CASELLI
GIANCARLO CASELLI *
D
opo quanto è successo in questa settimana non
posso non stravolgere la scaletta dell’intervento che
avevo preparato. Ho lavorato a tempo pieno per
una decina d’anni, dal ’73 all’82, come giudice istruttore di
Torino sul versante dell’antiterrorismo: Brigate Rosse e
Prima Linea. Per questo mi sembra doveroso fornire una
testimonianza che considero significativa, sul ruolo del sindacato nella lotta contro il terrorismo.
In una prima fase ci furono un po’ dovunque equivoci,
ambiguità, molta confusione: le Brigate Rosse erano ‘sedicenti’ rosse; fascisti travestiti di rosso, compagni che sbagliano, fino al famigerato «né con lo Stato, né con le
Brigate Rosse», che erano in pochi a gridare ma in molti di
più a condividere.
Anch’io ho avuto i miei problemi nella corrente associativa della magistratura di cui facevo, e faccio, parte.
Fuori dalla magistratura, spesso e volentieri, in questa
prima fase, venivo accusato pubblicamente di essere fascista, di essere il ‘servo sciocco’ del generale Dalla Chiesa, di
essere il braccio giudiziario della repressione del dissenso,
dell’antagonismo sociale e così via.
Nella mia città il momento più cupo, più tragico, fu
quando, nel 1977, le Brigate Rosse uccisero l’avvocato
Croce per impedire la celebrazione del processo ai capi storici delle Brigate Rosse davanti alla Corte di Assise Torino.
Per la prima volta – nella storia giudiziaria italiana non era
mai successo, nemmeno nei processi di mafia – non si riuscì
a formare la giuria popolare, cioè non si trovarono sei cittadini disposti a mettersi la fascia tricolore.
* Procuratore generale a Torino.
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Il processo saltò e quello fu un momento terribile per la
nostra città. Da qui, però, parte uno sforzo collettivo per
invertire la tendenza. L’ente locale, ma soprattutto il sindacato, sono in prima fila per organizzare una serie di iniziative, in particolare decine, centinaia, migliaia di assemblee, soprattutto nelle fabbriche, per discutere con l’arma
della democrazia, confrontarsi, riflettere sulla natura di
questo fenomeno.
Questo è forse un capitolo poco conosciuto, ma che varrebbe la pena di studiare, perché non è stato un momento
facile. Si tenevano assemblee, organizzate soprattutto dal
sindacato, alle quali partecipavano anche ‘i magistrati di
guerra’, secondo il linguaggio brigatista, e nasceva il sindacato di polizia.
Torino, città sempre in prima linea nelle lotte democratiche, ha paura, ma alla fine si tengono assemblee oceaniche di fabbrica: la Quinta Lega di Mirafiori organizza tutto
quello che si può organizzare, con una partecipazione massiccia alle presse, alle fonderie, alle carrozzerie.
È nel ’77 che faticosamente il sindacato mette in piedi
un grande movimento contro il terrorismo, ben prima dell’uccisione di Moro e di Guido Rossa. Comincia a fare
chiarezza discutendo, dimostrando che la lotta armata, la
violenza terroristica non offrono nessuna prospettiva, e che
non ci si può illudere che su questo versante ci possano
essere dei cambiamenti in positivo, ma che, al contrario, ci
sono solo pericoli. A quel punto è chiaro che se il terrorismo non viene fermato, si va verso una mutazione genetica sul piano della civiltà, delle regole di convivenza, dei
diritti, delle libertà.
Nel momento in cui si riesce a fare chiarezza sulla realtà
del fenomeno e dei pericoli che tutti corrono, gli equivoci,
l’ambiguità, la confusione del primissimo momento vengono
spazzati via e inizia l’isolamento politico dei terroristi.
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Questi ultimi si rendono conto che sono solo l’avanguardia di se stessi. L’isolamento politico è la premessa perché anche l’azione investigativo-giudiziaria possa penetrare più nel profondo.
Il primo giorno della ripresa del processo ai capi storici
delle BR, davanti alle Assise di Torino, nel 1978, viene
segnato dall’uccisione del maresciallo Berardi, un uomo
della Polizia di Stato, che – agli ordini del questore Santillo
– aveva operato proprio sul versante dell’antiterrorismo
brigatista.
L’ultimo giorno, quando la Corte d’Assise di Torino entra
in Camera di Consiglio, con un cinismo criminale che forse
abbiamo dimenticato, le Brigate Rosse uccidono a Genova il
commissario Esposito, che aveva lavorato a Torino con speciale intelligenza sul versante di questo processo.
E l’intero arco di questa sessione processuale, nel corso
del 1978, è cadenzata da fatti criminali gravissimi, in particolare dalla strage della scorta di Moro, con il sequestro
dello statista. Il primo volantino di rivendicazione chiede
la liberazione di alcuni detenuti alla sbarra, davanti alle
Assise di Torino, in cambio di Moro.
Questa volta, però, il processo si conclude nel rispetto delle regole, persino dell’identità politica dei detenuti, ai quali viene consentito di contro-interrogare il
magistrato Sossi che nel ’74 era stato sequestrato. Ma
questo momento segna anche il crollo degli assunti politici su cui le Brigate Rosse avevano fondato le loro scelte e le loro pratiche terroristiche: la certezza che la lotta
armata non si processa, che la rivoluzione non si condanna, che ciò sarà possibile solo se lo Stato sovvertirà le
regole trasformandosi da uno Stato di diritto in Stato
reazionario fascista.
Anche sul versante dell’isolamento politico il ruolo del
sindacato è decisivo, e non lo dico perché sono ospite di un
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incontro organizzato dalla CGIL, ma perché è l’esperienza che
ho maturato svolgendo la mia professione di magistrato.
Oggi, di fronte a tutte queste polemiche, discussioni,
interrogativi sul sindacato, bisogna tenere alta la guardia,
cercare di essere quanto più possibile selettivi, per non
consentire infiltrazioni. Tutto questo è fuori discussione,
ma non dobbiamo dimenticare mai che le Brigate Rosse di
allora, e credo anche quelle di oggi, a dispetto di tutti i loro
proclami, sono, dal punto di vista politico, subalterne, perché vanno sempre a rimorchio delle scelte faticose, contrastate e, a volte, discutibili che movimenti, fabbriche e sindacato stanno cercando ogni giorno di portare avanti.
Sono cioè qualcosa che ricorda i parassiti, organismi che
vivono a spese di altri, insinuandosi all’interno della superficie dei corpi.
Per questo motivo le BR hanno bisogno di infiltrarsi, di
agire dove si coltivano rivendicazioni più che legittime,
sperando di trovare ‘filtri critici’ deboli, che non hanno
riflettuto sul fatto che, dopo dieci, quindici anni dalla terribile esperienza del terrorismo delle Brigate Rosse, non
solo non è cambiato niente nel nostro paese, ma, anzi,
abbiamo rischiato che si determinasse un arretramento sul
piano dei diritti, delle garanzie, delle conquiste sociali.
Detto questo, io credo che il sindacato abbia un ruolo centrale e molte delle cose che ho sentito questa mattina lo
confermano. Questo ruolo centrale nasce in contrapposizione a una filosofia che, secondo me, si sta diffondendo
sempre più, quella del ‘così fan tutti’: cioè, non vale la pena
di occuparsi di certi problemi, perché tanto così va il
mondo.
La filosofia del ‘chi sbaglia (soprattutto se conta, soprattutto se ci sa fare) non paga mai’, una filosofia che si intreccia con la politica dei condoni, con la politica delle leggi
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mirate su specifiche esigenze personali di questo o di quello. Una filosofia che ha come interfaccia la crisi della questione morale, il prevalere degli interessi individuali, particolari sull’interesse generale. Questa filosofia si rafforza
perché è presente in ciascuno di noi – si tratta, allora, di
rendersene conto, per contrastarla – e ci spinge a essere
severi, spietati con gli altri per poter invocare maggiore
indulgenza nei nostri confronti.
Attenzione, perché questa filosofia rappresenta la
rampa di lancio delle tante furberie, delle tante illegalità, delle tante ingiustizie di ogni genere che purtroppo
caratterizzano ancora oggi il nostro paese e, di passaggio
in passaggio, senza naturalmente voler fare di tutta l’erba un fascio, si arriva alle varie manifestazioni di crimine organizzato.
Bisogna rompere questa spirale perversa e il sindacato
ha un ruolo fondamentale e decisivo su questo terreno; una
spirale che può portare – e sta portando – a strappi profondi che rischiano di ridurre drasticamente il senso morale
della nostra comunità.
Questo, secondo me, è oggi il problema centrale, questa
è la posta in gioco; e ridare credibilità, efficienza, rigore,
trasparenza, alla pubblica amministrazione, per poter dare
una risposta adeguata a quanto ho detto finora, diventa
oggi decisivo.
Il sindacato, a mio parere, ha un ruolo centrale anche
per quanto riguarda la diffusione di un principio fondamentale, e cioè che la legalità non è questione di ‘guardie
e ladri’ – se vincono le guardie va bene, ma se non vincono va bene lo stesso e andrà meglio un’altra volta – ma una
questione che riguarda direttamente la qualità della nostra
vita. Questo vale per quanto riguarda le grandi questioni
nazionali come la mafia, la sicurezza urbana, il terrorismo,
la sicurezza sui posti di lavoro.
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Voglio aggiungere qualcosa solo sulla sicurezza urbana.
Sono assolutamente convinto che a sinistra, prestando
maggiore attenzione ai problemi generali piuttosto che agli
interessi individuali, ci si debba sempre più occupare anche
della sicurezza urbana, che è una grande questione democratica non soltanto per quel che riguarda la difesa dei piccoli beni, della tranquillità della nostra vita quotidiana, ma
soprattutto per il rischio che la sua messa in discussione
può comportare per le forme civili di convivenza. Voglio
dire che l’insicurezza urbana uccide, soffoca la voglia di
confronto, di dialogo, soprattutto con chi è diverso da noi;
può rendere difficile l’impegno, la partecipazione, e anche
la voglia di fare politica, di partecipare alla ricerca di soluzioni giuste dei problemi che ogni giorno dobbiamo affrontare; può spingere a ritirarsi nel privato, nelle angosce individuali che attraversano ciascuno di noi.
Infine, voglio parlare di pubblica amministrazione parlando di giustizia. Va respinta l’illusione repressiva, perché
non bastano le manette, però l’intervento investigativogiudiziario deve in ogni caso funzionare al meglio.
Ma com’è possibile quando mancano mezzi, risorse,
uomini? Siamo d’accordo che le spese vadano controllate,
ma è difficile contenerle entro limiti che ignorano la realtà, fissati in base a valutazioni di carattere meramente
ragionieristico. Questo potrebbe avere un senso soltanto se
un analogo contenimento fosse imposto ai mezzi in dotazione al crimine e al malaffare.
Io credo che impoverire gli uffici giudiziari significa
ridurre le possibilità di fare adeguatamente fronte alla
domanda di giustizia; significa correre il rischio di garantire minore sicurezza e minore tutela dei cittadini.
Già due anni fa, inaugurando l’anno giudiziario a
Torino, dissi – e oggi, purtroppo, lo debbo ripetere – che
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continuando a ridurre i mezzi a disposizione degli uffici
giudiziari, si potrebbe ottenere – mi rendo dell’ironia paradossale, ma purtroppo non tanto lontana dalla realtà – che
alla tradizionale formula di ‘proscioglimento per mancanze
di prove’ se ne aggiunga un’altra: ‘assolto per mancanza di
soldi, uomini e mezzi’.
Allora, bisogna intervenire, bisogna dare segnali di discontinuità forti e al più presto.
Il ministro Castelli, il 17 e 18 gennaio 2006, parlando
ufficialmente alle Camere, ebbe a vantare come titolo di
merito la riduzione di 1354 unità tra segretari e cancellieri,
in ottemperanza alle decisioni del governo di ridurre la spesa
pubblica, dimenticando che non avendo per cinque anni
bandito nessun concorso per nuove assunzioni di segretari e
cancellieri, oggi facciamo i conti con una carenza del 15%,
che in alcune zone raggiunge il 30%, rispetto all’organico
necessario per far funzionare gli uffici giudiziari.
E allora, poiché è cambiata la maggioranza, diventa un
titolo di merito invertire la tendenza rispetto a quanto
rivendicato dal ministro Castelli. Altrimenti, il rischio è
quello di andare verso la chiusura degli uffici giudiziari, un
rischio che non possiamo permetterci di correre se ci sta
davvero a cuore la difesa degli interessi generali.
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