1 Economia della difesa Ovvero: Analisi delle azioni dello Stato che sono volte a conseguire il fine della sicurezza globale, attraverso la struttura militare e quella civile, e che implicano un impegno delle risorse nazionali (Catia Eliana Gentilucci) INDICE Prologo Introduzione La natura dell’Economia Politica La natura della Economia della Difesa La Geopolitica Capitolo 1 – Alcune definizioni 1. Di cosa si occupa l’Economia 2. Il sistema pubblico militare 3. Il bene pubblico della sicurezza globale 4. L’economia etica e difesa 5. Il mercato e lo scambio Capitolo 2 – Le forme di mercato 1. La concorrenza perfetta 2. Il monopolio, l’oligopolio, il monopsonio e la concorrenza monopolistica 3. La Teoria dei Giochi: produzione di armi e strategia militari 4. L’industria militare 5. L’industria militare in Italia 6. Disarmo e conversione del settore degli armamenti 7. Cenni storici sulla riconversione dell’industria militare italiana 2 Capitolo 3 – Il ruolo dello Stato nell’Economia 1.La teoria keynesiana 2. Il keynesismo militare 3. La curva della Domanda Aggregata 4. La spesa pubblica per la Difesa: il modello della Frontiera delle Possibilità Produttive Capitolo 4- Il contesto internazionale 1. La globalizzazione 2. L’internazionalizzazione: alcune riflessioni 3. Le esportazioni di armi italiane 4. Vantaggi competitivi della Difesa 5. La teoria del costi comparati e successivi sviluppi: il caso Europa Cina Capitolo 5 – Spesa per la Difesa e sviluppo 1. La spesa militare in Italia e nel Mondo 2. La spesa militare e la spesa civile-sociale 3. La rilevanza della spesa militare sulla crescita 4. L’approccio empirico di Landau 5. Minacce esterne e crescita endogena 6. Spesa militare e sviluppo: un connubio controverso Capitolo 6 - Organizzazioni internazionali per la sicurezza 1. I Regimi internazionali 2. Politiche di sicurezza post Guerra Fredda 3. Istituzioni Internazionali per la sicurezza 4. Organizzazioni Europee 5. Agenda Europea per la Difesa 6. Evoluzione degli Affari Militari Capitolo 7 - Conflitti e minacce 1. Evoluzione del quadro di sicurezza internazionale 2. Ostacoli allo studio scientifico delle guerre 3 3. Definizione di conflitto armato 4. La guerra asimmetrica 5. Tra la Guerra Fredda e l’11 Settembre 6. Minacce future 7. Credibilità delle minacce Capitolo 8 - Istituire sicurezza e stabilità globale 1. Pace è 2. Pace e ideologia della democrazia 3. Operazioni di sostegno alla pace 4. Diritto alla pace 5. Pagine sparse. La situazione geopolitica e sue prospettive A L'Asia Centrale B. Sicurezza transfrontaliera nell’Europa comunitaria (di Febo Ulderico della Torre di Valsassina) C. L’asse del caos: rivisitazioni di uno scenario (di: Elvio Ciccardini) 4 PROLOGO Perché un libro di Economia della Difesa Lo studio attento delle vicende storiche deve far parte del bagaglio culturale di ognuno di noi perché ci dà la dimensione dell’ambiente che ci circonda, una sorta di quadrimensionalità della realtà. Per il militare che opera negli scenari operativi nazionali e internazionali, però, non è sufficiente un bagaglio culturale “tradizionale”, occorre una conoscenza sistematica delle tradizioni culturali che sono presenti in quello specifico teatro. Così il militare sarà messo in condizione di affrontare, comprendere e risolvere le problematiche contingenti dell’ambiente con cui interagisce. Le contingenze storiche dell’11 Settembre del 2001 hanno reso necessario al mondo occidentale di formare una nuova professionalità il Soldato di pace, che non vuole essere una figura retorica ma una professionalità ben definita che richiede conoscenze complesse e capacità di interazione che solo una solida formazione può fornire. La figura professionale del Soldato di Pace è sostenuta a gran voce dal Ministro della Difesa proprio perché l’esigenza della interazione tra forze armate e contesto sociale è percepita in modo forte; è come se, affianco alla globalizzazione dei mercati, fosse nata l’esigenza della globalizzazione degli ambienti sociali. Ogni area operativa richiede, sempre più, una professionalità interdisciplinare (pensiamo a come è cambiata la figura del medico, del docente, dell’avvocato che non è più allocata in un limbo sociale, raggiungibile solo a pochi, ma è diventata un riferimento diretto per la società). 5 Il militare, dalla fine del XX secolo, ha acquisito una nuova professionalità che è aperta alle esigenze dell’ambiente in cui collabora; esso deve avere pertanto una preparazione interdisciplinare valida sotto molteplici punti di vista. Il militare è, in senso assoluto, la figura professionale che più interagisce in modo radicale con la microstruttura sociale (pensiamo non solo ai soldati impegnati nelle azioni di peacekeeping, ma anche ai carabinieri impiegati a controllare la sicurezza locale e, più in generale, alle attività svolte dalle forze dell’ordine); esso è, pertanto un agente sociale che deve essere formato per pianificare e risolvere interventi operativi, con gli strumenti a sua disposizione e con obiettivi dati. Al militare che opera fuori area viene chiesto un impegno notevole che lo coinvolge come risorsa umana che produce difesa e sicurezza, attraverso la potenza dei sistemi d’arma, e interazione sociale attraverso la conoscenza acquisita nelle strutture che lo hanno formato. Se il primo aspetto, la difesa e la sicurezza, è abbastanza facile da ottenere con un buon addestramento tecnico e con una buona dose di audacia; il secondo aspetto, l’interazione sociale con la popolazione civile del luogo di azione, è più difficile da ottenere perché richiede una sensibilità verso le problematiche sociali, una conoscenza storico-culturale a tutto tondo e l’acquisizione di competenze scientifiche e umanistiche che vanno dalla antropologia, alla psicologia, alla sociologia e all’economia. In particolare quest'ultima conoscenza, l’economia, è utile perché dà la dimensione di come “funzionano i rapporti umani basati sul principio della scarsità delle risorse”: il “dare e avere”, in senso buono, che rappresenta uno degli aspetti 6 basilari di tutte le civiltà storiche e che ha determinato il progresso economico e lo sviluppo sociale. Lo scambio è alla base di tutte le economie; dalla sua logica e dalle sue motivazioni si può capire il perché di molte azioni tra individui e il perché di molti comportamenti sociali. In sostanza, la formazione militare è uno degli strumenti più rilevanti per lo sviluppo globale e omnicomprensivo della società. Ma la formazione militare necessita, anche, di discipline sociali che richiedono un’apertura delle strutture di formazione militare al mondo scientifico accademico e civile. Grazie a questa consapevolezza, negli ultimi dieci anni, gli ambienti militari si sono aperti al mondo civile cercando il dialogo e l'interscambio culturale e accademico. Ciò ha reso possibile formare i militari che operano fuori area in modo da fornire loro un bagaglio denso di conoscenze interculturali, multietiniche e geopolitiche che ha contribuito a creare, in area NATO, il mito del “buon soldato italiano”1, fiore all’occhiello dello Stato Maggiore della Difesa. Perché dunque un libro di Economia della Difesa? Perché con un pizzico di ambizione, ma con molta modestia, si spera di poter contribuire a formare quel bagaglio culturale dei militari che con abnegazione, coraggio e senso del dovere si sentono partecipi alle missioni a cui sono comandati. 1 Vedi gli Atti del Convegno: Soldati di pace in scenari operativi, a cura di Catia Eliana Gentilucci, Ce.Mi.SS, Roma, 2008. 7 INTRODUZIONE La natura dell'Economia Politica Lo studio dell'Economia Politica è molto in voga tra storici, economisti e scienziati sociali. Questo interesse riflette un crescente riconoscimento del fatto che i mondi della politica e dell'economia, un tempo concepiti separatamente, in realtà hanno esercitato una forte influenza l'uno sull'altro. La politica è molto più influenzata dagli eventi economici di quanto molti scienziati della politica non abbiano riconosciuto, e l'economia è molto più dipendente dagli sviluppi politici e sociali di quanto gli economisti non abbiano ammesso. Il riconoscimento dell'interazione tra le due sfere ha suscitato una attenzione crescente da parte di storici e scienziati sociali. Durante gli ultimi tre secoli sono state avanzate diverse definizioni dell'espressione “economia politica”. Una breve sintesi dell'evoluzione di queste definizioni fornisce indicazioni sulla natura dell'oggetto. Per Adam Smith, in The Wealth of Nations (1776), l'economia politica era una branca della scienza dello statista e del legislatore e una guida alla gestione prudente dell'economia nazionale, ovvero, come osservò più tardi J. Stuart Mill (1830), l'economia politica è la scienza che insegna a una nazione come diventare prospera. Verso la fine del diciannovesimo secolo questa ampia definizione fu notevolmente ristretta. Alfred Marshall non enfatizzò più il concetto di nazione come un tutto. Nel suo libro, Principles of Economics (1890), Marshall sostituì l'espressione “economia politica” con quella di “teoria economica” (economics) e restrinse grandemente il campo della scienza economica che iniziava a specializzarsi per 8 branche: la teoria dei consumatori, la teoria dell'impresa, la teoria della moneta, la teoria del commercio, l'economia dell'istruzione, l'economia della sanità, ecc.; ma non ancora l'economia della difesa. La specializzazione dell'economia, purtroppo, ha continuato negli anni divenendo ricerca esasperata della spiegazione di fenomeni microeconomici di alto contenuto euristico ma lontani dalla complessità della realtà. Seguendo il precetto marshalliano secondo il quale la teoria economica era una scienza empirica esente da giudizi di valore, il suo discepolo Lionel Robbins in The Nature and Significance of Economic Science (1932) formulò la definizione che è rimasta la più condivisa dagli economisti: “La teoria economica è la scienza che studia il comportamento umano come una relazione tra fini e mezzi scarsi che hanno usi alternativi”. Durante gli anni '30, del XX secolo, la Grande Depressione, che costò milioni di posti di lavoro e una crisi economica spaventosa, fece riflettere gli economisti sulla capacità del mercato di autoregolarsi e di crescere autoregolandosi. Molti economisti iniziarono a spostare la loro attenzione verso il ruolo che lo Stato poteva avere per sostenere l'economia nazionale. Nasce in questo periodo un interessante dibattito sulla pianificazione e sulla programmazione economica. L'esperienza della Grande Depressione obbligò, quindi, gli economisti a considerare lo Stato non più come attore passivo della vita economica di un paese, ma come attore attivo e propositivo che attraverso la spesa pubblica può influenzare le sorti del mercato. La teoria di J.M. Keynes dell'interventismo è stata quella maggiormente seguita e applicata, specie negli Stati Uniti. Per 9 l'economista inglese, la spesa pubblica, per qualsiasi voce di spesa (istruzione, sanità, infrastrutture, difesa) era considerata incentivante dell'economia, e rappresentava una sferzata di ossigeno per le economie che si trovano in una situazione di stallo. Dopo la Teoria keynesiana l'analisi dell'intervento dello Stato nell'economia assume una sua sistematizzazione nella Politica Economica che studia gli strumenti e gli effetti dell'intervento del potere pubblico nella vita economica. Gli strumenti più importanti della Politica Economica sono: la politica monetaria e la politica fiscale che agisce rispettivamente sul livello della quantità di moneta in circolazione e sul livello delle entrate e delle uscite (Bilancio Pubblico) dello Stato. La natura della Economia della Difesa Adolf Wagner nel 1891 definisce l'Economia Militare come: lo studio della condotta degli organi militari come realizzazione fra il fine della difesa, eletto dalla collettività, e i mezzi scarsi applicabili a usi alternativi2. Prima ancora, Rau nel 1826, considerava l'Economia di Guerra come: quella materia che considera le condizioni che concernono il fabbisogno finanziario della flotta e dell'esercito3. La distinzione tra Economia di Guerra e Economia Militare è superabile ai nostri giorni. Fino al Secondo Dopoguerra i primi due termini indicavano rispettivamente: la relazione tra guerra e economia, durante un periodo di guerra o post-bellico; in sostanza si considerava 2 A. Wagner (1891), La scienza delle finanze, Biblioteca Economica, serie III, parte X, pp. 227-252. 3 K.H. Rau (1826), Letture di politica economica, Lipsia. 10 L'Economia di Guerra quella disciplina che si occupava dei costi dei conflitti, delle loro conseguenze economiche e dei modi in cui era possibile finanziare una guerra4. Mentre l'Economia Militare era intesa come analisi del costo di mantenimento della struttura militare, anche in tempo di pace. Oggi è prevalsa la convinzione che l'organizzazione militare, anche in una situazione di non-conflitto è istituita per la prevenzione e la difesa, e pertanto le spese militari rientrano in una unica disciplina detta Economia della Difesa, che studia: l'insieme delle azioni dello Stato volte a conseguire, attraverso gli organi militari, il fine della sicurezza globale implicando un impegno delle risorse nazionali5. La sicurezza globale dall'11 Settembre è diventata un concetto ampio che ingloba non solo la difesa nazionale ma anche quella regionale. In questo lavoro intendiamo riflettere nella dimensione concettuale che vede la sicurezza globale come una condizione necessaria e sovrastrutturale, nella quale si svolgono tutte quelle azioni e relazioni economico-sociali che permettono una crescita economica normale; cioè stabile e in linea con le potenzialità di crescita del paese, che sia duratura e non disturbata da shock o da repentine recessioni. Nella situazione di crescita normale è possibile instaurare un 4 L'Economia di guerra ha una smisurata bibliografia negli anni compresi 5 dalla seconda guerra mondiale agli anni '50. Per una bibliografia sull'economia di guerra si rinvia alla rassegna di C. Ruini contenuta in “Rassegna di Studi sulla Politica Economica e finanza della guerra”, Studi Economici, Napoli, 1941; e a Giuseppe Mayer, Teoria economica delle spese militari, Roma, 1963. La prima definizione di Economia Militare è stata utilizzata da Wagner in La Scienza delle Finanze, Biblioteca degli economisti III Serie, Volume X, Parte II, pp. 227-252, Torino, 1891. 11 processo di aumento del benessere sociale inteso, in senso ampio, anche come crescita culturale. Inoltre, in una situazione globalizzata come quella che caratterizza le nostre economie la sicurezza è ancora più importante, poiché un evento che renda instabile e insicuro il mercato di un qualsiasi paese può avere gravi ripercussioni sulla struttura economica di altri paesi, anche molto distanti territorialmente o facenti parte di continenti diversi (vedi il caso della Cina). Possiamo affermare che, a livello internazionale si ha sicurezza quanto è possibile svolgere nella più completa stabilità le relazioni internazionali utili a sostenere la crescita economica dei paesi. La sicurezza globale può essere garantita solo da azioni istituzionali (nazionali o internazionali) volte a annullare le minacce (militari, terroristiche, sanitarie, politiche, climatiche, ecc.) potenziali o effettive allo svolgimento della normale vita relazionale tra individui e tra paesi. Gli attacchi terroristici hanno imposto la rivalutazione del concetto di difesa che, se fino agli anni settanta alla fine della Guerra Fredda, poteva essere considerata legata alla salvaguardia dei confini nazionali, dall'inizio del XXI secolo ha acquisito una valenza così ampia da richiedere l'impiego di nuove professionalità militari e civili addestrate alla reciproca collaborazione negli scenari operativi (forze operative interforce). La messa in opera di azioni fuori area che vedono impiegate competenze operative civili e militari richiede un impegno finanziario forte e strutturato negli anni. I nuovi scenari operativi, nei quali le forze armate sono chiamate a intervenire, hanno comportato la necessità di 12 approntare e mantenere un potenziale militare che sia in grado di dare la giusta formazione e il potenziale bellico che costituisca, almeno, strumento di dissuasione. Le risorse nazionali richieste per realizzare l'armamentario necessario rappresentano un peso rilevante per la nazione e comportano scelte di opportunità dell'impiego delle risorse, non solo all'interno delle strutture militari, ma anche in relazione a ciò cui il sistema pubblico civile deve rinunciare per impiegare una parte delle risorse per fini militari. L'economia della difesa si interessa di tutti questi aspetti. Quando, nel linguaggio comune, si fa riferimento alla “relazione tra eventi bellici e economia” dobbiamo pensare che tale legame è bidirezionale, nel senso che le risorse spese per organizzare la struttura militare per fini bellici hanno effetti diretti sul sistema economico interno: 1. sia perchè quelle stesse risorse potevano essere utilizzate per fini civili (la costruzione di un strada, di un ospedale, di un monumento, di un giardino pubblico, ecc.); 2. sia perchè la realizzazione di tutto ciò che serve alla struttura militare, anche per affrontare una situazione di rischio, dà lavoro a coloro che producono quei beni o forniscono quei servizi. Dal punto di vista del sistema pubblico civile6, il primo effetto può essere considerato “negativo” per il comparto civile, mentre il secondo effetto lo possiamo considerare “positivo”. Il “saldo” di questi due effetti è sicuramente positivo, nel senso che le risorse spese per fini militari soddisfano alcuni bisogni primari per la collettività che le giustificano, primo tra tutti il bisogno di sicurezza. 6 Vedi Prologo. 13 Altra distinzione metodologica superabile è quella tra Politica economica di guerra e Politica economica di pace: la prima si riferisce all’insieme delle decisioni e azioni prese dallo Stato nel regolare il sistema economico in situazioni di un conflitto armato, mentre con la seconda si intendono quelle decisioni prese in situazione di pace. Anche questa distinzione appare superabile: è noto, infatti che le risorse assegnate alle strutture militari devono, per definizione, essere impiegate per mantenere una struttura atta ad assolvere al bisogno del mantenimento o della instaurazione della pace (anche fuori dai confini nazionali), con l'uso delle armi. La Geopolitica Importante riferimento per l'Economia della Difesa è la Geopolitica. Non è chiaro se essa abbia le caratteristiche per essere considerata “scienza” o se debba, invece, essere intesa come branca di una scienza compresa tra la geografia e le relazioni politiche. Una delle prime definizioni di geopolitica è stata formulata da Y. Lacoste che nel 1978, che scrisse: la geografia serve innanzi tutto a fare la guerra e a organizzare i territori per controllare più agevolmente gli uomini sui quali l'apparato dello Stato esercita la sua autorità7. Vi è una evidente relazione tra geografia e fattori storicoistituzionali, economici e culturali. La Geografia che analizza solo la morfologia del territorio è fine a sé stessa, una geografia ragionata richiede considerazioni sul perchè e come 7 M. Simoncelli, Guerre senza confini. Geopolitica dei conflitti nell'epoca contemporanea, Ediesse, 2003, Roma. 14 le popolazioni del dato territorio hanno specifiche strutture politiche e istituzionali. Che poi la geografia ci aiuti a comprendere i motivi delle guerre è un dato di fatto: la storia è piena di guerre scatenate dal desiderio di conquistare nuovi sbocchi commerciali fluviali, marittimi e terrestri o ricchezze naturali; o di espansione territoriale o di controllo delle economie (pensiamo al colonialismo o all'imperialismo). Sotto questo aspetto la geopolitica può essere considerata come una evoluzione della geografia in un'epoca globalizzata, dove le relazioni internazionali sono sempre più integrate sia in senso politico che economico. In questo quadro la geopolitica si allarga fino a analizzare gli eventi esterni che possono modificare i confini territoriali di macro regioni e la stabilità politica di queste. La sicurezza diventa un concetto che si estende oltre i confini territoriali di una nazione poiché coinvolge intere aree territoriali sovranazionali; attraverso la geopolitica è possibile individuare le aree suscettibili di intervento militare volte a contrastare le minacce alla sicurezza delle aree sovranazionali. 15 CAPITOLO 1 Alcune definizioni 1. Di cosa si occupa l’Economia L’Economia Politica si occupa del sistema economico, vale a dire delle relazioni che intercorrono tra i soggetti che sono impegnati nella produzione e nello scambio dei beni economici atti a soddisfare i bisogni umani. La produzione, lo scambio, il consumo e la fruizione dei beni economici rappresentano le azioni fondamentali di un sistema economico. Ogni sistema, storicamente e geograficamente inteso, determinerà il modo in cui si sviluppano le azioni della produzione, dello scambio e del consumo. In un sistema economico industrializzato e democratico queste azioni si svolgeranno in un ambito liberista, nel quale lo Stato interverrà solo marginalmente nel dare indirizzi a queste azioni. La produzione e lo scambio avverranno in un sistema di concorrenza nel quale i prezzi verranno determinati dalle leggi di mercato e non imposti dallo Stato. Passiamo ad alcune definizioni. Produzione: l’attività svolta da parte dell’impresa che ha il fine di produrre beni e servizi (detti output) attraverso l’impiego e la combinazione dei fattori produttivi (lavoro, terra, capitale e capacità imprenditoriale). Le possibili combinazioni attraverso cui i fattori produttivi (input) possono essere impiegati per produrre dati livelli di beni e servizi (output) si chiamano funzioni di produzione. Scambio: si intendono tutte quelle attività volte a far circolare i beni all’interno del sistema economico (e all’esterno attraverso le esportazioni). 16 Bene economico: i beni che soddisfano un bisogno dell’individuo e che sono scarsi. Quest’ultima peculiarità implica che l’individuo è disposto a pagare un prezzo per ottenere il bene. L’aria ad esempio seppur importante per l’individuo non è considerata un bene economico poiché non si deve pagare un prezzo per la sua disponibilità. Bene pubblico: è un bene che è difficile, o impossibile, per il singolo produrre per trarne un profitto privato, pertanto la sua produzione viene effettuata dallo Stato. L’interesse alla tematica dei beni pubblici, o collettivi, si fa solitamente risalire a un originale lavoro di J. Dupuit (1844) nel quale l’ingegnere francese, proprio nel discutere il modo in cui misurare l’utilità delle opere pubbliche realizzate dal suo ministero, coglie le caratteristiche che contraddistinguono questi beni. Per definizione, un bene pubblico è caratterizzato da assenza di rivalità nel consumo (la fruizione di un bene pubblico da parte di un individuo non implica l'impossibilità per un altro individuo di goderne allo stesso tempo, si pensi ad esempio a forme d'arte come la musica, o la pittura); e dalla non escludibilità della fruizione (una volta che il bene pubblico è prodotto, è difficile o impossibile impedirne l'uso da parte di altri utenti, si pensi ad esempio all'illuminazione stradale). I beni pubblici si dicono “puri” quando possiedono in senso assoluto tali proprietà (come nel caso della sicurezza globale). “Assenza di rivalità” nella fruizione significa che più soggetti possono simultaneamente beneficiare di quel bene senza per questo ridurre l’utilità che altri traggono dal suo uso: la luce solare, la vista di un bel panorama. Il benessere di un individuo derivante dalla fruizione di questi beni non è influenzato, in questo caso, dalla concomitante fruizione degli stessi da parte di altri consumatori. 17 “Assenza di escludibilità” significa, invece, che qualora il bene sia reso disponibile per qualche individuo non è possibile o non è conveniente da un punto di vista economico escludere altri individui dai benefici che il bene produce. L’escludibilità può essere di duplice natura: tecnica o economica. La prima trova la propria ragione d’essere in caratteristiche fisicooggettive del bene (pensiamo a un sistema di ripetitori per stazioni televisive) mentre la seconda deriva dall’elevato costo cui si incorrerebbe se si decidesse di escludere taluni individui dalla fruizione del servizio (pensiamo a un sistema di sicurezza per una certa area geografica, sarà costosissimo escludere qualche individuo dal godimento del bene nella stessa area). Un bene pubblico puro è caratterizzato dalla assenza di rivalità e dall’inescludibilità dei benefici. Altra distinzione interessante in tema di beni pubblici è quella tra bene pubblico opzionale e bene pubblico non opzionale. La prima caratteristica la troviamo nei beni pubblici che pur messi a disposizione per l’intera collettività si rimanda alla volontà di ognuno il volere godere dei suoi effetti (ad esempio un parco pubblico seppur a disposizione della collettività il singolo individuo può decidere di non usufruirne; o il sistema scolastico pubblico che è a disposizione di tutti ma qualcuno potrebbe preferire la scuola privata). Il bene pubblico non opzionale, invece, è quel bene che una volta offerto dallo Stato alla collettività i singoli individui non possono decidere di rimanere esclusi dai suoi effetti. Il caso tipico è quello della difesa nazionale della quale i cittadini di 18 una determinata zona geografica ne consumano tutti la medesima quantità8. Bene pubblico della “difesa militare”: tutte le attività svolte dalla struttura organizzativa e operativa dello Stato che hanno lo scopo di difendere un territorio o una macroarea da minacce e attacchi alla sicurezza. Utilità: la percezione soggettiva, di un individuo o della collettività, che un bisogno è stato soddisfatto. L'utilità che un soggetto prova dopo aver bevuto un bicchiere di acqua stà nel senso di soddisfazione che esso percepisce dopo aver soddisfatto la propria sete. L’utilità della sicurezza stà nella percezione che non vi sono minacce incombenti alla quotidianità, percezione che la collettività recepisce dalla fruizione del bene difesa. Concorrenza: in economia si possono distinguere due regimi di concorrenza, quella perfetta e quella imperfetta. La prima si ha quando le imprese non possono influenzare in modo percepibile il prezzo di mercato del bene da loro prodotto; la concorrenza imperfetta, invece, si ha quando le imprese possono influenzare il prezzo del bene. In quest’ultimo caso si avrà concorrenza imperfetta le cui forme di mercato sono: monopolio, oligopolio o concorrenza monopolistica. Prezzo: la quantità di moneta che un individuo è disposto a scambiare con una unità di bene o servizio. Bisogno: stato soggettivo negativo dato dalla mancanza di determinati beni o da necessità di servizi. Il bisogno può essere sentito da un privato (bisogno privato) o dalla collettività (bisogno pubblico). Il primo verrà soddisfatto con il 8 Per un approfondimento sulla Difesa come bene pubblico cfr.: Catia Eliana Gentilucci, Le forme multifunzionali della sicurezza globale, a cura di, Ce.Mi.SS, Roma, 2008. 19 consumo di un bene disponibile sul mercato; il secondo, invece, dalla fruizione del bene pubblico. In economia i bisogni sono teoricamente illimitati, mentre le risorse necessarie a produrre i beni atti a soddisfare i bisogni sono soggette a vincoli restrittivi. A questo proposito il problema fondamentale di un sistema economico è come allocare le risorse limitate in modo da rendere disponibile il maggior numero di beni possibile, per poter soddisfare il più alto livello di bisogni pubblici e privati. Altro quesito a cui lo Stato deve rispondere è come sia possibile allocare le risorse tra pubblico e privato, tale per cui sia possibile raggiungere un livello massimo di soddisfazione collettiva. Cioè, come il sistema economico deve comportarsi in modo da ottenere una produzione efficiente che al contempo raggiunga il livello di soddisfazione dei bisogni più alto possibile. Oltre ad allocare le risorse un sistema centralizzato deve anche provvedere a determinare la distribuzione, cioè ciò che riceveranno coloro che partecipano all’attività economica. In definitiva possiamo affermare che le funzioni della produzione, scambio, consumo, allocazione e accumulazione costituiscono l’oggetto dell’Economia Politica. In questo ampio contesto consideriamo l’Economia della Difesa come una branca dell’Economia Politica che si occupa, da un lato, di come lo Stato decide di allocare le risorse per i fini della difesa e, dall’altro, degli effetti che produce tale spesa sull'evoluzione del sistema economico. 20 2. Il sistema pubblico militare In senso accademico dovremmo distinguere il sistema economico in privato, pubblico civile e pubblico militare. Nell’immaginario collettivo, però, questa distinzione non trova corrispondenza sia perchè le relazioni economiche tra pubblico e privato si intrecciano fortemente; sia perchè il sistema militare viene considerato estraneo al sistema economico. Cioè tendenzialmente gli individui tendono a considerare le strutture militari un corpo estraneo della società, attribuendo ad esse una sorta di extradimensionalità. Forse per questo motivo le spese che lo Stato deve affrontare per il funzionamento, il mantenimento e l'adeguamento operativo del comparto militare vengono viste come impopolari e superflue, specialmente nei periodi di crisi economica. La ragione di questa situazione si può far risalire al periodo della Guerra Fredda, quando il top secret era la parola chiave della politica militare; tanto più che negli anni '80 la politica economica favoriva e sosteneva lo sviluppo del settore pubblico, anche militare, suscitando critiche sulla sua necessità. Inoltre, il settore pubblico civile (istruzione, sanità, comunicazioni, infrastrutture e opere pubbliche in genere) pubblicano un Bilancio annuale di rendiconto sull'impiego delle risorse messe a loro disposizione; il settore pubblico militare, invece, tendenzialmente segue una politica volta alla gestione autonoma (anche se annualmente deve presentare al Governo La Nota Aggiuntiva). Tutto ciò non vuole essere una critica, poiché è chiaro che la riservatezza deve necessariamente avvolgere la politica militare, ma ciò ha contribuito a tenere distanti le questioni 21 militari dal mondo civile, comportando: una difficoltà di comunicazione tra civile e militare e l'instaurazione di un senso di diffidenza del civile verso il militare; l'esclusione delle questioni militari dal ragionamento scientifico civile; la chiusura degli studiosi militari verso i fenomeni economici e sociali del comparto civile. In poche parole, si sono creati due contesti privi di dialogo pur avendo, tra loro, strette interconnessioni economiche e sociologiche. Alla luce di queste considerazioni in questo lavoro verranno utilizzati i termini “sistema pubblico civile” e “sistema pubblico militare” solo per semplificare il ragionamento, ma sottointendo che i due sistemi sono tra loro interconnessi e facenti parte di un unico settore pubblico. Lo scenario internazionale è cambiato (la globalizzazione), le minacce alla sicurezza nazionale sono diventate più infide per l'imprevedibilità e la asimmetricità della minaccia (prima il nemico era entità ben identificabile, ora il nemico è astatuale, aterritoriale, irrazionale, non ha entità propria ed è sfuggente e fluente negli spostamenti territoriali). Lo stesso concetto di sicurezza per la singola nazione è cambiato non è più identificato nel territorio nazionale, ma è a livello di sistema regionale. Tutto questo con l'abolizione dei confini nazionali e la creazione di macro-aree ha comportato il cambiamento degli obiettivi delle Forze Armate e, di conseguenza, dei modi operativi di intervento nelle aree di crisi che richiedono sempre più competenze e conoscenze che sono presenti nel sistema sociale “civile”9. Vi è stata pertanto un'apertura del mondo militare verso quello civile, beneficiandone entrambi poiché sono state condivise a livello di sistema-paese problematiche sociali, economiche e 9 Vedi gli Atti del Convegno: Soldati di pace in scenari operativi (op. cit.). 22 politiche che pongono interrogativi seri, come: il ruolo che il nostro sistema nazionale vuole svolgere nella Comunità Europea; quanto e come l'attività militare può sostenere l'economia nazionale (per questo aspetto, a differenza di altri studiosi confido che ciò possa avvenire). Il primo passo verso l’integrazione riconoscibile del contesto militare in quello civile, è incentivare la comunicazione e la visibilità dell'attività che svolgono le forze armate. La conoscenza allontana la diffidenza. Un sistema sociale in cui non vi è diffidenza tra l’ambiente civile e quello militare è un sistema vincente, poiché le azioni delle FF.AA. sono condivise dalla collettività, che si sente partecipe dei risultati e degli obiettivi perseguiti. In sostanza, il settore civile deve prendere consapevolezza che le forze armate rappresentano una delle istituzioni che possono garantire la sicurezza globale; la quale, come già ribadito, rappresenta la condizione necessaria che permette all'economia di migliorare il proprio livello di benessere sociale. Solo in un contesto in cui vi è sicurezza si possono instaurare meccanismi di “speranza” volti alla crescita economica desiderabile. Sotto questo aspetto la sicurezza diventa un bene pubblico globale10. Una società civile ha bisogno delle forze armate per poter realizzare il bene sicurezza. Questa affermazione rappresenta una ovvietà poiché non c'è, e non c'è mai stata in passato, una soluzione alternativa seria alla affidabilità e alla capacità delle FF.AA. e dei reparti dell'ordine pubblico di procurare sicurezza. 10 Catia Eliana Gentilucci, Le forme multifunzionali...(op.cit.). 23 3. Il bene pubblico della sicurezza globale11 Il concetto di sicurezza negli USA, sancito nel National Security Act del 1947, ha subito un cambiamento adattandosi, dalla Guerra Fredda al post 11 Settembre 2001, alle nuove situazioni internazionali. Il primo tentativo di rilievo di trovare una specificazione al concetto di sicurezza è indubbiamente quello di Arnold Wolfers del 195212; ma nei successivi anni sessanta e settanta 11 idem 12 I capisaldi teorici della corrente di pensiero detta del “strutturalismo”, che rientra nella scuola neorealista delle relazioni internazionali ,sono stati formulati da Waltz, secondo il quale a livello internazionale ogni Stato cerca di massimizzare il suo potere difensivo assoluto. Il pensiero realista si è imposto gradualmente, soprattutto a partire dagli Stati Uniti del secondo dopoguerra, come paradigma teorico dominante per lo studio delle relazioni internazionali. La sua ricchezza e complessità analitica lo rende ancora oggi una prospettiva fondamentale per chiunque voglia accostarsi allo studio della politica internazionale. Nel corso del tempo, esso ha assunto sempre più i caratteri di un complesso paradigma teorico in cui si intrecciano più livelli analitici e numerose teorie, spesso in disaccordo tra loro, ma tutte tenute insieme coerentemente dal filo conduttore costituito da pochi e semplici assunti di base condivisi: la natura anarchica del sistema internazionale e la centralità degli stati, principali attori della realtà internazionale. Nonostante il realismo politico sia uno degli approcci teorici più antichi, che possiamo far risalire addirittura all’opera di Tucidide, e sebbene la tradizione di Realpolitik domini da secoli i circoli diplomatici, solo a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso il mondo accademico ha mostrato un rinnovato interesse per il pensiero realista, principalmente grazie alla rivoluzionaria opera di Kenneth Waltz. Incentrando la sua analisi sul concetto di struttura del sistema internazionale, è stato proprio il neorealismo waltziano ad aver stabilito l’autonomia della politica internazionale dagli altri ambiti analitici e, di conseguenza, a porre le fondamenta di una teoria generale della politica internazionale. Il neorealismo waltziano, anche definito realismo strutturale, proprio per la centralità assegnata al concetto di struttura internazionale, risvegliando l’interesse del mondo accademico per il pensiero realista, si è imposto, fin dalla pubblicazione di Teoria della Politica Internazionale1, al centro dei principali dibattiti teorici che hanno contribuito a plasmare e rimodellare fino ai giorni nostri la disciplina delle Relazioni Internazionali. 24 alcuni autori si sono lamentati della mancanza di una definizione di sicurezza che fosse oggettivamente condivisibile e che fosse non soggetta ad ambiguità terminologiche13. Durante la Guerra Fredda la sicurezza era considerata come l’assenza di conflitto tra due blocchi ed era un concetto che comprendeva la capacità dello Stato di difendersi da attacchi militari. Con la fine della Guerra Fredda, in virtù dell’Alleanza Atlantica, viene costituita un’area sicura nella quale gli Stati collaborano sotto l’aspetto politico, economico e sociale non solo per porre le condizioni di sviluppo al loro interno, ma anche per difendersi dagli attacchi esterni. La sicurezza diviene un concetto più ampio fondato sulle relazioni politiche, economiche, religiose e sociali; la sua attuabilità è, comunque, demandata alla capacità dei singoli Stati alleati di armarsi e di difendersi. Negli anni novanta la sicurezza da concetto nazionale diventa un concetto collettivo che riguarda cioè gli individui di un’area geografica o di una coalizione. Viene superata la prospettiva meramente nazionale e il concetto di sicurezza abbraccia gli interessi di una collettività internazionale per salvaguardarne la libertà, l’identità e il benessere14. Arnold Wolfers (1952), “National Security as an Ambiguous symbol”, in Political Science Quarterly, n. 67. 13 Tra questi studi ricordiamo: P. G. Bock and M. Berkowitz [1966], “The Emerging Filed of National Security”, in World Politics, n. 19; Frank N. Trager and Philip S. Kronenberg [1973], National Security and American Society; Thoery, Process and Policy, Laurence, KS. 14 Per una ipotesi di calcolo del valore della sicurezza vedi: Catia Eliana Gentilucci, Le forme multifunzionali della sicurezza globale, Capitolo 5, Indicatori e costi delle missioni militari. Cfr.: O. Wæver (1995), “Securitization and Desecuritization”, in R.D. Lipschutz, On Security, Columbia University Press, New York; anche: B. Buzan (1991), People, State and Fear. An Agenda for International Security Studies in the post- 25 Alla fine degli anni novanta, con l’affermazione della globalizzazione dei mercati, la sicurezza assume un’accezione omnicomprensiva che riguarda l’intero globo. In questa ampia accezione la sicurezza diviene un concetto relativo, ancor più generale, che non è: né statico né univoco. Non è statico nel senso che il suo contenuto concreto e la sua estensione dipendono dalla definizione degli interessi che si intende proteggere. Questi ultimi variano a seconda del contesto interno e internazionale15. Tale ampliamento richiede la ricerca di un più preciso contenuto oggettivo16. Questa esigenza nasce dal fatto che la sicurezza viene tendenzialmente indicata come un concetto che comprende i valori di libertà civile e di pace. Tra questi valori dobbiamo considerare il rispetto dei diritti umani, il controllo dell’inquinamento, del traffico di stupefacenti e delle armi, la salvaguardia della salute e del benessere, la lotta alla criminalità e all’ingiustizia sociale. La sicurezza implica, inoltre, anche il riconoscimento di quei valori sociali che fanno parte della struttura socio-economica di un paese e che raccontano la storia della società, le sue credenze e le sue tradizioni. Questi valori, facendo parte del patrimonio culturale, assicurano modelli che mirano alla stabilità del contesto sociale locale, pur in una situazione politica ed economica in continuo cambiamento. La globalizzazione ha dato l’opportunità alle economie avanzate di sfruttare nuove possibilità che hanno permesso di ampliare la disponibilità delle risorse produttive grazie alla Cold War Era, Boulder, CO. 15 Cfr: C. Jean (2007), Geopolitica, sicurezza e strategia, Franco Angeli, Milano. 16 Cfr.: Buzan, op. cit.; S. M. Walt, “The Renaissance of Security Studies”, in International Studies Quarterly, n. 35. 26 crescente interdipendenza dei mercati internazionali. Anche in un contesto globalizzato i fattori che giocano il ruolo più rilevante per lo sviluppo sono il progresso tecnico e scientifico, il miglioramento delle risorse umane e la facilità di interazione e di scambio tra mercati17. Sotto questo aspetto la sicurezza può essere intesa come quella situazione nella quale gli individui sono nella condizione di poter migliorare il proprio capitale sociale18. Cioè nella condizione di migliorare la propria posizione nella società, ampliando o diversificando le reti relazionali interpersonali e con le istituzioni pubbliche e private. L’identificazione del concetto di sicurezza in quelle azioni che migliorano il capitale sociale e l’integrazione dei mercati 17 Cfr.: V. D. Cha, ( 2000), “Globalization and the Study of International Security”, in Journal of Peace Research, vol. 37/3, pp. 391-403. 18 Tra gli autori che per si sono occupati del capitale sociale ricordiamo L. J. Hanifan (1920), The Community Center, Burdette and Co., Boston. Secondo Hanifan deve intendersi per capitale sociale quei beni intangibili (come la buona volontà, il cameratismo, la simpatia, le relazioni sociali e familiari) che sono alla base di una comunità e che rappresentano un valore intrinseco della stessa comunità. Le teorie che si sono occupate del capitale sociale possono essere distinte a seconda che seguano un approccio individualista, olista o relazionale. Il primo paradigma percepisce il capitale sociale come una risorsa costituita da un insieme di relazioni che un individuo o un gruppo, può usare per i propri interessi. In questo caso il capitale sociale è come una varietà di differenti entità che facilitano le azioni degli individui che si trovano in una data struttura sociale. Il secondo paradigma concepisce il capitale sociale come legame tra individui all’interno di una società e che consiste nelle norme e nei valori che promuovono un comportamento cooperativo fra individui e gruppi sociali. Infine il paradigma relazionale concepisce il capitale sociale come particolare qualità e configurazione delle reti di relazione che alimentano e rendono sinergiche le opportunità di vita delle persone coinvolte. (Cfr.: G. Rossi, “Il capitale sociale”, in www.action.org/ital/publicat). Cfr.: F. Fukuyama (1999), “Social Capital and Civil Society”, in The Institute of Public Policy, n. 1.; J. Coleman (1988), “Social Capital in the Creation of Human Capital”, in American Journal of Sociology, vol. 94, pp. 95-120. 27 presenterebbe alcuni vantaggi poiché darebbe occasione di confronto tra tipi diversi di politica di sicurezza. In questa prospettiva si inserisce la definizione proposta da Jean secondo il quale: la sicurezza è il grado con cui un sistema – nelle sue varie componenti informative, decisionali, e operative – riesce a svolgere le funzioni che gli sono deputate in condizioni di rischio accettabili; in pratica come se il rischio non esistesse19. In sintesi possiamo affermare che la sicurezza globale è: quella situazione, che comprende anche la sicurezza collettiva, e che permette il normale svolgimento delle relazioni economiche, politiche e sociali. In una situazione di sicurezza globale, inoltre, è possibile il miglioramento del capitale sociale, che rappresenta il presupposto fondante del normale svolgimento della vita sociale e relazionale. In questo quadro le politiche di sicurezza rappresentano tutti quegli interventi di politica interna e di politica internazionale che permettono l’instaurarsi di una situazione fisiologica di sviluppo sociale e di auspicata crescita economica. Tra queste azioni si inseriscono quelle volte alla difesa nazionale, alla deterrenza e alla prevenzione. In sostanza, in un contesto globalizzato, la flessibilità delle reti relazionali internazionali deve essere garantita da un livello di sicurezza globale, che protegge il sistema da quelle minacce che possono destabilizzarlo. E’ ovvio attendersi che questi presupposti siano presenti in un contesto nel quale regna la pace. In un contesto, cioè, che non è sottoposto a minacce di origine umana dirette e 19 Cfr.: C. Jean (2005), Sicurezza: le nuove frontiere, Centro Studi di Geopolitica Economica, Franco Angeli, Milano, p. 61. 28 probabili, di qualsiasi genere (militare o terroristica), che possano procurare danni tangibili o intangibili (come la paura e l’incertezza) agli individui e alle infrastrutture. 4. L'economia etica e difesa Lo studio delle relazioni economiche non avviene necessariamente per scopi e motivazioni particolarmente elevati sotto l'aspetto etico. L'economia studia i modi attraverso i quali vi sia la ripartizione di risorse scarse tra obiettivi alternativi (sia a livello privato sia a livello pubblico) che permette la massimizzazione del benessere collettivo, qualsiasi sia il fine di questa ripartizione. Così, i giudizi morali non trovano un loro spazio nelle discipline economiche, ad oggi. La scienza economica dà allo studioso gli strumenti per capire i meccanismi del comportamento umano; stà poi a costui, e alla sua sensibilità, inserire nel ragionamento il rispetto dei valori sociali, senza però inficiare la correttezza della sua analisi. Ci può essere un ottimo studio, sotto il profilo scientifico, sui problemi economici della schiavitù anche se l'uso dello stesso verrà utilizzato per rafforzare questo istituto che è ripugnante alla coscienza sociale odierna. Così ci sono studi di carattere economico sulle spese che gli Stati affrontano per partecipare ai conflitti presenti negli scenari internazionali, anche se la coscienza comune vorrebbe la pace assoluta. La guerra è un evento imprescindibile dalla volontà dell'uomo è insito nell'evoluzione della storia delle società, caratterizza ed è conseguenza delle tradizioni storiche di ogni civiltà. Ogni 29 popolo ha i suoi conflitti armati; e nell'era dell'economia globale, come si sono aperti i mercati e fatte più intense le relazioni politiche tra Stati e persone, così gli eventi bellici sono diventati globali nel senso che i loro effetti si espandono anche nelle zone in cui non vi è conflitto, e non lo si vuole. E’ noto che l'Europa risente economicamente dei conflitti accesi nel sud-est del mondo anche se persegue obiettivi di pace. L'economista deve studiare le interconnessioni tra guerra ed economia anche se rifugge l'idea di conflitto. E' importante che lo studioso si sforzi di mettersi in una posizione neutrale rispetto ai temi che tratta ponendosi in un'ottica di positività. Cioè è necessario affrontare lo studio dei fatti concreti senza pregiudizi in modo da analizzare le conseguenze economiche dei fatti con mente aperta verso tutti i risultati che possono emergere dall'analisi stessa. In sostanza, nello studiare le conseguenze economiche dei conflitti, o dei costi dei conflitti, lo studioso non deve inficiare la sua analisi dal coinvolgimento emotivo rispetto all'azione armata. Se si vuole uno studio realistico delle conseguenze economiche della guerra è necessario porsi in modo asettico di fronte agli eventi da analizzare20. 20 Secondo alcuni autori, come F. Caffè, la Politica Economica che si occupa dell'intervento dello Stato nel sistema di mercato, deve essere rispondente, nei suoi precetti, alle linee guida all'azione governativa. I fini che persegue uno Stato, attraverso le sue azioni, sono tendenzialmente legate a una struttura culturale e storica. Un governo non può adottare linee politiche “impopolari”, ma preferirà seguire una condotta politica che sia accettata dalla collettività che rappresenta. Gioco forza che tali azioni debbano rispecchiare anche i principi etici di quella società. La politica economica, secondo questa prospettiva, appare dunque non come insieme di strumenti volti a raggiungere obiettivi alternativi, ma come complesso di azioni suggerite che risentono di una valutazione sociale etica e ideologica. 30 Metodologicamente, dunque, l'Economia della Difesa rientra nel quadro euristico che, avulso dai giudizi di valore, indaga sulla relazione tra spesa per la difesa e sviluppo economico, indipendentemente dalla natura etica degli obiettivi perseguiti dalla politica militare. I giudizi di valore sulla opportunità etica e morale di attuare specifiche politiche militari non devono rientrare nella analisi della Economia della Difesa perchè ne inficerebbero il risultato. Così, ad esempio, se le Nazioni Unite nel 2003 hanno considerato opportuno intervenire a Darfur, ma non in Iraq, ciò dipenderà da considerazioni di geopolitica che non rientrano in una riflessione di Economia della Difesa, che invece studia i modi attraverso i quali lo Stato può allocare le risorse nazionali in ambito e per fini militari di difesa o di stabilizzazione di aree a rischio. 5. Il mercato e lo scambio Nella società odierna i mezzi idonei all’appagamento dei bisogni sono ottenuti per mezzo dello scambio. In ogni società, infatti, il singolo individuo produce una gamma di prodotti più ristretta rispetto a quella necessaria per la sua sopravvivenza. Il mercato è il luogo in cui si svolge lo scambio di beni e servizi, e nel quale si verrà a istituire una trama di relazioni tra coloro che sono interessati ad esso. Nelle moderne economie di mercato lo scambio avviene attraverso l'incontro tra domanda e offerta di beni e servizi. La domanda viene espressa dagli individui per soddisfare i loro bisogni, mentre l'offerta viene effettuata dalle imprese che 31 producono e mettono sul mercato i beni domandati dagli individui. Lo scambio può essere un atto che si conclude in natura (il baratto) o un atto che si conclude dietro la corresponsione di un quantitativo di moneta, identificativo del prezzo del bene e servizio che viene domandato. A livello teorico il pagamento di una somma di denaro può essere considerato come un “baratto”, poiché la somma di denaro che viene spesa per acquistare beni e servizi può essere spesa per acquistare altri beni e servizi. Pertanto l’individuo nell’acquistare un bene o servizio rinuncerà all’acquisto degli altri beni e servizi che poteva acquistare con quella stessa somma di denaro. Idealmente l’individuo baratta ciò che poteva acquistare con ciò che effettivamente acquista. Sotto questo aspetto possiamo considerare il prezzo di un bene come il costo relativo della rinuncia dei beni che l'individuo poteva acquistare con la stessa somma di denaro. Non tutte le transazioni che si realizzano nei sistemi economici passano attraverso il mercato. La pubblica amministrazione non riscuote le sue entrate per questa via, ma per il tramite dell’imposizione fiscale. Il mercato, pertanto, non è il solo luogo in cui prende corpo materialmente l’interazione economica tra individui. Nelle moderne economie troviamo accanto al mercato tutta una serie di altre istituzioni economiche attraverso le quali i soggetti entrano in rapporto di interazione. Caratteristica fondamentale del mercato è che esso presuppone lo scambio volontario, uno scambio cioè dove non vi sono imposizioni di prezzo o di quantità. L'individuo è libero 32 di non acquistare il bene se il prezzo, o le sue caratteristiche, non rispondono al soddisfacimento dei suoi bisogni. Lo scambio volontario implica una serie di condizioni che sono presenti nell'economia capitalistica. Non basta la protezione legale e la garanzia della esecutività del contratto, deve esserci anche adeguata informazione sulle caratteristiche del bene e servizio che si compra. Una adeguata informazione permette di conoscere del bene che si vuole acquistare, e dei beni sostitutivi e complemetari, le caratteristiche merceologiche e il prezzo. In questo contesto se per beni esclusivi (che hanno pochi produttori), come un certo tipo di arma, raggiungere una adeguata informazione è abbastanza semplice, per altri beni di più comune scambio (scarpe) è praticamente impossibile che l’individuo riuscirà ad ottenere una perfetta informazione su tutte le tipologie di quel bene. I beni esclusivi non implicano però una situazione di mercato libero e concorrenziale (nel quale l’individuo è libero di ritirarsi dalla transazione se non la considera adeguata alle sue esigenze) poiché i beni esclusivi vengono prodotti da poche imprese e non trovano sufficienti analoghi sostituti nel mercato. Quel che è importante ricordare è che dietro a ciascuna economia di mercato vi sono secoli di lento sviluppo dei diritti di proprietà e di tutta una serie di istituzioni funzionali ad essa ed alla società in cui si svilupparono. In particolare è necessario che i soggetti che in essa operano aderiscano a un codice che sancisca quali comportamenti sono leciti e perciò ammissibili. 33 Senza l’adesione a un codice mercantile che affermi valori come quello dell’onestà e della fiducia nessun sistema di scambi volontari potrebbe a lungo durare. Un’economia di mercato libero e volontario non si può improvvisare. Ciò ci aiuta a comprendere le ragioni delle gravi difficoltà incontrate da quei paesi che sono sulla via di transizione da economie di comando a economie di mercato e le difficoltà incontrate dai paesi Occidentali nell’esportare il loro modello economico nelle zone di intervento militare dell’Asia Centrale. Questo tipo di forzatura ha ostacolato ancor più lo sviluppo di questi paesi poiché la libertà economica deve rispecchiare la cultura e il modo di essere degli individui di una nazione. Il capitalismo economico ha tempi di insediamento più lunghi di quelli della libertà politica, che passa attraverso la formazione, l’educazione e la cultura di un popolo. Pertanto non in tutti i sistemi lo scambio volontario rappresenta la soluzione migliore per una adeguata crescita economica. La sfida dei paesi Occidentali, che attraverso le operazioni fuori area hanno in animo di stabilizzare gli scenari internazionali che minacciano la sicurezza globale, è quella di saper indicare a questi paesi la strada, ritenuta migliore, da percorrere per istituire un livello di benessere sociale e economico nel rispetto dei loro bisogni e delle loro aspettative di sviluppo. Non avrebbe senso, ad esempio, portare loro la conoscenza informatica (fondamentale per la vita sociale dell'Occidente) se non gli si dà modo di percepirne l'importanza e la dimensione. La conoscenza tecnologica deve essere preceduta dalla conoscenza dei vantaggi che questa può portare al benessere sociale. 34 Per stabilizzare politicamente una società è importante dare gli strumenti atti a creare quel sistema di mercato che sia in linea con le tradizioni storico-culturali di quella società. In alcuni casi, ad esempio, se la moneta ha basso potere di scambio (a causa di squilibri monetari) è più opportuno istituire il baratto piuttosto che la vendita, cercando nel frattempo di intervenire sulle cause della iperinflazione e cercando di individuare la struttura legislativa che possa regolarizzare i rapporti economici tra gli individui. Il processo della democratizzazione e della pacificazione deve avvenire utilizzando gli strumenti di intervento istituzionalizzati in quei luoghi, che sono il risultato della storia e della cultura di quei luoghi21. La domanda e l’offerta Nel mercato, dunque, si svolge lo scambio tra chi domanda e chi offre beni e servizi. Colui che domanda è detto consumatore o acquirente ed è disposto a scambiare moneta per il bene di cui sente il bisogno del consumo (il suo obiettivo è quello di massimizzare il suo livello di utilità o soddisfazione); colui che offre il bene è l’impresa che affronta i costi di produzione per produrre il bene stesso e per ottenere in cambio un profitto (il suo obiettivo è quello di massimizzare il profitto). Si raggiunge una situazione di equilibrio quando tutto ciò che è offerto è anche domandato allo stesso prezzo, detto: prezzo di equilibrio. Nella situazione di equilibrio le imprese realizzano dei profitti normali, quelli cioè che coprono i costi di produzione (in altre 21 Vedi A. Margelletti in Soldati di pace in scenari operativi (op. cit.). 35 forme di mercato, dette imperfette, l’impresa può realizzare degli extraprofitti); e i consumatori ottengono il massimo livello di utilità possibile, dato il prezzo del bene domandato e il reddito loro disponibile. Nel formalizzare una situazione di equilibrio dobbiamo utilizzare la scheda di domanda e quella di offerta. La scheda che rappresenta la domanda è una funzione che mette in relazione la quantità domandata del bene con il suo prezzo. Se aumenta il prezzo di un bene la domanda, dello stesso bene, diminuirà; se, invece, diminuisce il prezzo del bene la sua domanda aumenterà22. Graficamente possiamo rappresentare la curva di domanda e di offerta nel seguente modo. Sull’ascissa del grafico indichiamo la quantità domandata dai consumatori di un bene x ai vari livello di prezzo; mentre, in ordinata indichiamo i livello del prezzo del bene x. Px Offerta Prezzo equilibrio Domanda Qd di equilibrio Qd 22 Quando la domanda del bene è caratterizzata da una relazione inversa tra prezzo e quantità (se aumenta l'uno diminuisce l'altra) si dice che il bene è “normale”. Se invece la relazione tra prezzo e quantità domandata è diretta si dice che il bene è un bene di Giffen. 36 La retta della domanda e dell’offerta sono la risultante di una equazione lineare che per la domanda sarà: Qd = a -bP; e che l’offerta sarà: Qs = a + bP. La quantità domandata (Qd = a -bP) del bene x dipenderà: - da una costante “a” che indica la quantità domandata nel caso in cui il prezzo sia pari a zero (“a” indica la massima quantità che l'individuo potrà domandare); - e dal prezzo del bene x (Px) moltiplicato una costante “-b” che descrive la relazione tra variazione del prezzo e variazione della quantità. Se -b fosse uguale a 4 significherebbe che al variare di una unità del prezzo la quantità domandata varierà in senso inverso di 4 unità. Così, se il prezzo aumenta di 1 Euro la quantità domandata diminuirà di 4 unità. Se per esempio la costante “a” fosse pari a 100 e il parametro “-b” fosse pari a 2 si avrebbe che: Qd = 100 – 2P. Mentre, la quantità offerta (Qs = a +bP.) del bene x dipenderà: - da una costante “a”, che indica la quantità offerta nel caso in cui il prezzo sia pari a zero (“a” indica la massima quantità che l’impresa potrà produrre); - e dal prezzo del bene x (Px) moltiplicato una costante “+b”, che descrive la relazione tra variazione del prezzo e variazione della quantità. Se “+b” fosse uguale a 4 significherebbe che al variare di una unità del prezzo la quantità offerta varierà di 4 unità. Cioè se il prezzo aumenta di 1 Euro la quantità prodotta aumenta di 4 unità. Se per esempio la costante “a” fosse pari a 50 e il parametro “+b” fosse pari a 2 si avrebbe che: Qs = 50+2P. 37 In equilibrio siccome la quantità domandata e uguale a quella offerta si avrà che Qd = Qs, quindi: 100 – 2P = 50 +2P; risolvendo: P= (-100+50) / 4 = 12,5 sostituendo P=12,5 nella equazione della domanda e in quella del prezzo verifico che la quantità di equilibrio è pari a 75. Cioè se il prezzo del bene x si attesta a 12,5 Euro nel mercato verrà domandata una quantità pari a 75 che corrisponde alla quantità offerta dalle imprese. Ogni volta che si realizza una situazione di equilibrio l’impresa massimizza il suo profitto (in questo caso vendendo 75 unità del bene x) e il consumatore massimizza la sua soddisfazione (in questo caso acquistando 75 unità del bene x). Graficamente avremo che: Px 50 Domanda Offerta 12,5 50 75 100 Qd La situazione di equilibrio è di più facile raggiungimento se il mercato opera in una situazione di concorrenza perfetta. I requisiti su cui si basa la concorrenza perfetta, però, sono poco vicini alla realtà, nel senso che non forniscono una descrizione soddisfacente della maggior parte dei mercati del 38 mondo reale. Le tipologie di mercato presenti nel contesto reale, infatti, sono dette imperfette e soddisfano solo alcuni dei requisiti della concorrenza perfetta. 39 CAPITOLO 2 Le forme di mercato 1. La concorrenza perfetta I requisiti che caratterizzano una situazione di concorrenza perfetta sono: esistenza di un rilevante numero di acquirenti; esistenza di un rilevante numero di venditori; la quantità del bene acquistata da qualsiasi acquirente o venduta da qualsiasi venditore è così esigua, in rapporto alla quantità complessiva scambiata, che le variazioni di quella quantità non influiscono sul livello del prezzo di mercato; le unità del bene vendute dai diversi venditori sono identiche, cioè il prodotto è omogeneo. La concorrenza perfetta è, in pratica, una situazione che si può verificare in mercati semplici, come quelli che si possono istituire in piccoli paesi, dove esistono piccole imprese artigianali che producono beni non particolarmente differenziati tra loro; e nei quali vi è un contatto diretto tra produttori e acquirenti, tale per cui questi ultimi hanno conoscenza della qualità dei beni e dei prezzi applicati dai produttori. La concorrenza perfetta è quella situazione caratterizzata dalla presenza di particolari presupposti che la rendono poco conciliabile con la realtà delle economie più avanzate. La concorrenza perfetta si distingue dalla concorrenza pura per la presenza in quest’ultima di ulteriori presupposti, anche se le due definizioni sono spesso usate come sinonimi. Nella concorrenza pura: vi è informazione perfetta nel senso che tutti gli acquirenti e tutti i venditori possono avere una conoscenza completa dei prezzi che sono domandati e offerti in tutte le altri parti del mercato; vi è perfetta libertà di entrata, 40 vale a dire che i nuovi venditori sono in grado di entrare nel mercato e di vendere i beni alle stesse condizioni dei venditori in essere; è assente ogni attrito economico, inclusi i costi di trasporto. Per la presenza di questi caratteri il mercato si adatta sollecitamente ai divari tra offerta e domanda, garantendo l’equilibrio di mercato. Nonostante la sua limitata rappresentatività della realtà la teoria della concorrenza perfetta è utile agli economisti perchè dà un criterio di confronto su come il mercato dovrebbe agire se non ci fossero imperfezioni. Possiamo considerare come forme di mercato imperfetto quei sistemi che non hanno alcuni caratteri della concorrenza perfetta, tra questi: il monopsonio, il monopolio, l'oligopolio e la concorrenza monopolistica. 2. Il monopolio, l’oligopolio, il monopsonio e la concorrenza monopolistica Il monopolio è quella situazione in cui esiste una sola impresa in grado di produrre una determinata merce o di fornire un servizio; quando le imprese in grado di produrre tale merce o servizio sono poche si parla di oligopolio le conseguenze sul mercato sono simili a quelle determinate dal monopolio: mancanza di concorrenza e quindi possibilità per chi produce di fissare il prezzo di vendita a propria discrezione. In genere, perché si stabilisca un monopolio devono verificarsi alcune condizioni: il controllo o la disponibilità esclusiva delle materie prime necessarie per fabbricare un determinato prodotto; la capacità tecnologica di effettuare determinate lavorazioni o di fornire un servizio a prezzi convenienti; il 41 controllo in esclusiva di un brevetto o di un sistema di lavorazione; l'assenso delle autorità. Norme antimonopolio sono oggi in vigore in quasi tutti gli stati; una particolare attenzione è dedicata all'attività dei cosiddetti mergers, in cui le aziende, di solito multinazionali, si organizzano attraverso forme di concentrazione 'verticali', ossia controllando tutto il ciclo produttivo (pozzi di petrolio, raffinerie, oleodotti, autocisterne, distributori di carburante), oppure 'orizzontale', con il controllo di altre aziende che operano nello stesso settore e che altrimenti sarebbero concorrenti. Nell’Unione Europea, è prevista l'esistenza di un Commissario alla concorrenza, che può emanare direttive per modificare in senso liberale eventuali leggi restrittive esistenti nei singoli paesi e controlla che di fatto non si instaurino situazioni di monopolio all'interno dell'Unione; effettua, inoltre, controlli anche su eventuali accordi tra produttori, che nel linguaggio economico prendono il nome di cartello, creati allo scopo di limitare la libera determinazione dei prezzi (ad esempio tra le nazioni produttrici di petrolio consociate nell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio o tra le aziende petrolifere per fissare un unico prezzo di riferimento del carburante, oppure tra le società di assicurazione per uniformare i costi delle polizze). In Italia è stato istituito un Ufficio del garante alla concorrenza, che ha il compito di controllare che non si verifichino casi di monopolio. Esistono tuttavia alcune attività che lo Stato decide di gestire in forma monopolistica, direttamente o attraverso aziende pubbliche: in questi casi, come anche in altri settori da poco liberalizzati e ancora in situazione di quasi-monopolio, ad esempio le trasmissioni radiotelevisive, le comunicazioni tele- 42 foniche, la fornitura di energia elettrica, si riteneva che il monopolio fosse necessario per tutelare il pubblico interesse, cioè l'interesse di tutti i cittadini a ricevere un servizio uguale per tutti e a un costo fissato in base a criteri politici (i cosiddetti prezzi amministrati) e non rapportato a criteri strettamente economici. L’oligopolio può essere definito come la forma di mercato caratterizzata dalla presenza di un numero ristretto di produttori e venditori di un determinato bene, o servizio, in grado di controllare una quota considerevole dell’offerta. L’impresa oligopolistica esercita un potere di controllo sul mercato ma questo è inferiore a quello che può avere il monopolista, mentre è superiore a quello che può esercitare una impresa in concorrenza perfetta. Ciascuna delle poche e di solito grandi imprese è in grado di influire direttamente o indirettamente attraverso la quantità venduta sul prezzo, ma tale influenza è condizionata dalle altre imprese concorrenti. L’oligopolio può essere concentrato (od omogeneo): il prodotto offerto è sostanzialmente identico (benzina, acciaio…) per cui non esiste alcuna ragione da parte dei richiedenti di preferire il prodotto di una certa impresa rispetto a quello di un’altra; oppure può essere differenziato: il prodotto offerto è simile ma non identico (automobili, computer, armi, ecc.), per cui le imprese fanno in modo di influenzare le conoscenze e le preferenze dei potenziali acquirenti attraverso una abile azione di differenziazione del prodotto e mediante il ricorso alla pubblicità. Diversamente da forme di mercato quali la concorrenza perfetta o il monopolio, non esiste un modello universale di oligopolio. Ciò è almeno in parte dovuto al fatto che le imprese che operano all'interno di un mercato oligopolistico hanno la possi- 43 bilità di adottare comportamenti di tipo strategico (ossia di effettuare le proprie decisioni di produzione o di prezzo) in funzione delle scelte effettuate dalle imprese concorrenti. Questa caratteristica dà adito a una maggiore varietà di possibili comportamenti, che si traduce nel gran numero di modelli di oligopolio proposti dalla teoria economica. Per dare una idea delle diverse e complesse strategie rilevate nei mercati oligopolistici è da notare che le imprese possono scegliere una delle seguenti strategie: farsi la guerra mediante una politica al ribasso sui prezzi o stabilire accordi, taciti od espliciti, ispirati al principio vivi e lascia vivere. In base a queste osservazioni si può comprendere perché gli economisti abbiano ritenuto valido ricercare nella teoria dei giochi la soluzione al comportamento strategico delle imprese oligopolistiche. I prezzi dei beni possono essere stabiliti in due modi diversi. Il primo, oligopolio collusivo, è più probabile quando le imprese possono identificarsi a vicenda e quando producono beni a alto contenuto tecnologico, come per i sistemi d’arma; o quando una impresa, essendo di dimensioni superiori ai concorrenti, può fissare i prezzi costringendo le altre a seguirla; tale collusione può essere tacita o esplicita (con la creazione di cartelli). Sarà più facile che le imprese colludano se ci sono le seguenti condizioni: ci sono poche imprese e si conoscono a vicenda; non ci sono segreti riguardo a costi e tecniche di produzione; le imprese hanno tecniche di produzione e costi medi simili e sono disposte a variare il prezzo nello stesso momento e nella stessa proporzione; le imprese producono beni simili e possono quindi accordarsi facilmente sul prezzo; c’è una impresa dominante; ci sono barrire all’entrata e quindi scarso 44 timore di concorrenza da parte di nuove imprese; il mercato è stabile, ovvero se i costi di produzione o la domanda dell’industria fossero altamente volatili, sarebbe difficile accordarsi, a causa della difficoltà di fare previsioni e per la necessità di rivedere frequentemente gli accordi; d’altra parte se il mercato è in declino, il problema può essere che ciascuna impresa è tentata di tagliare il proprio prezzo per mantenere il livello delle vendite; non ci sono leggi contrarie alle pratiche collusive. Il secondo, oligopolio non collusivo, presuppone la concorrenza con le altre imprese oligopolistiche: il prezzo viene fissato sulla base di ipotesi sul comportamento di queste ultime (come per i sistemi d’arma a bassa tecnologia dei quali possono esistere modelli diversi per la stessa arma). Nel considerare se rompere un accordo collusivo, anche se tacito, una impresa deve valutare quanto sia possibile ottenere, senza innescare una reazione da parte delle altre imprese; e se dovesse iniziare una guerra di prezzo quali possono essere le possibilità di vincerla. In sostanza si tratta di scegliere la strategia più appropriata che consente all'impresa di rendere il profitto più alto possibile. Naturalmente la strategia di una impresa non dovrà tenere conto soltanto del prezzo ma anche della pubblicità e dello sviluppo del prodotto. La scelta della strategia dipenderà sia dalle congetture dell’impresa circa le reazioni delle altre imprese, sia dalla sua disponibilità a rischiare. Il monopsonio è quella forma di mercato nella quale vi è un solo compratore. Nel caso dell’industria militare l’acquirente privilegiato è lo Stato. 45 La domanda di beni militari che lo Stato dirige verso l’industria militare23 dipende dal bisogno della sicurezza interna e globale. La produzione mondiale di beni e servizi destinati alle forze armate è estremamente concentrata (oligopolistica dal lato della produzione), al pari delle spese militari e delle esportazioni di armamenti che la finanziano. Al mondo esistono quattro poli industriali militari in cui si fabbrica più di del 90% dei sistemi d’arma e servizi per la difesa. Il primo per importanza economica, politica e capacità industriale, si trova negli Stati Uniti, il secondo è rappresentato dalle strutture produttive dei grandi paesi dell’Europa occidentale e del Giappone, il terzo è costituito dall’industria bellica ex sovietica ereditata dalla Russia, il quarto, infine, dal comparto bellico della macchina manifatturiera cinese. L’attuale struttura monopsonistica dell’industria militare (dovuta al fatto che il compratore privilegiato è lo Stato) ha origine dalla Guerra Fredda, quando la produzione di armamenti era fortemente nazionale e gli Stati spendevamo 23 L’industria militare (ovvero industria degli armamenti o dell’industria della difesa) non è definita come settore industriale a sè stante. Nella classificazione dell’attività economica le imprese che producono beni e servizi militari sono inserite in diversi comparti produttivi, come quelli ch fabbricano aerei e veicoli spaziali, sostanze chimiche, autoveicoli, equipaggiamenti da trasporto, armi e munizioni in generale. La definizione ufficiale della industria militare è quella proposta dal SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), secondo la quale si può considerare industria militare (o della difesa o degli armamenti) quella che è qualsiasi azienda produttrice di beni e servizi militari per acquirenti militari anche se produce beni civili e anche se la produzione di beni militari è meno rilevante di quella per fini civili. La definizione del SIPRI non è rigorosa, ma è un importante linea guida per individuare la produzione militare. Cfr.: C. Bonaiuti – D. Dameri – A. Lodovisi, L’industria militare e la Difesa Europa, Annuario Armi-Disarmo Giorgio La Pira, 2008. 46 molto (in riferimento al Pil nazionale) per avere disponibilità di armi con alti livelli tecnologici. Ciò ha creato forti barriere all’entrata del settore, per gli alti costi di produzione, ed ha determinato la creazione di poche grandi imprese nazionali produttrici di materiale militare. La concorrenza monopolistica è una forma di mercato molto diffusa nel commercio al minuto (nel settore della distribuzione alimentare, prodotti per la pulizia della casa, ecc.) e nel settore dei servizi (ristoranti, pizzerie, bar, ecc.). Si caratterizza per la presenza delle seguenti caratteristiche: molte imprese sono presenti nel mercato; i prodotti venduti dalle imprese sono differenziati. Esiste un elevato grado di sostituibilità tra i prodotti, tuttavia essi non sono sostituti perfetti; vi è la possibilità di entrare ed uscire liberamente dal mercato. Non vi sono cioè barriere all’ingresso legate alla marca del prodotto. Un mercato di concorrenza monopolistica è simile ad una industria in concorrenza perfetta poiché vi sono numerose imprese che sono libere di entrare ed uscire da essa. Nello stesso tempo, tale industria differisce dalla concorrenza perfetta poiché il prodotto è differenziato e ciascuna impresa vende un modello del prodotto che differisce da quello venduto dalle altre imprese nella qualità, nel packaging, nella reputazione di marca, nelle caratteristiche di prestazioni, ecc. Ciascuna impresa è il solo produttore di un particolare modello. Il grado di potere di monopolio di una impresa dipende dalla sua capacità di differenziare il prodotto da quello delle altre imprese. Maggiore è la sostituibilità dei prodotti, più elastica è la curva di domanda di ciascuna impresa, più basso è il suo potere di monopolio. 47 3. La Teoria dei Giochi: produzioni di armi e strategia militare La teoria dei giochi si basa sul concetto di equilibrio stabile, cioè sulla situazione in cui le forze che operano in direzioni opposte si controbilanciano, in modo tale che non vi è nessuna tendenza al cambiamento poiché la situazione che si è creata è la migliore per tutti coloro che sono coinvolti. Caso tipico di equilibrio è quello in cui il venditore e l'acquirente di un bene, che tendono l'uno ad alzare il prezzo e l'altro ad abbassarlo, si accorderanno per un livello di prezzo che mette d'accordo entrambi e che permette che tutto ciò che viene offerto dal venditore viene acquistato dal compratore. Come abbiamo visto, questa situazione è percepita come la migliore possibile poiché entrambi soddisfano pienamente il loro obiettivo presente: il venditore di vendere tutto ciò che ha prodotto e l'acquirente di soddisfare al massimo il bisogno che prova per quel bene. Il comportamento tenuto dal venditore e dall'acquirente, per addivenire alla situazione di equilibrio, può essere sintetizzato nella teoria dei giochi che prevede due situazioni fondamentali: quella di conflitto puro nella quale i guadagni conseguiti da una delle parti (giocatore) rappresentano le perdite dell'altro; quella di cooperazione nella quale i giocatori possono accordarsi (cooperare) al fine di accrescere il risultato complessivo per il quale concorrono24. Questo tipo di situazione strategica può essere utilmente rappresentato attraverso un albero di gioco formato da nodi di 24 Una situazione particolare della teoria dei giochi è il “gioco a somma zero” in cui le vincite e le perdite dei giocatori hanno per somma “zero” in ogni possibile scelta delle strategie. Cioè l'ammontare della vincita corrisponde all'ammontare della perdita. La particolarità di questa situazione è che i giocatori si trovano in una situazione di puro conflitto. 48 decisione, rami e nodi finali. I nodi di decisione rappresentano gli stadi del gioco in cui un giocatore è chiamato a prendere una decisione (il numero sopra il nodo indica il giocatore che in quello stadio del gioco è chiamato a giocare). I nodi finali rappresentano invece il termine del gioco e in essi sono indicati i payoff di entrambi i giocatori, dove il primo payoff è quello del giocatore che è chiamato a decidere per primo. I rami del gioco che originano da un certo nodo rappresentano le possibili azioni o mosse che il giocatore può intraprendere a partire da quel nodo. Si consideri, ad esempio, il seguente gioco (per semplicità) con due giocatori, 1 e 2. Il Giocatore 1 decide per primo, e può scegliere di giocare Alto (A) o Basso (B). Il Giocatore 2 osserva la decisione del Giocatore 1 e poi prende una decisione. Se 1 ha giocato A, allora 2 può decidere di giocare Destra (D) o Sinistra (S). Se invece 1 ha giocato B, allora 2 può giocare rosso (r) o blu (b). Si noti che abbiamo chiamato con lettere maiuscole e minuscole le azioni di 2 per evidenziare il fatto che sono azioni disponibili in nodi di decisione diversi. Alla fine del gioco i giocatori ricevono i payoff specificati nella sottostante. Ad esempio, se il Giocatore 1 gioca A e il Giocatore 2 gioca D, il primo giocatore prende 1, mentre il secondo giocatore prende 0. 49 1 A B 2 S (1,0) 2 D (0,2) r (3,1) b (2,0) Per trovare l’equilibrio del gioco si ragiona come segue. Quando il Giocatore 2 è chiamato a giocare, egli conosce l’azione intrapresa dal Giocatore 1, quindi sa di trovarsi o nel suo nodo di sinistra o nel suo nodo a destra della figura. Pertanto la scelta migliore del Giocatore 2 sarà D se prima 1 ha giocato A (confronta 2 con 0) e sarà r se 1 ha giocato B (confronta 1 con 0). D’altra parte, il Giocatore 1 sceglie per primo, ma sa che se gioca A si arriva al nodo di sinistra nel quale 2 giocherà D ed egli avrà un payoff pari a 0. Se, invece, gioca B, 2 giocherà r e prenderà 3. Segue che al Giocatore 1 converrà giocare B e l’equilibrio del gioco è dato dalla coppia di azioni (B,r) che corrisponde ai payoff (3,1). Il concetto di soluzione che è stato utilizzato per trovare l’equilibrio di un gioco in forma estesa è definito induzione a ritroso: si parte, infatti, trovando la decisione del giocatore che interviene a giocare per ultimo (che considera 50 data la decisione di chi lo ha preceduto) e si risale a ritroso fino al nodo della decisione iniziale. A quel punto, il primo giocatore sceglie la sua azione ottima tenendo conto della reazione del giocatore che lo segue. E’ possibile dimostrare che l’equilibrio trovato con induzione a ritroso è anche un equilibrio di Nash25. L’equilibrio di Nash può essere sinteticamente enunciato: data una situazione di equilibrio fra soggetti, ad esempio due venditori di uno stesso prodotto, un equilibrio di Nash ha la caratteristica che nessuno dei due concorrenti, data la strategia dell’altro, è in grado di fare di meglio. Una situazione che si verifica spesso in un mercato oligopolistico è la leadership del prezzo, per cui una delle imprese, generalmente la più innovativa o quella con maggior quota di mercato, stabilisce il prezzo del prodotto. Il suo comportamento, nel mantenimento o nella variazione del prezzo viene seguito di conseguenza dalle altre imprese del settore. Questo perché ogni impresa oligopolistica persegue un duplice obiettivo: conservare il proprio margine di profitto e salvaguardare la propria fetta di mercato. Ne deriva che in una situazione di questo tipo l’indagine è rivolta principalmente ad accertare le motivazioni economiche che spingono l’impresa leader a fissare il prezzo. E’ normale, ad esempio, che un incremento di qualche componente del costo di produzione indurrà l’impresa ad 25 John Forbes Nash Jr. (Bluefield, 13 giugno 1928) è un matematico ed economista statunitense. Tra i matematici più brillanti e originali del Novecento, Nash ha rivoluzionato l'economia con i suoi studi di matematica applicata alla "Teoria dei giochi", vincendo il premio Nobel per l'economia nel 1994. 51 aumentare il prezzo del prodotto finale per mantenere inalterato il proprio margine di profitto. Ma è pure possibile che l’impresa leader fissi un prezzo volutamente contenuto in modo da ostacolare l’ingresso di altre nuove imprese nel mercato. Un’altra teoria molto seguita è che il problema della determinazione del prezzo venga risolto dall’impresa oligopolistica con un metodo particolare; anziché massimizzare il profitto totale, l’impresa prefissa il profitto unitario che intende realizzare. Questo criterio è espresso dal principio del costo pieno, mediante il quale l’impresa calcola l’ammontare del costo variabile unitario e aggiunge un determinato valore percentuale, chiamato mark up, allo scopo di coprire i costi fissi di impianto e assicurarsi un certo margine di profitto. 52 In questa struttura di mercato oligopolista rientrano le industrie che producono sistemi d'arma come la Oto Melara26 e la FinMeccanica27 (nel cui gruppo oggi troviamo la Oto Melara). 26 Breve storia della Oto-Melara. La necessità dell'Italia di ridurre la sua dipendenza nel campo della siderurgia dall'industria estera portò nel 1905 alla fondazione della compagnia tramite una joint-venture tra la "Vickers" e le Acciaierie di Terni. La nuova compagnia denominata "Vickers Terni" impiantò un nuovo stabilimento a La Spezia, specializzato nella produzione di cannoni per artiglierie sia navali che terrestri. Dopo il completamento dell'impianto avvenuto nel 1908, la compagnia si è aggiudicata significativi contratti per la fornitura di cannoni per le navi della Regia Marina in costruzione. Durante la Prima guerra mondiale negli stabilimenti della compagnia vennero costruite mitragliere da 40mm cannoni da 381mm ed aerei e da addestramento. Nel successivo periodo post-bellico, l'azienda concentrò i suoi sforzi per convertire ad usi civili la sua produzione con la costruzione di motori a vapore e diesel, turbine, caldaie ed eliche per navi e materiale ferroviario. Nel 1922 la "Vickers" decise di mettere fine alla joint venture con le "Acciaierie di Terni" che rimasero unici proprietari della società. Nel 1929 le "Acciaierie di Terni" con i Cantieri Odero di Genova e Orlando di Livorno, si unirono per dare vita alla società "Odero-TerniOrlando" nome abbreviato in OTO. Nello stabilimento della Spezia venne anche impiantata una fonderia per aumentare ulteriormente le potenziale produttive per la costruzione di cannoni fino a 100 tonnellate di peso. Nel 1933 la OTO passa sotto il controllo dell' IRI, l'Istituto per la Ricostruzione Industriale. Intanto le tensione in Europa portarono ad un incremento della produzione militare, con la costruzione soprattutto di cannoni navali di grande calibro per le navi da battaglia e incrociatori pesanti e di medio calibro per gli incrociatori leggeri, mentre la crescente minaccia aerea portò allo sviluppo di un cannone da 76mm per la difesa delle unità di superficie e cannoni da 100mm e 120mm per i sommergibili. Al termine della Seconda guerra mondiale, nei primi anni del dopoguerra la produzione dell'azienda venne convertita sulla realizzazione di prodotti civili come trattori (Trattori OTO Melara) e telai. Il 19 aprile 1951 la società assume la denominazione Società Meccanica della Melara con sede a Roma e nel 1953 la denominazione "OTO 53 4. L’ Industria militare L’industria militare è l’insieme delle attività di produzione di armi, attrezzature e servizi militari, e delle relative operazioni di manutenzione, riparazione e riadattamento. L’industria degli armamenti non costituisce una voce autonoma delle attività produttive o degli scambi commerciali di prodotti industriali. Per cui i dati che la riguardano devono essere ottenuti con procedimenti indiretti come la somma degli scambi degli acquisti di armi da parte del Ministero della Difesa e delle Melara", dal nome del quartiere spezzino di Melara su cui sorge l'impianto. Dopo l'entrata dell'Italia nella NATO, la società riprese la produzione nel settore della difesa e nella seconda meta degli anni cinquanta la produzione del cannone navale 76/62mm MMI, per le navi della Marina Militare, sarebbe diventato uno dei più grandi successi nella storia della produzione OTO Melara. Nello stesso periodo la società ha iniziato a produrre, sotto licenza USA il VTT M113 e il Carro armato M60 e il carro armato Leopard 1 su licenza tedesca. Il 1° luglio 1975 la società passa dall'IRI all'EFIM. Nel 1994 in seguito alla liquidazione dell'EFIM e alla fusione con Breda Meccanica Bresciana, diventa Otobreda, divisione di Alenia Difesa. Dal 2001 l'azienda è controllata da Finmeccanica e fa parte del consorzio Iveco Fiat - Oto Melara S.c.a.r.l. 27 Finmeccanica è oggi, grazie agli accordi con BAE Systems, il secondo operatore europeo ed il sesto mondiale nel settore dell'Elettronica per la Difesa. Il nuovo raggruppamento si articola in SELEX Sensors and Airborne Systems e Galileo Avionica (rappresentate dal nuovo marchio SELEX Galileo) , SELEX Communications e SELEX Sistemi Integrati, attive rispettivamente nell'avionica, nelle comunicazioni militari e protette, nella gestione e controllo del traffico aereo. Ad esse si aggiungono ELSAG DATAMAT, che opera nella progettazione e produzione di sistemi, servizi e soluzioni per l'automazione, la sicurezza, i trasporti, la difesa, lo spazio e l'informatica e SELEX Service Management, fornitore di servizi integrati di comunicazione per la sicurezza militare e civile. Anche nei sistemi d'arma la Finmeccanica ha una leadership tecnologica riconosciuta e consolidata nella progettazione, sviluppo e produzione di sistemi missilistici, siluri, artiglieria navale e veicoli corazzati. La Finmeccanica opera nel settore sia con la joint venture MBDA, prima società europea nel campo dei sistemi missilistici, sia con società direttamente controllate Oto Melara e WASS, leader nei rispettivi campi di attività (vedi: www.finmeccanica.it). 54 esportazioni nette (esportazioni meno importazioni); o la somma dei fatturati militari, variamente stimati delle principali imprese con produzioni militari di una certa area o settore. Tra le principali caratteristiche dell’industria degli armamenti va ricordata la sua concentrazione in ristretto numero di paesi industriali. Tra questi solo Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania e Unione Sovietica sono in grado di produrre la gamma completa dei prodotti militari, mentre altri come l’Italia si avvicinano ma non sono del tutto indipendenti; infine vi è una terza fascia di paesi come Svizzera, Svezia e Austria che sono specializzati solo in alcune produzioni di eccellenza. L’esistenza di un settore degli armamenti presuppone quella di una vasta rete di settori che la riforniscano di mezzi di produzione e di componenti spesso assai sofisticate, cioè di una base produttiva molto sviluppata che può essere presente solo in paesi pienamente industrializzati. Inoltre nel corso degli anni Ottanta, in relazione alle continue tensioni nel Medio Oriente e al conflitto armato tra l’Iraq e l’Iran si è verificato un processo di trasferimento di mezzi di produzione, componenti e personale scientifico e tecnologico verso numerosi paesi di quell’area, quali l’Iran, l’Iraq e l’Egitto che sono riusciti a creare delle isole produttrici di armi nonché di vari tipi di missili. Per completezza vanno infine ricordate le industrie militari di Israele (dove la produzione si è sviluppata per motivi di sicurezza di quel paese); e del Giappone sostenuta da una domanda interna costituzionalmente vincolata a non superare l’1% del prodotto nazionale, ma ovviamente rilevante. L’industria militare giapponese è alimentata da un flusso di licenze e accordi di coproduzione con imprese statunitensi, ma si sta basando sempre più sull’eccezionale livello tecnologico 55 raggiunto dalle industrie elettroniche e delle comunicazioni di quel paese. Un secondo aspetto dell’industria militare è il suo grado notevole di concentrazione territoriale. In Italia, fino agli anni ’90, la gran parte di questa industria era concentrata in quattro regioni, Lombardia, Piemonte, Liguria e Lazio, e all’interno di queste zone era caratterizzata da produzioni specifiche: aerei a Torino; elicotteri e aerei a Varese; armi pesanti e leggere a Brescia; armi pesanti, altri veicoli e navi a La Spezia, equipaggiamenti elettronici a Roma e a Milano. In gran parte di questi casi l’economia della zone è dipesa dalle produzioni militari28. In terzo luogo l’industria militare si caratterizza per gli investimenti per l'alta tecnologica, sia nei settori tradizionali delle armi e dei mezzi di trasporto, sia quelli più moderni dell’aeronautica, delle telecomunicazioni e dell’elettronica. Invero il crescente ricorso a componenti ed equipaggiamenti elettronici incorporati in ogni sistema d’arma, dagli aerei ai carri armati e alle navi, rappresenta una delle più significative tendenze della tecnologia militare. Molte tecnologie aeronautiche, elettroniche e delle telecomunicazioni presentano una duplicità di usi (civili e militari) e poiché i governi sono tradizionalmente impegnati nel sostegno alle attività nazionali di ricerca e sviluppo, si pone un problema di coordinamento tra gli interventi indirizzati a questi due usi. 28 Cfr.: G. Gambarelli, Giochi competitivi e cooperativi per l’applicazione a problemi decisionali di matrice economica, 2003, Giappichelli; E. La Grasta, Le armi del Bel Paese. L’Italia e il commercio internazionale di armi, 2005, Ediesse; AA.VV., L’industria militare e la difesa Europea, Jaka Book, 2008; F. Degli Espositi, Le armi proprie. Spesa pubblica, politica militare, Unicopli, 2006. 56 Purtroppo tale coordinamento fa fatica a realizzarsi lasciando una barriera tra il progresso tecnico nell’area civile e quello nell’area militare. Ma i recenti progressi in tecnologie civili come quelle dell’elettronica e delle telecomunicazioni, unitamente ai costi sempre più alti della ricerca e sviluppo militare, stanno forzando la barriera e favorendo una crescente integrazione tra ricerca e sviluppo civile e militare. Gli alti costi della ricerca e sviluppo e i fenomeni delle economie di scala e del learning by doing che caratterizzano la corrispondente produzione spiegano una quarta caratteristica dell’industria militare: la presenza di imprese abbastanza grandi che operano in un sistema di mercato in concorrenza imperfetta nel quale lo Stato, nazionale o estero, è il consumatore; e nel quale accanto alle imprese di armi di grandi dimensioni si sviluppano imprese di medie e piccole dimensioni che producono parti di armi o di specifiche componenti o dei mezzi di produzione. Questo sistema di imprese satellite ha la particolarità di far abbassare i costi medi di produzione delle grandi imprese (delocalizzazione delle fasi di produzione). Tale caratteristica, unitamente alle scelte tendenzialmente protezionistiche nei confronti delle industrie militari attuate dai paesi della Nato, ha fatto si che solo negli Stati Uniti le dimensioni notevoli della domanda militare interna abbiano consentito il formarsi di una industria oligopolistica e in grado di effettuare vendite al governo a prezzi rispecchianti costi medi ridotti per effetto delle economie di scala e della crescente specializzazione dei processi produttivi associati alle vendite di grandi numeri. In Europa i protezionismi nazionali hanno invece portato a situazioni localmente monopolistiche con costi medi molto alti e con alti profitti dovuti ai sostenuti prezzi di vendita. 57 Le vie di uscita da questa situazione indicano altre due caratteristiche dell’industria militare. La forte spinta alle esportazioni verso i paesi del Terzo Mondo (che consentono una riduzione dei costi medi con immediati benefici per i bilanci nazionali della difesa); e la ricerca di collaborazioni internazionali che permettano di ripartire i costi e i rischi della ricerca e sviluppo e di garantire mercati più vasti. Altra caratteristica dell’industria militare riguarda il ruolo svolto dallo Stato nei suoi confronti. Le politiche seguite dai vari paesi della Nato sono state per lo più vicine al modello francese: intervento dello Stato al fine di determinare la struttura produttiva e proprietaria, spesso pubblica, protezionismo nazionale negli appalti e con vari tipi di sussidi per la ricerca e sviluppo, sostegno alle esportazioni di armi, ecc. Si noti che sia il trattato istitutivo della Cee (art. 223) sia il recente Atto unico escludono i prodotti militari dalle norme che stabiliscono l’unificazione economica europea. Questo modello, pertanto, porterà a una discrasia tra la produzione civile e quella militare, spesso connesse tra loro a livello nazionale, poiché la prima dovrà essere compatibile con il Trattato della Cee e con le norme previste con l’unificazione europea; mentre, la seconda potrà essere svincolata dalla normativa prevista in ambito europeo. Con la fine della Guerra Fredda, e con il venir meno dell’esigenza della produzione nazionale per motivi di sicurezza, e con l’apertura dei mercati avvenuta dagli anni ’90 alcuni studiosi avevano ipotizzato che anche l’industria degli armamenti avrebbe decentralizzato la sua produzione abbassando i costi (e le barriere all’entrata), creando una 58 maggiore concorrenza internazionale della produzione; ciò avrebbe verificato un cambiamento strutturale. In particolare vi è stata una internazionalizzazione delle industrie nazionali ma con gradi decisamente inferiori rispetto a quelli del comparto civile. Questo processo si è trasformato in una maggiore concentrazione delle industrie verso le strutture oligopolistiche multinazionali. Il ruolo dello Stato nella produzione è risultato ancora rilevante sia per la produzione e per il commercio, sia nel ruolo di principale acquirente. Il cambiamento avvenuto nella struttura produttiva dei sistemi d’arma ha riguardato, dunque, non un aumento della concorrenza, con conseguente riduzione dei costi di produzione, ma un aumento della concentrazione della produzione nelle industrie multinazionali, soprattutto statunitensi. Si è verificato dunque: un aumento del predominio statunitense nella produzione globale degli armamenti; un incremento della concentrazione nelle imprese maggiori produttrici di armi; un ulteriore aumento della dimensione delle maggiori impresi costruttrici di armi. In sostanza con la globalizzazione dei mercati e la internazionalizzazione della produzione la produzione di armi delle industrie medio-piccole è stata assorbita dalle multinazionali già presenti sul mercato che hanno così ampliato ulteriormente la loro dimensione. Ma la sfida più rilevante che l’industria militare deve vincere nell’era della globalizzazione è quella di dare una risposta nuova alle esigenze sorte dalle profonde trasformazioni sulla 59 percezione delle minacce alla sicurezza internazionale che, come è noto, è un concetto divenuto multiforme29. 5. L’industria militare in Italia30 Le imprese armiere che operano in Italia sono veramente italiane? Nell’era della globalizzazione, ha ancora senso parlare di impresa “nazionale”? La prima osservazione è che l’industria italiana delle armi è fortemente internazionalizzata. Appare ovvio che l’industria delle armi non esisterebbe in Italia se il cliente fosse esclusivamente rappresentato dalle forze armate italiane. Il grosso dei clienti sono le forze armate degli altri paesi. E’ realmente difficile trovare un esercito od una marina od un’aviazione che non abbia in dotazione un’arma italiana. Il secondo punto riguarda il fatto che le armi sono sempre più soggette al fenomeno della obsolescenza. Inoltre la ricerca in questo settore è sempre più costosa e sempre più difficilmente sopportabile in proprio da piccole imprese. Da qui sorge una crescente necessità di integrazione, soprattutto transnazionale, fra imprese dello stesso settore. Le forme di integrazione sono le più diverse. Si va dalla formazione di consorzi (es. MBDA) a vere e proprie fusioni aziendali (es. AgustaWestland). Certamente questa tendenza non è propriamente favorevole al sistema Italia, che vede da una parte allontanarsi dal proprio territorio i centri decisionali, 29 C. E. Gentilucci, Le forme multifunzionali della sicurezza...(op.cit.); C. Bonaiuti (2008), Industria militare e politiche europee: spunti di riflessione, in: Bonaiuti-Dameri-Lodovisi, L’industria militare e la difesa europea, Jaka Book. 30 Cfr.: L. Barbato, La produzione di Armi in Italia, Archivio Disarmo, 2008. 60 e dall’altra perdere quote non trascurabili, soprattutto in prospettiva, di posti di lavoro. Questa tendenza è in qualche modo facilitata dal fatto che in Italia esiste una legislazione, la legge 185/90, più restrittiva in materia di esportazione di armi convenzionali rispetto a molte altre legislazioni di paesi europei. Molte imprese di diritto italiano sono controllate da entità finanziarie od industriali estere. E’ il caso di Alcatel Alenia Space, MBDA, Avio, Simmel Difesa, Oerlikon Contraves (ora diventata Rheinmetall Italia); nel capitale sociale delle aziende italiane sono presenti quote importanti di entità straniere ( ad esempio Telespazio, Piaggio Aero, ecc). Un altro aspetto dell’internazionalizzazione dell’impresa italiana, riguarda la sempre più marcata delocalizzazione delle linee produttive. Sono numerose le aziende italiane che hanno vere e proprie società consociate che, spesso per conquistare nuove commesse, producono, attraverso società controllate, proprio in quei paesi che sono i loro maggiori clienti, soprattutto in Usa. In Italia non esiste nel settore nessuna public company. Solamente Finmeccanica è quotata in borsa. Il capitale flottante è pari al 67,55% del capitale sociale, e risulta detenuto dal pubblico indistinto italiano e da investitori istituzionali italiani ed esteri. Lo Stato italiano è il primo acquirente di armi del paese. Finmeccanica e Fincantieri sono la conferma che lo Stato ha ancora un ruolo economico diretto nel mercato per garantire lo sviluppo tecnologico, per acquisire imprese nel mondo e nel contempo fare utili. Infatti la positività dei bilanci, sia di Finmeccanica sia di Fincantieri a decorrere dal 2001, ha consentito riconoscimenti di dividendi significativi al Ministero dell’Economia. 61 Risultato straordinario, se si pensa che per decenni il ruolo di tale Ministero è stato quello di stanziare fondi di dotazione, di rimpolpare i capitali sociali delle maggiori aziende, di ripianare le perdite delle sue Società controllate. Comunque anche per Finmeccanica, e soprattutto per Fincantieri, gli assetti proprietari non sono ancora del tutto scontati. Per Finmeccanica si parla da qualche tempo di un progetto di restringere il core-business ai settori tecnologicamente più avanzati e più caratterizzati dal “dual use”, cioè elicotteristica, aeronautica, elettronica per la difesa/sicurezza e spazio. La Finmeccanica balza al settimo posto tra le principali aziende di armamenti nel mondo: con vendite per oltre 9,8 miliardi di dollari nel 2005, che segnano un incremento di oltre 2,67 miliardi di dollari (più 37,5%) rispetto al 2004, l'azienda italiana - controllata per il 32,3% dal Ministero dell'Economia e delle Finanze - scala in pochi anni la graduatoria delle principali ditte produttrici di armi (era decima nel 2003). La tabella del Sipri delle 100 principali aziende di armi segnala inoltre che nel 2005 quasi il 70% delle vendite di Finmeccanica sono rappresentate da armamenti. A questo vanno aggiunte le vendite, per oltre 4 miliardi di dollari, della MBDA, il consorzio missilistico compartecipato da Bae Systems, Eads e di cui Finmeccanica detiene una quota del 25% e che produce solo sistemi militari. 6. Disarmo e conversione del settore degli armamenti In senso generale le politiche della diversificazione e della conversione produttiva sono imperniate sul miglioramento dei risultati dinamici dell’economia nel suo complesso, rendendola molto più flessibile e capace di adattarsi ai cambiamenti nelle 62 condizioni di mercato. Esempi di politiche di questo tipo possono essere la liberalizzazione del commercio estero, lo sviluppo di infrastrutture, l’assistenza alle imprese di piccola dimensione o ai trasferimenti tecnologici. In questa tipologia di politica economica spesso è rientrato anche il dibattito sul disarmo, sulla sua opportunità e sugli effetti positivi che esso può avere per instaurare situazioni di pace e migliorare i rapporti internazionali. Posto che il nostro punto di vista esula dal considerare il disarmo un’azione, in sè per sé, atta a evitare conflitti, sembra importante verificare fino a che punto il disarmo può rientrare in una prospettiva di miglioramento dinamico dell’economia e quale atteggiamento, a livello internazionale, è stato assunto relativamente a questa politica economica. Tra la fine degli anni ’80 e la prima metà degli anni ’90 ha avuto luogo un processo di disarmo. La conseguente riduzione di risorse destinate a scopi militari e il riuso di queste risorse per la conversione del civile ha costretto i governi a misurarsi con una serie di problemi e con nuove potenzialità. L’idea comune, a sostanziale fondamento ideologico, è che il disarmo comporti rilevanti vantaggi socio economici. C’è stata l’attesa di una redistribuzione internazionale di risorse, il cosidetto “dividendo della pace”31. 31 Dopo enormi investimenti in risorse umane e monetarie a sostegno di decenni di guerra fredda si pensa, con la fine dell’URSS, di incassare un dividendo per la pace. In alcuni paesi la diminuzione delle spese per le forze armate fu realmente significativa, vale a dire per gli USA, la Germania appena unificata, la Gran Bretagna e la Spagna. Per quel che riguarda gli USA, la riduzione della spesa militare in termini monetari per il periodo 1983-1993 non è così elevata; occorre infatti considerare la variazione di spesa rispetto al PIL per si vedere un calo dell’1,5% nei primi anni novanta. Altri paesi non diminuirono in modo significativo le spese per il settore militare, fra questi Francia e Italia 63 La realtà ha dimostrato che il processo di conversione ha incontrato molti ostacoli32. La smilitarizzazione può avvenire in diversi modi: la riduzione degli armamenti, la riduzione della spesa militare, la smobilitazione delle forze armate, la chiusura di basi e siti produttivi. Le risorse economiche in precedenza impiegate a scopi militari possono essere usate in campi civili. Ma non tutto il potenziale di conversione è utilizzabile. L’aspetto più banale di questa considerazione è che spesso gli impianti per la produzione di armi sono ad alto costo di funzionamento e non sono totalmente convertibili nella produzione civile, per cui può essere conveniente dismetterli piuttosto che riadattarli ad altre produzioni. Alla produzione militare sono legati un certo ammontare di investimenti, affinchè la conversione abbia effetti positivi è necessario che gli investimenti liberati dal disarmo si rivolgano al settore civile. Inoltre, per far uscire dalla dipendenza militare le aziende o i distretti territoriali, si deve investire in ricerca e sviluppo, nel marketing, nella comunicazione e nella formazione. La conversione va, quindi, vista come un processo di investimenti con una predominanza di costi nel breve periodo, e probabili vantaggi a lungo termine. 32 Gianni Alioti, “Conversione da produzioni militari a civili: storia e prospettive”, in Bonaiuti-Dameri-Lodovisi, L’industria militare e la difesa Europea, Jaca Book, 2008, Milano. 64 7. Cenni storici sulla riconversione dell’industria militare italiana Storicamente la riconversione dell’industria militare sembra aver avuto successo quando alle politiche di disarmo si accompagnava un’espansione dell’economia, sostenuta anche da politiche keynesiane di investimenti pubblici sostitutivi di quelli civili, in modo che si potesse assorbire la disoccupazione che proveniva dal processo di riconversione dell’industria militare. La riconversione non è un processo economico semplice. Le industrie militari crescono, generalmente, operando al massimo dei costi e dei sussidi in un mercato sostanzialmente protetto. Elevato costo del lavoro, manodopera altamente specializzata per la particolare attenzione alla qualità del prodotto, tecnologie dedicate, una cultura manageriale dedicata al prodotto, e non al mercato, fanno dell’industria militare una struttura poco flessibile alla riconversione e alla concorrenza. E’ importante, quindi, che lo Stato intervenga per sostenere l’impiego della capacità produttiva non più utilizzata nella produzione militare quando il mercato civile non è in grado di assorbirla. La riconversione non ha avuto grande successo, almeno in Italia, ed è costata molto alla società in termini di diminuzione del livello della capacità produttiva impiegata. Le difficoltose vicende che hanno caratterizzato la vita della San Giorgio, della Oto Melara e dell’Ansaldo dal primo conflitto al secondo dopoguerra ripercorrono le fasi dello sviluppo dell’industria italiana e della riconversione dal militare al civile in Italia. 65 La politica coloniale seguita dall’Italia aveva sostenuto la domanda dei beni militari dando impulso alla crescita delle industrie a produzione militare. La San Giorgio, ad esempio, nata nel 1905 e specializzata in automobili, nel 1911 inizia a produrre strumenti di precisione per l’artiglieria. Nel 1917 la San Giorgio concentra la sua produzione, in collaborazione con la Piaggio e l’Ansaldo, nel settore dell’aeronautica militare. Finita la prima guerra mondiale la San Giorgio tenta di riconvertire nel civile la sua attività, ma incontra da un lato problemi di liquidità e la difficoltà di sostituire l’ingente domanda militare con domanda di prodotti civili. Maggiori, ma analoghi, problemi li ha incontrati l’Ansaldo, impresa di più grandi dimensioni. L’aspetto più delicato della riconversione è l’assorbimento della manodopera che prima era impiegata per la produzione militare. Spesso si sono resi necessari preganti interventi dello Stato, come quelli previsti nel piano dell’IRI degli anni Trenta. L’esperienza della riconversione avvenuta nei due dopoguerra ha dimostrato che è difficile per le imprese inserirsi con prodotti civili nel libero mercato affrontando anche la concorrenza internazionale33. Per quanto riguarda il periodo più vicino alla nostra realtà dopo una fase di blocco della produzione militare in Italia durata dal 1943 al 1948, dal 1949 al 1956 si assiste ad una ripresa del settore, in totale dipendenza della produzione offshore finanziata dagli Stati Uniti. Negli anni Ottanta si sviluppa una fase nella quale l’industria italiana raggiunge la sua massima espansione dal periodo del 33 Per un approfondimento dell’esperienza storica della riconversione vedi: Gianni Alioti, “Conversione da produzioni militari a civili: storia e prospettive”, in Bonaiuti-Dameri-Lodovisi, L’industria militare e la difesa Europea, Jaca Book, 2008, Milano. 66 dopoguerra ad oggi. In questa fase la presenza pubblica nell’industria militare italiana si rafforza con il controllo della totalità della cantieristica navale militare. Inizia un periodo di costante aumento delle spese militari e delle spese per armamenti. L’industria italiana sostenuta dalla domanda pubblica e dall’aumento dell’export, favorito da una azione permissiva, conosce un periodo di continua ascesa del suo trend. Negli anni Novanta l’industria militare italiana, come nel resto dei Paesi europei e del mondo, attraversa uno stato di crisi, determinato dal calo della domanda e della produzione determinando una eccedenza occupazionale. Ciò non ha, comunque, procurato un impatto sociale perché vi sono state adeguate misure di accompagnamento alla pensione e di ammortizzatori sociali, sia perché parte dell’occupazione militare è stata assorbita dalla produzione civile. 67 CAPITOLO 3 Il ruolo dello Stato nell’Economia 1. La teoria keynesiana John Maynard Keynes (Cambridge 1883-1946) è considerato uno dei più rappresentativi economisti del XX secolo. Con lo scoppio della prima guerra mondiale collabora al Ministero del Tesoro riguardo il finanziamento della guerra. Al termine del conflitto fa parte della delegazione inglese alla conferenza di pace di Versailles. In polemica con le sanzioni economiche imposte alla Germania si dimette dalla delegazione considerandole insostenibili per l'economia della Germania a rischio di grave recessione, su tale questione Keynes scriverà uno dei suoi famosi libri Le conseguenze economiche della pace. Negli anni '30 pubblicherà i suoi lavori più importanti che fonderanno una nuova visone dell'analisi economica, quella macroeconomica, tra i quali: Trattato della moneta e Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta. Nel 1940 viene nominato Consigliere del Cancelliere dello Scacchiere e torna ad interessarsi dei problemi di finanza di guerra. Con la fine della seconda guerra mondiale partecipa alla Conferenza di Bretton Woods. Dall'impostazione dell'analisi teorica di Keynes emerge l'influenza esercitata dalle principali vicende economiche di quel tempo. Il suo forte interesse per i problemi di carattere politico, fanno di Keynes un economista il cui mestiere si fonde con il suo impegno civile. Il suo obiettivo di studioso non era solo teorico (come per la maggior parte degli economisti di allora, che si occupavano di teorizzare leggi dell'economia che spiegavano come il sistema 68 avrebbe raggiunto situazioni di equilibrio senza preoccuparsi della loro congruenza con la realtà) ma anche pratico, nel senso che con la sua opera voleva contribuire all'affermazione ed allo sviluppo di un capitalismo nuovo e attento anche alle questioni redistributive e di equità sociale. I punti salienti e innovativi, per quel periodo storico, della sua analisi erano: il sistema economico tende verso situazioni di sottocupazione delle risorse; sono da considerare non attendibili le teorie che sostengono che il sistema economico è governato da leggi naturali che lo conducono, in modo spontaneo, verso situazioni di crescita e di sviluppo. Secondo Keynes, invece, l'economia è soggetta a un andamento instabile che rallenta fortemente il percorso dello sviluppo, comportando disoccupazione e recessioni. Le sue idee sono state influenzate e rafforzate dalla crisi economica mondiale degli anni Trenta, che è costata all'economia mondiale milioni di disoccupati. Per Keynes bisognava ripensare al ruolo dello Stato nel sistema economico poiché, in caso di depressione, è il solo attore che ha gli strumenti per rilanciare e dare impulso all'economia attraverso la spesa pubblica. L'economista inglese inizia il suo ragionamento contrastando un fondamento della teoria economica di quel tempo, detta Legge di Say, secondo la quale l'offerta crea la propria domanda. Secondo tale teoria per sostenere la crescita è sufficiente che aumenti la produzione di beni e servizi; ciò, comportando un aumento della occupazione, determinerà un aumento anche della domanda degli stessi beni e servizi prodotti. Per Keynes, invece, è la domanda che crea la propria offerta, cioè è la domanda di beni di consumo e di investimenti che 69 stimola nuova produzione e un aumento del reddito nazionale. I comportamenti delle imprese e delle famiglie non sono interdipendenti, per cui anche se le imprese aumentano la loro produzione nulla garantisce che i beni poi vengano effettivamente domandati dai consumatori, potendo rimanere invenduti. Se, invece, aumenta la domanda di beni di consumo con maggiore certezza le imprese attente a realizzare sempre nuovi profitti tenderanno a produrre (e quindi a aumentare l'offerta di beni) ciò che viene domandato sul mercato. Questa impostazione teorica si basa sulla curva della domanda aggregata che abbiamo visto sopra e si sviluppa nella Teoria del Moltiplicatore del Reddito o keynesiano. Ipotizziamo un caso semplificato, in cui il sistema economico è chiuso ai rapporti con il resto del mondo e il settore pubblico è assente, in cui sono presenti solo due operatori: le famiglie che acquistano beni e servizi; e le imprese che investono. In questa semplice sistema l'equilibro macroeconomico si avrà quando Y = DA, cioè quando il prodotto nazionale uguaglia il livello della domanda aggregata. Riprendendo la funzione della DA, in una economia senza presenza l'intervento dello Stato e in assenza di relazioni internazionali, si avrà che: DA = C + I. Siccome la funzione del Consumo è: C = C0 + bY; allora: DA = (C0 + bY) + I. Abbiamo detto che in equilibrio si avrà che Y = DA, così: Y = (C0 + bY) + I. Pertanto il livello di equilibrio del Reddito Nazionale (Y) sarà: Y – bY = I + Co. Raccogliendo Y a fattor comune tra i termini a sinistra dell’uguale, si avrà: 70 (1-b) Y = I + Co. La variazione del reddito nazionale che assicura l'equilibrio tra domanda e offerta sarà espressa dalla seguente equazione che rappresenta la funzione del moltiplicatore del reddito: varY = (1/1-b) (I+Co). Secondo questa funzione se aumenta il Consumo o l'Investimento il Reddito Nazionale aumenterà in misura tanto maggiore quanto maggiore è la propensione al consumo delle famiglie. Se continuiamo nel nostro ragionamento possiamo complicare il sistema economico e inserire la spesa pubblica (G) (dobbiamo considerare anche l'imposizione fiscale (t) che per semplicità supponiamo essere una aliquota fissa del reddito) così l'equazione di equilibrio tra domanda e offerta macroeconomica sarà: varY = [1/(1-b)-t (I+Co+G)]. Per chiudere il nostro ragionamento dobbiamo inserire anche le relazione con il resto del mondo, cioè le esportazioni (E, domanda estera di beni nazionali) e le importazioni (M, domanda nazionale di beni stranieri); le importazioni sono una funzione del reddito nazionale (si importa tanto più quanto più alto è il reddito), pertanto avremmo che M=zY, dove z rappresenta la propensione marginale a importare (cioè la percentuale di reddito che viene spesa per domandare beni provenienti dall'estero)34 si avrà che l'equazione del moltiplicatore del reddito che esprime la condizione di equilibrio sarà: varY = [1/(1-b(1-t)+z)] *(I+Co+G+E-M). 34 Le importazioni determineranno un effetto negativo sul reddito nazionale poiché esprimono un aumento del reddito per il paese importatore. 71 Esempio del funzionamento del moltiplicatore del reddito: poniamo che in una economia il consumo sia C=0,8Y, che il livello degli investimenti delle imprese sia I=100, che la spesa pubblica sia G=80, che l'imposizione fiscale sia t=0,3; che le importazioni siano pari a: 70=0,3Y, e che le esportazioni siano M=80. La variazione del reddito nazionale sarà pari a: varY = [1/(1-0,8(1-0,3)+0,3)]*(100+80+70-80)= (1/0,74) * 170 = 1,35 * 170 = 229,7 La variazione del reddito nazionale dovuta a un livello della DA pari a 170 sarà dunque 229,7. La variazione del reddito nazionale sarà tanto maggiore quanto minore è l'imposizione fiscale (t) e la propensione marginale a importare (z) e tanto maggiore è la propensione marginale al consumo (b). Se in questo modello consideriamo la spesa pubblica come spesa militare possiamo osservare come un aumento di questa possa determinare un maggiore aumento del reddito nazionale. La spiegazione pratica dell’effetto moltiplicativo è la seguente: un aumento della spesa pubblica (G), ad esempio per ristrutturare le caserme, determina un aumento della occupazione di coloro che lavoreranno alla ristrutturazione (imprese edili civili) e determinerà un aumento della domanda dei beni necessari a realizzare la ristrutturazione stessa. Ciò causerà, oltre a un aumento della domanda dei prodotti edili (che si trasformerà in aumento della produzione di questi beni e della occupazione nei settori produttivi di riferimento), anche un aumento del reddito di coloro che lavorano alla ristrutturazione. Reddito che verrà speso per l’acquisto di 72 nuovi beni di consumo (abbigliamento, elettrodomestici, computer, libri..). Questa nuova domanda si trasformerà in sostegno alla produzione dei beni domandati e in nuovo reddito per coloro che producono i beni stessi. Reddito che verrà nuovamente speso per l’acquisto di altri beni di consumo, e così via. La spesa iniziale affrontata dallo Stato per la ristrutturazione delle caserme determina, pertanto, non solo l’aumento della produzione e degli stipendi dell’indotto, ma anche la produzione e gli stipendi di altri comparti produttivi. Tutto ciò garantisce che a fronte di un aumento della spesa pubblica pari a 100 si avrà un aumento del reddito nazionale maggiore di 100. Questo effetto è tanto maggiore quanto più le famiglie utilizzeranno il nuovo reddito per il consumo, tanto più alta è la propensione al consumo e tanto meno la spesa per consumo sarà rivolta a beni importati. Dai dati sul consumo e sulla spesa militare per l'anno 2008 si è potuto osservare che la variazione del reddito nazionale dovuta alla spesa militare (varY) e la sua incidenza sul livello del reddito nazionale (%PIL) è la seguente: 73 Tabella 1. Incidenza della variazione del Reddito Nazionale sul Prodotto Interno Lordo nell'anno 2008 Dati in Euro Paesi Var Y Pil Miliardi % sul Pil Francia 14,6 2.098,7 0,7 Germania 18,6 2.863,8 0,65 Italia 5,8 1.535,5 0,38 Spagna 8,3 1.987,1 0,42 Gran Bretagna 14,2 2.498,4 0,57 Giappone 33,19 4.201,8 0,79 USA 41,3 4.543,2 0,91 2. Il keynesismo militare Per keynesismo militare si intende lo studio degli effetti che la spesa militare sortisce sull'economia nazionale. L'effetto più immediato è quello sulla domanda nazionale. Una maggiore spesa militare determina un aumento della domanda di beni e servizi da parte del settore pubblico; infatti, solo una parte del budget della difesa è destinata all'acquisto di armi, per mantenere l'apparato militare è necessario destinare risorse anche a voci come infrastrutture, manutenzione, pasti, alloggi e così via. L’aumento della domanda per la difesa innesca un processo moltiplicativo della crescita del reddito nazionale e sostiene l'occupazione, in quanto il mantenimento dell'apparato militare richiede anche l'impiego di personale civile. 74 Alcuni considerano l'arruolamento una opportunità per uscire da una situazione di disoccupazione, soprattutto per le fasce meno qualificate professionalmente. Dunque, è abbastanza ovvio considerare che la spesa militare possa fungere da politica anticiclica, volta cioè a contrastare situazioni di crisi. Ma la spesa militare presenta anche degli effetti negativi per lo sviluppo economico. Le politiche anticicliche sono la causa di un tendenziale aumento dei prezzi. Le politiche anticicliche sono state impiegate, nel periodo della programmazione economica (fino agli anni '80); ma dagli anni Novanta, le spinte inflazionistiche provenienti dall'aumento del prezzo delle materie prime importate, hanno limitato questo tipo di intervento di politica economica nel nostro paese. Per non creare inflazione, la spesa militare dovrebbe essere finanziata con debito pubblico, con tagli alle altre spese dello Stato o con un aumento della tassazione35. Prima della moneta unica europea era possibile da parte del Governo di un nazione far emettere nuova moneta e finanziare, attraverso questo canale, la spesa militare; ciò, però, aveva il difetto di innescare un processo inflazionistico, a volte recrudescente. Ogni manovra macroeconomica di sostegno alla spesa militare deve, quindi, essere valutata attentamente poiché se 35 Queste manovre a loro volta però hanno un rovescio della medaglia procurando effetti che contengono l’aumento del Reddito Nazionale: il finanziamento con debito pubblico causerà un aumento del tasso di interesse e una riduzione degli investimenti privati che causerà, appunto, una riduzione del reddito nazionale (detto anche effetto spiazzamento); i tagli alla spesa pubblica ridurranno la domanda nazionale di beni e servizi, contenendo l’effetto moltiplicativo sul reddito nazionale (vedi più avanti il moltiplicatore keynesiano); infine, l’aumento della tassazione oltre a essere una manovra impopolare per l’opinione pubblica, riduce la domanda di consumo delle famiglie determinando effetti di contenimento del livello della produzione e della occupazione. 75 da un lato può essere positiva per lo sviluppo, dall'altro i modi attraverso cui viene finanziata possono portare a risultati opposti nel lungo periodo. Inoltre, oggi, con la moneta unica, le economie nazionali devono controllare l'aumento dei prezzi per mantenere competitivi i loro prodotti nel mercato internazionale. Ma, al di là del risultato netto sulla crescita del reddito, tra gli effetti positivi dell’aumento della spesa militare e l’effetto negativo che essa può scaturire dal suo finanziamento, la difesa produce il bene pubblico della sicurezza, che solo lo Stato può realizzare. Abbiamo visto che un ulteriore ambito in cui si possono osservare gli effetti della spesa militare, è quello dell'apparato industriale non solo per gli effetti di sostegno alla occupazione ma anche per lo stimolo alla Ricerca e Sviluppo nelle stesse industrie militari, e di conseguenza, nella produzione civile. La critica più frequente che viene mossa ai governi con elevata spesa militare è quella derivante dalla corrente di pensiero detta del Keynesismo militare, secondo la quale la spesa per la difesa distrae risorse nazionali a favore della difesa, trascurando altre forme di spesa sociale. La spesa militare viene indicata con il termine warfare State per contrapporlo, impropriamente, al welfare State. In realtà la spesa militare, siccome è produttrice di difesa e sicurezza, deve rientrare a pieno titolo nel welfare state perché difesa e sicurezza sono importanti per garantire il normale svolgimento delle relazioni socio-economiche e il conseguente sviluppo economico. Come sostiene J. O'Connor36 la spesa militare, e la spesa assistenziale, hanno importanti risvolti per lo sviluppo 36 J. O'Connor, La crisi fiscale dello Stato, Einaudi, 1977. 76 capitalistico: il welfare assorbe la parte di capitale eccedente che non trova sbocchi all'interno e che potrebbe creare crisi di sottoconsumo; mentre il warfare può fungere da manovra di sostegno per l'impiego della manodopera eccedente, mantenendo la domanda a un livello adeguato. Secondo i sostenitori del keynesismo militare una spesa pubblica sbilanciata verso il settore militare può comportare delle conseguenze nel tessuto sociale: nel lungo periodo si legittimerebbe la produzione di armi e, quindi, il loro impiego affievolendo lo spirito sociale del pacifismo; comporterebbe il rafforzamento delle industrie degli armamenti che tendenzialmente hanno struttura oligopolistica e che potrebbero modificare il comportamento concorrenziale del libero mercato della struttura produttiva; in aggiunta, una eccessiva importanza al warfare state potrebbe legittimare posizioni di potere dei vertici militari. E' giocoforza che la spesa militare svolga un ruolo importante nello sviluppo di un paese, se non altro perché i conflitti hanno costituito un fattore imprescindibile dello sviluppo capitalistico. Essa, inoltre, essendo conseguenza anche della politica economica di un paese, dipende dalle inclinazioni politiche della nazione e dalle sue ambizioni internazionali. Un paese come gli Stati Uniti che hanno voluto giocare il ruolo di attori dello scacchiere internazionale hanno utilizzato ampie risorse nazionali per avere un sistema militare all'avanguardia e efficiente, che fungesse da monito al mondo intero; e hanno creato situazioni che possono giustificare all'opinione pubblica mondiale la loro leadership (è opinione prevalente che tra questi comportamenti ci sia la guerra del Vietnam e la guerra contro l'Iraq). 77 Inoltre l'industria militare produce merci che se non utilizzate perdono il loro valore poiché subiscono un naturale processo di obsolescenza. I sostenitori del keynesismo militare utilizzano queste affermazioni per sostenere che le economie che hanno un comparto industriale militare devono promuovere una mentalità internazionale favorevole alle guerre in modo da vendere o da impiegare le armi depositate negli loro arsenali. Le critiche alla produzione di armi in realtà solo perlopiù di carattere politico-ideologico; sotto l'aspetto tecnico-economico la spesa per la difesa è per tutto paragonabile alla spesa per gli altri settori pubblici poiché, come più volte ribadito, il bene sicurezza e difesa determinano effetti positivi per il benessere sociale. Il sostegno all’industria militare, in termini economici, è paragonabile al sostegno dei comparti della produzione civile, come quello dei trasporti e delle infrastrutture in generale. Anche l'effetto moltiplicativo della spesa militare sul reddito nazionale ha gli stessi effetti della spesa per l'istruzione o la sanità. I pro e contro alla spesa della difesa ricadono, dunque, solo in considerazioni di carattere ideologico e politico che non devono rientrare in un discorso di economia della difesa, ma al limite in un ragionamento di geopolitica nel quale vengono presi in considerazione anche le reazioni degli altri paesi verso la politica degli armamenti seguita da una specifica nazione (pensiamo alle preoccupazioni internazionali della politica nucleare dell'Iran). Alla luce di queste considerazioni analizziamo gli effetti positivi che la spesa per la difesa può avere sulla crescita del reddito nazionale. 78 3. La curva della Domanda Aggregata La domanda aggregata (DA) è la quantità di beni di consumo e di investimenti che un sistema economico esprime. La DA è, in sostanza, la somma della domanda di beni e servizi proveniente dagli agenti del sistema macroeconomico (famiglie, imprese, Governo e resto del mondo). Ciascun settore, con i propri comportamenti, influisce sul livello della DA: le famiglie con i consumi (C); le imprese con i loro investimenti (I); il settore pubblico con la spesa pubblica (G) e con il prelievo fiscale (T); il resto del mondo con le esportazioni (E), che sono una componente positiva della domanda aggregata e con le importazioni (M) che sono, invece, una componente negativa. Così, nel sistema economico il livello della domanda aggregata è dato dalla somma delle sue componenti: DA=C+I +G+(E-M). Tra le variabili della DA non figura il prelievo fiscale perché viene computato nella funzione del consumo delle famiglie, che dipende dal reddito percepito al netto dell’imposizione fiscale; pertanto il reddito disponibile per il consumo sarà Yd=Y-T; e la funzione del consumo sarà: C=C0 + b (Yd) Dove C0 è il consumo di sussistenza, quello cioè indipendente dal reddito; e b è la propensione marginale al consumo, cioè la percentuale di reddito che le famiglie impiegano per il consumo (il complemento a 1 della propensione marginale al consumo è la propensione marginale al risparmio, poiché il 79 reddito che non viene consumato viene, per definizione, risparmiato). In questo modo si può costruire una catena di relazioni: il settore pubblico determina il livello di tassazione (T) e, quindi, il reddito disponibile (Yd=Y-T); questo, a sua volta, influisce sul consumo delle famiglie (C) e sul livello della domanda aggregata; anche, il settore pubblico attraverso la spesa pubblica (G) influenza il livello della DA. Considerando che in un sistema economico si ha equilibrio quando il Prodotto Nazionale (Y, che coincide con il Reddito Nazionale37) è uguale alla DA, (come dire che in macroeconomia si ha equilibrio quando ciò che viene prodotto viene anche domandato) si avrà che: Y=DA=C+I+G+(E-M). Questa relazione presenta però due caratteristiche che non le consentono di raggiungere in modo spontaneo l’equilibrio tra Y e DA: le decisioni di consumo e di spesa, relativamente alla DA, avvengono ex-post rispetto alle decisioni di produzione delle imprese (Y), per cui non necessariamente si avrà equilibrio tra offerta e domanda di beni; il livello della DA dipende dalle decisioni di spesa (C,I,G,E-M), che sono autonome rispetto al reddito Y. Anche se in questa sede non approfondiremo le componenti della Domanda Aggregata è importante sapere che: 37 Ciò che viene prodotto in un sistema economico (Prodotto Interno Lordo) può essere espresso in forma quantitativa (numero di beni prodotti da tutto il sistema economico in un certo arco di tempo) o in forma di valore (attraverso i prezzi). In quest’ultimo caso il valore di ciò che viene prodotto coincide con il livello del reddito nazionale poiché tale ammontare verrà distribuito tra coloro che sono intervenuta nella produzione nazionale di beni. Il reddito nazionale verrà pertanto distribuito tra salari, profitti e rendite. In questo contesto è gioco forza che esista una identità tra Prodotto nazionale (ciò che viene prodotto) e Reddito nazionale (il valore di ciò che viene prodotto). 80 l’Investimento dipende dalle aspettative del settore industriale relativamente all’andamento futuro della domanda dei beni e servizi (se le imprese hanno aspettative negative sul trend della domanda non aumenteranno i loro investimenti) e dal livello del tasso di interesse (se questo aumenta le imprese ridurranno i loro piani di investimento); la spesa pubblica dipende dalle decisioni di politica economica adottate dal governo; le relazioni con il resto del mondo dipendono dalle decisioni di scambio tra gli operatori di un paese con gli operatori degli altri paesi. Le esportazioni hanno un effetto positivo sul livello del reddito nazionale, poiché si traducono in domanda di beni di consumo interni; mentre le importazioni hanno un effetto negativo, poiché rappresentano domanda di beni esteri e rinuncia al consumo di beni nazionali. 4. La spesa pubblica per la difesa: il modello della Frontiera delle possibilità produttive Un problema rilevante del bene pubblico è la determinazione della quantità da produrre. Una soluzione viene proposta dall'economista Paul Samuelson secondo il quale: la somma delle utilità marginali degli individui derivanti dal consumo del bene pubblico deve essere uguale al suo costo marginale di produzione. Spieghiamo i passaggi che ci permettono di capire il senso di questa affermazione. Innanzi tutto immaginiamo di essere in un sistema economico che produce solo due categorie di beni (pubblici e privati) e che vi sia una data quantità di risorse produttive disponibili per la produzione, che possiamo identificare con un dato ammontare di reddito nazionale. 81 Per trovare una situazione di massima efficienza economica (nella quale tutte le risorse nazionali sono impiegate al minor costo possibile) dobbiamo individuare come le risorse nazionali possono essere impiegate per produrre la massima quantità di una categoria di beni, senza diminuire le altre categorie. Lo strumento utilizzato dagli economisti, a questo proposito, è la Frontiera delle Possibilità Produttive (FPP) che rappresenta una curva concava, verso l'origine degli assi, i cui punti indicano le allocazioni dette efficienti. Una allocazione efficiente è quella in cui non è possibile aumentare la quantità di uno dei due beni senza diminuire la quantità prodotta dell'altro bene. Questa situazione si potrà avere solo quando il sistema economico, per produrre una quantità, ha impiegato tutte le risorse produttive utilizzando al meglio la tecnica di produzione esistente. Bene Pubblico A * C * B D * * Bene Privato I punti sulla curva mostrano le combinazioni efficienti, poiché spostandosi dalla combinazione B alla combinazione A non 82 sarà possibile aumentare il bene pubblico senza ridurre al contempo quello privato. Le combinazioni di beni allocati sul contorno di una curva della FPP costituisce un limite ideale per una società, poiché presuppone che la produzione dei beni avvenga senza sprechi di risorse, al minimo costo di produzione e utilizzando tutte le risorse disponibili. In un sistema economico reale, invece, il livello di produzione si allocherà tendenzialmente sotto la curva della FPP (ad esempio il punto D che indica una situazione di sottoutilizzo delle risorse produttive e delle risorse umane) poiché la struttura produttiva e le decisioni di produzione, dei privati e del settore pubblico, non hanno quelle peculiarità (di flessibilità dei prezzi, di piena informazione, dello sfruttamento efficiente delle risorse) necessarie a raggiungere la massima quantità producibile dei beni privati e pubblici date le risorse nazionali. L'altezza della FPP dipende dal livello tecnologico, un miglioramento della tecnologia corrisponderà graficamente a un innalzamento della Frontiera (che passerà sulla combinazione di beni C) poiché, date le risorse produttive, se aumenta la produttività del lavoro e degli impianti aumenterà anche la quantità di beni producibili nel sistema economico. Ora proviamo a dare un maggiore dettaglio al nostro ragionamento. Data la distribuzione del reddito nazionale tra settore pubblico e privato; e, quindi, data la quantità di risorse nazionali disponibili per il settore pubblico distinguiamo come sia possibile distribuire tali risorse tra impieghi alternativi: ad esempio, tra difesa e altri impieghi. Poniamo che il sistema politico decida di destinare un ammontare di risorse per i beni pubblici (H), lo Stato avrà tante 83 alternative nel definire l’allocazione tra bene pubblico e bene privato quanti sono i punti ipotetici che compongono la curva della FPP. Per semplicità poniamo che lo Stato decida di distribuire le risorse tra pubblico e privato per realizzare l’allocazione H1. La scelta dello Stato di impiegare le risorse disponibili per un comparto pubblico piuttosto che per un altro (per la difesa piuttosto che per l'istruzione, per la sanità piuttosto che la viabilità, ecc.; nel nostro caso per il finanziamento delle spese militari (Gm) piuttosto che per il finanziamento degli altri beni pubblici (Gciv)) influenza la crescita economica, cioè la crescita del reddito nazionale. Il primo grafico rappresenta come può essere distribuito il reddito nazionale H tra i due impieghi (militare e civile). La retta a-b indica il vincolo di bilancio dello Stato (pari a: Gtot=Gm+Gciv); ogni punto della retta indica come lo Stato può impiegare le risorse nazionali tra beni militari e altri beni pubblici; ogni punto della retta corrisponderà pertanto a una spesa statale pari a H. I punti a e b indicano, invece, le due intercette della retta. Nel punto a lo Stato spende il reddito solo per la Difesa, mentre nel punto b lo Stato spende le risorse disponibili solo per produrre gli altri beni civili. I grafici a destra e sotto indicano le curve di DA dalle quali è possibile verificare il livello del reddito nazionale. Il grafico a destra indica il reddito nazionale (Y(d)) dovuto alla spesa militare; mentre, il grafico sotto indica il livello del reddito nazionale (Y(a)) che deriva dalla spesa pubblica per altri beni a uso civile. 84 Così per ogni allocazione delle risorse pubbliche (H) il reddito nazionale di equilibrio (Y=DA) calcolato secondo il moltiplicatore del reddito sarà Ytot=Y(d) + Y(a). Bene Difesa Bene Difesa DA=C+Difesa ●a H2 H1 ●b Altri Beni Y1(d) Y2(d) Reddito 1 Reddito 2 Y1(a) DA=C+Altri beni Y2(a) Altri Beni Immaginiamo che lo Stato decida di allocare le risorse come indicato nel punto H1 vedremo, dal grafico a destra, che il livello del reddito nazionale dovuto alla spesa militare sarà pari a Y1(d); e che il livello del reddito nazionale dovuto alla spesa per beni civili è pari a Y1(a); così che il Reddito Nazionale sarà pari a Ytot=Y1(d)+Y(a). 85 Se lo Stato dovesse decidere, invece, di allocare le risorse, come indicato dalla allocazione H2, vedremo che il reddito nazionale aumenterà relativamente nel settore difesa, mentre diminuirà nel settore degli altri beni pubblici. Anche in questo caso la somma dei due redditi indicherà il reddito nazionale complessivo (Ytot2= Y2(d) + Y2(a)). La differenza di reddito realizzata passando dalla allocazione H1 a quella H2 indicherà se lo Stato ha fatto una scelta ottimale per la crescita economica: seYtot2 è maggiore di Ytot1 lo Stato aumentando le risorse per la Difesa, e riducendole per gli altri settori pubblici, avrà fatto una scelta ottima perchè è aumentata la ricchezza e il benessere della collettività; se invece il Ytot2 è minore di Ytot1 allora la sua scelta non sarà stata efficiente almeno sotto il profilo della crescita economica. Le frecce dei due grafici indicano il path di crescita del reddito nazionale relativamente alla spesa militare e alla spesa per altri beni. Ma da quali fattori dipende la variazione del reddito nazionale relativamente alla variazione della spesa per la Difesa e per gli altri beni pubblici? Graficamente è intuitivo rispondere: dall'inclinazione della curva DA che dipende dalla propensione della collettività a spendere per il consumo). Se la collettività percepisce l'intervento a favore del sostegno della spesa militare positiva e rassicurante allora si sentirà incentivata a consumare, in questo modo l'effetto moltiplicativo sarà alto. Se, invece, la collettività percepisce un intervento dello Stato a favore della difesa come inopportuno, relativamente al momento storico o alla ideologia dominante, allora sorgerà una situazione di sfiducia verso la politica adottata dal governo e le relazioni economiche potranno rallentare. 86 E' noto, infatti, che se gli individui sono fiduciosi verso l'attività svolta dal governo saranno più propensi a spendere, stimolando l'economia; se, invece, gli individui non condividono le scelte del governo rallenteranno la loro attività aspettando di l'evolversi degli eventi. In questa prospettiva affermare che le spese militari sono alte o basse è vuoto di significato, poiché bisogna valutarne l'opportunità alla luce di quanto gli individui considerano importante il bene pubblico della sicurezza globale. Nel momento in cui la collettività percepisce la sicurezza come un bene necessario, perchè non sono certi della loro incolumità, allora saranno più predisposti verso politiche militariste, anche di sostegno alle missioni negli scenari fuori aerea. Far percepire alla collettività quanto sia importante la sicurezza (cioè rendere consapevole l'individuo che essa è un bene raro e prezioso, mentre spesso viene data per scontata) e quanto le Forze Armate possono fare per garantirla è un obiettivo che gli Stati Maggiori devono perseguire. Il modo più diretto per dare questo tipo di informazione è diffondere la conoscenza su quanto le Forze Armate siano importanti negli scenari operativi, qual è la loro missione, quali sforzi anche economici sono necessari per stabilizzare zone di crisi che possono pregiudicare l'equilibrio tra Occidente e Oriente del mondo38. 38 Sul concetto di sicurezza globale vedi: C.E. Gentilucci, Le forme multifunzionali della sicurezza...(op.cit.). Sulla nuova professionalità acquisita dalle forze armate nell'ultimo decennio e sull'importanza della “percezione” della sicurezza come bene raro, cfr.: C. E, Gentilucci, Soldati di pace in scenari operativi...(op.cit.). 87 CAPITOLO 4 Il contesto internazionale 1. La globalizzazione La globalizzazione può essere considerata un processo economico di integrazione dell'economia mondiale in un unico mercato, con conseguente superamento delle barriere nazionali. Conseguenza della globalizzazione è l'allargamento degli orizzonti culturali, sociali, di costume dello scenario mondiale; ciò, però, può creare tensioni e attriti a livello di politica internazionale se non si è pronti ad acquisire un processo di integrazione tra popoli; e modifica gli equilibri economici in atto dei paesi coinvolti dal processo di globalizzazione. Diverso è, invece, il processo della internazionalizzazione, che precede quello della globalizzazione, poiché ne pone le basi legislative e commerciali. A partire dalla fine della Guerra Fredda, la globalizzazione ha rappresentato il fenomeno più saliente del quadro economico internazionale e politico. Allo stesso tempo, però, la globalizzazione è stata grandemente esagerata, quanto a estensioni e significato; e male interpretata sia nelle discussioni pubbliche che nell'ambito professionale, dato che non ha ancora assunto i caratteri travolgenti come alcuni economisti vogliono far credere. Le politiche nazionali o territoriali, in sostanza, sembrano ancora essere le determinati principali del quadro economico. Per ora il mondo ha assistito a una crescente interdipendenza tra le economie nazionali e paradossalmente (come rilevato da 88 Vincent Cable del Royal Institute International Affairs)39 il maggior risultato economico del secondo dopoguerra è stato il ripristino del livello di integrazione economica che esisteva negli anni che precedettero la prima guerra mondiale. Negli anni Sessanta e Settanta, l’incremento degli scambi ha trasformato la scena economica internazionale. Verso la metà degli anni Ottanta, il mondo degli affari internazionali è stato rivoluzionato quando le multinazionali e l’investimento estero hanno cominciato ad avere un profondo impatto su quasi ogni aspetto dell’economia mondiale. L’espansione delle imprese multinazionali ha integrato le economie nazionali sempre più. Le multinazionali hanno aperto la strada alla internazionalizzazione sia dei servizi sia della produzione manifatturiera. Per gran parte della seconda metà del secolo scorso, la Guerra Fredda e le sue strutture di alleanza hanno fornito la cornice entro la quale l’economia funzionava. L'enfasi sull’interesse della sicurezza e la coesione dell’alleanza era il collante politico che teneva insieme l’economia mondiale e facilitava la messa in sordina di importanti differenze nazionali su questione economiche. Con la Guerra Fredda si era definita una stabile rete di alleanze internazionali che rendevano il sistema mondiale tutto sommato stabile; con la sua fine la leadership americana e la stretta cooperazione economica tra potenze capitaliste si indebolì. Nello stesso tempo il mondo, orientato alle politiche di mercato, si estendeva a mano a mano che i paesi ex comunisti e i paesi del Terzo Mondo divenivano più inclini a partecipare al sistema di mercato. 39 V. Cable, “The Diminished Nation-State: a Study in the Loss of Economic Power”, in What Future for the State?, 124, n.2 1995. 89 Tale evoluzione ha reso più impegnativo il compito di gestire il sistema economico globale ed ha annullato il precedente assetto politico. Sono cambiate le alleanze e la mancanza di una minaccia (seppur potenziale) ha reso vuote di significato le alleanze che disegnavano le relationship tra aree geografiche. Si sono in sostanza posti i fattori della destabilizzazione del contesto internazionale favorendo la comparsa di cellule terroristiche che hanno determinato, in questo secolo, una nuova minaccia subdola, aterritoriale, astatuale, più difficile da definire e da annientare. La globalizzazione economica ha comportato alcuni sviluppi decisivi nel commercio internazionale, nella finanza e nell'investimento estero diretto da parte delle imprese multinazionali. Il commercio internazionale è cresciuto più rapidamente del prodotto economico mondiale. Oltre alla grande espansione degli scambi di merci, anche il commercio dei servizi è aumentato in misura considerevole; con la diminuzione del costo del trasporto una varietà sempre maggiore di merci è apparsa sui mercati internazionali; con espansione del commercio mondiale la concorrenza internazionale è fortemente aumentata. Benchè i consumatori e i settori esportatori all'interno dei singoli paesi beneficiassero della crescente apertura, molte imprese si sono trovate a competere con imprese straniere che avevano migliorato l'efficienza. Durante gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, la concorrenza commerciale è diventata ancora più intensa a mano a mano che un numero crescente di economie in via di industrializzazione dell'Asia Orientale passavano dalla sostituzione delle importazioni a una strategia di crescita 90 guidata dalle esportazioni. Ciò ha innescato quello che oggi possiamo definire una silente colonizzazione della Repubblica Cinese nei gangli nevralgici dell'economia dei Paesi Occidentali40. L’espansione del commercio globale è inseparabile da una quantità di altri processi. Dopo la seconda guerra mondiale le barriere commerciali sono state abbassate in misura significativa. Durante la seconda metà del XX secolo i livelli tariffari degli Stati Uniti e degli altri paesi industrializzati sono calati da circa il 40 a solo il 6 per cento, e le barriere al commercio dei servizi sono state anch’esse fortemente ridotte. Per di più, dai tardi anni Settanta in poi, deregulation e privatizzazioni hanno ulteriormente aperto le economie nazionali alle importazioni. I progressi tecnologici nelle comunicazioni e nei trasporti hanno ridotto i costi e in tal modo incoraggiato significativamente l’espansione commerciale. Traendo vantaggio da queste trasformazioni economiche e tecnologiche, un numero sempre maggiore di imprese ha fatto il suo ingresso nei mercati internazionali. Ciò nondimeno, nonostante questi sviluppi, la gran parte degli scambi ha luogo fra Stati Uniti, Europa e Paesi Asiatici. Anche il mercato finanziario ha raggiunto una maggiore integrazione. L’investimento estero è aumentato ed è costituito 40 Una vecchia teoria, quella dei costi comparati di David Ricardo del 1817, può aiutarci a comprendere perchè il blocco asiatico cinese è diventato una minaccia per lo sviluppo economico dei Paesi Occidentali europei. La Cina sta soffocando lo sviluppo delle economie europee poiché il costo del lavoro cinese è bassissimo rispetto a quello europeo, inoltre la Cina ha acquisito una competenza tecnologica di altissimo livello. La sola strada di salvezza, insegna la teoria de costi comparati è quella di tornare ad una economia fondata sull'agricoltura ma questa rappresenta una alternativa poco sostenibile e proponibile per le economie occidentali. 91 da fondi presi a prestito. Questa rivoluzione finanziaria ha collegato le economie nazionali le une alle altre molto più strettamente e incrementato il capitale a disposizione per i paesi in via di sviluppo. Poiché molti di questi flussi finanziari sono altamente volatili e speculativi, la finanza internazionale è diventata l’aspetto più instabile dell’economia globale capitalistica. Gli effetti della integrazione finanziaria dei mercati sono controversi. Mentre per qualche autore la globalizzazione della finanza porterebbe maggior benefici del capitalismo, per altri autori il sistema finanziario internazionale sarebbe fuori controllo e soggetto a bolle speculative, i cui effetti possono manifestarsi nelle economie e nei mercati diversi da quelli in cui si sono manifestate le cause. Il mercato finanziario internazionale andrebbe, quindi, monitorato poiché tra le prossime minacce non è esclusa la cyber war41. Ciò apre un dilemma: in base ai principi del libero mercato si sostiene la globalizzazione come mezzo per lo sviluppo economico, ma proprio la globalizzazione che vede mercati, culture, economie diverse e in stretta interrelazione tra loro richiede un controllo per evitare forti perturbamenti economici. La globalizzazione è stata spinta da diversi fattori, tra cui: nuove tecnologie di trasporto che hanno determinato una forte caduta dei costi, specialmente nei viaggi transoceanici, aprendo la possibilità di un sistema di scambi globali; il computer e i progressi delle telecomunicazioni hanno aumentato i flussi finanziari globali. Di questi sviluppi ne hanno 41 L'Alleanza Atlantica auspica una forza di pronto intervento per respingere gli attacchi digitali. Tra le iniziative del 2008 era prevista l'istituzione di un centro operativo cyberwar in Estonia, al quale sarebbero stati coinvolta una task force europea: Italia, Germania, Lituania, Slovenia, Lettonia e Spagna contribuiranno al progetto. 92 goduto soprattutto le multinazionali che hanno imposto al mondo le loro strategie di carattere globale. La globalizzazione è stata anche un prodotto della cooperazione economica internazionale e delle nuove politiche economiche. Sotto la leadership americana, sie le economie industrializzate sia quelle in via di industrializzazione hanno adottato numerose iniziative per abbassare le barriere al commercio e all'investimento. Molti negoziati commerciali internazionali nell'ambito del GATT (General Agreement on Tariff and Trade), il principale foro per la liberalizzazione del commercio internazionale, hanno significativamente abbattuto le barriere commerciali. Durante l'ultimo decennio del XX secolo benchè gli Stati Uniti e le altre economie industrializzate ancora possiedano una parte preponderante della ricchezza e dell'industria del mondo, le economie in via di industrializzazione, in special modo la Cina, hanno accresciuto la propria importanza sul mercato mondiale in termini relativamente maggiori. Dall'inizio di questo secolo, superata la crisi del 1997 che prese avvio in Thailandia, il successo economico dell'Asia del Pacifico è impressionante: molte di queste economie conseguono tassi di crescita annua superiori al 6%-8%. E nonostante il susseguirsi di crisi finanziarie nei mercati mondiali, i “fondamentali” delle economie asiatiche sono stabili, come gli alti tassi di risparmio e il basso costo del lavoro. Ciò è indicativo del fatto che lo sviluppo di queste economie tenderà a schiacciare quello delle economie occidentali. 93 2. L'internazionalizzazione: alcune riflessioni Una voce ascoltata nella storia del pensiero economico e che ancora oggi rappresenta un importante punto di riferimento in materia di politica economica è quella di Federico Caffè, che nel 1983 sostiene: Appare insostenibile sul piano dell’analisi economica, che il capitalismo contemporaneo abbia bisogno degli armamenti per sopravvivere e, su un piano più limitato, che l’economia italiana abbia necessità di avvalersi del suo complesso industriale militare per attenuare le sue difficoltà sul piano produttivo e occupazionale42. Questa affermazione dà il via a una serie di considerazioni. Innanzitutto lo scenario geopolitico è profondamente mutato dagli anni ’80 è ovvio, pertanto, che la spesa militare oggi non deve essere vista fine a se stessa; non è più una spesa per gli armamenti ma una spesa volta a sostenere una serie di attività militari volte a istituire le condizioni di stabilità negli scenari di crisi internazionale. Inoltre, anche contestualizzando le affermazioni di Caffè nel suo periodo storico (della Guerra Fredda) è difficile pensare che un sistema capitalistico possa vivere e sopravvivere senza un piano militare serio e credibile verso i suoi potenziali nemici. Le spese per gli armamenti non rappresentano un inno alla guerra, ma hanno una valenza difensiva e di deterrenza. E’ risaputo, ormai, che per prepararsi alla difesa è necessario avere un bagaglio militare già pronto, non si può improvvisare una struttura militare al momento del bisogno. D’altro canto è errato ragionare sulla opportunità della spesa militare partendo dall’argomentazione che questa possa 42 Cfr.: F. Caffè, “Un grande economista italiano, Francesco Ferrara, sulla efficacia “delle militari istituzioni””, Il Mulino, 1983/2, pp. 326-329. 94 essere un antidoto alla disoccupazione. Quello che il sistema economico deve fare è decidere le politiche economiche da seguire per sostenere la crescita del benessere della collettività, in queste scelte ci sarà posto per l’istruzione, l’edilizia, la sanità, le politiche sociali e le politiche militari. Una volta definito, a livello politico, quale peso dare ai settori di intervento pubblico si potrà elaborare, sempre a livello politico, un piano di assorbimento della disoccupazione. La difesa militare risponde a un bisogno della società: svolgere la propria attività economica e le proprie relazioni sociali in un sistema di sicurezza pubblica e globale. E solo da questa considerazione che bisogna iniziare il ragionamento sull’ammontare delle risorse finanziarie da destinare al comparto militare. Più una nazione sentirà la necessità di essere protetta da potenziali attacchi esterni più sarà disposta a spendere per la difesa. Appare d’altra parte incongruo collegare i problemi del disarmo con quelli della fame nel mondo: questi ultimi, in quanto poggiano su squilibri demografici e concernenti la distribuzione della ricchezza e del reddito rimarrebbero scarsamente scalfiti da qualsiasi riduzione degli armamenti. 3. Le esportazioni di armi italiane Dopo la Guerra Fredda l’industria militare ha subito un cambiamento straordinario: da comparto esclusivamente nazionale si è assistito ad un’ondata di acquisizioni e di fusioni che ha dato origine a una tendenza sempre più diffusa alla internazionalizzazione della industria militare. In sostanza l’industria della difesa è stata soggetta a quel processo di 95 globalizzazione che ha caratterizzato il comparto industriale civile. La principale fonte statistica sulle esportazioni e importazioni dei sistemi d'arma italiani è la Relazione annuale che la Presidenza del Consiglio dei Ministri presentata ogni anno al Parlamento italiano: Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell'esportazione, importazione e transito dei materiale di armamento, nonché dell'esportazione e del transito dei prodotti ad alta tecnologia. Dalla Relazione del 2008 emerge che il contesto internazionale è caratterizzato da due fattori: la costante crescita delle spese militari mondiali; e l'aumento del commercio internazionale dei grandi sistemi d'arma. L'Italia si colloca al decimo posto tra i Paesi esportatori di sistemi d'arma fino al 2006, ma nei successivi anni un trend discendente sembra coinvolgerla43. Così ad esempio, dopo il preannunciato annullamento per Finmeccanica del programma VH-71, dei nuovi elicotteri presidenziali, il Pentagono riduce l’ordine di USAF/US Army per i cargo tattici C-27J da 78 a 38. Il programma C-27J costituisce un fiore all’occhiello per il gruppo italiano non solo per il successo di vendite in ambito NATO e internazionale (39 esemplari a clienti europei e 4 al Marocco) ma, soprattutto, per la fornitura alle forze armate USA. Come per il programma VH-71, anche la riduzione dei velivoli cargo dovrà essere confermata dal Congresso insieme 43 G. Beretta - F. Tirreni, “Le esportazioni di armi italiane”, in Le spese militari nel mondo: il costo della insicurezza, (a cura di) C. Bonaiuti – A. Lodovisi, Jaca Book, 2006. Per una prospettiva storica dell'industria militare vedi: F. Battistelli, Armi: nuovo modello di sviluppo? L'industria militare italiana, Einaudi, Torino, 1982. 96 ad altri 119 tagli ad altrettanti programmi militari operati dall’Amministrazione Obama44. Inoltre le esportazioni di armi italiane sembrano avere un mercato frammentato, caratterizzato da una serie di commesse che singolarmente sono di basso valore, ma che nel totale raggiunge una percentuale di rilievo che vede l'Italia, nel 2008, tra i primi dodici paesi esportatori di armi del mondo. I Paesi importatori delle armi italiane sono la Gran Bretagna, Spagna, Portogallo, Francia, Stati Uniti e la Norvegia. 4. Vantaggi competitivi della Difesa Le relazioni economiche tra Paesi avvengono solo se vi è un vantaggio, assoluto o relativo, per i paesi interessati dalle transazioni. Ossia ciò che considera un paese che entra in rapporti economici con altro paese è non solo il suo vantaggio diretto ma, anche, la dimensione del proprio guadagno relativamente al guadagno degli altri attori. Tra i guadagni che vengono computati in termini relativi ricordiamo: il tasso di cambio, la distribuzione dei proventi da investimenti esteri, i tassi di crescita economica relativi agli altri paesi e il livello di sicurezza e visibilità del paese sugli scenari internazionali. Il dibattito sui vantaggi assoluti e relativi è vecchio almeno quanto gli scritti economici del filosofo del XVIII secolo David Hume. Il dibattito moderno trova maggiori riferimenti nella tesi di Joseph Grieco, studioso americano di Istituzioni Internazionali, secondo cui i paesi sono più interessati ai vantaggi relativi (specialmente quelli legati alla difesa e alla 44 Analisi Difesa, 9 maggio 2009. 97 visibilità politica) che a quelli assoluti; ciò è causa delle difficoltà che si incontrano nella cooperazione internazionale poiché di difficile identificazione. L'importanza dei guadagni assoluti, rispetto a quelli relativi, per uno Stato è fortemente dipendente dalle circostanze in cui una scelta specifica avviene. Nelle fasi più acute della Guerra Fredda, per esempio, gli Stati Uniti favorivano l'unificazione economica dell'Europa Occidentale per ragioni politiche, nonostante i sacrifici dei propri interessi economici tale politica comportava. Kenneth Waltz ha notato che la consapevole decisione degli Stati Uniti, verso la fine degli anni Quaranta, di costruire la potenza dei suoi alleati europei a proprie spese fu un'azione storicamente senza precedenti45. Gli Stati sono particolarmente interessati alla distribuzione dei guadagni che influenzano il benessere interno, la ricchezza nazionale e la potenza militare. Quando uno stato confronta guadagni assoluti e relativi, la potenza militare è di gran lunga la variabile più importante. Gli stati sono riluttanti, ad esempio, a scambiare sicurezza militare con vantaggi economici. I moderni stati-nazione sono estremamente attenti alle conseguenze delle attività economiche internazionali per la distribuzione dei vantaggi economici. Una distribuzione ineguale di questi vantaggi cambierà inevitabilmente l'equilibrio internazionale, economico e militare, influenzando il livello della sicurezza globale. All'inizio del XXI secolo l'attenzione si concentra sulla distribuzione della potenza industriale, specialmente delle industrie high-tech. Anche perchè al livello tecnologico è 45 K. Waltz, Theory of International Politics, Reading, Addison-Wesley, 1979. 98 legata anche la produzione di sistemi d'arma, nell'ultimo decennio ha visto quali principali produttori i paesi asiatici e latinoamericani. Ciò ha provocato un significativo contraccolpo sulla competitività internazionale dei produttori occidentali di armamenti, e in particolare ha determinato un forte calo delle esportazioni delle aziende italiane. Uno dei temi dominanti nello studio dell’economia politica internazionale è il persistente conflitto tra la crescente interdipendenza dell’economia internazionale e il desiderio dei singoli stati di perseverare la propria indipendenza economica e l’autonomia politica. Nello stesso momento in cui cercano il beneficio del libero scambio, dell’investimento estero e simili, gli stati desiderano anche proteggere la loro autonomia politica, i valori culturali e le strutture sociali. Comunque, la logica del sistema di mercato è quella di espandersi geograficamente e di incorporare sempre nuovi aspetti all’interno dei meccanismi dei prezzi, rendendo così le questioni interne dipendenti da forze esterne alla società stessa. Il rischio è che nel tempo se si vorrà convivere con l’integrazione dell’economia mondiale, con l’intensificazione della pressione dei concorrenti esteri e con la necessità di raggiungere sempre maggiori livelli di efficienza, si dovrà modificare la struttura organizzativa sociale. Questo costo lo sta pagando l’Italia che, dall'inizio del XXI secolo, è soggetta alla integrazione dei mercati, alla pressione economica dei Paesi asiatici e alla continua immigrazione, anche clandestina. L’idea che l’Italia tra un decennio diverrà terra di confine tra Occidente e Oriente, perdendo i suoi tradizionali riferimenti 99 culturali e sociali, non è poi così utopistica alla luce di come viene gestito, dalla politica, il fenomeno della immigrazione e alla luce della relativa insicurezza dei nostri confini transfrontalieri. Del resto la considerazione che la globalizzazione economica e l’integrazione dei mercati nazionali possano minare l’autonomia politica, economica e culturale di una nazione è ormai diffusa. Mentre potenti forze di mercato scavalcano i confini nazionali e integrano le società, i governi spesso intervengono per restringere e incanalare le attività economiche nazionali al fine di assecondare gli interessi nazionali. Un Paese come l’Italia, ad esempio, se vuole riottenere la sua visibilità nello scenario economico e politico internazionale deve affiancare alla politica di sicurezza una politica commerciale protezionista verso le importazioni di quei Paesi che viaggiano su livelli competitivi per noi irraggiungibili. Poco importa se attraverso la Difesa si cerca di instaurare nel nostro territorio situazioni di sicurezza globale, tale per cui è possibile instaurare una linea di sviluppo economico, se poi l’apertura incontrollata dei mercati ponge la nostra economia sotto la pressione dei Paesi emergenti (come quelli asiatici). Una Economia della Difesa implica un intervento sul piano militare e su quello della politica internazionale. Una regolamentazione del commercio internazionale che impone alle merci importate gli stessi vincoli normativi applicati ai nostri prodotti dall’Europa, o in deroga l’applicazione dei dazi, rappresenterebbe un passo avanti per salvaguardare la nostra economia dall’invasione dei prodotti extracomunitari. Lo sfaldamento a cui è sottoposta l’economia italiana rappresenta una minaccia per la sicurezza interna del Paese perché la 100 disoccupazione e il malcontento sono fucina di risaputa instabilità interna. 5. La teoria dei costi comparati e successivi sviluppi: il caso Europa Cina La prima formulazione coerente di una teoria del commercio internazionale si può far risalire a David Ricardo (1817), padre della teoria dei vantaggi comparati. Questa teoria è basata sull’immobilità del lavoro (anche se questa ipotesi può sembrare poco attendibile nella realtà odierna, in realtà essa è applicabile nel caso delle imprese cinesi che pur operando in Europa impiegano solo lavoro cinese) e sulla perfetta mobilità interna. Secondo la teoria ricardiana due paesi (nel nostro caso immaginiamo Europa e Cina) commerciano tra loro solo nel caso in cui il lavoro impiegato nei rispettivi paesi registra un livello di produttività diverso. La teoria dei vantaggi comparati prende in esame un sistema internazionale caratterizzato dalla presenza di due Paesi che producono due prodotti X e Y utilizzando un solo fattore produttivo: il lavoro. Nel celebre esempio proposto da Ricardo, si considerano due Paesi- la Gran Bretagna ed il Portogallo - entrambi in grado di produrre due beni: la stoffa e il vino. Nel nostro esempio consideriamo, invece, l'Europa e la Cina. Le condizioni tecniche differenti sono riassunte nelle seguenti tabelle: Tab.1 Quantità di lavoro per unità di bene (in uomini/anno) X = vino Y= stoffa 101 EUROPA ax = 120 ay =100 CINA ax*=80 ay*=90 Tab.2 Vantaggi comparati vino/stoffa stoffa/vino EUROPA ax / ay = 1,20 ay / ax =0.83 CINA ax*/ ay*= 0.88 ay*/ ax*=1.125 Il lavoro necessario alla produzione di un'unità di merce (ax e ay) è diverso per ciascuna merce nei paesi e, per la stessa merce nei due paesi, è in relazione alle diverse condizioni che rendono un paese più adatto ad una produzione piuttosto che ad un'altra. I costi di produzione espressi in unità di lavoro sono, quindi, diversi. Se in uno dei due paesi i costi sono inferiori a quelli dell'altro, per entrambe le merci, questo gode di un vantaggio assoluto. Sarebbe conveniente, quindi, che le due merci venissero prodotte nel paese che le produce a costi minori, ma ciò richiederebbe il trasferimento di capitali e lavoro nel paese con vantaggio assoluto. Il modello di Ricardo non ammette la possibilità di movimento dei fattori produttivi bisogna, pertanto, considerare i vantaggi relativi. Dalla seconda tabella si evince che la Cina gode di un vantaggio assoluto in entrambe le produzioni, mentre l'Europa gode di un vantaggio comparato nel produrre la stoffa, piuttosto che il vino, rispetto alla Cina. Se i due paesi possono scambiare tra loro entrambe le merci, ognuno guadagnerà dalla specializzazione della produzione del bene per il quale ha il vantaggio comparato. Ciò, infatti, permetterà a ciascuno dei due paesi di consumare una maggiore quantità di beni. 102 Una formulazione più moderna della teoria dei costi comparati ci proviene da Enrico Barone che, nel 1908 in Principi di Economia Politica, introduce nel modello ricardiano la ragione di scambio tra i Paesi coinvolti, indicata nel grafico seguente dalla retta OV: Industria I Europa V A Cina Agricoltura Secondo Barone i Paesi che hanno un costo comparato inferiore alla OV, come i Paesi A, forniscono prodotti agricoli e ricevono prodotti manufatti. La ragione di scambio può oscillare per cause esterne all’economia. Se per esempio aumenta il costo del lavoro dell’industria i Paesi I (Europa) potranno scambiare sempre meno prodotti industriali con prodotti agricoli. E la ragione di scambio tenderà a innalzarsi fino a superare la retta I. Se, invece, il costo del lavoro diminuisce, come nel caso della Cina, la ragione di scambio favorirà l'esportazione di questo paese. Nel nostro grafico, la Cina si troverà al posto dell’Europa. Quest’ultima, vista la variazione dei costi comparati, importerà i prodotti industriali, che prima esportava. I cambiamenti, indotti dalla variazione delle ragioni di scambio, creano pertanto gravi e profondi turbamenti nel sistema economico. 103 Una soluzione a questo genere di turbamenti può essere una politica protezionista che limita l'esportazione dei beni più competitivi. Ciò è un esempio di come la politica liberista possa creare forti turbamenti e di come il protezionismo economico può essere considerato, a volte, una politica di stabilizzazione del sistema sociale ed economico.