30.11.2011 - La Voce del Popolo

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LA VOCE
DEL POPOLO
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De «traditione» et de controversiis philarmonicis
di Wilma Szatary
Gentilissimi,
la Filarmonica di Fiume ha festeggiato con un concerto sinfonico solenne il decimo anno della sua fondazione, ed altrettanta – purtroppo discontinua – attività. In tale circostanza il presidente Josipović, presente
all’evento, aveva rilevato come una realtà filarmonica
sottintenda la presenza di risorse professionali specializzate non meno che un pubblico preparato, e quindi in
grado di fruire di un’offerta musicale di tale tipo; elementi questi che caratterizzano una città come centro
culturale realmente urbano.
Naturalmente, anche prima della fondazione della
Filarmonica il capoluogo quarnerino coltivava una vivace e regolare attività sinfonica portata avanti dall’Orchestra dell’Opera. Come il pubblico dei veterani ricorderà, già nel secondo dopoguerra Boris Papandopulo
istituì ufficialmente un complesso filarmonico che operò
per qualche stagione e la cui azione musicale aveva carattere non solo cittadino, ma anche regionale. Infatti,
la gente, con linee appositamente organizzate, accorreva dall’Istria e dal Gorski kotar per seguire i sinfonici e
gli spettacoli d’opera. Era stata un’idea di Papandopulo (uomo di chiare visioni), naturalmente. Da copiare.
Erano tempi in cui si suonava per il “popolo”, e bisogna
riconoscere che, a differenza del capitalismo neoliberista che predilige l’uomo sottoculturalizzato, massificato
e ridimensiato (se possibile ai minimi termini), il socialismo “dal volto umano” portava avanti una sistematica
e regolare strategia di elevazione culturale delle “široke
narodne mase”. Forse per tenerlo lontano da indesiderate “tentazioni e richiami religiosi”. Cioè, la cultura (oggi il consumismo) come sostitutivo dell’”oppio
dei popoli”. Ma tant’è; le masse furono sensibilizzate in
senso più alto, e ne prendiamo atto.
La “missione” sinfonica fu ripresa negli anni ’60
dall’Orchestra dell’Opera, che (con qualche elemento di
rinforzo) per più di tre decenni ammanì, grazie ai maestri Benić e Hauptfeld, regolari stagioni sinfoniche con
sei concerti annui mensilmente cadenzati. Il repertorio
comprendeva i capolavori della grande musica sinfonica
ottocentesca, ma pure il classicismo e il Novecento, con
sul podio i due citati maestri, ma anche grandi direttori e ospiti (Papandopulo, Danon, Šajnović, Dešpalj..) e
concertisti di fama nazionale ed internazionale che decantarono abbondantemente l’esaltante bellezza di tante
pagine immortali. Le esecuzioni del virtuosistico “Don
Giovanni” di Strauss, la Seconda Sinfonia di Bruckner,
“L’uccello di fuoco” di Stravinski furono alcune delle
esecuzioni memorabili che contribuirono a dilatare la
resa esecutiva e i gusti del pubblico. Oltre a ciò, l’Orchestra del Teatro proponeva regolarmente il repertorio
oratoriale, le cantate, i requiem, le grandi messe ecc., in
modo da trasmettere al pubblico il percorso, sia sacro
che profano, dell’arte orchestrale attraverso i secoli.
Ma facciamo un passo indietro nel tempo nella Fiume degli anni Venti quando, in seno alla Società Filarmonico-Drammatica operava l’Orchestra Filarmonica,
la quale, composta da ottimi dilettanti e supportata da
professionisti, si cimentava in serate sinfoniche molto
impegnative. Autorevole primo violino era il concertista
e valente pedagogo Marcello Tyberg senior. Retrocedendo ancora arriviamo al 1873, anno in cui fu fondata la
detta Società, che fin dall’inizio ospitava la citata orchestra fiumana.
Ora, io sto “ballonzolando” a ritroso nella dimensione temporale con il preciso intento di ricercare le
impronte sinfoniche cittadine, anche perché, secondo la versione storica ufficiale della Filarmonica di
Zagabria, la compagine della capitale vanterebbe addirittura centoquarant’anni di “anzianità”; facendo
risalire la sua fondazione al 1870, anno in cui il fiumano Giovanni de Zaytz – dopo aver elevato l’Orchestra dell’Opera di Fiume a livelli professionali, e prima di lui, suo padre, Zaytz senior – fondò l’Orchestra
dell’Opera di Zagabria (che prima di allora versava
in condizioni pietose), la quale ogni tanto si esibiva
in modeste serate concertistiche. La nascita della Filarmonica di Zagabria in quanto tale risale invece al
1920 e si formò intorno all’Orchestra dell’Opera, per
cui i vagheggiati centoquarant’anni di vita filarmonica zagabrese rappresentano, palesemente, una tesi
non sostenibile.
Qualora tale metro di giudizio si applicasse al capoluogo quarnerino (non dimentichiamo che disponeva di un’orchestra teatrale professionale fin dal 1805),
le origini della Filarmonica fiumana andrebbero fatte risalire perlomeno al 1873, anno in cui l’Orchestra
Filarmonica iniziò la sua attività nel contesto della
Società Filarmonico-Drammatica; di modo che ci potremmo pavoneggiare con ben centotrent’otto anni di
tradizione filarmonica! Ma il largheggiare e il voler
portar acqua al proprio mulino anche a costo di “reinterpretare” ed abbellire la storia, cadendo in mezze verità, non fa onore a nessuno. Meno ancora, quando a
farlo sono istituzioni di vaglia e di giustificata fama.
Polemicamente Vostra
2 musica
Mercoledì, 30 novembre 2011
L’INTERVISTA A colloquio con Paola Radin, flautista dall’invidiabile curriculum
Una grande passione destinata a
di Viviana Car
U
na ragazzina undicenne
assiste al concerto della musicista Irena Grafenauer, nota flautista slovena, e da
lì nasce una passione destinata a
durare nel tempo. La “vittima”
di questa “folgorazione” è Paola
Radin, una giovane signora che
con la musica sta di casa. Un invidiabile curriculum caratterizza il percorso artistico di Paola,
che nell’ultimo decennio vanta
numerosi premi ottenuti ai vari
concorsi, oltre alle tante esibizioni solistiche in concerti e il suo
impegno – che è forse la parte
più importante della sua attività
– nella pedagogia musicale, sia
presso la Scuola media superiore di musica “Ivan Matetić Ronjgov” di Fiume sia alla Scuola di
musica classica del Centro musicale “Luigi Dallapiccola” di Verteneglio.
L’abbiamo incontrata per
chiederle come è iniziato questo
cammino nella musica e come è
Paola Radin col
suo amato flauto
nato l’amore per il flauto traverso,
uno strumento musicale la cui invenzione risale al XIII secolo, modernizzato nel XIX quando la sua
struttura lignea viene sostituita con
vari metalli, a volte preziosi? Ecco
che cosa ci ha raccontato.
Concerto «galeotto»
“Fino a quel concerto – racconta Paola Radin – come ogni ragazzina mi trastullavo con varie attività, dalla danza allo sport, all’arte, ma nessuna riusciva a soddisfare i miei interessi, tanto che i miei
genitori erano già stanchi di questo
mio... errare senza mai concludere
niente. Poi sono stata ‘costretta’ ad
andare a questo concerto rimanendo ammaliata da questo strumento, così affusolato e lucente tanto
da voler, ad ogni costo, imparare
a suonarlo”.
Paola nasce a Pola, ma a tre
anni, a causa degli impegni lavorativi del padre, si trasferisce a Zagabria con i genitori. Dopo quel
Un invidiabile curriculum
caratterizza il percorso artistico
di Paola, che nell’ultimo decennio
vanta numerosi premi ottenuti ai vari
concorsi, oltre alle tante esibizioni
solistiche in concerti e il suo impegno
nella pedagogia musicale
concerto “galeotto” si iscrive, parallelamente alla frequenza alla
scuola elementare, alla scuola media di musica “Vatroslav Lisinski”
della capitale, omettendo però di
informare i genitori della sua scelta. Ma, confessa Paola, il segreto
viene a galla ben presto, quando
“la professoressa di musica chiama mia madre informandola che
siccome sono molto brava e dimostro un talento fuori dal comune
dovrebbe acquistarmi lo strumento, poiché da due mesi suonavo
una “bottiglia di Coca-Cola”! La
mamma era convinta che qualcuno la prendesse in giro, un ‘pesce
d’aprile’ anticipato, insomma”.
Ben presto il malinteso fu chiarito e i genitori, messi davanti al
fatto compiuto, si sono convinti
che forse “’sto strumento avrebbe cambiato il mio destino”. A
quel tempo il prezzo di un flauto
era molto alto. Praticamente costava tanto che mia madre, per acquistarlo, ha acceso un mutuo.
Un anno di vita
duro ma appagante
per l’arte
Terminata la scuola media di
musica, Paola Radin si iscrive
all’Accademia di Zagabria e dopo
il primo anno accademico decide
STRUMENTI È probabilmente lo strumento musicale più antico. Fu utilizzato dall’uomo di Neanderthal per
Il flauto, limpidezza di suono e brillantezza di tim
Le chiavi di un flauto
Il flauto traverso è uno strumento musicale della famiglia dei
legni e quindi è un aerofono. L’attribuzione del flauto – oggi prevalentemente costruito in metallo –
alla famiglia dei legni deriva dal
fatto che, fino al XIX secolo, quasi tutti i flauti traversi erano realizzati in legno. Il suo nome (anticamente: traversiere) deriva dal
fatto che viene suonato in posizione trasversale asimmetrica, con il
corpo dello strumento alla destra
dell’esecutore (“di traverso”).
Nella sua forma moderna, il flauto traverso (anche noto come flauto traverso da concerto occidentale) è uno strumento (cilindrico nel
corpo centrale e nel trombino, leggermente conica la testata) che lo
strumentista (detto flautista) suona
vanti da più antichi flauti a sei fori)
dal tedesco Theobald Boehm
(1794-1881) e ai successivi perfezionamenti ideati dai fabbricanti di
scuola francese.
Il più usato
Il più usato dei flauti (flauto
traverso in Do) possiede un’estensione che va dal Do centrale (Do4)
fino al Do7 e comprende quindi 3
ottave. I flauti moderni possono
raggiungere un’estensione di tre
ottave e mezza, e alcuni flautisti
sono in grado di emettere il Do8,
portando l’estensione dello strumento a quattro ottave piene. La
quarta ottava, di difficile emissione (quasi impossibile su strumenti d’epoca) è per questo poco usata
nel repertorio flautistico, anche se
Se ne conoscono esemplari costruiti
con ossa di animali, corna o avorio,
risalenti al Paleolitico medio e al
Paleolitico superiore
Il flauto ad una chiave o flauto barocco
soffiando nel foro d’imboccatura e
azionando un numero variabile di
chiavi (aperte o chiuse), che aprono e chiudono dei fori praticati nel
corpo dello strumento, modulando così la lunghezza della colonna
d’aria contenuta nello strumento
stesso e quindi variando l’altezza
del suono prodotto.
La forma moderna del flauto
(cilindrico, a dodici o più chiavi)
è dovuta alle modifiche applicate
ai flauti barocchi (a loro volta deri-
negli anni recenti alcuni compositori hanno spesso usato il Re.
Il flauto ha un suono limpido anche se un po’ freddo, ma la
brillantezza del suo timbro lo ha
reso adatto, per esempio, per imitare il canto degli uccelli, caratteristica usata in molti brani di diversa provenienza: esempi nella musica classica sono il concerto “Il
cardellino” di Antonio Vivaldi,
il concerto nella “Sinfonia Pastorale” di Ludwig van Beethoven
e la parte dell’uccellino Sasha in
“Pierino e il lupo” di Sergei Prokofiev; nella musica jazz il brano “Conference of the birds” di
Dave Holland; nella musica popolare irlandese la giga “Lark in the
morning” (normalmente affidata al flauto traverso irlandese a sei
fori). Inoltre, la sua discendenza
popolare (non bisogna dimenticare
che, essendo uno degli strumenti
di più facile fabbricazione, il flauto
è anche uno dei più antichi e diffusi nella musica popolare) faceva sì
che il flauto evocasse ambienti pastorali e bucolici, molto frequentati in musica e nelle arti in genere
dal XVI al XIX secolo.
La storia «europea»
La storia del flauto traverso europeo, in quanto tale, inizia
attorno al medioevo (la storia del
flauto in generale è assai più antica e geograficamente più estesa).
Varie fonti iconografiche e letterarie attestano la presenza di flauti traversi in Europa almeno dal X
secolo. Gli strumenti illustrati appaiono costruiti in un unico pezzo
(due per il flauto basso): un tubo
cilindrico di legno con sei fori per
le dita (non otto come il flauto dolce) più il foro di insufflazione.
Dalle immagini si può notare che
lo strumento è tenuto spesso alla
sinistra dell’esecutore, segno che
probabilmente era costruito con
tutti i fori perfettamente allineati,
permettendo al flautista di scegliere l’orientamento desiderato. Dal
X al XIII secolo, tuttavia, lo strumento era piuttosto raro, e pare gli
musica 3
Mercoledì, 30 novembre 2011
musicale
durare nel tempo
Terminata la scuola media
di musica, Paola Radin si iscrive
all’Accademia di Zagabria e dopo
il primo anno accademico decide
di non perdere “la più grande
occasione a cui un musicista può
aspirare”, una specializzazione
all’Accademia nazionale di Santa
Cecilia a Roma
di non perdere “la più grande occasione a cui un musicista può aspirare”, una specializzazione all’Accademia nazionale di Santa Cecilia
a Roma. Entra così a far parte della classe del maestro Angelo Persechigli, primo flauto dell’orchestra di Santa Cecilia, che Paola già
conosceva avendo frequentato da
adolescente un suo master class a
Portogruaro. “È stato un anno duro
– prosegue Paola –. Ero giovane,
diciottenne, sola in una città enorme... ma allo stesso tempo è stato
pure un anno appagante per il mio
percorso artistico. Per cancellare la
nostalgia e la tristezza di una lontananza dalla famiglia e dagli amici
studiavo tantissimo, sette-otto ore
al giorno. Qui sono maturata veramente, perché la qualità di studio
è eccellente. L’allievo musicista è
concentrato soltanto su un paio di
materie, musica e musica da camera, mentre all’Accademia zagabre-
se si studia inoltre, solfeggio, armonia e altre materie. Dunque le
capacità del singolo vengono disperse e il tempo per lo studio dello strumento e della musica diminuisce. Con questo non sminuisco
le capacità dei professori zagabresi, ottimi musicisti, ma il metodo
di lavoro è completamente diverso e non regge il confronto”. Ri-
do di seguito assistente del professore. Purtroppo, la scuola chiude
i battenti, ma la carriera artistica
di Paola Radin continua. Iniziano
i concerti, le uscite che la porteranno a suonare in Croazia, Slovenia, Italia, Egitto, Repubblica ceca
da solista e collaborando con varie orchestre di musica classica e
da camera di Fiume, Osijek, Zagabria, non tralasciando la collaborazione con i complessi della Comunità Nazionale Italiana, il Collegium musicum Fluminense, il
Coro Fedeli Fiumani e altri.
Al primo impatto
strumento facile
da maneggiare
Al primo impatto, il flauto dà
l’impressione di uno strumento
delicato, facile da maneggiare e
per sole donne, che Paola smentisce categoricamente. “Per suonare
il flauto serve tanto fiato, dunque
aria che il musicista deve produr-
Oltre che essere un’eccellente
flautista, Paola Radin è pure
un’ottima insegnante
tornata a Zagabria, Paola termina
gli studi e subito dopo la laurea accede alla classe del flautista francese Pierre Ives Artaud dell’Accademia di musica “Ino Mirković”
di Laurana. Nei seguenti tre anni,
per dieci giorni ogni mese Paola
“limerà” l’arte del suono divenen-
produrre melodie
re. Noi flautisti siamo più vicini ai
musicisti che suonano il corno, altro strumento ‘pesante’ a fiato perché questi strumenti sono ‘aperti’ e
il 70 per cento dell’aria esce e soltanto il 30 per cento rimane dentro a creare il suono. Anche la posizione delle mani è un po’ parti-
Il flauto di Divje Babe
bro
fossero preferiti strumenti dritti,
simili al flauto dolce (ma non ancora propriamente flauti dolci, la
cui data di nascita pare sia attorno al XIV secolo). Giunto in Europa dall’Asia, quasi certamente
dalla Cina, attraverso gli scambi
culturali mediati dall’impero romano d’Oriente, il flauto traverso
divenne popolare in Francia e in
Germania (ed era perciò chiamato flauto tedesco per differenziarlo dagli strumenti dritti). In questi paesi venne usato nella musica
popolare e nella musica di corte
(assieme ad altri strumenti quali
la viella), ma sarebbe passato più
di un secolo prima che si diffondesse nel resto dell’Europa.
Strumento
di segnalazione
nell’esercito
La prima citazione letteraria
del flauto traverso è del 1285, in
una lista di strumenti suonanti da
Adenet le Roi. A questa citazione segue un silenzio di circa settant’anni, al termine dei quali le
fortune del flauto vennero ravvivate (attorno al 1350) da un vento di attivismo militare. L’esercito svizzero, infatti, adottò il flauto
come strumento di segnalazione
e questo lo diffuse nel continen-
te. Fu verso il 1500 che il flauto
traverso venne introdotto anche
nelle corti come strumento orchestrale e solista. Il flauto rinascimentale, chiamato anche, nel
XVI secolo, traversa, mantenne sostanzialmente la struttura
del flauto medievale. Si ha testimonianza dell’esistenza di diverse “taglie” per lo strumento: “discantus”, “tenor-altus”, “bassus”.
Il flauto trova posto nei complessi
di musica da camera spesso sotto
forma di strumenti intonati in Re.
Il flauto barocco
Il flauto barocco, chiamato anche flauto ad una chiave o
flauto traversiere, subisce molte
modifiche ad opera di famiglie di
costruttori di legni che dedicano
particolare cura nel perfezionarlo,
in particolare la famiglia “Hotteterre”. Nel periodo classico le
sue qualità timbriche e omogenee sono in perfetta simbiosi con
il pensiero e l’armonia classica. È
usato come strumento da accom-
Un moderno flauto traverso
pagnamento ma anche solistico
ed è particolarmente popolare in
Francia, nonchè impiegato nelle
composizioni di Bach e Vivaldi.
I fondamentali perfezionamenti apportati allo strumento
dal tedesco Theobald Boehm
nel periodo romantico rendono il
flauto uno strumento moderno a
tutti gli effetti. In questo periodo
il flauto trova un vasto impiego
orchestrale, e viene specialmente messo in luce nelle opere degli
impressionisti Claude Debussy
e Maurice Ravel che sfruttano
sfumature dello strumento poco
conosciute.
Il flauto è probabilmente lo
strumento musicale più antico. Se
ne conoscono esemplari costruiti
con ossa di animali, corna o avorio, risalenti al Paleolitico medio
(come quello, discusso, di Divje
Babe in Slovenia) e al Paleolitico superiore: erano utilizzati circa 50.000 anni fa dall’uomo di
Neanderthal per produrre melodie musicali.
colare, si potrebbe dire innaturale.
Dunque, non è strumento per sole
donne, anzi, i ragazzi lo suonano
altrettanto bene”.
Dieci anni fa Paola Radin si stabilisce a Fiume perché è una città
che le piace “per la sua posizione
strategica. Pola è la mia città natale alla quale sono profondamente
legata ma il capoluogo quarnerino
rappresenta qualcosa di particolare, un luogo da cui i miei frequenti spostamenti diventano più facili.
Qui ho trovato ottimi musicisti con
cui intrattengo una collaborazione
intensa, mi piace per il mio lavoro
al Centro di musica classica ‘Luigi
Dallapiccola’, alla Scuola di musica e per tante altre piccole cose che
messe insieme danno un quadro
della mia personalità decisa”.
Oggigiorno i flauti traversi
vengono costruiti in metallo (alpaca argentata, argento, oro, platino e cristallo). Paola possiede un
flauto “semplice” di alpaca argentata ma ha avuto modo di suonare
uno strumento d’oro e assicura che
“quello strumento suona da solo! Il
suo suono è tanto cristallino e tanto
particolare che non lascia indifferente nessuno.
”Grazie al mio professore romano ho avuto modo di provare
uno strumento d’oro, costosissimo per la maggioranza dei musicisti, ma accessibile ai grandi virtuosi a cui vengono ‘regalati’ dalle aziende costruttrici di strumen-
loro attitudini musicali. “Da piccola mi vedevo a suonare con un’orchestra – racconta Paola – ma ora,
dopo aver assaporato il lavoro pedagogico ho capito di essere fatta
per insegnare. Lavorare con i bambini è molto appagante in quanto sono spontanei e molto critici.
Insegnando loro la musica, si ha
l’opportunità di plasmarli e indirizzarli verso le singole attitudini,
che scopro a mano a mano durante
l’anno scolastico. Il mio metodo di
insegnamento prevede un approccio identico verso tutti gli allievi,
sia che si tratti di un bambino che
di un adolescente”. Un metodo inconsueto, ma che ha fatto vincere
tantissimi premi ai concorsi a cui
hanno partecipato gli allievi di Paola. “Si lavora molto, ma i risultati
sono eccellenti. Nominerò soltanto
il mio allievo Ivan Buić, un ragazzo quindicenne che a un concorso
è riuscito a ottenere il punteggio
massimo, praticamente un talento
naturale che va seguito e plasmato
negli anni a venire”.
Il futuro?
Tra insegnamento
e collaborazioni
Nel suo futuro Paola Radin intensificherà la collaborazione con
il Trio da chiesa dei coniugi Haller, con la pianista polese Vesna
Ivanović Ocvik, con la quale suona
da oltre un decennio, e si impegne-
«Il mio metodo di insegnamento
prevede un approccio identico verso
tutti gli allievi, sia che si tratti di un
bambino che di un adolescente»
ti musicali. Sto lavorando tanto
affinché quel ‘regalo’ arrivi nelle
mie mani!”.
Eccellente flautista
Oltre che essere un’eccellente
flautista, Paola Radin è pure un’ottima insegnante. Il lavoro nelle due
scuole la porta a mantenere contatti continui con i giovani, a insegnare le nozioni di base della musica,
a seguire gli allievi e a sostenere le
rà nel Duo Harmos, dove collabora
con il fisarmonicista Josip Nemet.
E poi continuerà a insegnare, anche se come dice lei stessa
“ogni giorno viene voglia di mollare tutto, ma dopo un paio di minuti, prendo il flauto, un attimo di
concentrazione, intono le prime
note e... passa tutto! Attraverso il
mio flauto la magia della musica
continua a scorrere ininterrottamente”.
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mus
Mercoledì, 30 novembre 2011
LA GRANDE MUSICA Storia e caratteristiche del Concerto per violino e orchestra in
Il purissimo lirismo e la superio
di Michele Trenti
I
l Concerto per violino op. 61
venne composto tra il novembre e il dicembre del 1806, in
poche settimane, con una rapidità
inconsueta per Ludwig van Beethoven.
L’occasione di pensare ad un
concerto per violino e orchestra
(l’unico di Beethoven pervenutoci completo) fu data dal violinista
e direttore d’orchestra Franz Clement, direttore artistico del teatro
An der Wien, che aveva commissionato a Beethoven un pezzo da
eseguire in una Accademia pubblica prima di Natale. Il concerto fu
pronto solo pochissimi giorni prima dell’esecuzione, che avvenne
il 23 dicembre, ed il violinista fu
costretto a suonare leggendo quasi
a prima vista dal manoscritto.
Di molti anni prima è invece il
progetto di un altro concerto per
violino, poi abbandonato e rimasto
sconosciuto per decenni, mentre
sono entrate definitivamente nel
repertorio le due romanze op. 40 e
op. 50, che confermano la fisionomia essenzialmente cantabile che
il grande compositore aveva del
violino come strumento solista.
Considerazioni
stilistiche e storia
della critica
Il Concerto per violino esprime
interamente il lato lirico della personalità musicale di Beethoven;
nei quarantacinque minuti di durata della composizione non vi è
traccia di tragica intensità, di lotta
interiore, di sofferenza, di passioni sconvolgenti: tutto è governato
da un’armonia superiore e da un
equilibrio di proporzioni che rendono la pagina una delle vette della musica assoluta.
Inizio del terzo movimento, Rondo
regolarmente (sul do diesis, anziché sul mi); il motivo della transizione, in fortissimo sull’armonia
di si bemolle, è un tratto che lascia
immaginare il lato imprevedibile e
volitivo della personalità del compositore.
È difficile oggi comprendere
come il Concerto per violino abbia
potuto tardare ad avere il riconoscimento che nell’epoca odierna gli è
tributato.
Inizio del secondo movimento
Il violinista Joseph Joachim accompagnato al pianoforte da Clara
Schumann. Fu lui a riportare alla
luce il concerto nel 1844
Nei quarantacinque minuti
di durata della composizione non
vi è traccia di tragica intensità,
di lotta interiore, di sofferenza,
di passioni sconvolgenti: tutto è
governato da un’armonia superiore
e da un equilibrio di proporzioni che
rendono la pagina una delle vette
della musica assoluta
”La melodia si effonde in quiete divina.... pervasa dalla pura
armonia del Re maggiore” (Riezler), con alcune trovate inattese, tipicamente beethoveniane,
che pure non turbano l’ininterrotta soavità della musica. Decisamente originale l’idea di iniziare un brano con quattro colpi
soli del timpano; anche l’entrata dei violini, alla decima battuta, introduce una nota inaspettata
(re diesis), risolta altrettanto ir-
Le notizie della prima esecuzione riferiscono di un discreto successo di pubblico (peraltro non difficile da ottenere, dato che l’esecutore
era il Direttore artistico del Teatro
ed interprete stimatissimo), ma di
una non felice accoglienza da parte
della critica; una esecuzione preparata affrettatamente avrà certamente
influito sul giudizio degli ascoltatori. In conseguenza dello scarso successo il concerto non fu più eseguito vivente l’autore e addirittura per
Primo tema del primo movimento
molti anni dopo la sua morte. Muzio Clementi, pianista ed editore,
aveva invece incaricato Beethoven
di realizzare una versione del concerto la cui parte solistica fosse affi-
data al pianoforte: questa versione,
con le opportune modifiche di scrittura solistica (la parte dell’orchestra è identica), venne eseguita dal
compositore stesso; anche in questo
caso trovò un’accoglienza fredda e
cadde nel dimenticatoio. Nonostante ciò, Beethoven tenne il pezzo in
considerazione e lo dedicò all’amico d’infanzia Stephan von Breuning, cui era legato dagli affetti più
sinceri; la versione per pianoforte è dedicata alla moglie di “Steffen”, Julie von Vering. Fu Joseph Joachim, il violinista amico di
Brahms (dedicatario del suo concerto per violino), che riportò alla
luce il concerto nel 1844, eseguendolo più volte sotto la direzione di
Mendelssohn e di Schumann.
Ancor oggi il concerto non ha una
considerazione unanime: molti commentatori vi rilevano scompensi nelle proporzioni fra i movimenti, eccessiva uniformità della scrittura violinistica, sostanziale accademismo del
terzo movimento; i musicisti sono
invece più concordi nel considerarlo
una delle vette dell’arte ed il concerto
è probabilmente il più eseguito ed inciso del repertorio violinistico.
Primo Movimento
(Allegro ma non troppo)
La struttura del primo movimento è uno dei più begli esempi
di “Forma sonata” del Secondo stile beethoveniano: grandi dimensioni (questo solo movimento dura
sica
Mercoledì, 30 novembre 2011
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Re maggiore, op. 61 di Ludwig van Beethoven
ore armonia di un capolavoro
Inquadramento storico e culturale
L’epoca in cui vive Ludwig van Beethoven (1770-1827) ricopre un’importanza fondamentale nell’evoluzione della civiltà occidentale per il verificarsi di eventi storici
e culturali che sconvolgono assetti politici,
convenzioni sociali e abitudini di vita in quasi tutti gli stati. Nel volgere di cinquant’anni
il maturare e il diffondersi di ideali e sentimenti nuovi innesca processi che cambieranno la storia dell’umanità: il 1770, anno di nascita del compositore, è con un’eccezionale
coincidenza, anche anno di nascita del filosofo Hegel, del poeta Hölderlin e l’anno della
pubblicazione dello “Sturm und Drang” di
Klingel. Nel 1776 viene redatta la Dichiarazione dei diritti dell’uomo (Stati Uniti); nel
1789 scoppia la Rivoluzione Francese; viene abolita la servitù della gleba; il successivo
Impero di Napoleone Bonaparte “esporta”,
fino al 1813, una parte degli ideali che avevano animato, sotto il motto di “libertà uguaglianza e fratellanza”, la rivoluzione francese. Nel 1815 il Congresso di Vienna (durante il quale Beethoven si esibirà per l’ultima volta nella vita come pianista) sancisce
la caduta di Napoleone e il ritorno all’asset-
to politico precedente la rivoluzione. Mentre
gli anni giovanili di Beethoven sono all’insegna di uno slancio umanitario e di una fiducia nell’affermazione di nuovi ideali, gli ultimi anni vedono la delusione per una situazione di restaurazione, a Vienna più pesante
che altrove, soprattutto a causa della ferrea
censura imposta dal primo ministro Metternich. Intanto però alla cultura di corte e
dei palazzi aristocratici si era sostituita irreversibilmente la cultura borghese, nei salotti,
nei caffè e nei teatri pubblici. Tutte le attività
umane sono investite da radicali cambiamenti, conseguenza della nuova sensibilità da cui
sta prendendo origine il Romanticismo: in filosofia l’idealismo rimpiazza il razionalismo,
che aveva caratterizzato il “secolo dei lumi”
(XVIII Secolo); nel campo scientifico nuove
scoperte stanno preparando la strada alla Rivoluzione industriale, che porterà alla nascita della grande industria e quindi al sorgere
della società capitalistica. Ai contemporanei
di Beethoven il susseguirsi così rapido di avvenimenti può essere apparso come la meteora di un sogno umanitario, cui seguì la constatazione del suo fallimento. L’incredibile fede
Il 1770 fu anche l’anno di nascita del filosofo Georg Wilhelm Friedrich Hegel (a sinistra) e del poeta Friedrich Hölderlin
in un destino dell’umanità più luminoso, che
Beethoven espresse in tutti i più grandi lavori
fino alla Missa Solemnis e alla 9a Sinfonia,
venne a poco a poco sostituita, a partire dal
terzo decennio dell’Ottocento, dal gusto per
il particolare, dalla tendenza a rifugiarsi nel
proprio piccolo mondo borghese (con lo stile
Biedermeier) o nel mondo soggettivo dell’irrazionale e del fantastico (con il Romanticismo nordico).
cui è ripartito, secondo il principio
della Forma Sonata, gli elementi
che compongono le sezioni, i motivi musicali presentati e le tonalità
in cui essi compaiono.
Secondo Movimento
(Larghetto)
Questo movimento ha caratteristiche uniche nella storia del concerto, per il suo ininterrotto, purissimo lirismo; è concepito in forma
di tema con variazioni (organizzate secondo il tipico schema della
“romanza”) e presenta come originale caratteristica quella di essere
interamente realizzato nella tonalità di Sol maggiore.
Un meraviglioso periodo di 8
battute con tre ulteriori battute di
collegamento costituisce il secondo tema (B) che appare a battuta
45, per ritornare a battuta 71. Per
quasi quanto – e più – di intere
sinfonie di Haydn o di Mozart),
estrema chiarezza nell’articolazione formale (ogni Tema è un “personaggio” inequivocabile, il suo
apparire è immediatamente colto
come qualcosa di importante).
Elaborando materiale ricavato
da soli 6 motivi (A,B, C, D, E, F)
Beethoven costruisce uno dei “movimenti” di concerto più sublimi
della storia della musica, soprattutto attraverso un equilibrio generale assoluto.
Si noti la simmetria di costruzione, per cui ogni Sezione ha uno
schema analogo (in due parti, dialetticamente contrapposte), contenente il materiale motivico completo (A+B,C,D,E).
Il movimento è ricalcato molto
fedelmente sull’impianto consueto della “Forma sonata” presentata
in precedenza: ne rileviamo la tripartizione nelle parti di Esposizione (orchestrale e solistica), Sviluppo e Ripresa (con Coda). Poiché
nello schema classico della Sonata l’Esposizione è sovente ripetuta, nel concerto viene quasi sempre
presentata una volta dalla sola orchestra e una volta dall’orchestra
insieme al solista. Il conseguente “sbilanciamento” a favore della
prima delle tre parti viene compensato da una espansione della Coda,
Ancora oggi il concerto non ha
una considerazione unanime: molti
commentatori vi rilevano scompensi
nelle proporzioni fra i movimenti,
eccessiva uniformità della scrittura
violinistica e sostanziale accademismo
del terzo movimento
che da semplice appendice della
Ripresa assume il ruolo di una sezione a sé stante.
L’introduzione di un nuovo motivo verso la fine dello sviluppo, è
una soluzione molto personale di
Beethoven, adottata in altri lavori di questo periodo (per es. nella
3 Sinfonia): oltre lo scopo di evitare la monotonia (per la costante somiglianza del materiale, data
la lunghezza del movimento), ha
il vantaggio di creare un momento di grande impatto psicologico
che prepara mirabilmente il ritorno trionfale del Primo Tema nella
Ripresa.
Per il resto il movimento ha uno
svolgimento estremamente lineare e la sua articolazione è chiara:
lo schema seguente ne rappresenta sinteticamente forma e caratteristiche, individuando le sezioni in
il resto l’intero movimento è realizzato su semplici varianti melodiche di un unico soggetto.
Da rilevare inoltre un elemento
“irregolare” nel tema (il marchio
di Beethoven!): alla quarta battuta
una modulazione ci porta sull’accordo di Fa diesis, per poi ricondurci al Sol maggiore iniziale in
maniera assolutamente naturale attraverso una semplice progressione armonica.
Terzo Movimento
(Rondo: Allegro)
Il terzo movimento, costruito
nella vivace forma del Rondò (un
tema principale – refrain – ritorna
ciclicamente alternato da episodi
sempre diversi) adotta anche alcuni principi della Forma sonata:
Ritratto di Ludwig van Beethoven durante la composizione della
“Missa Solemnis”, realizzato da Josef Karl Stieler
soprattutto nella simmetria tripartita del movimento, nella struttura armonica e nel fatto che il primo episodio, che ritorna in seguito come terzo episodio, assume
quasi carattere di II tema di Sonata.
Questo tipo di forma mista, denominata appunto Rondò Sonata,
ricorre già in alcuni movimenti
di Mozart. Beethoven ne farà una
delle forme più utilizzate negli ultimi movimenti dei lavori del II
stile.
6 musica
Mercoledì, 30 novembre 2011
GLI INDIMENTICABILI La vita e l’arte di Fëdor Ivanovič Šaljapin, forse il più gran
La sfolgorante carriera internazionale
F
ëdor Ivanovič Šaljapin,
forse il più grande basso del Novecento nasce a
Kazàn’ (in russo Казань), il 1.mo
febbraio 1873. Trascorre l’infanzia in un villaggio nei dintorni di
Kazàn’, dove riceve un’istruzione sommaria e lavora come ap-
prendista nelle botteghe di diversi artigiani, cominciando a cantare nel coro della chiesa locale all’età di circa dieci anni. Si
esibisce con diverse compagnie
girovaghe fino al 1892, quando
per la prima volta prende lezioni di canto dal maestro Dmitrij
Šaljapin con Titta Ruffo ed Enrico Caruso
Šaljapin con Iole Tornaghi
Usatov a Tiflis. Lo stesso anno è
scritturato dal Teatro dell’Opera di Tiflis, nel 1894 è ingaggiato
dalla compagnia d’opera di Lentovskij, con cui si esibisce a Pietroburgo, quindi nel 1895 passa al Teatro Mariinskij, che lascia in polemica con la direzione
nel 1896. Entra a far parte della
Moskovskaja Častnaja Opera
di Savva Mamontov e nel 1898
sposa l’italiana Iole Tornaghi (o
Iola Tornaghi, come viene ricordata in Russia), prima ballerina
della stessa compagnia. Durante i
due anni trascorsi con la Častnaja
Opera s’inserisce nel vivace ambiente culturale che ruota attorno
a Mamontov, stringendo durature
amicizie con numerosi esponenti
«Chi risultò vero artista, in tutta
l’estensione della parola, fu il signor
Scialapin, un Mefistofele quale
ancora non ne era stato dato
da ammirare» (Gazzetta musicale
di Milano, 1901)
Per sempre
cittadino sovietico
Dopo la rivoluzione d’ottobre
diviene un simbolo della nascente cultura sovietica ed è il primo
a ricevere il titolo di Narodnyj artist Respubliki, ma dal 1922 non
Šaljapin: «Gli artisti, i coristi,
perfino gli operai mi hanno
circondato tra esclamazioni di
entusiasmo, proprio come bambini,
mi sfioravano con le dita, mi
palpavano, e quando hanno capito
che i miei muscoli erano posticci,
sono definitivamente impazziti!»
del mondo artistico contemporaneo: K. Korovin, M. Vrubel’, V.
Serov, I. Levitan, S. Rachmaninov e molti altri. Nel 1899 passa
al Bol’šoj e diviene subito l’artista più in vista dei teatri imperiali. Due anni più tardi debutta sulla scena internazionale, cantando
al Teatro alla Scala nel ruolo di
Mefistofele nell’omonima opera di Arrigo Boito, con la direzione di Arturo Toscanini. Segue un
decennio di debutti nei teatri più
prestigiosi del mondo: nel 1907 è
al Metropolitan Opera di New
York e a Berlino, l’anno seguente l’esibizione più clamorosa, a
Parigi, nel Boris Godunov con
la compagnia di Sergej Djagilev,
con cui torna a cantare nel 1913 di
nuovo a Parigi e poi a Londra, nel
1905 e 1910 è a Montecarlo.
vive più in Russia, che lascia in
occasione di una lunga tournée
per stabilirsi a Parigi con la famiglia.
In realtà Šaljapin rimane cittadino sovietico fino alla morte ma,
invitato più volte a tornare in patria dalle autorità e dagli amici, rifiuta sempre, preferendo l’Europa soprattutto per ragioni di natura economica, dovendo mantenere
due mogli, residenti una a Parigi e
una a Mosca, e dieci figli non ancora autosufficienti. Per far fronte
a queste necessità, che lo affliggono fino alla fine, compie continue
tournée in tutto il mondo anche
quando è già molto malato. Muore di leucemia a Parigi nel 1938 e
i suoi resti sono conservati nel cimitero di Batignolles fino al 1984,
quando gli eredi ottengono che
siano trasferiti a Mosca, nel Monastero di Novodevičij.
Dall’unione con Iole Tornaghi
ha sei figli, di cui il primo, Igor’,
muore in tenera età, la secondogenita, Irina (1900-1978), rimane a
Mosca per tutta la vita, mentre gli
altri, Lidija, Boris, Tat’jana e Fedor, tutti artisti, lo seguono a Parigi per poi intraprendere diverse
strade: alcuni trascorrono diversi
anni in Italia e tutti si trasferiscono negli Stati Uniti d’America. La
moglie, Iole Ignat’evna Tornaghi
Šaljapina (1874-1965), da cui il
cantante non chiede mai il divorzio, rimane nella sua casa di Mosca anche dopo la separazione e la
morte del marito, e torna in Italia
solo nel 1960.
Dalla fine degli anni Dieci ha
una seconda famiglia a Pietroburgo, dove vive con la cantante Marija Valentinovna Petcol’d (nata
Eluchen, 1882-1964), di cui adotta i figli di primo letto, Stella ed
Edouard, e da cui ha altre tre figlie:
Marfa (1909-2003), Marina (19122009) e Dasija (1922-1977). Tutti emigrano con lui in Francia. Le
due famiglie Šaljapin, durante gli
anni trascorsi in Russia, non hanno contatti reciproci e le rispettive
abitazioni, in Novinskij Prospekt a
Mosca e nei pressi del Kamenoostrovskij Prospekt a San Pietroburgo, sono oggi due case-museo
completamente indipendenti e ricche di materiale raccolto e conservato separatamente.
Šaljapin in Italia
Šaljapin ha con l’Italia un rapporto intenso, che si sostanzia di
legami professionali, familiari e
d’amicizia. A partire dal 1901,
Fëdor Fëdorovič Šaljapin era l’ultimo dei sei figli che il cantante lirico ha avuto da Iole Tornaghi
Carriera cinematografica senza l’ingombrante ombra paterna
Fëdor Fëdorovič Šaljapin (Mosca, 16
ottobre 1905 – Roma, 17 settembre 1992) è
stato un attore russo e il più giovane dei figli di Fëdor Ivanovič Šaljapin e Iole Tornaghi. Ricevette un’eccellente educazione privata a Mosca e poi nel 1924 emigrò
con il padre a Parigi. Fëdor riuscì a liberarsi
dell’ingombrante ombra paterna solo dopo
essersi trasferito da Parigi ad Hollywood.
Qui egli cominciò la sua carriera di attore recitando come comparse in alcuni film
muti. Riuscì a ritagliarsi piccoli ruoli da caratterista di spessore, grazie alle sue buone doti interpretative. La sua interpretazio-
ne di Kashkin, ucciso da Gary Cooper in
Per chi suona la campana (1943), segna
uno dei momenti più alti dei primi anni della sua carriera. Interpretò tantissimi personaggi russi in film girati durante la Seconda
guerra mondiale. Terminata la guerra, Fëdor
Šaljapin si trasferì a Roma. Qui continuò la
sua carriera di attore, interpretando ruoli diversi: dal senator Torsello nel film satiropolitico Nonostante le apparenze... e purché la nazione non lo sappia... All’onorevole piacciono le donne (1972), al sinistro
e maligno professor Arnold nel film horror
Inferno (1980).
Nel ruolo di Jorge di Burgos nel film “Il nome della rosa” (1986)
Negli ultimi anni della sua vita tornò a
interpretare ruoli offerti dall’industria di
Hollywood in film di successo, primo fra
tutti Stregata dalla luna (1987) con Cher
e Nicolas Cage (nel quale interpreta il nonno della protagonista). Tuttavia, la sua più
famosa interpretazione resta quella di Jorge
di Burgos, il monaco cieco e assassino nel
famoso film Il nome della rosa (1986).
Nel 1984 Fëdor Šaljapin ritornò a Mosca per la sepoltura del padre, la cui salma
finalmente venne riportati in patria da Parigi. Morì per cause naturali il 17 settembre
1992 nella sua casa di Roma.
L’attore nel film “Il proiezionista” (1991)
Fëdor Fëdorovič Šaljapin (primo da sinistra) con il padre Fëdor e il fratello
Boris nel 1928
musica 7
Mercoledì, 30 novembre 2011
de basso del Novecento
di un Mefistofele diverso e inimitabile
Šaljapin con Rachmaninov
terra di celebri cantanti (Groševa
1976, vol. I, p. 154).
1901 – Durante le prove del
Mefistofele alla Scala, Šaljapin
porta avanti una battaglia personale per poter rappresentare il protagonista secondo la propria concezione scenica. A suo modo di vedere, nel teatro lirico italiano la caratterizzazione del personaggio è
Šaljapin ebbe con l’Italia
un rapporto intenso,
che si sostanziava di legami
professionali, familiari e d’amicizia
co Sergej Rachmaninov. Si legge
nella sua autobiografia:
La felicità si alternava in me
alla paura. Senza aspettare la
partitura mi misi subito a studiare l’opera e decisi di trascorrere
l’estate in Italia. Rachmaninov fu
il primo con cui condivisi la mia
felicità, la mia paura e i miei propositi. Espresse il desiderio di venire con me, dicendo: ‘Ottimo, io
mi occuperò della mia musica e
nel tempo libero ti aiuterò a imparare l’opera’.
Si rendeva perfettamente conto,
come me, dell’importanza di quella esibizione, avevamo preso molto sul serio il fatto che un cantante
russo fosse stato invitato in Italia,
un aspetto trascurato: i costumi, il
trucco e le acconciature sono dettagli lasciati al caso o elaborati in
modo “primitivo”. L’artista si rifiuta di rappresentare Mefistofele in giacca e pantaloni, e di atteggiarsi nelle classiche pose diaboliche suggeritegli da Toscanini,
vuole entrare seminudo sulla scena, ma senza passare per “barbaro”, né dare scandalo:
Quando sono uscito sul palcoscenico truccato e con il mio costume, ho prodotto grande clamore, che mi ha molto lusingato. Gli
artisti, i coristi, perfino gli operai
mi hanno circondato tra esclamazioni di entusiasmo, proprio come
bambini, mi sfioravano con le dita,
mi palpavano, e quando hanno capito che i miei muscoli erano posticci, sono definitivamente impazziti! Gli italiani sono un popolo
che non è capace e non vuole nascondere gli slanci del suo animo
sensibile (Groševa 1976, vol. I, p.
157).
Lo spettacolo va in scena il 16
marzo, con la direzione di Arturo
Toscanini, Enrico Caruso nel ruolo
di Faust ed Emma Carelli in quello
di Margherita. Le repliche vanno
avanti fino alla metà di aprile e per
Šaljapin è un trionfo confermato a
ogni nuova rappresentazione. La
critica e il pubblico dimostrano di
apprezzare la cura nella resa scenica del personaggio, riconosciuta
subito come uno dei tratti salienti
dell’arte di Šaljapin e un elemento
innovativo per il teatro lirico:
Chi risultò vero artista, in tutta l’estensione della parola, fu il
signor Scialapin, un Mefistofele
quale ancora non ne era stato dato
da ammirare. Perfettamente abbigliato e truccato, fu ottimo come
cantante, insuperabile come attore, riuscendo efficacissimo, originale, tipico, con sobrietà di mezzi
e senza ricorrere a quei lenocini di
pose così dette sataniche, ma che
meglio sono pose di atleti da circo
e delle quali non pochi Mefistofeli
hanno usato ed abusato (”Gazzetta musicale di Milano”, 20 marzo 1901).
QUIZ
1. Quanti anni si sono
compiuti il 24 novembre
scorso dalla morte, causata
dall’AIDS, di Freddie Mercury, leggendario frontman dei
Queen e uno dei più grandi
cantanti nella storia del rock?
a)
20 anni
b)
10 anni
c)
15 anni
2. La morte prematura della famosa cantautrice britannica Amy Winehouse avvenuta il 23 luglio scorso, l’ha fatta
entrare nello sfortunato club
dei famosi cantanti e musicisti
della storia del rock che si sono
spenti alla stessa età, tra cui Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim
Morrison, Brian Jones... Come
si chiama questo triste club?
a)
Club 25
b)
Club 27
c)
Club 26
3. Come si intitola il nuovo
album della cantautrice istriana Tamara Obrovac?
a)
Madicosa
b)
Meridosa
c)
Madirosa
4.
Qual è il titolo del più
grande successo del gruppo fiumano-zagabrese Xenia, attivo
negli anni Ottanta dello scorso
secolo?
a)
Dvoje
b)
Troje
c)
Jedan
Interpretazione di Mefistofele
La tomba del grande cantante lirico nel cimitero
del Convento di Novodevičij
5. Quale grande cantante lirico si guadagnò il soprannome La Divina per lo straordinario timbro di voce e le indimenticabili interpretazioni?
a)
b)
c)
Renata Tebaldi
Toti Dal Monte
Maria Callas
6. Uno dei massimi geni
nella storia della musica, Wolfgang Amadeus Mozart, diede
prova del suo eccezionale talento componendo musica già
all’età di...
a)
Quattro anni
b)
Cinque anni
c)
Tre anni
7. La composizione per
flauto solo „Syrinx“ fu scritta
nel 1913 e viene considerata il
primo brano importante composto per questo strumento
dopo la „Sonata in La minore“
di C.P.E.Bach scritta esattamente 150 anni prima. L’autore di „Syrinx“ è...
a)
Claude Debussy
b)
Maurice Ravel
c)
César Franck
8. La prima composizione
classica incisa su CD e messa in
vendita nel 1980 fu la „Sinfonia
delle Alpi“ di Richard Strauss,
per l’occasione diretta da...
a)
Leonard Bernstein
b)
Arturo Toscanini
c)
Herbert von Karajan
9. Chi è l’autore della colonna sonora della celeberrima trilogia di Peter Jackson
„Il Signore degli Anelli“?
a)
Howard Shore
b)
Elmer Bernstein
c)
Dario Marianelli
10. Come si intitola uno dei
brani più famosi del gruppo
Queen, tratto dall’album „A
Night at the Opera“ del 1975,
e divenuto una delle canzoni
rock più popolari e più belle
mai scritte?
a)
The Game
b)
Radio Ga Ga
c)
Bohemian Rhapsody
Soluzioni: 1. a), 2. b), 3. c), 4. b), 5.
c), 6. c), 7. a), 8. c), 9. a), 10. c).
quando debutta a Milano nel Mefistofele di Boito, prima tappa della sua sfolgorante carriera internazionale, torna in Italia con regolarità fino al 1913, alternando agli
impegni di natura professionale
visite ai familiari residenti in Italia, viaggi di piacere in località di
villeggiatura, e soggiorni a Monza,
dove gli Šaljapin hanno una casa
di proprietà. Ma una delle ragioni che lo attraggono più frequentemente in territorio italiano è l’amicizia con Maksim Gor’kij, che
va spesso a trovare a Capri. L’affinità tra Šaljapin e Gor’kij è tale,
sul piano biografico e spirituale,
che lo scrittore si assume l’impegno di redigere l’Autobiografia di
Šaljapin.
1900 – In maggio Šaljapin riceve per posta l’invito da parte
del direttore del Teatro alla Scala di Milano, Giulio Gatti Casazza, a esibirsi nel ruolo di protagonista nell’opera Mefistofele di
Arrigo Boito, di cui si prevedono dieci spettacoli nel marzo del
1901. Colto di sorpresa e intimorito all’idea di cantare alla Scala
in italiano, chiede 15.000 franchi,
un cachet altissimo, nella speranza che la direzione del teatro rifiuti, invece Gatti accetta e gli invia
prontamente il contratto. Šaljapin
compie dunque il suo primo viaggio in Italia nell’estate del 1900,
affitta un appartamento a Varazze,
dove studia l’italiano e prepara il
Mefistofele con l’aiuto dall’ami-
8 musica
Mercoledì, 30 novembre 2011
A RITMO DI NU METAL Chiacchierata con i Father in vista del loro concerto a Dubai
«Il successo? Ancora non ci crediamo»
di Ivana Precetti
T
ra qualche giorno suoneranno a Dubai – uno dei
sette emirati della penisola araba, universalmente noto per
i suoi centri commerciali, gli incredibili alberghi, la vita frenetica – e ancora non ci credono (il
2 dicembre si esibiranno al club
“At the Lodge”). Dall’ultima volta che li abbiamo intervistati (gennaio del 2010), quando ancora sognavano di suonare al fianco di
gruppi come i Korn e i Metallica,
non hanno fatto altro che... andare avanti e crescere, senza mai
fermarsi, diventando una di quelle band destinate al grande successo. Uno di quei primi sogni si è
avverato: nel 2007 hanno fatto da
gruppo apripista al concerto zagabrese dei Korn, che li avevano
voluti fortemente. Per i Metallica,
come dicono, dovranno aspettare
un altro po’....
Abbiamo incontrato i Father al
termine del loro mini-tour croatosloveno (andato alla grande), durato per tutto il mese di novembre,
per fare un... punto della situazione,
un’analisi della loro carriera. Oggi
sono una band di tutto rispetto,
adorati da una miriade di fan sparsi in tutto il mondo e rispettati da
musicisti e band di fama mondiale
(come un certo Bruce Dickinson,
soltanto per fare un esempio). Il
chitarrista Franjo – Jardas, il quale, diciamolo, ha frequentato l’ex
Liceo di Fiume – ha fatto da portavoce per questa breve intervista
rivelandoci che “l’invito per Dubai
ci ha sorpreso non poco. Ci è pervenuto via mail e dopo averla letta abbiamo pensato che un amico
avesse deciso di prenderci in giro.
Ci è voluto un po’ di tempo prima
di capire che era tutto vero”, ha raccontato. “È stato un organizzatore di eventi rock/metal di Dubai a
scoprire la nostra musica su Internet. Gli siamo piaciuti e ha deciso
di invitarci. Ovviamente, abbiamo
accettato senza pensarci due volte!
Semplice! Per il concerto non abbiamo preparato nulla fuori dal nostro ordinario. Lo show sarà sempre
lo stesso: tonnellare di rock and roll
puro al cento per cento! Ma Dubai
non sarà l’unica uscita all’estero:
in primavera partiremo per un tour
europeo e non vediamo l’ora”.
Com’è andata la vostra ultima tournée in Croazia e Slovenia? Che cosa fate tra un progetto e l’altro?
F: La tournée è andata veramente alla grande! Abbiamo offerto al pubblico un mix di brani tratti
dai nostri due album (“Inspirita” e
“One Eon”, nda), una mezz’oretta di repertorio e qualche sorpresa... Generalmente, tra un progetto
e l’altro, si pianifica quello successivo, si festeggia, si prova, si compongono canzoni nuove e... ci gusta
trovar la rima giusta (risata)! Sono
certo che faremo le stesse cose anche al termine di questo progetto.
In questo momento ci stiamo occupando della promozione dal vivo
del nostro album ‘One Eon’. Siamo veramente soddisfatti delle reazioni del pubblico e della critica
che, modestamente, è ottima. Oserei dire... eccellente. A volte ci sembra che i nostri album piacciano più
ai critici che a noi stessi. In quanto
a materiale nuovo, per il momento non abbiamo niente in cantiere,
però mai dire mai... Tutte le opzioni
rimangono aperte”.
Non possiamo non toccare
l’argomento Bruce Dickinson
I Father (al centro il nostro interlocutore Franjo Jardas)
(leggendaria voce degli “Iron
Maiden”), il quale ha lodato il
vostro album. Raccontaci.
F: “Bruce è una leggenda, non
soltanto per i metallari, ma per tutti
quelli che si intendono almeno un
po’ di musica e sanno chi sia e che
cosa faccia nella vita. Quando ti
rendi conto che una persona di questo calibro apprezza il tuo lavoro
e lo presenta nella sua trasmissione radiofonica, nientepopodimeno
che in onda sulla BBC, non puoi
che scoppiare di orgoglio. È un sogno! Ma è successo tutto durante il nostro tour in Gran Bretagna.
Il nostro CD gli è giunto in qualche modo tra le mani ed ecco che
ha voluto parlarne in onda. Ancora
stentiamo a crederci!”.
Perché avete scelto proprio la
Gran Bretagna per fare un tour?
F: “Perché è la culla del metal
e perché non è lontana. Ma anche
grazie ai nostri contatti con i promoter inglesi, che hanno espresso il desiderio di lavorare con noi.
Abbiamo goduto come matti ed è
stato come nel più remoto dei sogni: un furgone, cinque pazzi scatenati, un manager, un tecnico del
suono e via... Abbiamo suonato in
Inghilterra, Scozia, Galles e, visto
che eravamo in giro, abbiamo fatto
tappa anche in Olanda e Austria. Il
tutto accompagnato da un’atmosfera unica e da reazioni di pubblico
che certamente non ci aspettavamo.
Tra i nostri piani reconditi c’è anche una tournée in Europa e America, ma per ora non possiamo dire
nulla di concreto”.
Uno dei vostri sogni era suonare con i Korn. Nel 2007 ci siete riusciti. Com’è stato? E i Metallica?
F: “È stato fantastico anche se
durato poco. I Metallica, invece, ci
hanno invitati al loro tour, ma abbiamo dovuto rifiutare perché le
nostre mamme non ci permettevano di andare... (risata). Scherzi a
parte, è difficile che una cosa simile
possa succedere, anche se non bisogna mai smettere di crederci...”.
Avete anche collaborato alla
compilation “Hard and Heavy”...
F: “Esatto. Questa compilation
è uno dei progetti del nostro amico
Gordan Penava Pišta, leader del
gruppo ‘Hard Time’ e presentatore della storica trasmissione ‘Metal
mania’, unica nel suo genere che
tutti noi metallari ricordiamo con
grande nostalgia. Pišta ha raccolto
in uno i cd di alcune delle band più
‘graffianti’ del Paese. È una grande
compilation e noi siamo onorati di
farne parte”.
... e siete stati in tour con l’ex
Iron Maiden, Blaze Bayley.
F: “Proprio così. Con lui ci siamo fatti una tournée di tre giorni
in Serbia. È un tipo particolare:
quando, dopo mezza giornata, ha
visto che siamo ragazzi semplicissimi, ha iniziato a raccontarci
tutto di sé stesso. Siamo riusciti
a scoprire tante cose, anche sugli
Iron Maiden, ma soprattutto abbiamo imparato come funzionano
le grandi band. Abbiamo saputo
USCITE ROCK
cogliere qualche ottimo consiglio
e imparare qualche buona lezione,
come ad esempio di non abbuffarsi di ‘ćevapčići’ prima di salire sul
palco...”.
Vi aspettavate un successo del
genere?
F: “Il successo è una cosa relativa. Non pensiamo di essere arrivati,
ma cerchiamo sempre di fare bene.
Ai nostri inizi speravamo soltanto
di poter uscire dalle prove col sorriso sulle labbra e con il cuore pieno,
e sia quel che sia. Oggi la nostra filosofia non è cambiata. Lavoriamo
e suoniamo tanto perché senza impegno non si può raggiungere nessun traguardo. Lavorando, poi, arriva anche l’ispirazione”.
Ci sono in piano collaborazioni con altri musicisti?
F: “Non ne abbiamo mai parlato. Saremmo più propensi a qualche collaborazione inimmaginabile,
tipo i Father e Lidija Percan. Sarebbe un successo!”.
Avete tentato di conquistare il
mercato italiano?
F: “Abbiamo tenuto un concerto
in Italia, nella nostra città gemellata Faenza, ed è stato fantastico, ma
nient’altro di serio. Un giorno forse... C’è tempo”.
Che cosa fate quando non suonate?
F: “Ognuno ha un lavoro fisso,
per cui il tempo a disposizione per
suonare è piuttosto esiguo, ma ce la
caviamo comunque. Ah sì, dimenticavo, giochiamo anche a bocce per
la squadra di Montegrappa (rione di
Fiume, nda) (risata)!”.
L’ultima domanda è dedicata
al pubblico. Che rapporto avete
con i vostri fan?
F: “Ogni pubblico, sia nostrano
sia straniero, ci accoglie con la stessa energia, non ci sono grandi differenze. Chi ama una musica impetuosa e senza compromessi come la
nostra, reagisce sempre alla grande.
Anche a Fiume (risata)”.
Pubblicato il volume «Riječke rock himne»
Tre decenni di storia racchiusi in 60 canzoni
Che canzone è stata incisa in
studio su una chitarra non intonata?
Qual è il primo brano punk scritto
in ciakavo? Quale grande hit è nato
in un bagno? Quale canzone è stata
tra le prime a esser censurate nella
Croazia indipendente? Queste sono
soltanto alcune delle domande alle
quali ha risposto il libro “Riječke
rock himne“ (Gli inni rock fiumani) di Zoran Žmirić, presentato recentemente al club Palach a Fiume,
dinanzi a un folto pubblico composto da numerosi esponenti del ricco
panorama musicale fiumano di ieri
e oggi. Il volume, pubblicato dalla
Società artistico-culturale “Baklje”
con il sostegno della Città di Fiume, del club Palach e della filiale
fiumana dell’Associazione nazionale dei musicisti (HGU), tratta le
origini e la genesi di alcuni dei migliori brani rock di queste terre nati
tra il 1979 e il 2009 alcuni dei quali
“Troje” degli Xenia, “Vjeran pas”
dei Termiti, “Narodna pjesma”
dei Paraf e “Oči su ti ocean” delle
E.N.I. L’autore racconta la storia di
60 canzoni che spaziano dal rock,
al punk, jazz, heavy metal, pop, hip
hop, hard core... scritte nell’arco di
trent’anni, riportando pure i dati
biografici degli esponenti più creativi della scena musicale fiumana
con storie relative all’origine dei
nomi delle varie band.
UN’IDEA NATA DAVANTI ALLA TV Come spiegato da
La copertina del libro
Žmirić, l’idea di scrivere un libro sulle canzoni rock gli è venuta
dopo aver visto su Internet una lista
di dieci brani fiumani. “L’idea mi
è piaciuta, anche se non ero d’accordo con la scelta delle canzoni.
Quindi ho buttato giù una mia lista di brani, dopodiché ho deciso di
inquadrare il periodo tra il 1979 e
il 2009. Ho scelto proprio il 1979
perché è stato questo l’anno in cui
si è tenuta la prima edizione del festival ‘Ri-rock’ e in cui è stato sfornato il primo disco dei ‘Vrijeme i
zemlja’ – ha rilevato Žmirić -. Il
criterio che ho adottato nella selezione dei brani è stata la mia preferenza personale. Si tratta di can-
zoni che mi sono molto care e che
fanno parte della scena musicale
che amo e appoggio“, ha aggiunto. La realizzazione del libro è durata tre anni, periodo in cui l’autore ha svolto centinaia di interviste e
numerose ricerche durante le quali
– ha raccontato – ha trovato alcuni
brani che personalmente non erano di suo gradimento ma che non
ha potuto ignorare. Uno di questi,
‘Moja domovnica’ degli McBuffalo & Maderfankerz (rifacimento
ironico del brano ‘Moja domovina’
cnato durante la Guerra patriottica), che è stato anche il primo brano sottoposto a censura nella Croazia indipendente.
PUNTO DI VISTA DIVERSO Alla presentazione del libro
hanno partecipato anche il giornalista Bojan Mušćet e lo scrittore Velid Đekić, il quale si è detto
molto compiaciuto per il fatto che
al primo volume che ha sintetizzato la storia del rock fiumano (“91.
decibel”, scritto dallo stesso Đekić
qualche anno fa) sia seguito un altro. „Sarei molto contento se anche altri autori si addentrassero
nella ricca e complessa storia del
rock fiumano e la esplorassero da
un punto di vista diverso“, ha concluso Đekić. Il libro “Riječke rock
himne“ conta 464 pagine illustrate
e 180 fotografie e può venir acquistato al prezzo di 150 kune.
Helena Labus Bačić
Anno VI / n. 53 del 30 novembre 2010
“LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina
IN PIÙ Supplementi a cura di Errol Superina
Progetto editoriale di Silvio Forza / Art director: Daria Vlahov Horvat
edizione: MUSICA [email protected]
Redattore esecutivo: Ivana Precetti Božičević / Impaginazione: Annamaria Picco
Collaboratori: Viviana Car, Helena Labus Bačić, Wilma Szatary
Foto: Graziella Tatalović e archivio
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