LA CATEGORIA DEL CONTATTO SOCIALE SOMMARIO: 1. Delimitazione della questione giuridica: l’incerta collocazione di particolari fattispecie di danno al confine tra contratto e fatto illecito. -2. Le due aree della responsabilità civile. Brevi cenni. -3. La categoria del contatto sociale nell’elaborazione dottrinale. -4. L’uso giurisprudenziale della categoria. Rilievi conclusivi. 1. – Premesse e delimitazione del campo d’indagine: l’incerta classificazione di particolari fattispecie di danno al confine tra contratto e fatto illecito. Alcuni recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità per danno alla persona (ad esempio, il paziente ospedaliero ed il minore autolesionista) o ad altri beni ritenuti particolarmente meritevoli (ad esempio, la circolazione del credito), sembrano consolidare un meccanismo tendente al trasferimento di ipotesi tradizionalmente affidate all’area della responsabilità extracontrattuale, nella diversa area della responsabilità contrattuale. Le ragioni di questa tendenza sono da rintracciare nell’esistenza di situazioni che per le caratteristiche loro intrinseche rendono difficile, o perlomeno controversa, la scelta del tipo di tutela. L’esistenza di situazioni che, da un lato, denotano l’assenza della conclusione di un contratto ma, che d’altra parte risultano caratterizzate da vincoli e obblighi specifici preesistenti, non riconducibili ai generici doveri del neminem laedere, ha portato la dottrina a collocarle in una c.d. “terra di nessuno:ai confini tra contratto e torto”. Conferire, infatti, tali ipotesi alle regole della responsabilità aquiliana, in quanto generalmente diretta a sanzionare comportamenti illeciti che incidono nella sfera giuridica di soggetti cui l’agente non è legato da alcun rapporto preesistente specifico, consiste in un impoverimento che sacrifica la considerazione degli elementi caratterizzanti la fattispecie di danno, a tutto discapito degli interessi sorti in conflitto. In tali casi infatti, danneggiato e danneggiante, non sono venuti in contatto casualmente in occasione del danno, bensì in un momento precedente; il danneggiante non è suscettibile di essere valutato alla stregua di un soggetto qualsiasi, ma riflette caratteristiche e capacità che hanno condizionato la scelta del creditore/danneggiato di relazionarsi con lui per un certo fine. Nello stesso ordine di considerazioni, ascrivere tali ipotesi alle regole dettate in tema di responsabilità contrattuale potrebbe apparire un eccesso, in quanto le parti interessate, non sono legate fra loro da un vincolo pattizio. Nonostante l’assenza di un tale dato formale, tra danneggiante e danneggiato, tuttavia, risulta essere instaurata una relazione qualificata, fonte per entrambe le parti di reciproci obblighi di condotta, alla quale consegue un’esposizione delle rispettive sfere giuridiche, ad uno specifico rischio di danno e non già ad un rischio generico, cui potenzialmente è esposta la generalità dei consociati. Le reciproche condotte, risultano dunque, teleologicamente orientate verso la soddisfazione di una posizione di interesse. La questione giuridica che si affronta è la seguente: nonostante l’assenza di un accordo tra le parti inteso alla stregua dell’art. 1321 c.c., in considerazione delle circostanze che 1 connotano tali situazioni, è possibile tuttavia applicare le regole della responsabilità da “contrattuale” rectius “da inadempimento”? Il supporto di un inquadramento sistematico e schiette preoccupazioni equitative, originate dalla constatazione che in determinati casi, l’assenza di un contratto non può essere ritenuta ragione sufficiente per eludere l’applicazione di un sistema di tutela più favorevole al danneggiato, ha sospinto la giurisprudenza, anche sulla base del tornate dottrinale che si è formato in materia, verso la ricerca di una soluzione adeguata al conflitto di interessi insorto. 2. – Le due aree della responsabilità civile. Brevi cenni. E’ per questo verso opportuno richiamare brevemente, in punto di disciplina, le differenti regole che governano la responsabilità contrattuale e la resposnabilità aquiliana, rinvenendo l’intima giustificazione secondo la funzione da esse assolta. Se la responsabilità, in linea generale, è la sanzione per l’inosservanza di un dovere giuridico, la valorizzazione del profilo funzionale delle due aree della responsabilità civile, ne segna, diversificandolo, il fondamento: mentre nel fatto illecito, l’obbligazione risarcitoria ha la finalità di comporre nei termini di una nuova solidarietà, il conflitto di interessi tra il leso e il danneggiante, nelle ipotesi in cui risulta un vincolo preesistente, la responsabilità da inadempimento, assolve allo scopo di ristabilirne la forza effettuale attraverso la creazione di un’obbligazione per il risarcimento del danno discendente dalla sua violazione. Pur quindi, presentando un punto di partenza comune, le due forme di responsabilità, per il fine cui tendono, soggiacciono a regimi profondamente diversi. Un primo sicuro elemento di differenziazione riguarda il termine di prescrizione dell’azione che, per la responsabilità contrattuale segue il termine ordinario di dieci anni, mentre il risarcimento da fatto illecito si prescrive in cinque anni ai sensi dell’art. 2947 c.c., a meno che il fatto non sia considerato come reato e la legge preveda per il reato una prescrizione più lunga. Il diverso termine di prescrizione è giustificato dal fatto che, nella responsabilità contrattuale, la disciplina prevista per l’esigibilità del credito inadempiuto si comunica al diritto al risarcimento del danno in cui si converte l’originario diritto alla prestazione dovuta come dianzi accennato, mentre nella responsabilità aquiliana il diritto al risarcimento ha disciplina autonoma rispetto al diritto leso. Ulteriore elemento di differenza sul piano della disciplina tra responsabilità contrattuale ed aquiliana si rinviene nella diversa ripartizione dell’onere della prova e nel diverso oggetto della prova medesima. Il danneggiato che agisca in via aquiliana, ha l’onere di provare il danno subito ed il nesso di causalità adeguata tra il danno medesimo e un comportamento doloso o colposo del convenuto. Si tratta tuttavia di un principio che subisce rilevanti eccezioni in tutte quelle ipotesi, cc.dd. di responsabilità oggettiva, in cui i criteri di imputabilità del danno prescindono del tutto dall’elemento soggettivo del fatto illecito, in modo tale da attribuire la responsabilità per danni in base ad un rapporto di mera signoria sulle cose ovvero da riferire la responsabilità ad un soggetto diverso dall’autore materiale del fatto causativo stesso, si ché in sostanza, l’onere si riduce alla prova del nesso di causalità materiale tra danno lamentato e un fatto la cui responsabilità viene fatta ricadere automaticamente sul convenuto. Viceversa, nel caso di responsabilità contrattuale, spetta al creditore provare il contratto ed allegare l’inadempimento, mentre al debitore spetta il più gravoso onere di dover provare l’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa a lui non imputabile. In ultimo, ma senza esaurire gli ulteriori tratti distintivi, rileva tra le principali differenze sul piano della disciplina, il regime della prevedibilità dei danni risarcibili. A tal uopo, l’art. 1225 c.c., statuisce, con l’eccezione del caso di inadempimento doloso, la limitazione del danno che poteva prevedersi al tempo in cui è sorta l’obbligazione. In sede di disciplina dell’illecito, l’art. 2056 c.c., a differenza che con l’art. 1223, 1226 e 1227 c.c. ne omette uno specifico richiamo. La ratio di tale scelta legislativa è da rinvenirsi, sia nel senso dell’opportunità, ovvero che la responsabilità da inadempimento sia precisamente valutabile dal debitore al fine di assumersene adeguatamente il rischio anche in relazione al corrispettivo pattuito, che sotto il profilo funzionale, apparendo coerente con l’idea di un rapporto di proporzione tra la sanzione del risarcimento e l’utilità connessa alla prestazione promessa è rimasta inadempiuta. Posti in luce questi brevi scorci sul panorama della responsabilità, emerge come, le regole dettate in tema di responsabilità contrattuale sembrano offrire al danneggiato una tutela più efficace o, perlomeno, una via “a percorrenza agevolata”, rispetto a quanto prospettabile secondo le coordinate del reticolato aquiliano. 3. – La categoria del contatto sociale nell’elaborazione dottrinale L’individuazione giurisprudenziale del contatto sociale quale fonte di un rapporto non scaturente da contratto, ma che in sostanza ne mima il contenuto, chiede un raffronto tra tale tematica e quella del rapporto obbligatorio senza obbligo primario di prestazione. L’esperienza tedesca, per quel che qui interessa, ha fornito lo spunto per introdurre nell’ordinamento giuridico italiano la teoria del contatto sociale, per l’invero nominata anche da altra dottrina tedesca, quella dei rapporti contrattuali di fatto sulla quale si tornerà a breve. L’idea di una situazione relazionale che, al di fuori e prima ancora della sussistenza di un rapporto contrattuale tra le parti, costituisse di per sé la fonte di reciproci e specifici obblighi, deve farsi risalire a Jhering, che alla metà del secolo diciannovesimo forgiò la categoria della culpa in contrahendo. Veniva sostenuto che, in tali casi, le parti di un futuro contratto risultavano legate da un rapporto speciale, che dava perciò stesso origine ad una serie di obblighi reciproci di buona fede, giustificati dalla necessità di proteggere l’affidamento della parte incolpevole. Autorevolmente veniva sostenuto che «la diligentia contrattuale [fosse] richiesta nello stesso modo tanto nei rapporti contrattuali ancora in fase di formazione, quanto in quelli già perfezionatisi. L’inosservanza di questa diligentia d[ava] luogo, in entrambi i casi, all’azione contrattuale per il risarcimento del danno». Tale analisi, ha offerto il fianco per superare la concezione di matrice romanistica del rapporto obbligatorio, che riteneva lo stesso innervato sulla sola prestazione, per addivenire ad una concezione complessa del rapporto obbligatorio, in cui accanto ad un obbligo di prestazione, gravitano anche obblighi diversi, cc.dd. “obblighi di protezione”. All’interno del rapporto obbligatorio, è possibile infatti distinguere due fondamentali tipi di interesse: il primo è caratteristico della posizione giuridica assunta dal creditore e corrisponde all’interesse di questi all’esecuzione della prestazione dedotta in obbligazione; il secondo è quello di protezione che sussiste per entrambe le parti del rapporto obbligatorio a tenere indenne da un rischio specifico di danno le reciproche sfere giuridiche, personale e patrimoniale, particolarmente esposte ad un maggiore rischio di danno in occasione della prestazione. L’elaborazione degli obblighi di protezione segnava il guadagno teso a circuitare una tutela di tipo contrattuale anche per quegli interessi che pur non rientranti nell’oggetto 3 principale dell’obbligazione, al pari venivano ritenuti meritevoli di essere salvaguardati attraverso i rimedi propri della responsabilità contrattuale. Come anticipato, il contatto sociale ha trovato espressa menzione nella teoria dei rapporti contrattuali di fatto. Proprio partendo dalla tutela di tipo contrattuale riconosciuta alla culpa in contrahendo, tale elaborazione scientifica, (ritenuta a detta dei più una “scoperta giuridica” meno rilevante di quella da cui ha preso le mosse), sorta in un clima in cui il contratto era ritenuto quale puro scambio tra dichiarazioni di volontà con valore di proposta e accettazione, muoveva dalla critica mossa a quella parte della giurisprudenza dell’epoca (siamo negli anni ‘40) che ricorreva alle cosiddette finzioni negoziali, per estendere una tutela di tipo contrattuale anche in quei casi in cui risultava assente lo scambio di dichiarazioni di volontà. Più in linea con la realtà, tale dottrina denunciava che nei rapporti contrattuali di fatto, il rapporto produce i suoi effetti non in forza di valide dichiarazione (senza quindi ricorrere ad artifizio alcuno), ma in base al complesso delle circostanze e dei comportamenti valutati in modo socialmente tipico attraverso i quali si realizzano di fatto operazioni economiche e trasferimenti di ricchezza tra i soggetti, pur mancando in apparenza una formalizzazione dello scambio in un contratto inteso come incontro tra dichiarazioni di volontà. I rapporti contrattuali di fatto si atteggiavano quindi come rapporti contrattuali nati nella prassi senza la conclusione di un contratto. Questo paradigma richiamava in sé una congerie di casi assai diversi tra loro, suddivisi in tre gruppi, il primo dei quali comprendeva proprio i rapporti contrattuali di fatto nascenti da contatto sociale (kraft sozialen Kontaktes) tra cui Haupt, padre della teoria in discorso, annoverava proprio la culpa in contrahendo. Il secondo gruppo di ipotesi riguardava i rapporti contrattuali di fatto derivanti dall’inserzione in un rapporto comunitario ed il terzo quelli derivanti da un obbligo sociale di prestazione. Così come Jhering, anche Haupt non si mostrava favorevole all’applicazione della disciplina extracontrattuale, non solo perché le sue regole tecniche potevano essere di ostacolo al risarcimento del danno, ma soprattutto perché, per sua natura, non era idonea a cogliere le peculiarità della situazione di fatto del rapporto che si instaura tra gli interessati. Non c’è una conclusione del contratto mediante proposta e accettazione ma il rapporto giuridico si colloca, per così dire, nello spazio tra contratto e relazione giuridica non contrattuale. Per Haupt, la particolare relazione sociale che nasce in modo tipico tra gli interessati, è in grado di collocarli su un piano diverso dalla mera coesistenza neutrale di terzi, e crea tra loro una relazione, per cui l’uno è verso l’altro partner, un rapporto al quale le regole del contratto sembrano più adatte di quelle degli atti illeciti, non soltanto per il risarcimento del danno cagionato, ma anche per altri obblighi. L’elemento che fa assurgere questo rapporto a relazione contrattuale, non è l’accordo negoziale, che manca, ma il dato di fatto del particolare contatto sociale che si è oggettivamente realizzato. E’ da dire tuttavia, che questa impostazione è stata vivacemente criticata per diversi ordini di ragioni. In primo luogo perché appartiene ad un’epoca e ad un ambiente culturale profondamente diverso; il superamento del principio volontaristico, secondo cui la volontà espressa dalle parti costituirebbe la ragione ultima e il fine del vincolo contrattuale, è ormai un dato acquisito nel nostro ordinamento ed è storicamente legato al cambiamento culturale, storico ed economico della società. Il dogma della volontà resta superato dal più forte principio dell’autoresponsabilità per cui, chi immette e da causa all’immissione di dichiarazioni negoziali nel traffico giuridico è assoggettato alle conseguenze di esso secondo il loro obiettivo significato. In secondo luogo, perché, si è da più parti escluso l’idoneità del contatto meramente sociale a costituire la fonte un rapporto contrattuale di fatto. La ricorrenza di un contatto “mero” acquisterebbe un rilievo sul piano della responsabilità, capace tutt’al più di attribuire natura contrattuale alla violazione dei doveri di reciproca protezione che da tale contatto scaturiscono, ma non di produrre dei rapporto giuridici assimilabili completamente a quelli nati dal contratto. Tra l’altro con ciò non si risolverebbe il vero problema, che anche attraverso queste pagine ci proponiamo di risolvere, cioè individuare un criterio per selezionare a quali condizioni e in presenza di quali presupposti una “relazione sociale” tra due soggetti assurge al rango di rapporto giuridicamente rilevante pur in assenza di un atto di natura negoziale. Messa da parte l’esperienza dei rapporti contrattuali di fatto, successivamente più accorta e prosperosa dottrina, ne ha offerto un nuovo impulso, riconsiderando, sotto una diversa prospettiva, il terzo gruppo di ipotesi, ovvero i rapporti contrattuali derivanti da un obbligo sociale di prestazione. Si tratterebbe, in particolare di quello che poi, la dottrina italiana più attenta al tema in oggetto, ha ribattezzato come “contatto sociale privilegiato” consistente nella relazione specifica instauratasi tra due soggetti, comunque non vincolati da un preesistente contratto, e comportante l’esecuzione da parte di uno dei soggetti ed a favore dell’altro, di prestazioni che sono “tipiche” di un rapporto contrattuale e che risultano incidere nella sfera personale e/o patrimoniale dell’accipiente. In presenza di questi presupposti, cioè, esecuzione di una prestazione ed instaurazione di una relazione privilegiata, si instaurerebbe tra due soggetti un rapporto di tipo obbligatorio, nel quale tuttavia verrebbe a spiccare la mancanza di un obbligo primario di prestazione (da qui la locuzione frequentemente impiegata di “obbligazione senza prestazione”). Ciò nel senso che il soggetto non potrebbe ritenersi obbligato ad effettuare la prestazione, ma una volta intrapresa spontaneamente, in caso di patologie inerenti la prestazione stessa, verrebbe a rispondere, non a titolo extracontrattuale, bensì ex art. 1218 c.c. La sussunzione dell’eventuale responsabilità del prestatore nell’ambito dell’inadempimento, comporta che il prestatore risponde non solo nel caso in cui il suo intervento abbia cagionato un danno al soggetto che con lui è entrato in contatto, ma anche nel caso in cui la prestazione non abbia assicurato al destinatario quel vantaggio che egli poteva ragionevolmente attendersi, affidandosi ad un soggetto dotato di specifiche competenze tecniche. Il merito di questa dottrina, è quello di aver avvalorato per prima, il comportamento socialmente tipico posto in essere, che come tale diventa fonte esso stesso di reciproche condotte, pur in assenza di un contratto. Principiando dalla ricostruzione in termini di responsabilità contrattuale della culpa in contrahendo, si è allora sviluppato il concetto di un rapporto obbligatorio in cui, assente la prestazione, il ruolo di polo di aggregazione è surrogato dagli obblighi di protezione, secondo lo schema della citata obbligazione senza prestazione, di cui sarebbe prima espressione. Com’è noto, nel nostro ordinamento, tale modello è stato recepito e tipizzato dagli art. 1337 e 1338 c.c. nella veste di responsabilità precontrattuale. In questi casi si ha che, una relazione tra due soggetti diretta alla stipulazione di un negozio si qualifica come fonte di un particolare rapporto che vincola le parti a comportarsi secondo buona fede. Il fatto cui la legge ricollega la nascita del rapporto obbligatorio precontrattuale è costituito dall’affidamento obiettivo ingenerato da una parte dal comportamento dell’altra. Ciò lo si ricava dal concetto stesso di buona fede oggettiva, la quale è volta alla tutela dell’affidamento di un soggetto nella lealtà, nella probità, nella correttezza di un altro soggetto con cui il primo è entrato in affari. La soggezione di questa relazione all’imperativo della buona fede, fa in modo da sottrarla all’indistinto sociale, e ne segna il suo divenire in rapporto 5 obbligatorio, il cui nucleo essenziale, s’intuisce, è costituito non già o comunque non ancora da obblighi di prestazione, bensì da obblighi di protezione. L’obbligo di buona fede non riveste un contenuto generico, bensì si sostanzia di specifici obblighi che trovano la loro fonte in una relazione qualificata dall’interesse delle parti secondo un primo “prototipo” di contatto “sociale”, e il loro titolo nell’affidamento. Le ripercorse tappe della responsabilità precontrattuale hanno permesso di osservare che l’ordinamento, consente la nascita di un rapporto obbligatorio anche in assenza di un contratto, (perché non ancora concluso o invalido), ritenendo rilevante sul piano del fatto giuridico idoneo secondo l’ordinamento, la situazione di affidamento come fonte di obblighi. Ci si è allora chiesti, se a partire dalla culpa in contrahendo, questo modello archetipale fosse estendibile in via analogica a tutte quelle ipotesi che, pur distanti da un panorama di trattativa negoziale, risultano accomunate dalla ricorrenza di una relazione instaurata a seguito di un contatto “qualificato” all’interno del quale è maturato uno stato di affidamento tale da giustificare l’osservanza di determinati obblighi. In questi casi, un’applicazione analogica è coadiuvata dal valore sociale che esprime lo status professionale cui appartiene il soggetto responsabile nei confronti del danneggiato. L’affidamento è qui ingenerato non già da un intento negoziale, bensì è radicato nel particolare status professionale su cui i soggetti fanno fede sulla base di un contatto volto allo specifico fine di profittare di quelle capacità. Anche in questi casi, similmente, ne viene che, i soggetti del rapporto di responsabilità, non sono venuti in relazione per la prima volta a causa del danno, ma tale evento anzi si pone come epilogo di un contatto già tra loro instauratosi. Lo status professionale e l’affidamento sarebbero in grado di colorare tale relazione, di astrarla dalla genericità dell’indistinto e dunque di sottoporla all’imperativo della buona fede, fonte di specifici e reciproci obblighi di comportamento tesi alla salvaguardia dell’altrui sfera giuridica. Il fatto causativo di tali obblighi, sottoposti alla prodromica valutazione secondo un giudizio di conformità all’ordinamento, sarebbe ravvisato, dunque, in un “contatto sociale qualificato”. Il contenuto del rapporto obbligatorio, che tale si configura per l’insorgenza di una relazione funzionalmente qualificata, in occasione di una prossimità soggettiva determinata e sintetizzata nel contatto sociale, riveste un ruolo preminente per cui, è la funzione del rapporto in grado di determinare l’ordinamento del caso concreto. La pur riferita assenza di un contratto, non è in grado di neutralizzare la professionalità che qualifica ab origine la relazione instauratasi, quale fonte di obblighi specifici. Nei casi attraverso cui il contatto sociale ha fatto il suo ingresso, rispolverato da precedenti e autorevoli formanti dottrinali, si è avuto che, il compimento di atti consapevolmente assunti dotati di un significato sociale oggettivamente negoziale, avvalorati da elementi di ordine fattuale, quali l’affidamento e lo status professionale, sono apparsi idonei ad essere assunti come presupposti per la nascita di un rapporto. Pur non trovando fonte in un contratto, ma in una situazione di fatto caratterizzata da comportamenti ed atti, risultano applicabili a tale relazione le regole che disciplinano il contratto come rapporto. Quindi, la tutela contrattuale, si appalesa essere la risposta maggiormente conferente alla protezione di colui che è titolare di aspettative suscitate dal grado di professionalità del soggetto verso cui si rivolge, indipendentemente dalla stipula o meno di un contratto. Troppo articolato e complesso si appalesa essere il rapporto che mima di fatto un rapporto contrattuale, per essere inquadrato, in caso di violazione, entro il generico dovere di non arrecare danno ad altri. L’oggetto del rapporto, la qualità dei contraenti e il “comportamento socialmente tipico” espressivo sostanzialmente di una regola negoziale, sono parametri alla cui stregua valutare quella conformità all’ordinamento che, in ossequio alla tripartizione gaiana delle fonti ex art. 1173 c.c., consente all’interprete, di esprimere un giudizio di valore su tale fatto, che per tale via acquisisce giuridicità e trova ingresso in qualità di fonte, in quell’alveo di “qualsiasi atto o fatto idoneo a produrre obbligazione in conformità dell’ordinamento giuridico” 4. – L’uso giurisprudenziale della categoria. Rilievi conclusivi. Una molteplicità di ipotesi sono state ricondotte a questo paradigma, casi tuttavia assai eterogenei fra loro. La prima sentenza che ha richiamato (per il vero in maniera un po’ approssimativa) la categoria del contatto sociale, nonché del rapporto contrattuale di fatto e dell’obbligazione senza prestazione, è stata emanata in tema di responsabilità medica, più precisamente della responsabilità del medico dipendente da un struttura sanitaria. La terza sezione civile della Cassazione, passate in rassegna le tesi a sostegno di una responsabilità extracontrattuale, quanto le (poco convincenti) vie percorse dalle precedenti pronunce per affermare una responsabilità contrattuale, affinché la “forma giuridica sia il più possibile aderente alla realtà materiale” richiama la categoria del contatto sociale. Sarebbe concesso quindi una “possibile dissociazione tra la fonte, individuata secondo lo schema dell’art. 1173 c.c. e l’obbligazione che ne scaturisce. Quest’ultima può essere sottoposta alle regole proprie dell’obbligazione contrattuale, pur se il fatto generatore non è il contratto”. L’esistenza di una relazione qualificata, indicata con un’espressione di sintesi “contatto sociale”, fra un soggetto professionalmente qualificato e un altro soggetto che ripone un’aspettativa in comportamenti destinati a produrre un risultato per lui utile, segna l’ingresso di tale ipotesi nella responsabilità contrattuale, “qualificazione che discende non dalla fonte dell’obbligazione, ma dal contenuto del rapporto”. Similarmente, la relazione sociale assume connotati tali da renderla “qualificata” alla luce dell’ordinamento, nel diverso caso della responsabilità dell’insegnante per i danni cagionati dall’alunno a se stesso. In tal caso, le Sezioni Unite della Cassazione, dopo aver escluso che, in caso di danno arrecato dall’allievo a sé medesimo, la responsabilità dell’insegnante possa essere fatta rientrare nell’ambito di operatività dell’art. 2048 c.c., ha ritenuto “più corretto ricondurre la responsabilità dell’insegnante non già nell’ambito della responsabilità extracontrattuale, con conseguente onere per il danneggiato di fornire la prova di tutti gli elementi costitutivi del fatto illecito, bensì nell’ambito della responsabilità contrattuale, con conseguente regime probatorio desumibile dall’art. 1218” in quanto “tra precettore e allievo s’instaura pur sempre, per contatto sociale, un rapporto giuridico, nell’ambito del quale il precettore assume, nel complessivo obbligo di istruire ed educare, anche uno specifico obbligo di protezione e vigilanza, onde evitare che l’allievo si procuri da solo un danno alla persona”. In tutt’altro contesto, sempre la Cassazione anche stavolta a sezioni riunite, ha ritenuto di potersi avvalere della categoria del contatto sociale, per affermare la responsabilità della banca girataria per l’incasso di assegno non trasferibile pagato a soggetto non autorizzato. In base all’art. 43 l.ass., l’assegno bancario con la clausola “non trasferibile” non può essere pagato se non al prenditore o, a richiesta di costui, accreditato sul suo conto corrente. Questi non può girare l’assegno se non ad un banchiere per l’incasso, il quale non può ulteriormente 7 girarlo. Aggiunge poi il secondo comma che, colui che paga un assegno non trasferibile a persona diversa dal prenditore o dal banchiere giratario per l’incasso risponde del pagamento. Essendo la giurisprudenza divisa tra responsabilità extracontrattuale e contrattuale, le Sezioni Unite, concludono nel senso della responsabilità contrattuale non derivante da fonte negoziale. Al fine di bypassare la necessità del vincolo negoziale, richiamano la giurisprudenza sul contatto sociale, osservando che alla base della responsabilità prevista dall’art. 43 l.ass. vi è l’obbligo professionale del banchiere, sul cui puntuale espletamento fanno affidamento tutti i soggetti interessati alla regolare circolazione ed incasso del titolo, ovvero non solo il prenditore, ma anche colui che abbia apposto la clausola di non trasferibilità nonché, colui che abbia visto indebitamente utilizzata la provvista costituita presso la banca trattaria. Dal contatto sociale, dunque, nasce l’obbligo per la banca di comportarsi con la diligenza e la perizia che il suo status legittima; la banca diventa debitrice di una condotta specifica nei confronti dei negoziatori del titolo, ancorché si tratti di soggetti diversi dai propri clienti. La violazione di questo affidamento, è idonea a far sorgere l’obbligazione risarcitoria da contatto sociale. In ultimo (ma non ultima essendo diverse le sentenze che continuano a susseguirsi e che a questa categoria fanno riferimento) il caso della mediazione. Sulla natura contrattuale o meno della fattispecie v’è contrasto. Il legislatore, definendo la figura del mediatore e non della mediazione, ha lasciato aperto il problema. Brevemente, secondo la teoria contrattualista, ai fini del perfezionamento del contratto, sarebbe sufficiente l’esser venuti in contatto con la prima parte, ritenendosi implicita l’accettazione delle altre, che hanno rilevato l’attività del mediatore. Secondo la teoria non contrattualista, la mediazione sarebbe un atto giuridico in senso stretto, identificata nella messa in relazione delle parti, fonte di obbligazioni simultanee a carico delle stesse. Orbene, i Giudici della sentenza in commento, partendo dal presupposto che “prima facie, la responsabilità del mediatore non mandatario appare agevolmente di natura non contrattuale” sposando evidentemente la teoria non contrattualista, dal momento che la vicenda riguarda una figura professionale, hanno ritenuto preferibile applicare la figura del contatto sociale, per rivestire la fattispecie di tutela contrattuale. Infatti si è osservato che “tale situazione è riscontrabile nei confronti dell’operatore di una professione sottoposta a specifici requisiti formali ed abilitativi, come nel caso di specie in cui è prevista un’apposita iscrizione a ruolo, ed a favore di quanti, utenti-consumatori, fanno particolare affidamento nella stessa per le sue caratteristiche”. Perciò, in caso di contenzioso tra il mediatore e le parti, sarà il primo a dover dimostrare di aver agito con la diligenza ex art. 1176, comma 2, nell’adempimento degli obblighi di correttezza ed informazione a suo carico, mentre spetterà alle parti fornire la prova esclusivamente dell’avvenuto contatto ai fini di conclusione dell’affare; in sostanza come responsabilità contrattuale “vuole”. Come è agevole constatare, dunque, una serie di casi assai diversi fra loro, tuttavia accomunati da alcuni elementi di rilievo: assenza di un vincolo pattizio presenza di una relazione qualificata; danneggiante non soggetto chiunque soggetto professionalmente qualificato; non generico rischio di danno specifico rischio di danno ingenerato dall’affidamento. In una società sempre più caratterizzata da un’esigente richiesta di professionalità, dai comparti più semplici delle professioni a quelle maggiormente dotate di un alto tecnicismo, va delineandosi la tendenza per cui, in virtù dell’affidamento suscitato nel creditore che si relazione per un fine specifico, la condotta del prestatore d’opera professionale, non può annegare in un fumoso concetto di alterum non laedere, ma più coerentemente con l’affidamento suscitato, è di conseguenza tenuto a precise regole di comportamento, generatrici di una doverosità specifica, indipendentemente dalla conclusione o meno di un effettivo accordo negoziale. A seguito del contatto, la condotta del debitore subisce un processo di specificità tale da poter esprimere il contegno richiesto in termini di esigibilità di comportamenti teleologicamente orientati alla soddisfazione degli interessi dei destinatari. La competenza professionale apre una serie di situazioni di affidamento, ciò perché la fiducia, da intendere in senso oggettivo, assume un ruolo focale per una serie generalizzata di relazione nella comunità e poggia su meccanismi del sapere che i profani in buona parte ignorano. Le aspettative di comportamento, collegate ad un determinato ruolo, qualificano l’individuo (inteso non come singolo ma come titolare di una posizione obiettiva), e lo pongono di fronte ad una vincolatività cui non può sottrarsi. Lo scopo della riconduzione di tali ipotesi nell’alveo della responsabilità per inadempimento per il tramite del contatto sociale, è più o meno dichiaratamente quello di garantire una più efficace tutela del danneggiato, consentendo un più facile assolvimento dell’onere probatorio, attenuando il rischio di pronunce di rigetto fondate sulle difficoltà di un’esatta ricostruzione dell’evento dannoso nel solco di una tendenza allo spostamento dell’attenzione dall’autore del danno alla vittima, ritenendo il primo, in quanto detentore del particolare bagaglio tipico dell’arte che professa, come colui (forse) maggiormente in grado di gestire il gravoso carico contenzioso. Note bibliografiche: S. ROSSI, voce Contatto sociale (fonte di obbligazione), in Dig. disc. priv., Sez. civ., App. agg., V, Torino 2010, p. 346; S. FAILLACE, La responsabilità da contatto sociale, Padova, 2004; R. SCOGNAMIGLIO, voce Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, in Noviss. dig. it., vol. VII, Torino, 1962, p. 171; L. MENGONI, voce Responsabilità contrattuale, in Enc. dir., vol. XXXIX, Milano, 1988; F. GIARDINA, La distinzione tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale, in Trattato della responsabilità contrattuale. Inadempimenti e rimedi, a cura di G. Visintini, Padova, 2009, p. 73 ss; F.D. BUSNELLI, Itinerari europei nella “terra di nessuno tra contratto e fatto illecito”: la responsabilità da informazioni inesatte, in Contr. impr., 1991, p. 539; R. VON JHERING, Della culpa in contrahendo ossia del risarcimento del danno nei contratti nulli o non giunti a perfezione, trad. it e nota di lettura di F. Procchi, Napoli, 2005, p. 3; G. HAUPT, Sui rapporti contrattuali di fatto, ed. it. a cura di G. Varanese, passim, Torino, 2012. Sulla differenza tra rapporti contrattuali di fatto e obbligazioni da contatto sociale si veda G. STELLA RICHTER, Contributo allo studio dei rapporti di fatto nel diritto privato, Riv. Trim. Proc. Civ., 1977, p. 157. Sul concetto di “rapporto obbligatorio senza obbligo primario di prestazione” v. K. LARENZ, Lehrbuch des Schuldrechts, I, München, 1987, 122 ss.; L. MENGONI, Sulla natura della responsabilità precontrattuale, in Riv. dir. comm., 1956, p. 360 ss; C. CASTRONOVO, voce Obblighi di protezione, in Enc. giur. Treccani, XXI, Roma, 1990, p.1 ss; ID., Tra contratto e torto. L’obbligazione senza prestazione, in La nuova responsabilità civile, 3a ed., Milano, 2006, p. 443 ss.. Per i casi discussi in giurisprudenza vedi: in tema di responsabilità medica, Cass., n. 589/99; in tema di responsabilità dell’insegnante per i danni causati dal minore a sé stesso durante l’orario scolastico, Cass. Sez. Un., 9346/02; in tema di responsabilità della banca girataria per l’incasso di assegno non trasferibile pagato a soggetto non legittimato, Cass. Sez. Un., 14712/07; in tema di responsabilità del mediatore per inesatte informazioni, Cass., 16382/09. A commento vedi, A. DI MAJO, L’obbligazione senza prestazione approda in Cassazione, in Corr. giur., 1999, p. 450; ID., Profili della responsabilità civile, Torino, 2010, p. 69 ss; F. DICIOMMO, La responsabilità contrattuale della scuola (pubblica) per il danno che il minore si procura da sé: verso il ridimensionamento dell’art. 2048 c.c., in Foro it., 2002, p. 2636; A. DI MAJO, Contratto e torto: la responsabilità per il pagamento di assegni non trasferibili, , in Corr. giur., 2007, p. 1708 ss; G. CHIARINI, La natura della mediazione tra attività giuridica in senso stretto e mandato, in Giur. it., 2010, p. 4. 9