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la didattica
Il teatro in facoltà:
impariamo “giocando”
Marco Longo
C
he il teatro non possa
ridursi al semplice testo
scritto è opinione condivisa, se non altro per la natura semiotica del segno teatrale
con cui inevitabilmente bisogna confrontarsi, “addetti ai
lavori” e pubblico, durante la
pratica della messa in scena.
Ecco perché, in tutti i gradi
della scuola italiana, l’“educazione teatrale” è ormai sempre
presente nell’ambito delle attività extra-curriculari previste
dai P.O.F., anche se il nostro
paese è ancora indietro rispetto agli altri stati europei, dove
il teatro è materia a pieno titolo e con pari dignità rispetto
alle altre discipline. Negli ultimi anni, anche l’università si è
orientata a favorire e sviluppare negli studenti la capacità di
fruizione e di analisi dell’opera teatrale non solo come fatto
letterario, ma come creazione
che dalla letteratura prende le
mosse per sospingersi verso
prospettive
più
ampie.
Sembrerà poco, ma forse, sia
detto per inciso, da questa
presa di coscienza si potrebbe
partire per rivalutare una sempre più bistrattata letteratura
che si vede costretta a lasciare
il posto a discipline ritenute
più utili.
L’università è il luogo più
idoneo per ridare al testo teatrale la sua doppia dimensione
di fiction e di performance. Se
agli studenti di materie umani-
stiche, e perché no, anche a
quelli degli indirizzi cosiddetti
più professionalizzanti di
mediatori linguistici o di esperti della comunicazione, si presentasse semplicemente il funzionamento del testo teatrale
nel suo doppio statuto, ben
poco resterebbe loro senza l’esperienza dal vivo. E non si tratta solo di andare a teatro, pratica sociale purtroppo sempre
più in crisi per fattori diversi dai
vari risvolti, né di invitare attori
in aula, perché portino la loro
esperienza. Alludiamo piuttosto ad una didattica che usi il
teatro come metodologia di
studio e di ricerca, chiaramente
non per formare attori di professione, ma per avviare pro-
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la didattica
cessi culturali volti alla formazione globale degli studenti.
Il teatro, come più e più
volte è stato sperimentato nelle
università, può essere un validissimo strumento di amalgama del sapere e di quei “compartimenti stagni” in cui spesso
si scinde la visione delle differenti discipline da parte degli
studenti.
Affrontare un testo teatrale
in tutte le sue componenti,
dalla semiotica all’analisi
testuale, dalle prospettive critiche ai nodi biografici, storicosociali (Les Séquestrés d’Altona, La Putain respectueuse o
Mort sans sépulture di Sartre,
solo per fare qualche esempio)
o mitico-leggendari (Antigone,
Thésée, Médée) che l’autore
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riprende, interpreta o trasfigura, è esperienza di sicuro arricchimento, cui dovrebbe aggiungersi naturalmente la
messa in scena da parte degli
studenti stessi, vera sfida didattica la cui ricaduta sul piano
formativo, psicologico, linguistico (soprattutto nel caso di
opere in versione originale)
riteniamo fuori discussione.
Nel 2001 è stato effettuato
un esperimento del genere
presso la facoltà di Lingue,
sede di Ragusa.
Ricorreva il cinquantenario
della morte di André Gide
(1868-1951), nonché il centenario della messa in scena di
una sua pièce giovanile, Le Roi
Candaule (1901) per la regia di
Lugné-Poe, che non ebbe il
riscontro di critica e di pubblico sperato dall’autore. E le
coincidenze non finivano lì: in
quell’occasione si volle anche
ricordare, come era doveroso,
il cinquantenario della messa
in scena taorminese (1951) per
la regia di Giovanni Cutrufelli
che invece registrò un grande
successo.
Il progetto proposto e attuato dalla facoltà prevedeva un
lavoro di lettura e di studio del
genere teatrale, dalla produzione alla fruizione del testo,
attraverso i suoi due aspetti
fondamentali: quello letterario
e quello scenico. Alle attività
seminariali su Le Roi Candaule
fu affiancato un laboratorio
teatrale che coinvolse dodici
studenti della facoltà di Lingue
e tre attori professionisti. Il
risultato fu una mise en espace
aperta al pubblico che ne
decretò il successo: la serata si
concluse con l’intervento del
maestro Cutrufelli che raccontò di sé, di Gide, del loro
incontro e di quella giovanile,
ma gloriosa esperienza del
1951.
L’esperimento è servito
anche come pretesto per una
riflessione sull’aspetto interdisciplinare del sapere, in un’epoca in cui la settorializzazione galoppante tende invece a
far dimenticare che il particolare non è avulso dall’universale, che il presente e i suoi linguaggi, spesso contradditori, si
spiegano a fondo solo se ricollegati al passato da cui in varia
misura provengono.
E dal passato proviene
anche il teatro e la sua precipua e antichissima vocazione
didattica, perché nella sua
ormai millenaria storia esso è
diventato luogo di riflessione
sulle umane vicissitudini e per
questo sempre attuale.
Per tornare all’esperienza
di Ragusa, riteniamo di dover
aggiungere che essa ha messo
in rilievo questo dato: la comprensione completa di un’opera teatrale è sommativa. Essa
proviene in parte dallo studio
del testo; in parte, e certo non
la minore, dagli sforzi, oseremmo dire dal travaglio, della
messa in scena, quando ci si
misura con il testo non più
come “critici”, ma, impresa
difficile per chi non è del
mestiere, come “dicitori”, per
trasmettere al pubblico quello
che l’autore ha, più o meno
esplicitamente, voluto dire.
E non si dimentichi infine
che il teatro esalta un altro
aspetto didattico, spesso tralasciato nelle nostre aule universitarie sempre più piene di studenti: il piacere di imparare
“giocando”, come il teatro
stesso per natura invita a fare.
Non per nulla il francese usa il
verbo jouer per recitare, interpretare.
Un gioco serio, e che,
come tutti i veri giochi, ha
regole ferree che servono
anche a formare individui consapevoli di sé, del loro ruolo,
rispettosi dell’altro e del gruppo in cui agiscono: una vera
palestra di formazione.
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