IL FONDO PATRIMONIALE, LA TRASCRIZIONE DEGLI ATTI DI

IL FONDO PATRIMONIALE,
DESTINAZIONE, IL TRUST
LA
TRASCRIZIONE
DEGLI
ATTI
DI
Il fondo patrimoniale, l’atto di destinazione ex art. 2645 ter C.C. ed il trust sono
fattispecie accomunate e caratterizzate, sul piano degli effetti, dall'essere espressioni del
fenomeno della "separazione" patrimoniale.
La separazione patrimoniale può definirsi, in linea di massima e di grande
approssimazione, come l’emergere, in relazione a determinati beni, universalità di beni o
diritti riconducibili ad un soggetto, della insensibilità, o di una tendenziale insensibilità,
all’azione esecutiva da parte della totalità indistinta dei creditori del soggetto stesso, in
correlazione di uno scopo cui il patrimonio separato è destinato o di una particolare
situazione che fungono da presupposto che il legislatore ritiene di accordare particolare
tutela in funzione dell’emergere di interessi meritevoli.
La definizione complessa ed articolata perché molteplici e caratterizzate da disciplina
disomogenea sono le fattispecie in cui il fenomeno si incarna.
Il tratto comune di tali figure e regole non omogenee, si identifica nella deroga ad un
principio ritenuto, quasi tralatiziamente in dottrina, fondamentale e fondante della nostra
tradizione giuridica e del nostro ordinamento positivo, cioè il principio di unicità del
patrimonio facente capo ad un unico soggetto, ilche comporta come corollari la
assoggettabilità, senza distinzioni, del patrimonio stesso alle azioni esecutive dei
creditori del soggetto, secondo il disposto dell'art. 2740 C.C., l’eccezionalità di eventuali
eccezioni a ciò (lo stesso art. 2740 al secondo comma ammette eccezioni nei casi
stabiliti dalla legge) e della par condicio creditorum.
Già la legge, e segnatamente il codice civile, ammetteva molteplici, variamente graduate
e configurate, eccezioni, emblematici sono i casi delle norme in tema di accettazione di
eredità con beneficio di inventario, di separazione del patrimonio del defunto da quello
dell’erede, di cessio bonorum.
Si è sempre trattato, peraltro e sinora, di eccezioni settoriali, magari numerose, ma di
ambito limitato ed applicazione in fondo sporadica, mai eversive del sistema e della
regola dell’art. 2740 C.C., la novità è costituita dall’emergere di fattispecie a carattere
aperto, atipico e tendenzialmente non delimitabile, quali sono, ad esempio e certamente,
il trust e l’atto di destinazione.
Può apparire sconcertante iniziare l’analisi dagli effetti: ma è proprio la richiesta, la “fame”
quasi, da parte degli utilizzatori, di questo tipo di effetti che ha, sinora fatto
principalmente la fortuna degli istituti di cui stiamo trattando, e fatto crescere la curiosità
verso gli stessi, il che ha, peraltro causato anche problemi di non poco momento.
Non di rado ed anche quando la fattispecie astratta è ben delineata sul piano degli scopi
che debbono essere perseguiti col negozio od ha previsto comunque un controllo di
meritevolezza sugli scopi stessi, sono state operativamente create applicazioni concrete
non conformi e, quasi, neppure, se non lontanamente, ispirate a quelle normativamente
delineate, e l’unico punto di contatto era la volontà di conseguire un effetto separativo.
Il che pone il grave problema dell’effettività realizzazione dello scopo che il patrimonio
separato deve perseguire e che giustificano la produzione dell’effetto separativo.
Alla questione posso solo accennare per sommi capi, date anche le peculiarità che
ciascuna fattispecie di patrimonio separato presenta: a volte le norme dell’ordinamento
dettano le conseguenze del mancato perseguimento dello scopo, così l’erede beneficiato
che non rispetta le norme di procedura, che aliena senza autorizzazione, sottrae o
nasconde beni ereditari decade dal beneficio della separazione patrimoniale, la
realizzazione o l’impossibilità di conseguire l’affare determinano, ex art. 2447 novies, lo
scioglimento del patrimonio societario destinato ad uno specifico affare, l’art. 178 CC
prevede che un bene effettivamente destinato all’esercizio dell’impresa di un coniuge sia
sottratto al regime della comunione legale immediata, a nulla valgono eventuali
dichiarazioni delle parti.
Non si può, però, concludere che il mancato perseguimento dello scopo determini
sempre l’estinzione dell’effetto separativo, ciò anche perché si fronteggiano diverse
categorie di interessi, non solo quelli del ceto creditorio generale.
L’art. 2645 ter prevede che per la realizzazione dello scopo può agire qualunque
interessato, non solo il disponente, non solo i beneficiari, ma nessuno potrebbe agire, lo
scopo dev’essere programmato, ma l’azione per l’adempimento, in quanto tale, è
disponibile.
Inoltre la separazione patrimoniale crea la sottocategoria dei creditori per obbligazioni
che si riconnettono al perseguimento dello scopo, i quali hanno confidato, magari in
buona fede, sugli effetti della separazione patrimoniale.
Come ha concluso Maltoni analizzando il problema qui trattato in relazione proprio
all’art. 2645 ter il mancato perseguimento dello scopo non può tout court comportare
quale sanzione la perdita del beneficio, costituisce un elemento, sul piano della prova,
anche indiziaria, della simulazione dell’atto istititutivo del patrimonio separato, poiché è
da considerare nullo, in quanto privo di causa e non sorretto da interesse meritevole di
tutela, qualunque atto il cui scopo (o la cui funzione) sia solo il conseguimento
dell’effetto separativo, e ciò a prescindere dall’eventuale esistenza di creditori già al
momento della costituzione.
Anticipo che, comunque, le figure “fraudolente”, sovente, non hanno retto all'attacco delle
impugnative giurisdizionali da parte dei terzi danneggiati dall'effetto ed, anzi, ha indotto
un certo atteggiamento di sospetto dei giudici all'imbattersi della fattispecie.
Preliminarmente accennerò alla distinzione dottrinale tra separazione e segregazione
patrimoniale: la prima non fa venir meno l'appartenenza di un bene al soggetto titolare,
ma la pone in situazione mediata, la ipostatizza, spesso a tempo determinato, cosicchè le
vicende che coinvolgono il patrimonio generale del soggetto titolare, che rimane tale, in
ultima analisi ed alla fine, non si riverberano direttamente sul patrimonio separato, e
viceversa, ma rimane aperto un nesso, di comunicazione, (emblematicamente alla fine
della separazione) tramite il quale l'arricchimento o l'impoverimento del patrimonio
separato si riverbera sul titolare.
Con la segregazione patrimoniale, invece, vi è incomunicabilità biridezionale, definitiva
ed assoluta, tra il patrimonio separato ed il patrimonio del soggetto che ne è, appunto,
titolare, ma non nel senso dell'appartenenza.
IL FONDO PATRIMONIALE
Il fondo patrimoniale è disciplinato dagli art. 167 e ss. del C.C.
La dottrina prevalente lo annovera tra le convenzioni matrimoniali.
E' stata avanzata l’obiezione che il fondo patrimoniale può essere costituito anche per
atto unilaterale, o da un terzo, o per testamento (art. 167 C.C.), a ciò si è replicato che,
comunque, il fondo patrimoniale sempre presuppone una accettazione dei coniugi, solo
con l'espressione della quale si perfeziona: l’accettazione dei coniugi, entrambi, gli fa
assumere natura di convenzione matrimoniale.
La natura di convenzione matrimoniale è suffragata anche dalla funzione dell'istituto
cioè la destinazione dei beni compresi nel fondo e dei loro frutti a sostenere i bisogni
della famiglia.
Il fatto che si tratti di una convenzione matrimoniale determina che l'atto costitutivo
debba essere ricevuto in forma pubblica, alla presenza di due testimoni (art. 162 C.C. e
48 L. notarile) da un Notaio.
Il che impedisce che nel verbale che sancisce la separazione tra i coniugi o nella
sentenza di divorzio possa essere costituito un fondo patrimoniale.
C'è di più l'art. 162 ultimo comma C.C. prevede che l'opponibilità ai terzi delle
convenzioni matrimoniali sia subordinata all'annotazione della convenzione
matrimoniale a margine dell'atto di matrimonio: il che ha provocato una lunga querelle
in giurisprudenza circa la funzione della pubblicità nei registri immobiliari, prevista
dall'art. 2647 C.C. quando il fondo ha per oggetto beni immobili.
Si fronteggiavano tre tesi, la prima che, con svariati argomenti, sosteneva che,
comunque, la pubblicità nei registri immobiliari avesse natura dichiarativa, quindi e
determinante per l’opponibilità ai terzi, proprio alla luce del peculiare oggetto e delle
caratteristiche del fondo patrimoniale, che non è una convenzione matrimoniale c.d.
programmatica; altri propugnava la necessità sia della pubblicità nei registri di
matrimonio sia di quella nei registri immobiliari ai fini dell’opponibilità, che si sarebbe
verificata solo con l’esecuzione dell'ultima; la giurisprudenza, invece, ha da tempo,
recepito la terza posizione, che annette efficacia dichiarativa alla sola pubblicità nei
registri anagrafici di matrimonio, mentre la pubblicità immobiliare ha il solo ruolo di
pubblicità-notizia.
La tesi non cessa di ricevere e meritare critiche e di essere piuttosto incoerente con lo
stesso dettato normativo: la scheletricità e lacunosità delle iscrizioni ed annotazioni che
costituiscono la pubblicità nei registri di matrimonio conducono al risultato che un
eventuale fondo patrimoniale che fosse solo annotato, ma non trascritto, sarebbe, allo
stato, conoscibile per i terzi solo sul piano dell’esistenza e non su quello del contenuto,
non si comprende, inoltre, perchè l'oggetto possibile del fondo patrimoniale è stato
legislativamente limitato solo a beni la cui circolazione è soggetta ad un regime
pubblicitario, se poi tale pubblicità, in fondo ad ultima analisi, è inutile sul piano di
qualunque effetto
…utile.
Del resto la coesistenza di più regimi di pubblicità ha sempre dato luogo a problemi: si
pensi al ruolo della trascrizione nelle operazioni societarie straordinarie (fusione,
scissione, trasformazione) ove siano coinvolte società proprietarie di immobili, risolto
dalla giurisprudenza affermando l'inutilità della pubblicità immobiliare (anzi, il divieto
di effettuarla alla luce del principio di tipicità che caratterizza gli atti soggetti a
trascrizione) ed il carattere determinante e sufficiente per la pubblicità presso il Registro
delle Imprese, nonchè la discussione che genera la doppia pubblicità prevista dagli artt.
2447 quater e quinquies per i patrimoni societari destinati ad uno specifico affare in cui
siano compresi immobili (altra emersione recente della separazione patrimoniale,
paradossalmente come “separazioni all’interno di fenomeni di separazione patrimoniale
quali sono le società, specie di capitali, specie unipersonali) ove la pubblicità è
costitutiva degli effetti della separazione patrimoniale.
Si può pensare all’esistenza di un fondo patrimoniale annotato e non trascritto, proprio
allo scopo, di fatto di renderlo opponibile ai terzi, ma invisibile?
Pare impossibile attuare tale scopo attraverso il ministero notarile: è intervenuto lo
stesso presidente del CNN per negare tale possibilità, sul rilievo che la costituzione
avviene mediante atto pubblico e l’obbligo di trascrizione grava sul notaio, sia
deontologicamente sia ex art. 2671 C.C., norma che prevede la responsabilità verso i
terzi del pubblico ufficiale rogante od autenticante che non ha richiesto la trascrizione di
un proprio atto nel più breve tempo possibile: le norme sulla pubblicità sono ritenute
indisponibili, di interesse ed ordine pubblico, il notaio eventualmente esonerato dalle
parti intervenute in atto dall’obbligo di eseguire la pubblicità, risponderebbe comunque
verso i terzi danneggiati dalla sua omissione.
Torniamo alla natura del fondo: convenzione matrimoniale sì, ma in che senso ed entro
quali limiti? Si ribadisce è convenzione matrimoniale il vincolo di destinazione
impresso, attraverso l'accettazione dei coniugi, ai beni facenti parte del fondo, non è
convenzione matrimoniale, e soggiace alle proprie regole di forma, causa e pubblicità,
l'atto traslativo che si accompagna alla costituzione del vincolo quando i beni non
appartengono ai coniugi e col quale , secondo il disposto dell'art. 168 C.C., si attribuisce
la proprietà dei beni costituiti nel fondo ad entrambi i coniugi, salvo che sia che sia
disposto diversamente.
Non mi soffermo molto sul punto: nella prassi quasi sempre, per ragioni fiscali, è
disposto diversamente, e l'atto costitutivo di fondo patrimoniale si risolve nella semplice
apposizione del vincolo di destinazione, lasciando invariato l'assetto proprietario dei
beni.
Il vincolo viene ad essere, secondo Corsi e secondo ormai gran parte degli autori che si
sono successivamente a lui occupati della fattispecie, una modalità di adempimento al
dovere dei coniugi di cooperare per il mantenimento della famiglia e la soddisfazione
dei suoi bisogni.
Il tutto salvo se il fondo sia costituito da un terzo: in tal caso la dottrina maggioritaria
tende a negare che costui possa riservarsene la piena proprietà, mentre potrebbe
riservarsene la nuda proprietà e trasferire un diritto di usufrutto ad abitazione ai od a un
coniuge.
La tesi, come si avrà modo di vedere, argomenta dalla latitudine dei poteri di
amministrazione, nell'interesse in fondo proprio, che la legge riserva ai coniugi, poteri
incompatibili con l'assenza della titolarità di un diritto reale in capo agli stessi.
Quale oggetto possibile del fondo patrimoniale l'art. 167 c.c. ammette espressamente i
beni immobili, i beni mobili iscritti in pubblici registri ed i titoli di credito (che debbono
essere resi nominativi e contenere l'annotazione del vincolo - art. 167 u.c.C.C.).
Sgombrato il campo dalla possibilità di "immettere" nel fondo patrimoniale diritti "nudi"
(salvo che il corrispondente diritto di godimento comunque sia già pervenuto ai coniugi
per diversa via) per incompatibilità con i troppo pregnanti poteri di amministrazione e
gestione dei coniugi, una delle questioni maggiormente dibattute in tema di possibile
oggetto del fondo è quella sulla possibilità o meno di includervi quote di società a
responsabilità limitata.
La dottrina e la giurisprudenza più risalenti negavano risolutamente tale possibilità, la
dottrina più recente tende maggiormente a sostenere l'ammissibilità dell'assunto,
basandosi principalmente su due argomentazioni: la quota di SRL è un bene mobile,
potendo formare oggetto di diritti e non essendo un bene immobile (arg. ex art. 812 C.C.
ultimo comma), inoltre, a partire dall'entrata in vigore della L. 310/93, le vicende
traslative e di costituzione di diritti che la riguardano sono state inserite in un
meccanismo di pubblicità legale, reso più rilevante dopo l'entrata in vigore della riforma
del diritto societario, che ha introdotto l'art. 2470 terzo comma C.C., in base al quale in
tema di cessione di quote di SRL conflitto tra gli aventi diritto di uno stesso dante causa
è risolto in base alla priorità dell'iscrizione dell'acquisto nel registro delle imprese,
inoltre è stata espressamente prevista la possibilità che la quota di SRL sia oggetto di
sequestro, pegno ed usufrutto, con ciò ammettendo, almeno nei primi due casi,
l'apposizione di vincoli di destinazione.
La giurisprudenza (di merito) che si è occupata della questione ha fornito risposte
contrastanti, allo stato non è, quindi, possibile fornire risposte completamente
tranquillizzanti in merito all’ammissibilità.
Certo, un'apertura in questo senso e per le ragioni addotte a sostegno induce a porsi altre
domande: perchè non le quote di società di persone e/o le aziende, anch’esse inserite in
un meccanismo di pubblicità? Se la pubblicità determinante è quella nei registri
anagrafici, che ruolo e che importanza ha argomentare dal fatto che il regime di
circolazione dei beni sussumibili nel fondo patrimoniale sia soggetto a pubblicità
specifico per quel bene? Infine e ribaltando il ragionamento: perché solo quei beni,
alcuni dei quali, poi (i beni mobili registrati, specie i macchinari) sono ontologicamente
poco adatti ad essere utilizzati per i bisogni familiari?
Proseguendo, per forza di cose speditamente e sommariamente, nell'analisi restano da
esaminare quattro punti attinenti l'interpretazione degli art. 168 - 169, 170 e 171 C.C.
Primo punto: l'amministrazione dei beni costituiti in fondo patrimoniale è soggetta, ex
art. 168 C.C.u.c., alle regole proprie della comunione legale contenute negli art. 180 e ss.
C.C., riassumibili nella formula “ordinaria amministrazione disgiunta, straordinaria
amministrazione congiunta, compresa in quest’ultima anche la concessione di diritti di
godimento”.
La norma è ritenuta, dai più, inderogabile, anche se non manca chi la ritiene derogabile
nell'ipotesi in cui i beni non appartengano ad entrambi i coniugi: tuttavia si ribatte che se
si vuol dare un minimo di coerenza all'istituto, poter disapplicare anche questa regola
comporterebbe uno svuotabilità virtuale della fattispecie, atteso che lo scopo di utilizzare
i beni ed i frutti per i bisogni della famiglia non può non passare tramite una fattiva
partecipazione ed un'attività consensuale di entrambi i coniugi, non solo nella fase
genetica del rapporto, ma ancor di più, congruamente e conseguentemente allo scopo
familiare, nella fase gestoria e funzionale
Lo stesso argomento, peraltro, è stato avanzato per controbattere un altra possibilità di
deroga convenzionale al regime previsto in via primaria dalla legge, cioè la possibilità di
escludere l’autorizzazione giudiziale in caso di figli minori ove venga compiuto un atto
di cui all’art. 169 C.C., norma di ardua interpretazione, che richiederebbe una lezione
appositamente dedicata
Ove vi siano figli minori la maggior parte della dottrina e della giurisprudenza
ammettono che possa escludersi in via convenzionale il ricorso all'autorizzazione
giudiziale, attesa la larga e generale apertura contenuta nella frase di esordio dell'art. 169
stesso, peraltro la tesi è contrastata da altra dottrina e da parte della giurisprudenza,
argomentando dal contenuto dell'art. 171 C.C. nella parte in cui prevede una particolare
disciplina della cessazione del fondo in presenza di figli minori, che dà spazio ad un
intervento addirittura dispositivo del giudice, e dal fatto che le deroghe invocate
sembrano sempre più caratterizzare il fondo patrimoniale come un ostacolo per i terzi
senza corrispondente effettivo vincolo obbligatorio per i coniugi.
Proprio quest' ultima considerazione spinge, piuttosto, a ritenere preferibile che,
comunque, il compimento degli atti di cui all'art. 169 C.C. possa avvenire solo con il
consenso di entrambi i coniugi e solo nei casi di necessità ed utilità evidente, che i
coniugi sono chiamati, congiuntamente, a vagliare.
L'art. 170 C.C. sancisce l'effetto di separazione patrimoniale dei beni costituiti in fondo
patrimoniale rispetto al patrimonio dei costituenti e comunque al residuo patrimonio dei
coniugi.
Come è noto i beni costituiti in fondo patrimoniale non possono essere sottoposti ad
esecuzione forzata in relazione a debiti che il creditore conosceva essere stati contratti
per scopi estranei ai bisogni della famiglia.
Anche l’analisi del portato di questa norma necessiterebbe di ampio spazio,
l'interpretazione letterale suggerisce la necessità che il creditore sia a conoscenza della
ragione per cui il credito è stato contratto, e, quindi, la necessità di individuare a carico
di chi sia l'onere della prova di tale stato soggettivo.
A quest'ultimo interrogativo la giurisprudenza, scarsa, di merito, che si è occupata
dell'argomento risponde che tale onere incombe sui coniugi che risultano avvantaggiati
dall’effetto separativo.
La dottrina, specialmente di impronta notarile, sottolinea poi che l'art. 170 C.C. si
applicherebbe solo ai debiti derivanti da obbligazioni volontarie, non a quelli derivanti
da fatto illecito od a quelli fiscali.
Peraltro la giurisprudenza di legittimità (Cass 11230 del 18 luglio 2003) pare risolvere la
questione sulla base dell’indagine sulla natura del fatto generatore del debito, negando
espressamente rilevanza all’esistenza o meno dell'aspetto soggettivo del creditore e
respingendo la tesi che la separazione patrimoniale non sarebbe invocabile per le
obbligazioni non volontarie (espressamente, per quelle da fatto illecito che abbiano
inerenza ai bisogni famigliari.
Quest’ordine di considerazioni ha fatto sorgere dubbi sulle possibilità di aggressione per
i crediti tributari: inizialmente l’A.F. si era pronunziata per l’irrilevanza della costituzione
del fondo, peraltro giurisprudenza di merito si è invece pronunziata contro la pretesa
dell’A.F., specie in caso di tributi derivanti dall’esercizio dell’attività d’impresa, ma la
questione è discussa.
I beni costituiti in fondo patrimoniale sono certamente sottratti all’azione esecutiva anche
dei creditori sorti anteriormente all’imposizione del vincolo: alla conclusione si perviene
accomunando, per i terzi, l’effetto dell’atto costitutivo ad un normale atto di alienazione e
riconoscendo che, comunque, a tutti i creditori spetta l’azione revocatoria ordinaria.
Alla regola sopra delineata parrebbero far eccezione i creditori ipotecari e privilegiati
anteriori, cui il fondo è inopponibile: la questione non è molto discussa, ma una parte
minoritaria della dottrina parrebbe estendere gli effetti del fondo anche ai creditori
ipotecari e privilegiati anteriori.
Prima di concludere la disanima trattando alcuni profili della cessazione del fondo
patrimoniale e l'aspetto fiscale, una notazione a margine di quanto sopra detto riguardo
all'atteggiamento giurisprudenziale in tema di fondo patrimoniale: esso non è, come
parrebbe da quanto ho sopra detto, per nulla benevolo.
L'utilizzo dello strumento nella prassi quasi unicamente al fine di poter fruire degli
effetti di separazione patrimoniale che produce, ha indotto la giurisprudenza a
dichiararne con una certa facilità la nullità per mancanza di causa, argomentando dalla
mancanza di realizzazione del programma che qualunque vincolo di destinazione
impone, oppure ad assoggettarlo facilmente a revocatoria ordinaria o fallimentare,
ritenendo sostanzialmente sempre provata la scientia fraudis del coniuge, che sarebbe
comunque sempre informato della situazione economica del proprio coniuge, nonchè a
dichiararne la simulazione relativa.
Emblematicamente, e tra le molte, Cass sez. I del 12 gennaio 2005 n. 6267 rileva che la
costituzione del fondo patrimoniale non è obbligatoria, configura un atto gratuito,
assoggettabile a revocatoria fallimentare ex art. 64 C.C., Cass 29 ottobre 1999 n. 12144,
Cass 18 febbraio 1998 n. 1712, pronunziandosi sui presupposti per l’esperibilità
dell’azione revocatoria ordinaria, accolgono la nozione di credito in un accezione molto
larga, comprensiva della ragione o dell’aspettativa, altre sentenze ritengono che, in caso
di costituzione anteriore al credito, sia sufficiente una consapevolezza di arrecare
pregiudizio alle ragioni del creditore, anche futuro, specie ove si possa di fatto ed in via
anche presuntiva, deducibile anche da circostanze temporali, il sorgere del credito fosse
previsto, o la costituzione del fondo, non abbia, o non possa, di fatto, arrecare alcun
reale vantaggio alla famiglia (trattandosi, ad esempio di coniugi non in giovane età,
entrambi economicamente autosufficienti, e con figli non più a carico).
Dunque occorre molta cautela nel consigliarne la costituzione contando su una facile
scappatoia alla morsa dei creditori, anche solo eventuali.
Infine riguardo allo scioglimento del fondo rilevano principalmente due aspetti: anzitutto
il fondo si estingue al cessare degli effetti civili del matrimonio, dunque, salvi i
provvedimenti del giudice (non delle parti) contemplati nell'art. 171 C.C.: è, pertanto,
impossibile utilizzarlo in relazione a sistemazioni patrimoniali tra coniugi divorziati,
salvo che vi siano figli minori, ma solo fino alla maggiore età dell'ultimo momento che,
comunque, non coincide con l'autosufficienza economica.
Inoltre è ben possibile stipularlo in fase di separazione personale, ma può anche in tale
sede essere considerato solo, alla luce di quanto sopra detto, una soluzione temporanea.
Discussa è la possibilità di scioglimento consensuale del fondo patrimoniale, se vi siano
figli minori in particolare: l'opinione negativa fa leva sul dato letterale dell'art. 171 del
C.C. che non annovera il consenso dei coniugi tra le cause di scioglimento e prevede un
trattamento particolare in presenza di figli minori, la positiva, maggioritaria e per me
preferibile, annoverato il fondo tra le convenzioni matrimoniali, argomenta dal disposto
degli articoli 162 e 163 C.C.
Infine: è dubbio se quanto si ricavi dall'alienazione o, comunque, dalla consunzione dei
beni oggetto del fondo patrimoniale sia soggetto ad obbligo di reimpiego: la soluzione
parrebbe suggerita, un pò sibillinamente, dalla lettera dell'art. 169 C.C. (non ha senso
parlare di possibilità di alienare per utilità evidente, ove non vi sia obbligo di
reimpiego), manca, però, una norma espressa che imponga, perciò si tende a ritenere
che non vi sia tale obbligo e che il vincolo, rimasto senza oggetto, cessi.
Infine il trattamento fiscale: cominciamo brevemente dalle imposte dirette, in relazione
alle quali l'art. 4, lettera b) del T.U.I.R. (DPR 917/86) attribuisce comunque il reddito
derivante dai beni oggetto del fondo patrimoniale ad entrambi i coniugi, ovvero al
coniuge superstite o cui è stata dal giudice attribuita in via esclusiva il potere di
amministrazione nei casi previsti dall'art. 171 C.C.
Imposte indirette, l'atto costitutivo del fondo patrimoniale con effetti traslativi è
soggetto, ove ne ricorrano le condizioni, precisamente il superamento delle franchige di
Euro 1.000.000,00 per beneficiario ove si tratti di parenti in linea retta e/o coniuge ed
Euro 100.000,00 per beneficiario ove si tratti di fratelli, all'imposta per le successioni e
donazioni istituita con l'art. 2 commi da 47 e 53 della L. 24/11/2006 n. 286 di
conversione del D.L. 3 ottobre 2006 n. 262, come modificata dall'art. 1 comma 77 della
L. 27 dicembre 2006 n. 296.
Il tutto con le aliquote ora in vigore, cioè il 4% se beneficiari sono il coniuge e parenti il
linea retta, il 6% se beneficiari sono fratelli, parenti fino al IV° grado, affini in linea retta
di qualunque grado od in linea collaterale sino al III° grado, 8% a favore di altri soggetti.
E' prevista una franchigia di Euro 1.500.000,00 se il beneficiario, chiunque esso sia è
soggetto portatore di handicap grave. Ove il fondo abbia ad oggetto azioni o titoli
quotati in mercati regolamentati la base imponibile è costituita dalla media delle
quotazioni nell'ultimo trimestre (art. 16 D.Lvo 31 ottobre 1990 n. 346), se si tratta di
titoli analoghi, ma non quotati, dal valore ad comparato a quello di titoli della stessa
specie che siano quotati, se si tratta di azioni non quotate e/o quote societarie (ove
ammissibile) dal valore dell'ultimo bilancio depositato e, in mancanza dell'ultimo
inventario redatto e vidimato.
Ove siano presenti immobili la base imponibile è costituita dal valore venale di comune
commercio, ma trattandosi di donazioni, l’indicazione del valore da parte del
contribuente non è soggetta a rettifica od accertamento ove lo stesso sia indicato in
misura pari e/o superiore al c.d. valore catastale degli immobili dotati di rendita
catastale, tranne le aree edificabili, (le quali, si chiarisce, sono fiscalmente considerate
tali anche se lo strumento urbanistico che le annovera tra le tali sia ancora in itinere,
perchè solo adottato dal Consiglio Comunale).
Il trasferimento degli immobili sconta inoltre l'imposta ipotecaria nella misura del 2% e
l'imposta catastale nella misura dell'1%, le due imposte sono dovute in misura fissa se si
tratti di trasferimento di casa di abitazione non di lusso e relative pertinenze classificate
o classificabili nelle categorie catastali: C/6 - C/2 e C/7 (una per categoria al massimo)
ed uno dei coniugi beneficiari possegga i requisiti per accedere alle agevolazioni per la
prima casa (nota II bis all'art. 1 della Tariffa parte I allegata al D.P.R. 131/86).
Ove si tratti di fondo patrimoniale senza effetti traslativi, ancorchè la legge che ha
introdotto o reintrodotto l'imposta sulle successioni e donazioni annoveri tra le
fattispecie soggette ad imposta anche la costituzione di vincoli di destinazione,l'A.F. ha
chiarito recentemente (risposta n. 39 a Telefisco 2007) che l'imposta proporzionale non
si applica agli atti della suddetta specie, ma solo a quelli che comportino "un
trasferimento, anche temporaneo, di beni in capo ad un soggetto diverso dal disponente",
pertanto l'atto sconta l'imposta fissa di registro e, se ha oggetto beni immobili, l'imposta
ipotecaria fissa, non l'imposta catastale, perché, mancando il trasferimento, manca la
voltura catastale.
IL TRUST E LA TRASCRIZIONE DEGLI ATTI DI DESTINAZIONE - CENNI
Gli argomenti debbono essere trattati unitariamente perchè, in parte, interagiscono.
Il trust è un istituto giuridico molto diffuso e collaudato nei paesi di common law,
sconosciuto alla tradizione giuridica di quelli civil law.
Ha ricevuto accoglienza nell'ordinamento italiano in forza dell'entrata in vigore (il 1
gennaio 1992) della L. 16 ottobre 1989 n. 364, che ha ratificato la convenzione dell’Aja
sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento, adottata il 1 luglio 1985.
E' una legge che nasce per risolvere questioni di diritto internazionale privato, in
particolare per individuare la legge applicabile ad un trust che presenti caratteri di
internazionalità, ovvero risolvere conflitti tra leggi di paesi diversi con cui l'istituto
possa avere criteri di collegamento più o meno stretti.
Quindi la legge italiana, per per la maggior parte dei commentatori, non disciplina
compiutamente ed esaurientemente il trust: la definizione contenuta nell'art. 2 tratteggia
la fattispecie cui è applicabile la convenzione, che ha gli scopi indicati dall'art. 1.
La definizione adottata dall’art. 2 Conv. è piuttosto lata, e non coincide con la matrice
tipica del trust di diritto anglosassone, ove un disponente trasferisce beni ad un
fiduciario (trustee) affinchè questi li gestisca, in vario modo, nell'interesse di un
beneficiario o per un certo scopo (il c.d. trust di scopo, ammesso nel diritto inglese in
termini piuttosto restrittivi).
La convenzione richiede solo che i beni del disponente "siano posti sotto il controllo"
del trustee, ed, all'ultimo comma, consente che siano intestati al trustee o ad altra
persona per conto di esso (art. 2 comma 2 lett. b); consente che il trustee conservi alcune
prerogative o possieda alcuni diritti in qualità di beneficiario, quindi, in ultima analisi,
che trustee, costituente e beneficiario confluiscano in un'unica persona, il che è
sconosciuto al diritto inglese e di matrice anglosassone in genere.
La fattispecie delineata dalla convenzione è stata definita come "trust amorfo" ed ha
consentito all'avv. Lupoi di sostenere che l'art. 2 u.c. della convenzione ha introdotto il
trust di diritto italiano, affermazione fortemente contrastata dalla dottrina.
Da queste prime note emerge la somiglianza tra il trust e la fiducia, caratterizzata dalla
combinazione tra un negozio di natura traslativa retto da una causa fiduciaria (ritenuta
di, eufemisticamente, dubbia ammissibilità nel sistema giuridico italiano) e da un
rapporto obbligatorio definibile come un contratto di mandato, diretto a disciplinare, con
effetti interni, la destinazione dei beni trasferiti.
La novità è rappresentata dagli effetti segregativi del trust: l'art. 2 comma 2) lett. A)
della L. 364/89 annovera tra le caratteristiche del trust il fatto che i beni trasferiti
costituiscono una massa distinta e non fanno parte del patrimonio del trustee: il trust di
diritto inglese è caratterizzato proprio, secondo Lupoi, dalla incomunicabilità
biridezionale fra il patrimonio separato ed il soggetto che ne è titolare, il trustee, cui
manca l'appartenenza.
Neppure, però, i beni appartengono o comunicano col patrimonio del settlor
(costituente) che li ha ceduti: peraltro l’art. 4 della L. 364/89 specifica che la convenzione
non si applica alle questioni preliminari relative alla validità (latu sensu) dei testamenti
od altri atti in virtù dei quali i beni sono trasferiti al trustee.
La incomunicabilità bidirezionale manca nel trust in cui settlor, trustee e beneficiario
coincidono.
La caratteristica segregazione patrimoniale dei beni del trust rispetto al patrimonio del
trustee che ha poi acceso un serrato dibattito dottrinale sull'eventuale introduzione
nell’ordinamento di una nuova forma di proprietà, la proprietà fiduciaria, non coincidente
con la proprietà piena caratterizzata dal contenuto ascrittole dall'art. 832 C.C.
(riecheggia il titolo di un celebre saggio di Pugliatti, che suggerisce anche l’impossibilità
di sciogliere un’endiadi apparente: “La proprietà e le proprietà”)
Innumerevoli sono le questioni dibattute riguardo al trust, farò cenno solo alle più
rilevanti ai fini pratici e per sommi capi.
Primo aspetto: il trust è una fattispecie strumentale, non ha una causa propria ed
autosufficiente, la convenzione non si applica alle questioni preliminari relative alla
validità di testamenti od altri atti giuridici in virtù dei quali determinati beni sono
trasferiti al trustee (art. 4 conv.), in più le disposizioni della convenzione possono essere
non osservate se palesemente contrarie all'ordine pubblico (internazionale) ex art. 18 L.
364/89.
Ciò comporta che: è altamente opportuno enunciare chiaramente le finalità che col trust
si intendono conseguire, ed il fine dovrà essere effettivamente voluto, inoltre il trust non
potrà confliggere con le norme inderogabili (e saranno probabilmente quelle interne,
vedi art. 46 L 213/98 per la successione necessaria del cittadino italiano ) scelte dalla
legge del foro tra quelle da applicare in caso istituti aventi caratteristiche di
internazionalità confliggano con, ad esempio, la protezione dei crediti (art. 15 conv.),
dei minori ed incapaci, i testamenti e la devoluzione dei beni in relazione alla
successione, la protezione di chi, per motivi diversi, agisce in buona fede, infine l'art. 13
della convenzione, secondo l'interpretazione datane da Lupoi, attribuisce al giudice la
facoltà di disconoscere il trust che sia, motivatamente, qualificato come abusivo.
Parallelamente a ciò l'art. 2645 ter C.C. consente la facoltà di trascrivere atti di
destinazione con i quali determinati beni immobili, mobili registrati siano diretti a
perseguire interessi meritevoli di tutela, riferiti a persone con disabilità, pubbliche
amministrazioni od altre persone fisiche od enti (…insomma a chiunque) al fine di rendere
tale vincolo opponibile ai terzi.
Il legislatore, introducendo nell’ordinamento positivo una fattispecie aperta ed
autoreferente, che non fa alcun rinvio ad una funzione economico-sociale tradizionale,
ma, apertamente, si caratterizza sul piano del giudizio di meritevolezza degli interessi
concreti perseguiti, scardina un’operazione su cui si è sempre imperniata la nostra
mentalità giuridica, cioè la tendenza a ricondurre il nuovo a schemi giuridici consueti,
magari combinati e connessi in vari modi, dall’altro, legislativamente, ma anche a seguito
di pronunzie giurisprudenziali, emerge e prevale la tendenza ad attribuire al giudice un
pervasivo potere di controllo e valutazione in ordine alla meritevolezza degli interessi
perseguiti dalle parti che danno vita a questo genere di figure giuridiche, dallo scopo
flessibile e molteplice, che si prestano, come ed ancor più del fondo patrimoniale,
all’abuso ed alla simulazione.
In questa sede non è neppure possibile accennare agli infiniti problemi ed interrogativi
che queste norme e queste figure suscitano (sineticamente riguardo all’art. 2645 ter: i
dubbi sul suo significato in relazione alla affrettata e sconcertante collocazione
sistematica, sulla delimitazione dell’oggetto, le critiche ad una formulazione tanto
sbrigativa quanto dirompente e, quindi, sulla sua effettiva portata), volendo rispettare il
taglio pratico di questo lavoro, mi occuperò delle applicazioni più immediate degli
istituti in questione.
Il più complesso ed interessante, ai fini pratici, problema in tema di trust è quello circa
l'ammissibilità del c.d. trust interno, cioè un trust in cui tutti gli elementi coinvolti
(soggetti, beni, etc) siano italiani, ma, mancando (almeno, forse, fino all’introduzione
dell’art. 2645 ter) in Italia una norma che disciplina il trust, il costituente od i costituenti
facciano rinvio ad una norma estera per la disciplina del trust stesso.
Parte della dottrina e della giurisprudenza, minoritarie ormai, erano e sono contrarie,
argomentando dalla natura internazionalprivatistica della convenzione, nata per
disciplinare fattispecie che presentino caratteri di internazionalità.
Altra parte della dottrina e della giurisprudenza, di merito, ormai maggioritarie,
viceversa, propugnano la tesi della piena ammissibilità della suddetta figura di trust,
argomentando dalla lettera dell'art. 13 della conv., che non richiede alcun collegamento
tra la fattispecie e la legge scelta per la disciplina del trust, anzi sembra presupporre una
illimitata possibilità di circa la legge regolatrice per il disponente senza che ciò possa
comportare, per ciò soltanto, la possibilità di disconoscimento del trust, l’art. 6 della
convenzione, del resto, non prevede limiti al potere di scelta del settlor in ordine alla
legge regolatrice, ma solo che essa sia espressa, ovvero desumibile dal contenuto
dell'atto costitutivo, infine i propugnatori della tesi positiva fanno leva sul fatto che,
come detto, la convenzione non si limita a riconoscere il tradizionale trust di diritto
anglosassone, ma si estende al c.d. trust amorfo, fattispecie che presenta caratteri tanto
vaghi da non poter essere ignoti ad alcun ordinamento.
Quindi l’utilizzabilità del trust interno pare abbastanza certa, e suffragata dalla stragrande
maggioranza delle pronunzie della giurisprudenza di merito.
Il trust interno presenta un problema applicativo di non poco momento: dovendo operare
un rinvio ad una legge estera, chi lo costituisce, o chi consiglia il settlor, deve conoscerla
ed a fondo.
L’art. 8 della convenzione prevede il contenuto minimo, per settori, che la legge
regolatrice del trust deve possedere, essa deve regolare la capacità richiesta per lo
svolgimento delle funzioni di trustee, la nomina, le dimissioni, la revoca di questi, la
trasmissione delle sue funzioni, i diritti e gli obblighi che gli fanno capo, in particolare
quelli di delega delle sue funzioni, il potere di amministrazione e disposizione in ordine
ai beni del trust, la possibilità di costituirli in garanzia, di effettuare investimenti,
l’obbligo di rendicontazione, la durata del trust, il potere di accantonare gli introiti del
trust, i rapporti tra trustee e beneficiari, la modifica e cessazione del trust, la ripartizione
dei beni del trust.
Insomma….tutto o quasi.
Può capitare che le scelte volontarie del costituente non in linea con i dettami della legge
scelta per la disciplina del trust, non in linea nel senso che adottano soluzioni non
consentite, possono portare al disconoscimento del trust, come è capitato, agli effetti
fiscali, con la risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 8/E del 17 gennaio 2003.
L'entrata in vigore dell'art. 2645 ter ha indotto alcuni commentatori, Petrelli per tutti, a
ritenere che la norma in questione legittimi l'esistenza di un trust di diritto italiano.
La questione è delicata, perchè l'art. 8 della convenzione richiede che la legge
regolatrice del trust disciplini dettagliatamente molti aspetti del trust che ho sopra
riassunto: Petrelli ritiene che taluni di questi aspetti sarebbe stato possibile disciplinarli
in base alle norme di diritto italiano anche prima dell’art. 2645 ter, il quale ha colmato le
lacune residue della legge italiana (si pensi alle restrizioni in ordine alla durata, ma
anche al fatto che prima di tale norma non era prevista in Italia la possibilità di produrre
un effetto separativo generale, come richiesto quale caratteristica minima del trust dall’art
2 comma 2 lettera a) della convenzione).
Petrelli si addentra nell’analisi degli aspetti necessari di disciplina richiesti dall’art. 8),
rinviando, in misura preponderante alle norme in tema di mandato, altra fattispecie, in
fondo, procedurale o comunque a contenuto libero, collegata alla fiducia, cui il trust è
accomunabile.
L'autore fa presente che sussistono comunque incertezze e lacune nelle norme interne,
circa la inclusione dei beni ricevuti dal trustee e successivamente da lui acquistati per
incrementare il trust, nella sua eventuale comunione legale dei beni e circa la sorte degli
stessi in caso di successione mortis causa (l’art. 11 comma 2 della convenzione prevede
che la legge che disciplina un trust, riconosciuto possa, ma non debba disciplinare, tra
gli altri, tali aspetti), inoltre manca, nella legge italiana, la regolamentazione della figura
del protector (o guardiano) incaricato di controllare l'esecuzione del programma.
A parte l'avv. Lupoi, che, come detto già riteneva esistente un trust italiano
anteriormente alla entrata in vigore dell'art. 2645 ter C.C., l'unica pronunzia
giurisprudenziale che si è occupata dell'argomento ha ritenuto che l'art. 2645 ter non crei
una nuova figura, ma disciplini semplicemente un effetto negoziale, quello di
destinazione, accessorio rispetto agli effetti di un negozio, tipico od atipico, cui può
accompagnarsi.
Qualche altro autore manifesta dubbi sul fatto che l'art. 2645 ter introduca un trust di
diritto italiano, alla luce del fatto che comunque la normativa in questione è lacunosa
rispetto ad alcuni degli aspetti del trust richiesti dall'art. 8 della convenzione.
Peraltro preme di sottolineare che l'art. 2645 ter e la convenzione non prevedono
fattispecie esattamente sovrapponibili: l'art. 2645 ter richiede necessariamente l’atto
pubblico, la convenzione (che, si ricorda, all'art. 5 prevede la propria inapplicabilità ove
il paese della legge regolatrice non prevede, il trust o la categoria specifica del trust) art. 3 - che il trust risulti da atto scritto: peraltro si discute se la legge regolatrice del trust
debba disciplinarne solo l’aspetto sostanziale od anche quello di validità sul piano
formale, prevale la prima tesi, essendo, espressamente, qualificate come preliminari
dall’art. 4 della convenzione le questioni di forma del negozio, da risolvere secondo le
normali regole di diritto internazionale privato, od interno, a questo punto, se si
accedesse alla tesi che l’art. 2645 ter legittima il trust interno a tutti gli effetti.
Ulteriore questione: un trust regolato da legge straniera potrà avere la durata che la
stessa prevede per la categoria di trust in questione, un eventuale trust regolato dall'art.
2645 ter C.C. dovrà essere di durata pari alla vita del beneficiario e, comunque, di durata
non superiore ai 90 anni.
Altro punto di differenza: l'art. 2645 ter, anche per collocazione sistematica nel titolo I
del libro VI C.C. relativo alle formalità pubblicitarie, consente che possano costituire
oggetto di atto di destinazione solo i beni immobili o i beni mobili registrati, si discute
se l'enunciazione sia tassativa, oppure se sia esemplificativa e dettata dalla necessità che,
in ordine a tali beni, la previsione espressa sia intesa solo alla finalità di rendere
possibile l'esecuzione delle formalità pubblicitarie al fine di poter opporre il vincolo di
destinazione ai terzi, mentre non sarebbe stato necessario enunciare altri possibili beni
oggetto dell’atto di destinazione in quanto, in ordine ad essi, l'eventuale opponibilità sarà
soggetta alle normali regole.
Il problema è fomentato dalla pessima scelta del legislatore di collocare, fatto senza
precedenti, nel libro VI la disciplina sostanziale dell’istituto, dettata, oltretutto, in modo
abbastanza ellittico.
Comunque limiti oggettivi, quale siano e se vi siano a proposito dell’art. 2645 ter, non si
riscontrano nel trust, che può avere ad oggetto qualunque tipo di bene.
Ultimo aspetto "civilistico": l'effetto separativo in ordine al trust si riconnette al
momento della costituzione del vincolo, non a quello di un eventuale pubblicità: l'art. 12
della convenzione, tuttavia, prevede che il trustee che desidera la "registrazione" dei
beni mobili ed immobili, possa richiedere la "iscrizione" della sua qualità, salvo che ciò
non sia vietato o incompatibile con la legislazione dello stato ove la "iscrizione" debba
aver luogo. In ordine all'interpretazione di questa norma si è accesa una serratissima e
brillante polemica tra il prof. Gazzoni e l'avv. Lupoi circa la possibilità o meno di
trascrivere l'atto costitutivo del trust ai fini della sua opponibilità ai terzi.
In sintesi, la negativa cerca riscontro nel principio del numerus clausus dei diritti reali e
ne principio della tipicità degli atti soggetti a trascrizione, rilieva che l'art. 12 enuncia
una facoltà, non un obbligo.
La positiva argomenta anch'essa dall'art. 12 della conv. per replicare a tutte le suddette
obiezioni, affermando che la convenzione ha riconosciuto, e, dunque, introdotto
nell'ordinamento, e, in ultima analisi, reso tipica, una nuova forma di proprietà ed un
nuovo atto, avente ad oggetto un situazione giuridica suscettibile di trascrizione (non
limitata ai diritti reali, si veda la locazione ultranovennale e l'anticresi contemplati
dall'art. 2643 C.C. e, per quanto attiene all'argomento che fa da sfondo a questa
relazione, l'assegnazione della casa famigliare nella separazione e nel divorzio).
L'art. 2645 ter C.C., peraltro, consente di ritenere che, ormai, non possa ritenersi
incompatibile col diritto italiano la trascrizione del vincolo di destinazione.
Peraltro il Trib. Trieste sopra citato si è occupato anche di ciò, affermando che l'art.
2645 ter ha collocazione "ambigua" (dopo l'art. 2644 C.C.) e non avrebbe introdotto
nell'ordinamento una fattispecie autonoma suscettibile di trascrizione (come l'art. 2645
bis ha, invece, fatto).
Un ultimo paio di notazioni brevissime, pratiche e di, mi si passi l'espressione, bassa
cucina: il trust può benissimo essere utilizzato per la pianificazione famigliare nei casi di
separazione e divorzio, anzi, è uno degli "ambienti" tipicamente richiamati per la sua
utilizzazione, ma occorre una certa cautela e non mancano controindicazioni. Ad
esempio: una pronunzia giurisprudenziale ha argomentato il non riconoscimento degli
effetti separativi del trust dalla circostanza che il trustee non era un professionista,
dunque attenzione ad usi disinvolti dell'istituto. Volendo utilizzare un trustee
professionista, questo comporta, normalmente, spese consistenti.
I beni del trust, salvo il trust autodichiarato, non tornano al settlor, non possono essere
trasferiti ai beneficiari in spregio alle norme sulla successione necessaria. Infine,
essendovi incertezza sulla possibilità di richiamare quale norma regolatrice del trust la
legge italiana, volendo richiamare una legge straniera, si ribadisce, sarebbe consigliabile
conoscerla, e, si rimarca, conoscerla bene.
Il trattamento fiscale del trustee e dell'atto di destinazione ex art. 2645 ter: ai fini delle
imposte dirette il trust, dal nuovo testo dell'art. 73 del T.U.I.R. è equiparato alle società
di capitali od agli enti pubblici, se residente nel territorio italiano.
La nozione di residenza è delineata dall'art. 73 comma 2 T.U.I.R. con finalità
antielusive.
I benefici derivanti dal trust sono attribuiti fiscalmente ai beneficiari, ove individuati od
individuabili, per trasparenza e costituiscono, in ogni caso, redditi da capitale, come
dispone l'art. 44, comma 1, lettera g sexies del T.U.I.R.
Ai fini delle imposte indirette le discussioni sono aperte: se pare pacifico che, come
dichiarato dall'A.F. nella risposta n. 39 di telefisco 2007, l'atto costitutivo di vincolo di
destinazione sconti l'applicazione dell'imposta fissa di registro ex art. 11 della Tariffa,
parte I, allegata al D.P.R. 131/86 e l'imposta ipotecaria in misura fissa, maggiori
discussioni ha suscitato il trust con trasferimento di diritti, in considerazione del fatto
che, in tal caso, vengono posti in essere due atti con effetto traslativo, oltre al vincolo di
destinazione: l'atto di trasferimento al trustee, e, normalmente, l'atto di trasferimento ai
beneficiari finali. Sul primo atto, considerando che per effetto del trasferimento non si
verifica alcun arricchimento del trustee e che questi non ha la proprietà piena del bene,
la più attenta dottrina propende per l'applicazione dell'imposta di registro, ipotecaria e
catastale in misura fissa, non trattandosi di liberalità, nè di atto gratuito, ma di atto che
non ha contenuto patrimoniale o svela capacità contributiva. L'A.F. pare orientata per
l'applicazione delle imposte delle successioni e donazioni, ritenendo attratti questi atti
nella categoria degli atti gratuiti, nonchè implicitamente e conseguentemente, delle
imposte ipotecarie e catastali in misura proporzionale.
Peraltro l'A.F. non è tornata sul punto quando ha emanato la circolare contenente i primi
chiarimenti sulla imposta per le successioni e donazioni, da qualcuno ciò è stato
interpretato come un indice di possibile ripensamento sul punto.
Se le discussioni sul trattamento tributario dell'atto "di dotazione" si riverberano nel caso
di atto modificativo della persona del trustee o sua revoca, pare abbastanza pacifico il
trattamento tributario riservato all’atto di nomina o revoca o sostituzione del c.d.
guardiano che non è in alcun modo intestatario dei beni (quindi imposta di registro
fissa), incertezze genera il trattamento tributario da applicare all'atto con cui il trustee
trasferisce si beneficiari.
Infatti se l'A.F. e la dottrina maggioritaria lo qualificano come liberalità indiretta,
ritengono, quindi, applicabili l'imposta di successione e donazione (nonchè le imposte
ipotecarie e catastali proporzionali ove vi siano immobili) quantificata in base al
rapporto intercorrente tra il settlor ed i beneficiari, non è mancato chi ritiene applicabile
l'imposta di registro con l'aliquota residuale (3%) qualificando l'atto come adempimento
di un obbligo precedentemente assunto.
Il tutto lascia impregiudicato ogni eventuale trattamento diverso ove il trasferimento a
favore dei beneficiari non fosse riconducibile a causa liberale.
Infine: ove i beni trasferiti al trustee facciano parte dell'impresa del settlor, quest'ultimo
dovrà emettere fattura ed assoggettarli ad IVA d il trasferimento sconterà le imposte di
registro, ipotecarie e catastali, in misura fissa: la fattura si giustifica non per il
trasferimento, quanto per l'autoconsumo.
Peraltro, alla luce delle nuove ipotesi di esenzione dall'IVA prevista dalle recenti norme
di semplificazione ed antielusione potrebbe non essere pacifico neppure questo punto.
Concludo: ovviamente eventuali incrementi o sostituzioni dei beni del trust a seguito di
acquisti del trustee (art. 11 della Conv.: il riconoscimento del trust comporta, oltre alla
separazione patrimoniale, la capacità del trustee in quanto tale di comparire in giudizio
davanti ad un Notaio od altra pubblica autorità) sconteranno le normali imposte dovute
in relazione alla natura dell'atto compiuto.