IL SINDACATO NELLA SECONDA REPUBBLICA di PIETRO ICHINO Pubblicato sul Corriere della Sera – 16 luglio 1997 Che ne sarà dei rapporti tra sindacato e pubblici poteri in un nuovo assetto costituzionale quando si arriverà a vararlo - caratterizzato da un Governo più autorevole, più stabile e meno condizionato dalle molteplici forze politiche e sociali che ne avranno favorito o contrastato l’insediamento? Che ne sarà, in particolare, di quella parte del “protocollo Giugni” del luglio 1993 che tende a istituzionalizzare, o per lo meno a far uscire dall’informalità, insieme al sistema delle relazioni industriali, anche la “concertazione” tra Governo e sindacato confederale sulle grandi scelte di politica economica? La recente presa di posizione di Sergio Cofferati in senso contrario alla “concertazione” è apparsa a tutti dettata più da esigenze tattiche, strettamente legate alla trattativa in corso sulla riforma del Welfare, che da una visione strategica di lungo periodo: nessuno nella Cgil, e tanto meno il segretario generale, considera che sarebbe un buon servizio alla politica rinchiuderla nelle istituzioni. Tutti, nella Cgil come nelle altre grandi confederazioni, sono convinti che occorra coltivare e sviluppare il consenso e la coesione sociale attraverso un dialogo stretto fra le istituzioni e le “formazioni intermedie” che rappresentano grandi settori della società civile. Proprio per questo qualcuno si è addirittura spinto a proporre che tra le nuove regole costituzionali se ne istituisca una che imponga al Governo di trattare con il sindacato su tutte le materie che tocchino direttamente gli interessi dei lavoratori. Una scelta di questo genere non sembra, però, praticabile: essa equivarrebbe infatti a costituzionalizzare - cioè a rendere obbligatoria per qualsiasi Governo, quale che sia la maggioranza che lo sorregge - la politica tipicamente propria dei Governi europei pro-labour, i quali si caratterizzano appunto, almeno sul piano programmatico, per la ricerca del consenso del movimento sindacale sulle proprie scelte. Ciò che rende appetibile un sistema politico bipolare è invece proprio il confronto tra i risultati promessi ed eventualmente ottenuti da uno schieramento che fa della concertazione con il sindacato l’asse portante della propria politica e quelli promessi ed eventualmente ottenuti dallo schieramento che si caratterizza per la scelta opposta. La concertazione non può dunque essere imposta dalla legge: deve essere il libero gioco democratico a far sì che essa sia praticata o accantonata, sulla base del bilancio, consuntivo o preventivo, dei suoi costi e benefici. Si pone a questo punto l’interrogativo su quali siano i fattori che possono rendere positivo quel bilancio. Ed è proprio sulla risposta a questo interrogativo che si è registrata in queste ultime settimane una significativa, precisa e non casuale convergenza in alcuni importanti documenti provenienti dall’interno delle tre confederazioni: tra questi soprattutto la relazione introduttiva di Gianni Italia al congresso nazionale di Genova della Fim-Cisl, largamente ripresa per questo aspetto nelle conclusioni del congresso nazionale della stessa confederazione, la bozza delle tesi per l’ormai prossimo congresso nazionale della Uil, il libro appena uscito di un gruppo di dirigenti nazionali della Cgil (Damiano, Lettieri, Terzi e altri, Il sindacato e la riforma della Repubblica). Più che di una risposta, si tratta di un insieme di risposte: alcuni punti cruciali sui quali sta maturando e allargandosi il consenso nelle tre componenti maggiori del nostro movimento sindacale. Innanzitutto, la forza del sindacato e la sua appetibilità come interlocutore, anche per un Governo non bisognoso di stampelle, dipendono dalla sua capacità di farsi portatore di un interesse condiviso dalla generalità delle persone che vivono o aspirerebbero a vivere del proprio lavoro; condiviso, cioè, da una grande categoria nella quale i lavoratori stabili e protetti oggi sono una minoranza: gli altri sono i milioni di dipendenti di piccole imprese privi di stabilità, i milioni di lavoratori irregolari, i milioni di disoccupati, e anche i milioni di lavoratori “parasubordinati” privi di qualsiasi tutela: tutti soggetti che hanno oggi scarsissime probabilità di entrare nella cittadella del lavoro regolare stabile. Un sindacato arroccato prevalentemente in difesa dei primi, cioè degli stabili e protetti, non può presentarsi credibilmente come portatore di un interesse condiviso anche dai secondi; un Governo che lo seguisse su questa strada sarebbe percepito dalla maggioranza degli e- lettori come un Governo schierato in difesa dei vecchi assetti del tessuto produttivo e della pubblica amministrazione, gravemente inadeguati alle sfide che ci attendono nel mercato globale: tutti percepiscono che le sorti della nostra economia dipendono dalla sua capacità di eliminare vaste zone di inefficienza e di adattarsi rapidamente alle mutevoli esigenze della competizione internazionale. Di fronte a un sindacato - quale fu quello britannico all’epoca dell’avvento del Governo Thatcher - capace solo di rappresentare l’interesse immediato degli insiders alla propria inamovibilità e incapace di internalizzare l’interesse degli outsiders, incapace di rappresentare le fasce forti come quelle deboli del “nuovo lavoro”, sarebbe compito della politica far valere le proprie ragioni anche a costo di una chiusura netta su tutti i temi sui quali l’interesse generale deve prevalere su quelli particolari. L’appetibilità del sindacato confederale come interlocutore, anche per un Governo “forte”, presuppone, per altro verso, un profondo radicamento del sindacato stesso nei luoghi di lavoro e una sua rappresentatività maggioritaria al loro interno, suscettibile di essere misurata in concreto secondo procedure trasparenti. Per questo è indispensabile una legge che, senza interferire nei rapporti associativi interni e senza intaccare lo stretto rapporto organico istituito dallo Statuto dei lavoratori del 1970 tra l’associazione sindacale e i suoi rappresentanti aziendali, determini il numero di questi ultimi in proporzione ai consensi ottenuti dall’associazione, o dalla coalizione di associazioni, in una consultazione elettorale periodica tra tutti i dipendenti dell’unità produttiva. Su questo punto si registra ormai in seno alle tre confederazioni un consenso talmente ampio, che ogni ulteriore ritardo del Parlamento apparirebbe privo di qualsiasi giustificazione. La praticabilità e il consolidarsi di una politica di concertazione dipendono infine dalla capacità del sindacato confederale di superare la propria storica divisione organizzativa, i cui costi per il movimento sindacale sono, su tutti i piani, elevatissimi. É sempre più estesa la convinzione che lo scioglimento dei primi due “nodi” strategici di cui si è detto costituisca un passaggio obbligato per lo scioglimento anche di quest’ultimo.