazionale è il persistente conflitto tra la crescente
interdipendenza dell’economia internazionale e il desiderio dei
singoli stati di perseverare la propria indipendenza economica
e l’autonomia politica.
Nello stesso momento in cui cercano il beneficio del libero
scambio, dell’investimento estero e simili, gli stati desiderano
anche proteggere la loro autonomia politica, i valori culturali e
le strutture sociali.
Comunque, la logica del sistema di mercato è quella di
espandersi geograficamente e di incorporare sempre nuovi
aspetti all’interno dei meccanismi dei prezzi, rendendo così le
questioni interne dipendenti da forze esterne alla società
stessa. Il rischio è che nel tempo se si vorrà convivere con
l’integrazione dell’economia mondiale, con l’intensificazione
della pressione dei concorrenti esteri e con la necessità di
raggiungere sempre maggiori livelli di efficienza, si dovrà
modificare la struttura organizzativa sociale.
Questo costo lo sta pagando l’Italia che, dall'inizio del XXI
secolo, è soggetta alla integrazione dei mercati, alla pressione
economica dei Paesi asiatici e alla continua immigrazione,
anche clandestina.
L’idea che l’Italia tra un decennio diverrà terra di confine tra
Occidente e Oriente, perdendo i suoi tradizionali riferimenti
99
culturali e sociali, non è poi così utopistica alla luce di come
viene gestito, dalla politica, il fenomeno della immigrazione e
alla luce della relativa insicurezza dei nostri confini
transfrontalieri.
Del resto la considerazione che la globalizzazione economica
e l’integrazione dei mercati nazionali possano minare
l’autonomia politica, economica e culturale di una nazione è
ormai diffusa.
Mentre potenti forze di mercato scavalcano i confini nazionali
e integrano le società, i governi spesso intervengono per
restringere e incanalare le attività economiche nazionali al fine
di assecondare gli interessi nazionali.
Un Paese come l’Italia, ad esempio, se vuole riottenere la sua
visibilità nello scenario economico e politico internazionale
deve affiancare alla politica di sicurezza una politica
commerciale protezionista verso le importazioni di quei Paesi
che viaggiano su livelli competitivi per noi irraggiungibili.
Poco importa se attraverso la Difesa si cerca di instaurare nel
nostro territorio situazioni di sicurezza globale, tale per cui è
possibile instaurare una linea di sviluppo economico, se poi
l’apertura incontrollata dei mercati ponge la nostra economia
sotto la pressione dei Paesi emergenti (come quelli asiatici).
Una Economia della Difesa implica un intervento sul piano
militare e su quello della politica internazionale. Una
regolamentazione del commercio internazionale che impone
alle merci importate gli stessi vincoli normativi applicati ai
nostri prodotti dall’Europa, o in deroga l’applicazione dei dazi,
rappresenterebbe un passo avanti per salvaguardare la nostra
economia dall’invasione dei prodotti extracomunitari. Lo
sfaldamento a cui è sottoposta l’economia italiana rappresenta
una minaccia per la sicurezza interna del Paese perché la
100
disoccupazione e il malcontento sono fucina di risaputa
instabilità interna.
5. La teoria dei costi comparati e successivi sviluppi: il
caso Europa Cina
La prima formulazione coerente di una teoria del commercio
internazionale si può far risalire a David Ricardo (1817), padre
della teoria dei vantaggi comparati.
Questa teoria è basata sull’immobilità del lavoro (anche se
questa ipotesi può sembrare poco attendibile nella realtà
odierna, in realtà essa è applicabile nel caso delle imprese
cinesi che pur operando in Europa impiegano solo lavoro
cinese) e sulla perfetta mobilità interna.
Secondo la teoria ricardiana due paesi (nel nostro caso
immaginiamo Europa e Cina) commerciano tra loro solo nel
caso in cui il lavoro impiegato nei rispettivi paesi registra un
livello di produttività diverso.
La teoria dei vantaggi comparati prende in esame un sistema
internazionale caratterizzato dalla presenza di due Paesi che
producono due prodotti X e Y utilizzando un solo fattore
produttivo: il lavoro.
Nel celebre esempio proposto da Ricardo, si considerano due
Paesi- la Gran Bretagna ed il Portogallo - entrambi in grado di
produrre due beni: la stoffa e il vino.
Nel nostro esempio consideriamo, invece, l'Europa e la Cina.
Le condizioni tecniche differenti sono riassunte nelle seguenti
tabelle:
Tab.1 Quantità di lavoro per unità di bene (in uomini/anno)
X = vino Y= stoffa
101
EUROPA ax = 120 ay =100
CINA ax*=80 ay*=90
Tab.2 Vantaggi comparati
vino/stoffa stoffa/vino
EUROPA ax / ay = 1,20 ay / ax =0.83
CINA ax*/ ay*= 0.88 ay*/ ax*=1.125
Il lavoro necessario alla produzione di un'unità di merce (ax e
ay) è diverso per ciascuna merce nei paesi e, per la stessa
merce nei due paesi, è in relazione alle diverse condizioni che
rendono un paese più adatto ad una produzione piuttosto che
ad un'altra.
I costi di produzione espressi in unità di lavoro sono, quindi,
diversi. Se in uno dei due paesi i costi sono inferiori a quelli
dell'altro, per entrambe le merci, questo gode di un vantaggio
assoluto. Sarebbe conveniente, quindi, che le due merci
venissero prodotte nel paese che le produce a costi minori, ma
ciò richiederebbe il trasferimento di capitali e lavoro nel paese
con vantaggio assoluto.
Il modello di Ricardo non ammette la possibilità di movimento
dei fattori produttivi bisogna, pertanto, considerare i vantaggi
relativi. Dalla seconda tabella si evince che la Cina gode di un
vantaggio assoluto in entrambe le produzioni, mentre l'Europa
gode di un vantaggio comparato nel produrre la stoffa,
piuttosto che il vino, rispetto alla Cina.
Se i due paesi possono scambiare tra loro entrambe le merci,
ognuno guadagnerà dalla specializzazione della produzione
del bene per il quale ha il vantaggio comparato. Ciò, infatti,
permetterà a ciascuno dei due paesi di consumare una
maggiore quantità di beni.
102
Una formulazione più moderna della teoria dei costi comparati
ci proviene da Enrico Barone che, nel 1908 in Principi di
Economia Politica, introduce nel modello ricardiano la ragione
di scambio tra i Paesi coinvolti, indicata nel grafico seguente
dalla retta OV:
Industria
I Europa
V
A Cina
Agricoltura
Secondo Barone i Paesi che hanno un costo comparato
inferiore alla OV, come i Paesi A, forniscono prodotti agricoli e
ricevono prodotti manufatti. La ragione di scambio può
oscillare per cause esterne all’economia. Se per esempio
aumenta il costo del lavoro dell’industria i Paesi I (Europa)
potranno scambiare sempre meno prodotti industriali con
prodotti agricoli. E la ragione di scambio tenderà a innalzarsi
fino a superare la retta I. Se, invece, il costo del lavoro
diminuisce, come nel caso della Cina, la ragione di scambio
favorirà l'esportazione di questo paese.
Nel nostro grafico, la Cina si troverà al posto dell’Europa.
Quest’ultima, vista la variazione dei costi comparati, importerà
i prodotti industriali, che prima esportava. I cambiamenti,
indotti dalla variazione delle ragioni di scambio, creano
pertanto gravi e profondi turbamenti nel sistema economico.
103
Una soluzione a questo genere di turbamenti può essere una
politica protezionista che limita l'esportazione dei beni più
competitivi.
Ciò è un esempio di come la politica liberista possa creare forti
turbamenti e di come il protezionismo economico può essere
considerato, a volte, una politica di stabilizzazione del sistema
sociale ed economico.