Intervento all’incontro “Cosimo Fanzago e l’arte del Seicento nell’Avellino dei Caracciolo”. Avellino, 12 giugno 2010 Micaela Caiafa LE STATUE DELLA DOGANA e “LA VENERE DI AVELLINO” Questo articolo nasce dalla speranza di poter segnare un punto di partenza e non di arrivo per un futuro studio accurato e soprattutto di carattere scientifico, spero non troppo lontano, delle statue e dei busti che fino a qualche decennio fa rappresentavano la parte principale dell’apparato decorativo della facciata della Dogana di Avellino. L’analisi delle opere che andrò a presentare in questo lavoro è stata purtroppo portata avanti solo attraverso una lettura iconografica, abbastanza complicata, basata sulla osservazione di fotografie, che ben comprensibilmente non consentono di poter effettuare uno studio preciso. Solo una adeguata analisi autoptica potrà consentire di giungere a risultati validi dal punto di vista scientifico e potrà restituire finalmente quella dignità e quella giusta importanza, perse ormai da tempo, che le statue ed i busti e l’intero edificio hanno difeso per secoli. La Dogana, dono del Principe Francesco Marino I Caracciolo, quarto principe di Avellino, alla città fu una vera e propria opera di munificenza, commissionata al Cosimo Fanzago in occasione della sistemazione della piazza, che di lì prese il nome di Piazza Della Dogana, e fu realizzata laddove era già presente un edificio, una casa diruta. Quello che fu realizzato divenne ben presto il simbolo di una città che era riuscita a risollevarsi da due immani tragedie: l’occupazione ed i continui saccheggi delle bande dei seguaci di Masaniello e la peste, che in poco tempo aveva decimato la popolazione. Il Principe decise di realizzare non un semplice granaio ma una vera e propria opera d’arte, importante non solo dal punto di vista puramente funzionale ma anche simbolico. Un “Tempio di Cerere”, ecco come F. Marino I Caracciolo volle definire l’edificio e l’epigrafe al centro della facciata ricorda proprio questo. La Dogana dunque è detta “Tempio di Cerere”, casa della dea italica in cui i Romani identificarono la dea Demetra, dea delle messi e della fertilità che insegnò agli uomini a costruire l’aratro e a coltivare i campi, il cui simbolo è proprio la spiga di grano. Un tempio che avrebbe dovuto rappresentare la salvezza per quanti erano scampati alla peste e che proprio grazie ad esso non avrebbero dovuto patire anche la fame. Come ogni tempio che si rispetti, anche questo venne fornito di un adeguato apparato decorativo. Il Principe, volendo rendere ancor più elegante e prezioso l’edificio, vi fece porre sulla facciata quanto di più bello era riuscito a trovare nel ricco mercato antiquario dell’area napoletana e flegrea:sei statue, quattro busti e due grandi leoni accovacciati, quest’ultimi inseriti nei due angoli inferiori della facciata, in posizione speculare. Queste opere erano collocate sulla facciata come se fossero organizzate secondo dei veri e propri registri decorativi. Sul tetto piano dell’edificio, a mò di acroteri, vi erano la statua del Pothos e la statua della Niobide; sotto di esse, nella parte superiore della facciata, in due nicchie vi erano rispettivamente la statua di Venere Anadiomene e la statua di Marino I Caracciolo, poste in posizione simmetrica l’una all’altra e rispetto all’epigrafe centrale. Questo stesso spazio è scandito da quattro tondi nei quali erano collocati i busti di altrettanti uomini illustri di potere dell’antichità, rappresentanti di una politica illuminata: da sinistra, per chi guarda, Augusto, Adriano, Pericle ed Antonino Pio. La parte inferiore della facciata è caratterizzata da cinque ampie arcate di cui quella centrale costituisce l’ingresso dell’edificio ed è affiancata, nella parte superiore, da due piedistalli sormontati, ciascuno, da una statua, a sinistra, per chi guarda, quella di Diana e a destra quella di un giovane, L’Efebo. Come già detto in precedenza, la mancanza dell’autopsia delle statue rende difficile qualsiasi tipo di studio su di esse. Qui mi limiterò a portare avanti alcune ipotesi che, sempre tenendo conto della sola visione fotografica, ritengo, almeno per ora, sostanzialmente valide. Le statue del Pothos, della Niobide e della Venere Anadiomene sono molto probabilmente copie romane di originali greci, mentre quelle di Diana e dell’Efebo, nonché di Marino I Caracciolo, sono quasi certamente di epoca seicentesca. Per ciò che concerne i busti quello di Adriano, di Augusto e di Antonino Pio sono ascrivibili con probabilità all’epoca barocca, mentre quello di Pericle è di datazione incerta o comunque presenta la base ed il busto forse seicenteschi e la testa probabilmente di epoca romana ( II sec. d.C.). Infine i grandi leoni, che sorreggono con le zampe anteriori ciascuno uno stemma, sono stati eseguiti nel ‘600. Partendo ancora una volta dall’attico analizziamo brevemente le statue, focalizzando l’attenzione su quella della Venere. La statua del Pothos, acefala purtroppo, a sinistra per chi guarda, rappresenta la figura di un giovane in posizione stante, su una base parallelepipeda. Il corpo è abbandonato, sostenuto dal solo tirso dionisiaco, con le gambe incrociate e la testa leggermente piegata. È molto probabilmente una copia romana di I-II sec. d.C. ispirata all’originale modello greco, ben più famoso, il Pothos di Skopas, grande scultore ed architetto di IV sec. a.C. che ebbe grande influenza sull’arte ellenistica, inventore dello stile patetico, così chiamato per il pathos (sentimento) espresso dai volti e dai corpi delle sue opere. Il giovane è la personificazione del desiderio amoroso inquieto e commosso verso l’oggetto lontano. Appare nel corteo di Afrodite (Venere), di cui è figlio, accanto ai fratelli Eros e Himeros. Và detto che solo recentemente si è riconosciuto nella statua il Pothos, dato che in passato si pensava ad Apollo. In realtà l’equivoco è ricorrente anche da parte di esperti, basti pensare alla statua di Pothos conservata ai Musei Capitolini restaurata come Apollo Citaredo. Anche nell’edificio avellinese forse si è verificato tale equivoco: l’intento era probabilmente quello di porre una statua di Apollo e dunque solo per caso è stata posta quella del Pothos. Ma non dimentichiamo però il rapporto tra il Pothos e Venere, qui sottolineato anche dalla corrispondenza spaziale. Sempre sull’attico vi era la statua di Niobide. La scultura, acefala, rappresenta una figura femminile in posizione stante, vestita con un lungo chitone che avvolge il corpo carnoso e ne lascia intravedere il volume. Ispirata ad archetipi del tardo classicismo greco è databile al I-II sec. d.C. Niobide è, secondo la mitologia greca, la figlia maggiore di Niobe, regina di Tebe, sposa di Anfione, da cui ebbe sette figli maschi e sette figlie femmine. Fiera della sua prole osò paragonarsi a Latona, ritenendosi addirittura superiore ad ella. Ciò scatenò l’ira della titanessa che da Zeus aveva avuto solo due figli: Apollo ed Artemide (Diana). Furono proprio i suoi figli a vendicare l’onta subita uccidendo, con le loro frecce, tutti i figli di Niobe, che dopo l’eccidio decise di lasciare Tebe e di rifugiarsi dal padre sul monte Sipilo dove fu trasformata in una pietra da Zeus, mosso a pietà. Da allora quella pietra versa lacrime che alimentano un ruscello che scende nella piana sottostante. Passiamo ora al registro decorativo superiore della facciata tralasciando per un momento la statua della Venere. A destra dell’epigrafe vi è la statua del Principe Marino I Caracciolo, certamente un’opera del ‘600, attribuita da alcuni allo stesso Cosimo Fanzago per la sua pregevole fattura e rarità. Rappresenta il Principe come un condottiero; a capo scoperto, indossa un’armatura finemente lavorata ed impugna con la mano destra, ora mancante, la grande asta da cavalleria, mentre la sinistra risulta poggiata sul fodero della spada che manca sia dell’elsa che della parte inferiore. Sulla base a sinistra è poggiato l’elmo del condottiero. Oltre gli intenti commemorativi qui si vuole esaltare la figura del grande uomo politico, paragonato non a caso a grandi uomini di potere dell’antichità. Nel solco proprio di questi predecessori illustri, il Principe promuoveva la sua figura come quella del “buon uomo di potere “ : è un atto di autocelebrazione e di propaganda politica. Infatti sempre in questo registro decorativo vi sono i quattro tondi in cui compaiono busti di uomini del passato che hanno incarnato l’ideale del “buon governo”. Da sinistra, per chi guarda, nel primo tondo vi era Augusto, primo imperatore romano, padrone assoluto dello Stato romano dal 31 a.C. al 14 d.C. Il busto è di tipo loricato, cioè armato di lorica, leggera corazza dei soldati romani,e la testa ritrae l’imperatore in età adulta. Segue il busto di Adriano, successore di Traiano, imperatore dal 117 al 138 d.C., ricordato per la sua grande cultura e per gli sforzi nella risoluzione dei problemi interni che opprimevano l’impero. Anche qui il busto è loricato ma con gorgoneion centrale e il mantello rigirato che poggia sulla spalla sinistra. Il terzo tondo accoglie il busto di Pericle, figura principale della scena politica ateniese a partire dal 461 a.C.. Come detto prima, qui la testa forse è di II sec. d.C., mentre il busto di tipo loricato è del ‘600. Elemento caratterizzante è l’elmo corinzio, appoggiato sul capo e non indossato completamente, come tipico dell’iconografia del personaggio, con barba folta e in atteggiamento severo. Infine il quarto busto è quello di Antonino Pio, anch’esso raffigurato barbato. Imperatore dal 138 al 161 d.C., nel segno della continuità con Adriano, è ricordato per il suo impero tranquillo e sereno. Al registro decorativo inferiore appartengono le statue di Diana e dell’Efebo. La prima, acefala, raffigura una giovane fanciulla in posizione stante con la gamba destra leggermente avanzata, il braccio sinistro steso lungo il corpo ed il destro mancante. Indossa un lungo chitone ed una sopravveste cinta alla vita e che lascia scoperto un seno e la spalla sinistra. La faretra sul retro è sorretto da una cinghia che attraversa diagonalmente il busto. È una statua quasi certamente seicentesca; nell’iconografia classica, infatti, Diana è similmente abbigliata ma non presenta il seno scoperto, caratteristica questa, invece, dell’iconografia dell’Amazzone. Diana (Artemide, sorella di Apollo) è la divinità della caccia, che protegge gli uomini dalle belve e che spesso è identificata come divinità protettrice della fertilità. L’ultima statua è quella dell’Efebo che presenta diverse problematiche. È abbastanza evidente, a mio parere, anche solo dalla fotografia che la statua sia priva di una generale armonia compositiva; sembra che sia stata assemblata con diversi pezzi. La testa è decisamente sproporzionata rispetto al resto del corpo. Tutta la figura gravita sulla gamba sinistra, dietro cui si nota un puntello a forma di tronco di cono. È forse di epoca seicentesca ma davvero è difficile poter affermare qualcosa di più. Probabilmente è proprio nell’Efebo, giovane che simboleggia la bellezza e la giovinezza maschile, la forza ed il vigore, che la figura di Apollo, in giovane età è raffigurato. La Venere. Concentriamoci ora sulla statua della Venere che merita un’attenzione particolare. È vero che la statua non proviene da Avellino ( Pescatori riporta parte di un documento in cui si sottolinea che la statua apparteneva al Museo Spatafora di Napoli fino al 1589, poi da qui passò al Duca di Caiavano a Chiaia e nel 1640 fu venduta al Principe di Avellino) ma la sua presenza sulla facciata della Dogana di Avellino non è un caso. Occupa una posizione di rilievo essendo posta simmetricamente a quella di Marino I Caracciolo ed indicando così un particolare rapporto con essa. Prima di tutto ritengo necessario partire da una nozione storica importantissima ai fini della comprensione del perché della presenza di tale statua. Nel territorio della tribù irpina degli Abellinates fu dedotta la colonia romana di Abellinum, anche se l’epoca di fondazione non è precisabile con certezza. Diverse sono le ipotesi. Si potrebbe pensare ad una deduzione graccana: il programma coloniale di Caio Gracco, a seguito dell’affermazione della legge agraria del 123 a.C., Lex Sempronia, prevedeva un’intensa attività di riorganizzazione fondiaria anche nel territorio irpino, dove molte sono le testimonianze, tra cui tracce di centuriazione riconosciute da Johannowski nella piana di San Michele di Serino. In tale quadro storico ben si ascriverebbe a deduzione graccana anche la colonia di Abellinum che fu denominata “Colonia Veneria Livia Augusta Alexandriana”, titolatura nota da una tarda iscrizione del 240 d.C. Il titolo Veneria richiamerebbe l’uso di attribuire alle nuove deduzioni coloniali graccane o di ispirazione graccana i soprannomi di divinità come Minervia, Neptunia, Iunonia, etc…, al fine di distinguerle dalle altre. Ma Veneria, è giusto ricordarlo, andrebbe bene anche per una deduzione sillana, in quanto Venere era la divinità personale di Silla: basti pensare a Pompei ( con cui Avellino, tra l’altro, ha uno stretto legame, come sottolinea il Prof. Camodeca) detta Colonia Cornelia Veneria. Inoltre resta dubbio se la fioritura di Abellinum nella prima età augustea sia indice di un intervento coloniale augusteo ( l’attributo Livia è del tutto incerto sia per lettura che per significato). Comunque se si accettano i dati del Liber Coloniarum bisogna ammettere una deduzione che se non sillana deve certo cadere tra Cesare ed Augusto. Allo stato attuale della documentazione si potrebbe preferire l’ipotesi di una fondazione graccana, anche se è opportuno ribadire la mancanza di elementi per un giudizio definitivo come ricorda Camodeca. Ci piace pensare che la colonia di Abellinum volle porsi sotto la protezione di Venere madre, dea non solo della bellezza e dell’amore ma anche della fecondità e delle fertilità, perché il luogo stesso dove sorgeva aveva un fascino speciale e rappresentava la ricchezza stessa della natura. Di questo era convinto anche Scipione Bella Bona, primo grande storiografo di Avellino di metà ‘600, e di questo certamente era convinto anche il Principe Francesco Marino I Caracciolo quando decise di far collocare la statua di Venere in posizione preminente. Venere diviene il simbolo di Avellino. Venere rappresentava la cittadinanza tutta di Avellino, con cui il Principe instaurò un rapporto tanto importante da essere paragonato a quello matrimoniale. La statua della Dogana è acefala,nuda, coperta solo da un panno all’altezza del pube e priva di entrambe le braccia, copia romana di I-II sec. d.C.. L’iconografia è quella propria della Venere Anadiomene , dal greco ảναδύοµαι = emergo, sorgo dalle onde, uno dei tanti appellativi dato alla dea e con allusione alla sua nascita dalle onde del mare. L’eccezionalità della nostra statua sta nell’appartenere ad una tipo statuario di cui abbiamo importanti esempi sparsi nel mondo. Tale rappresentazione iconografica trae origine da un quadro di Apelle, pittore ufficiale della corte macedone della fine del IV sec. a.C., oggi perduto ma ricordato da Plinio il Vecchio nella sua N.H. con aneddoto relativo all’uso di Campase, amante di Alessandro Magno, come suo modello. Questo quadro sarebbe stato acquisito da Augusto a Coo e portato a Roma. Sarebbe però da attribuire a Vespasiano la diffusione del soggetto in età Flavia ( I sec. d.C.) soprattutto testimoniato dal ritrovamento di diversi esempi ascrivibili a tale periodo e dall’uso diffuso a Pompei nella decorazione delle abitazioni private e degli edifici pubblici. Ricordiamo a tale proposito modelli anche più noti come la Venere Landolina di Siracusa, la Venere di Venafro, la Venere di Sinuessa, la Venere di Alba Fucens, fino ad arrivare molto lontano con la Venere di Nisa, cittadella di epoca partica del Turkmenistan. Venere incarna l’ideale della bellezza femminile e del nudo femminile e in epoca romana il maggior numero di riproduzione appartiene ai sec. II e I a.C., in cui è viva la tradizione scopadea e prassitelica: non è concepibile infatti tralasciare un riferimento alla Afrodite Cnidia di Prassitele (IV sec. a.C.). Il motivo fu ripreso con varianti relative fino all’Ellenismo. Gli artisti successivi si trovarono di fronte ad interpretazioni diverse di questo prodotto iniziale: siamo nel tardo Ellenismo, momento a cui si può riferire la Venere di Siracusa. La statua di Avellino presenta un modellato carnoso in cui si notano la morbidezza e la rotondità delle parti nude, un panneggio mosso ed elaborato, artificioso, realizzato come una svela svolazzante sospinta da un forte vento, in netto contrasto con le gambe ben levigate , che rende l’idea del movimento, seppure la statua sia stante, proprio nel momento dell’uscita dalle acque. L’assenza della testa non permette ulteriori confronti come ad es. è possibile per la Venere di Venafro che richiama proprio nella capigliatura l’Afrodite Capitolina, in cui ritorna il motivo ideale prassitelico della dea al bagno. Venere (venus,eris = bellezza) é l’appellativo che i Romani diedero alla dea greca Afrodite, dea della bellezza e dell’amore spirituale e sensuale, inteso anche come attrazione delle varie parti dell’universo tra di loro per conservare e procreare. Due sono le versioni riguardante la sua nascita. Secondo Omero era figlia di Zeus e Dione e fu sposa, spesso infedele, di Efesto, dio deforme del fuoco e fabbro dall’indiscutibile bravura. A detta di Esiodo, invece, Venere emerse dalla spuma del mare, in una giornata di primavera, la stagione che dà avvio al ciclo della vita sulla terra e nel mare, e fu portata dagli Zefiri prima a Citera e poi da lì su una conchiglia fu trasferita sull’isola di Cipro. Dalle due isole le derivano gli appellativi di Ciprigna e di Citerea. Le era sacra la colomba. Dalla sua unione con Ares, dio della guerra (Marte dei Romani), nacque Eros, che simboleggia l’amore fisico, Himeros che simboleggia il desiderio dell’altra persona dinanzi agli occhi, Pothos l’oggetto lontano e infine Anteros che punisce chi non ricambia l’amore. Da un mortale, Anchise, Venere ebbe il figlio Enea, eroe troiano che, fuggendo da Troia in fiamme col padre e il figlio Iulo, giunge in Italia dove proprio i discendenti di Iulo daranno origine alla grandezza di Roma. Sfortunato invece fu l’amore per il giovane e bellissimo Adone che morì ucciso da un cinghiale; dal suo sangue nacquero gli anemoni rossi. Messaggio nascosto delle statue L’importanza dell’apparato decorativo della Dogana di Avellino risiede non solo nel valore delle singole statue ma anche nel messaggio che il Principe ha affidato ad esse. Infatti possiamo leggere le statue in un modo nuovo non come semplici elementi ornamentali ma come parti di un unico messaggio poste lì con un intento preciso. Apollo nel mito non era solo il dio della bellezza, dei vaticini, del sole ( identificato con Elio) ed il dio di tutto ciò che era soggetto alle regole del ritmo e dell’armonia ( musica, canto, poesia). Nella tradizione classica Apollo era anche la divinità che dava la morte agli uomini con i suoi dardi ed insieme a sua sorella Diana, dardi che provocavano anche le pestilenze. Ma, secondo l’ambivalenza tipica di tante figure mitologiche, Apollo era anche il dio della guarigione, che trasmise ad Asclepio, suo figlio, l’arte della medicina, dunque colui che allontana il male. La presenza di Apollo è evocata nella Dogana, oltre alle statue, forse equivocate, anche dalla statua di Niobide, ovvero una delle figlie di Niobe uccisa proprio dai figli di Latona. Non è un caso che anche Diana ( Artemide) sia presente nell’apparato statuario dell’edificio. La città un giorno fu colpita a morte dal male della peste che decimò i suoi figli, come i figli di Niobe trafitti dai dardi di Apollo e Diana. Il Principe di questa città decise di costruire un tempio-granaio perché dopo la pestilenza i suoi figli e la città tutta, risorta e rinata, non venga colpita dalla fame e vi ha posto a guardia proprio quegli dei che avevano seminato il flagello, in funzione apotropaica.