Editoriale
di Sergio Consolini - Presidente Federmanager Bologna
Lavoro e vita personale
Chi ha raggiunto posizioni di “successo” nella
vita, e tra costoro possiamo annoverare noi manager, si è ogni tanto soffermato sulla connessione tra la vita di lavoro e tutti gli altri aspetti
della vita rilevando sovente uno squilibrio tra
lavoro e famiglia. Ma alla domanda su perché
lavoriamo ci siamo dati l’aristotelica risposta che
“lo scopo del lavoro è quello di guadagnarsi il
tempo libero” ed abbiamo proseguito imperterriti il cammino. Chi ha studiato le cause sistemiche dello squilibrio lavoro-famiglia ne ha anche
evidenziato le dinamiche sottostanti. Una di
queste è che il tempo e l’impegno che una persona dedica al lavoro si autoalimentano quando
portano al successo, perché aprono opportunità
interessanti che spingono a dedicare ancor più
tempo. Ciò vale in teoria anche per il tempo e
l’impegno dedicati alla famiglia, ma la relazione
tra i due ambiti è conflittuale e instabile: una
volta che inizia a sbandare in una direzione o
nell’altra continuerà a farlo. Tre i motivi per cui
è probabile che lo squilibrio avvantaggi il lavoro
rispetto alla famiglia.
La prima spinta è costituita dal reddito, che crea
pressione a dedicare più tempo e impegno al
lavoro. Chi comincia a scendere sul piano del
reddito risente poi di un peggioramento delle
relazioni in famiglia: impegnarsi fortemente sul
lavoro diventa poi una scusa per sfuggire a situazioni di disagio che emergono in famiglia. Infine, il successo sul lavoro genera continue nuove
opportunità che assorbono tempo e si valgono
anche di una “sottile pressione” dei colleghi e
dell’ambiente di lavoro. Primeggia il fatto che
per molti manager il lavoro è una condizione
di buona esistenza, uno spazio di vita, non un
semplice strumento di arricchimento materiale.
La crisi globale ha però messo in discussione le
regole del gioco del sistema, economico ed etico. Il tema di quale armonia sia possibile tra vita
professionale e vita personale, solitamente caro
ad ogni professionista, è diventato quindi particolarmente sentito in un momento di grande
disagio e tensione ed in cui vi è la consapevolezza che si devono ricercare nuovi equilibri. Chi è
stato colpito dalla perdita del posto di lavoro è
stato costretto a varie riflessioni da questa esperienza traumatica: tra queste la riconsiderazione
dei propri orizzonti con una attenzione maggiore a una ripresa di contatto con se stessi, con la
propria vita complessiva. Alcuni si sono domandati il senso di quanto fatto per tanti anni, per
avere magari dedicato tutto il proprio tempo o
quasi al lavoro, depauperando le attenzioni alla
famiglia. Qualche studioso sostiene che in coincidenza della cosiddetta “crisi di mezza età”, cioè
fuori da fattori di crisi esterna, nel momento in
cui ci si ferma a fare un bilancio di come si è vissuto e di cosa si è realizzato, interviene sovente
la voglia di lasciare e ricominciare. È un malessere marcato che porta al desiderio di cambiare,
di crearsi una vita che rispecchi di più i propri
sogni e desideri. All’opposto vi sono anche individui per cui il lavoro è una semplice parentesi
vuota che separa dal fine settimana, dalle ferie,
dalla pensione, e che produce frustrazione e nevrosi per superare le quali occorre ripensare il
lavoro come occasione esistenziale, magari cambiandolo. Non è questo però il caso che connota
la categoria dei manager. Per l’effetto “crisi” o
per altro, anche per chi non è in situazione di
“mezza età”, è un fatto che per alcuni arriva il
momento di decidere di allentare l’impegno lavorativo in favore di se stessi, se non di iniziare
da zero una vita nuova. Si scarta a priori una
ricollocazione e si decide di non “ritoccare” un
po’ la vita di tutti i giorni, di renderla più accettabile, ma si sceglie un cambio radicale del modo
di vivere, che esce dall’idea di “fare una cosa che
mi dà un buon reddito” per intraprendere quella
di “fare una cosa che mi piace e mi conceda più
vita personale”.
Questo avviene perché l’individuo incrocia altri
modelli esistenziali. Alcune delle scelte del passato generano inaspettate situazioni del presente
e così può accadere che, per effetto di periodi
particolarmente critici, a volte prodotti da eventi
di natura traumatica (lutto, separazione, perdita del lavoro, diagnosi grave, etc.) un individuo
intuisce che alcune delle sue strategie comportamentali non sono più pertinenti alle sue attuali
esigenze. È per l’appunto questo il momento in
cui un individuo può entrare in crisi, l’istante in
cui l’iniziale fastidio, quel “non so che” che lo rende irrequieto, si trasforma in disagio e la tensione
diventa tale da richiedere una decisione radicale. Ci sono quindi coloro che dopo una lunga
carriera da uomo-azienda diventano imprenditori di se stessi guadagnando solo spazi di libertà
psicologica. Ci sono quelli prigionieri invece di
un lavoro redditizio ma super-stressante, dove la
vita è completamente pianificata, che a un certo
punto decidono di scalare una marcia, guadagnare meno per vivere di più. Il fenomeno di cambiar vita pare stia diffondendosi in gran parte del
mondo occidentale. In inglese si chiama downshifting, traducibile come scalare una marcia o
rallentare. È qualcosa di più di un abbassamento dello stipendio in cambio di maggior tempo
libero. Si tratta di un cambio di vita netto, sia
verso se stessi, sia verso il mondo dei consumi,
per essere più liberi. Non è una scelta alla porta-
ta di tutti: l’inerzia, gli obblighi familiari, l’illusione della sicurezza e la precarietà di un lavoro
sono ostacoli che si pongono nel cammino verso
il cambiamento, per non parlare della paura e
dell’ansia che implica una decisione così radicale.
È una scelta che richiede metodo e costanza.
Il cammino verso la semplicità è in realtà un lavoraccio, da pianificare con cura. I libri dedicati
al tema sottolineano questo aspetto, che pare investa oramai nel mondo milioni di persone, con
un marcato profilo medio borghese, con un impegno forte in un lavoro stressante e redditizio
al tempo stesso. A ben vedere è il ritratto di una
generazione. I quarantenni di oggi. Cresciuti e
formati sulla base dei canoni che avevano segnato la vita dei loro padri, li hanno visti svanire nel
momento in cui hanno dovuto affrontare la vita.
Sfumate la sicurezza del posto fisso, la saldezza
della famiglia, le grandi ideologie, devono vivere
privi dei riferimenti che avevano guidato le generazioni precedenti. Costretti ad attendere il loro
turno, in un paese che continua a far prevalere
l’egualitarismo dei diritti sull’eguaglianza delle
opportunità, dove vincono le conoscenze sulla
conoscenza, dove si marginalizza il merito. Questa generazione può riscattarsi solo costruendo
una nuova mappa di valori e coltivando visioni
più ampie del proprio interesse.
Le vie di soluzione per conciliare lavoro e vita
ed attenuare il disagio per chi non può sostenere
cambiamenti radicali, passano per modifiche di
comportamenti che combinino le risorse individuali con le esigenze del contesto lavorativo. Ciò
comporta maggior sensibilità da parte delle imprese che devono sforzarsi di costruire un contesto ambientale e culturale favorevole a migliorare
il lavoro in relazione anche alle caratteristiche di
chi lavora. Il conflitto tra il lavoro e la vita personale diminuisce drasticamente quando l’organizzazione promuove valori coerenti con quelli
delle persone. L’attenzione esasperata degli imprenditori ai risultati nel brevissimo periodo si è
rivelata disastrosa. A questa deve subentrare una
attenzione orientata al breve integrata da una visione sul medio e lungo periodo, perché questa
dà un senso di progettualità, fa sì che non si viva
quotidianamente trascinati dagli eventi ma perché si vuole costruire qualcosa. Così si possono
raggiungere grandissimi valori costruttivi per il
sistema, per gli imprenditori, per i manager, per
il singolo individuo. Il manager che sta all’interno di una organizzazione che ha un progetto di
vita ha anche un suo progetto personale. Questo
dà un senso al suo essere e al suo lavoro e allora
sarà possibile smettere di vivere percependo due
diversi codici di comportamento.
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