Paolo D’Alessandro IL MONDO DEI FENOMENI E LA LORO INTERPRETAZIONE Libreria Cuem Milano 2004 2 INDICE INTRODUZIONE P. 5 P. 13 P 45 [1, P. 5; 2, P. 6; 3, P. 7; 4, P. 8; 5, P. 10] PARTE PRIMA CARTESIO [1, P. 13; 2, P. 14; 3, P. 17; 4, P. 19; 5, P. 20; 6, P. 21; 7, P. 24; 8, P. 26; 9, P. 29; 10, P. 31; 11, P. 34; 12, P. 36; 13, P. 41] KANT, I [1, P. 45; 2, P. 47; 3, P. 49; 4, P. 51; 5, P. 55; 6, P. 56; 7, P. 59] KANT, II P. 63 P. 85 [1, P. 63; 2, P. 66; 3, P. 68; 4, P. 69; 5, P. 71; 6, P. 74; 7, P. 77; 8, P. 80] PARTE SECONDA HUSSERL, I [1, P. 85; 2, P. 86; 3, P. 89; 4, P. 93; 5, P. 95; 6, P. 96; 7, P. 98; 8, P. 101; 9, P. 104; 10, P. 108; 11, P. 110] 3 HUSSERL, II P. 113 [1, P. 113; 2, P. 115; 3, P. 118; 4, P. 121; 5, P. 123; 6, P. 126; 7, P. 128; 8, P. 130; 9, P. 132; 10, P. 135] PARTE TERZA HEIDEGGER, I P. 139 P. 163 [1, P. 139; 2, P. 140; 3, P. 143; 4, P. 147; 5, P. 149; 6, P. 150; 7, P. 154; 8, P. 156; 9, P. 159] HEIDEGGER, II [1, P. 163; 2, P. 165; 3, P. 165; 4, P. 167; 5, P. 168; 6, P. 171; 7, P. 174; 8, P. 177; 9, P. 179; 10, P. 182; 11, P. 187; 12, P. 189] 4 INTRODUZIONE 1 Quando ci si chiede in che modo si arrivi a comprendere e a spiegare quel che si ha sott’occhio, si approda a considerazioni e conclusioni alle volte ben distanti le une dalle altre. Nelle nostre pratiche quotidiane si fa continuamente esperienza di eventi e di accadimenti: in ciò consiste indubbiamente l’essenza della nostra vita, dell’inessere storico. Con espressione filosoficamente più appropriata potremmo forse dire che si fa esperienza della realtà fenomenica. Si fa esperienza del mondo dei fenomeni, successivamente si comunica ad altri (e a se stessi con gli altri e forse prima che agli altri) quello di cui si fa esperienza. Secondo una tradizione filosofica che risale ad Aristotele, l’uomo, infatti, è zoon logon echon, un animale che parla di continuo, e che nel linguaggio pertanto può giustamente riconosce la sua stessa essenza. Per il tramite dell’oralità come anche della scrittura si dice tutto quello che viene sperimentato. Ci si chiede allora, ed è questo il punto di svolta del far filosofia, quel “luogo” nel quale sorge la domanda teoretica circa la vita, che semplicemente e ingenuamente si vive, quale sia l’esperienza che la coscienza va facendo durante il suo naturale processo vitale. La risposta, dunque, dev’essere detta, affidata di necessità a un linguaggio, sempre sottoposto poi a un atto di comprensione. Questo sta a significare che quel 5 che è detto, il dire esplicito in qualsiasi modo venga detto, non possiede di per sé alcun senso, se questo non venga decodificato mediante specifico processo di lettura. 2 È indubbio dunque che si faccia esperienza del mondo dei fenomeni, ma cos’è un fenomeno? Dal greco phainomai (manifestare e mostrare), che contiene nella sua radice il termine phos (luce), fenomeno sta a indicare “quel che viene alla luce, nell’evidenza”. Notiamo qui la differenza tra le due espressioni, che sembrano voler dire lo stesso: “quel che ci appare” e “quel che si manifesta”. Nella prima il “fenomeno” sembra essere oggetto, perché siamo in fondo noi stessi a vederlo, siamo noi che prendiamo atto del suo venire alla luce; nella seconda invece sembra essere soggetto, in quanto è sua l’iniziativa di rivelarsi a noi. Tra le diverse realtà fenomeniche la scrittura (o forse sarebbe meglio dire le scritture) è quella che permette il sapere e, più in generale, la conoscenza. Con il medium della scrittura, infatti, crediamo di poter rispondere all’interrogativo “come si pensa?” e ancora: “cosa si arriva a conoscere?”, marcando orizzonti e limiti del nostro pensiero, con impostazione di problematiche di marca gnoseologica ed epistemologica. Cosa si conosce? Con tale interrogativo si sottintende che si possano conoscere delle cose, ma, chiediamoci, cos’è un “cosa”? Qual è, direbbero i medievali, la sua quidditas? È fuor di dubbio che si diano delle co- 6 se, ma esistono forse anche delle cose, al di qua e al di fuori del loro darsi a noi e tali che siano arriviamo a conoscerle, crediamo di poterle conoscere? Problemi gnoseo-epistemologici si confondono così o sfociano in una problematica ontologica, circa l’essere stesso di quelle “cose” che risultano essere oggetto di conoscenza. 3 Sin dai suoi esordi la filosofia si è indirizzata al mondo fenomenico. Anzi, il far filosofia può senz’altro essere fatto coincidere proprio con una considerazione originaria, che concerne il mondo dei fenomeni. Nel Teeteto, a esempio, Platone discute la teoria gnoseologica di Protagora, secondo il quale la conoscenza si risolve in toto nella sensazione. Si conosce mediante sensi e sentimenti; ogni cosa, dunque, è sempre e soltanto per quel che appare, tale qual è sentita e percepita. Questo è il pensiero manifesto di Protagora, che riduce così la cosa alla sua apparenza sensibile. Il suo pensiero esoterico, invece, quella dottrina nascosta, che sottende quella esplicita e alla quale si è indirizzati, è da individuare nella coincidenza dell’essere della cosa con il suo apparire. In fondo Protagora dice che nessuna cosa potrà mai essere colta nel tempo come identica a se stessa, perché sarà sempre e continuamente cangiante, a seconda delle prospettive e dei “luoghi” spazio-temporali in cui è percepita: “niente mai è, ma sempre diviene”1. 7 La conoscenza andrebbe dunque a rispecchiare il divenire delle cose, sarebbe tutt’una con il loro puro apparire. A questo punto, però, l’approfondimento delle stesse “apparenze”, che brulicano nei soggetti senzienti e percipienti, mostra la loro contraddittorietà. Contro la tesi di Protagora, Platone intende pertanto provare come la sensazione non possa generare vera conoscenza, perché questa risiederebbe soltanto nell’opinione (doxa), che sia opportunamente sostenuta dal discorso (logos). 4 Non siamo tanto interessati qui a questo punto di svolta in Platone, che successivamente articolerà il logos con la dialettica, permettendo così la nascita del pensiero filosofico in Occidente. Piuttosto che il punto di arrivo di questa discussione a distanza con Protagora, interessa un breve inciso, che si apre a questo punto del dialogo: “certo tu mi segui Teeteto, non è vero? Né mi sembra che tu sia nuovo a siffatte argomentazioni. In verità Socrate io sono straordinariamente meravigliato […] di quel che siano queste apparenze”1. Il giovane interlocutore di Socrate, si badi bene, non è qui preoccupato tanto di chiarire il problema teorico relativo alla conoscenza, ma si rende testimone di una situazione particolare di tipo emozionale, che è costretto a subire: quella di “straordinaria meraviglia”, provocata da percezioni e sensazioni di fronte alle ap1 1 Teeteto, 152e Ivi, 155c 8 parenze delle cose. Prosegue, poi, dicendo: “talora, se mi ci fisso a guardare, realmente ho le vertigini”1. Quando pertanto si pone attenzione, con sguardo più accorto, a quel qualcosa che provoca stupore non solo non viene meno lo status particolare in cui ci si è venuti a trovare, ma anzi se ne accentuano i caratteri più specificamente estranianti. L’osservare con maggiore attenzione quel che appare fa cadere il soggetto in preda a vertigini, addirittura perciò con totale sconvolgimento dell’equilibrio psico-fisico: da una parte subendo il turbamento della sensibilità, con la sensazione di spostamento dell’ambiente circostante e/o del proprio corpo in esso (con l’effetto del capogiro), e dall’altra avendo le traveggole, vale a dire la perdita momentanea del proprio equilibrio psichico in seguito a turbamento dell’animo. Proprio di questo si tratta quando si parla di “vertigine”! Tutto ciò accade in seguito al “rispecchiamento” senza alcun mascheramento (si legga: “razionalizzazione”) e senza pertanto alcuna difesa, della percezione del divenire, del fluire della realtà delle cose, senza quei punti fermi, che possano costituire valide certezze: è quel che appare dell’essere delle cose delle quali si fa esperienza. Alla dichiarazione di Teeteto, relativa allo stupore (thaumazein) prima e alle vertigini (skotodinio), poi, Socrate risponde che “è proprio del filosofo quello che 1 Ivi, 155d 9 tu provi, di esser pieno di meraviglia. Né altro cominciamento (arché) ha il filosofare che questo”1. L’interlocutore di Socrate, dunque, non sembra costituire un caso patologico, poiché la sua natura e, di conseguenza, le sue reazioni emotive sono in perfetta consonanza con l’essenza stessa di colui che fa filosofia. Ci si affretta ad aggiungere che il thaumazein non solo è una caratteristica del pensiero, ma che di esso è addirittura l’arché, principio e fondamento, l’unico fondamento. Socrate, e Platone con lui, sta qui sostenendo che l’inizio di ogni sapere risiede nel provar stupore dinanzi alle sensazioni, meglio forse dire dinanzi allo sguardo più accorto che considera il divenire delle cose. Solo a partire dal complesso status emotivo del provar stupore e vertigini allo stesso tempo, l’uomo è messo così nelle condizioni di pensare: sta nascendo il filosofo, che solo in un secondo momento, come insegna il Sofista, diverrà dialettico. 5 Prima ancora di qualunque esercizio del pensiero stesso, del darsi e del costituirsi di qualunque logos, si dà uno stato emotivo rispetto a quel che appare; meglio ancora: esso sembra provocato dalle modalità stesse con cui la realtà fenomenica si manifesta. Il come delle apparenze si caratterizza mediante il divenire, vale a dire il non essere. Si ricordi qui che si è chiesto cosa sia una cosa, l’oggetto di conoscenza, marcando così il 1 Ibidem 10 passaggio dal problema gnoseologico ed epistemologico a quello ontologico. La risposta che sembra ora venir fuori dal “luogo” dell’arché del far filosofia è che la cosa non ha di per sé un proprio essere: essa, infatti, è tra l’essere e il non essere, perché diviene. Di qui hanno origine stupore e vertigini. Nell’Analitica esistenziale, lo si vedrà, Heidegger parla della “tonalità emotiva” dell’Angst. Di fronte a che si prova angoscia, piuttosto che paura (Furcht)? Si risponde: di fronte al niente, all’assenza di un ente specifico e determinato. L’arché del pensiero, il “cominciamento” della filosofia accade quando si è presi, in uno stato ekstatico da questa tonalità emotiva o emozione fondamentale e originaria (Grundstimmung). Si tratta della reazione alle “apparenze” (a quel che appare), ai fenomeni, vale a dire a quel che si manifesta, per come si manifesta, per (il) che si manifesta e per il fatto stesso che si manifesta. 11 PARTE PRIMA. CARTESIO 1 L’incipit della teoretica risiede, pertanto, in un turbamento al cospetto della realtà del mondo, del semplice apparire delle cose del mondo. Dunque il mondo, nel suo complesso, così come anche nei suoi elementi componenti e interagenti, risulta problematico, se non addirittura misterioso per noi che lo viviamo e che proviamo a conoscerlo. Risulta essere tale, proprio per il fatto che esso non viene mai recepito e percepito, in toto o per partes, in modo immediato, ma sembra sempre offrire resistenze e ostacoli alla nostra piena comprensione. La riflessione teoretica ha da cimentarsi con il fenomeno, così come ha il compito di affrontare il problema stesso che le s’impone nel suo stesso “cominciamento”, legato alla pura e semplice percezione della realtà. Oggi intendiamo affrontare proprio tale questione. Dobbiamo scegliere un punto di vista, da privilegiare, un “luogo” ideale che possa fungere da osservatorio. Piuttosto che quello proprio dei Dialoghi di Platone, da cui pure hanno avuto origine le nostre riflessioni, pensiamo sia opportuno privilegiare il topos teoretico dell’opera di Cartesio, a buon diritto riconosciuto universalmente come “padre” del pensiero moderno e contemporaneo. A Cartesio si deve tutta la grandezza del pensiero dell’Occidente, come anche la sua miseria, a motivo di opzioni teoretiche ben precise, di ambiguità, contrad- 13 dizioni ed errori di valutazione o di prospettiva. Uno su tutti e per tutti: il fondamentale e arcinoto dualismo, con la distinzione di res cogitans da res extensa e con tutte le conseguenze che ne sono derivate sia per le scienze, sia per la stessa filosofia, conseguenze che hanno un indubbio riscontro negativo anche nel cosiddetto “buon senso comune”. 2 Di Cartesio si leggeranno passi scelti dal Discorso sul metodo e dalle Meditationes. Filosofo e scienziato al tempo stesso, dapprima nei suoi studi fa esperienza del pensiero della tradizione, di orientamento scolastico tomistico, che condizionerà successivamente, per contrasto, l’intera sua attività teoretica. Rifiuta il verbalismo della scolastica, in favore della ricerca di un sapere fondato sul modello della conoscenza matematica, con l’ambizione di pervenire a una sintesi filosofica che fornisse un quadro sistematico altrettanto valido e definitivo, anche le scienze. Il Discorso (1637) è lo scritto più famoso di Cartesio e rappresenta i fondamenti della metafisica, espressi sotto un profilo autobiografico, dal momento che egli dichiara di voler delineare una “storia del mio spirito”. Scritto in lingua francese, il testo è a carattere divulgativo dal momento che a quel tempo la lingua colta e scientifica era quella latina. Le Meditationes de prima philosophia (1640) costituiscono la stesura più ampia e in certo qual modo definitiva del pensiero car- 14 tesiano. Il testo circola tra i teologi e i filosofi più famosi del tempo (Gassendi, Hobbes, Mersenne, i teologi della Sorbona, i gesuiti, ecc.), i quali inviano obiezioni, cui Cartesio s’impegna a rispondere. Il Discorso, dunque, trova il suo naturale completamento nelle Meditationes, incentrate sui grandi temi di Dio, dell’anima, del mondo e della verità. Nella prima parte del Discorso si sostiene la tesi che ragione e buon senso per natura sono comuni a tutti gli uomini, indistintamente; ma allora il fatto che opinioni, idee e pensieri siano diversi non sarebbe dovuto a maggiore o minore ragionevolezza, ma piuttosto al fatto che sono i pensieri indirizzati su itinerari diversi e, poi, anche al fatto che non si considerano sempre le medesime cose. Inoltre, il motivo della diversità di giudizio risiede nel fatto che non applichiamo la ragione allo stesso modo e con le medesime modalità di ricerca. Lo scritto è un vero e proprio quadro della propria vita, caratterizzata da studi diversi e da numerosi viaggi. Prima di entrare nel vivo delle questioni teoretiche, altra considerazione importante risiede in una puntualizzazione, rivelatrice delle peculiari modalità con cui in seguito Cartesio vorrà accingersi all’indagine teoretica. Si sostiene che la filosofia, seppure coltivata dai migliori intelletti di ogni tempo, non offre garanzie di verità, poiché “diverse opinioni possono essere sostenute da persone anche dotte, circa uno stesso argomento”. Dal momento, poi, che le scienze attingono proprio dalla filosofia i loro stessi principi, sui fondamenti malfermi della filosofia non è proprio possibile 15 edificare qualcosa di stabile e di duraturo. “Ecco perché, conclude Cartesio, appena l’età mi permise di uscire dalla tela dei miei predecessori, abbandonai interamente lo studio e risolsi di non cercare altra scienza al di fuori di quelle che potevo trovare in me stesso o nel gran libro del mondo”1. La ricerca che viene intrapresa, perciò, è tesa a conoscere il mondo, vale a dire a compiere lo studio della natura fisica delle cose, come anche a conoscere se stessi, la natura dell’uomo, da intendere anzitutto quale “fatto naturale”. Allo scopo di perseguire al meglio tali intenti Cartesio intraprende viaggi per tutta Europa, compiendo varie esperienze, le quali si rivelano però deludenti e poco rassicuranti: la disparità di vedute tra uomini comuni è infatti la medesima riscontrata tra le opinioni dei filosofi. A conclusione della prima parte del Discorso, si trova scritto: “dopo aver così impegnato alcuni anni a studiare nel libro del mondo e a farne esperienza, presi un giorno la risoluzione di studiare anche me stesso e d’impegnare tutte le forze del mio ingegno a scegliere il cammino da seguire”2. Messo da parte lo studio della natura delle cose del mondo, si porta l’indagine unicamente sulla natura umana, passando così dall’”esterno” all’”interno”. Tutte le forze sono poi tese a individuare il cammino da seguire, vale a dire il metodo. 1 2 Cartesio, Discorso sul metodo, I, Bari, Laterza, p. 8. Ivi, p. 9. 16 3 Si apre qui una parentesi, per noi interessante, circa la modalità della ricerca su se stesso, che è da condurre in solitudine pressoché totale. Per giustificare tale scelta egli racconta come un giorno del 1619 si trovasse in Germania, tutto solo con i propri pensieri. D’improvviso lo sorprende un pensiero in particolare, che induce a riflettere sulla situazione di solitudine che sta vivendo e sui motivi per i quali essa è senz’altro da privilegiare: “non vi è quasi mai tanta perfezione nelle opere composte di pezzi fatti da artefici diversi, quanta in quelle costruite da uno solo. Gli edifici, a esempio, cominciati e condotti a termine da un solo architetto, di solito, sono più belli e meglio ordinati di quelli che sono stati riadattati più volte servendosi di vecchi muri tirati su per tutt’altro scopo”1. Il motivo del privilegiamento dell’opera e del pensiero di uno solo è precisato subito dopo: le opere del medesimo individuo, di norma almeno, tendono al medesimo scopo, dal momento che la causa finalis dà unità e omogeneità al pensiero. Si sposta poi il ragionamento, per analogia, prima sulle scienze e poi sulla filosofia. Se fin da ragazzi, a scuola, piuttosto che essere affidati a diversi precettori, che troppo spesso danno indicazioni e giudizi contrastanti e contraddittori (tot capita, tot sententiae), avessimo potuto esercitare appieno la ragione e fossimo stati guidati unicamente da essa, avremmo avuto un solo maestro e dunque saremmo pervenuti senza alcun dubbio a giudizi validi. 1 Ivi, p. 10. 17 Anche in questo caso si prospetta l’esercizio in solitudine della propria ragione, avendo eliminato qualsiasi elemento estraneo al proprio sé: “per la scoperta di verità un po’ difficili la maggioranza dei consensi vale poco o nulla, perché è più facile che le scopra un uomo solo che non tutto un popolo. Per queste ragioni, dunque, io non sapevo scegliere nessuno le cui opinioni mi sembrassero preferibili a quelle degli altri, e mi trovai, si può dire, costretto a cercare di guidarmi da me stesso”1, con l’aiuto pertanto della sola ragione. Qui Cartesio sembra sostenere che la verità non è mai democratica, popolare o appannaggio del senso comune; vale a dire non è affatto vero che si possa stabilire una verità, un giudizio vero, appoggiandosi al pensiero dei più, relativamente a un problema, a un argomento o a un’idea. È più facile, infine, che possa conseguire la verità un individuo in perfetta solitudine, solo con se stesso, piuttosto che un intero popolo, nel senso di tanti individui assieme e concordi.2 1 Ivi, p. 13. Cartesio naturalmente non è vissuto in un’epoca di sondaggi com’è la nostra, eppure sembra prevederla, stigmatizzandola. Tramite indagini “di mercato”, a esempio, si crede di poter stabilire cosa pensi (come sia incline a pensare) la gente su un determinato argomento (o su un prodotto). A indagine conclusa, si perverrà a un’opinione comune, che collima con una specie di media ponderata delle varie risposte ottenute. Non si perverrà invece alla verità relativa al prodotto o all’argomento sottoposto a indagine. Insomma, giungere a stabilire cosa pensi la maggioranza delle persone appartenenti a una comunità non significa conseguire l’obiettivo della ricerca scientifica e filosofica, che risiede, a detta di Cartesio, nella verità. 2 18 4 Nell’intento di conseguire il proprio obiettivo, Cartesio si allontana dai luoghi in cui ha conoscenti e si ritira in Olanda, dove per tra la “folla di una popolazione attivissima intenta ai propri affari e non curiosa di quelli degli altri”, vive solitario e tranquillo quanto nei deserti più remoti. Vediamo come procede allora nella sua ricerca. In un primo momento non ripudia d’un tratto tutte le opinioni che si sono insinuate, volente o nolente, nella sua mente senza alcun vaglio critico da parte della ragione, ma prende tempo per arrivare a tracciare prima il disegno generale dell’opera nuova o del nuovo pensiero, che va elaborando. L’intento è soprattutto quello di cercare un vero ed efficace metodo da seguire nella ricerca. Degli studi compiuti in precedenza si salva, in parte, solo la logica, anche se è la scienza che serve per spiegare quel che si sa già. Con essa non s’impara nulla di nuovo, e dunque non si perviene ad alcuna verità1. Cartesio cerca allora un altro metodo, che riesca a evitare i difetti di logica, di geometria e di algebra, le scienze “esatte”, un metodo che tenga presenti però alcune regole logiche fondamentali: 1. accogliere come verità soltanto quel che si arriva a conoscere con evidenza e ammettere nei propri giudizi quello che si presenta al nostro intelletto 1 Non è a caso che Heidegger sosterrà drasticamente che “la scienza non pensa”, anticipato in questo giudizio perentorio da Kant, come avremo modo di vedere. 19 2. in modo chiaro e distinto, escludendo così ogni possibilità di dubbio; dividere ogni problema in parti minori, mediante analisi dello stesso; 3. condurre i pensieri con ordine, cominciando dai più semplici, per passare poi ai più complessi; fare enumerazioni complete e revisioni generali, giungendo così a una sintesi finale. Tale metodo sembra essere il più sicuro, perché permette di servirsi della ragione nel modo migliore possibile. Il metodo del sapere logico-matematico, in fondo, rivisitato ad hoc viene assunto come filosofico; i principi della filosofia, poi, creano il presupposto e il fondamento per tutte le scienze. 4. 5 La terza parte del Discorso tratta della “morale provvisoria”, con la quale si indicano regole di comportamento da seguire in un tempo di vera e propria transizione. Insomma, prima di arrivare a smantellare la filosofia scolastica bisogna ben organizzare un pensiero nuovo. Nel frattempo, però, non si può rimanere privi del tutto di indicazioni, tese a orientarci nell’agire; si tratta di sottostare, appunto, a una morale provvisoria: a) obbedire alle leggi e alle consuetudini del Paese in cui si vive; b) rimanere fermi e risoluti nelle proprie azioni, seguendo anche le opinioni più dubbie; c) voler modificare se stessi e i propri desideri, piuttosto che le cose del mondo, perché nulla è interamente in nostro potere all’infuori dei nostri pensieri. 20 Assicurato da tali massime morali, che vengono tenute da parte, assieme alle verità delle fede, mai messe in discussione perché non sottostanno al vaglio della ragione, Cartesio comincia a disfarsi di tutte le proprie opinioni. Come testimoniano le Meditationes, egli cerca la verità nel dialogo con gli uomini colti del suo tempo, durante i numerosi viaggi, che compie tra il 1619 e il 1628. Contro le opinioni correnti egli attiva il dubbio sistematico, che sembra differire da quello degli scettici, che dubitano quasi per il gusto di dubitare. Non è infatti fine a se stesso, ma costruttivo, proposto in modo universale e generalizzato, al solo fine di conseguire una certezza. Non si propone, dunque, in atteggiamento nichilistico, per distruggere ogni proposizione sedicente vera, ma intende pervenire a un pensare in positivo, dopo aver negato la certezza di tutte le opinioni correnti. Il metodo nuovo consiste nel porre in dubbio, pertanto, le opinioni proprie ed altrui, non intendendo più accettare acriticamente le auctoritates, così come si faceva comunemente nell’ambito della filosofia scolastica. Tale metodo sembra funzionare bene, in quanto si distruggono le opinioni non fondate e si arriva a prestare attenzione a esperienze utili, che costruiscono opinioni più probanti e più sicure. 6 La quarta parte del Discorso è decisiva per l’economia dell’opera. Dopo aver seguito, almeno in un primo tempo, la seconda massima della morale provviso- 21 ria, che imponeva la regola di rimaner fermi nelle proprie azioni accettando anche le opinioni più dubbie, Cartesio decide ora di operare ben diversamente, con una svolta che lo fa agire in modo esattamente contrario, con il rigetto di tutte le opinioni dubbie: “rigettare come interamente falso tutto ciò in cui potessi immaginare il menomo dubbio, per vedere se, così facendo, alla fine, restasse qualcosa nella mia credenza di assolutamente indubitabile”1. Si noti qui come, a conferma di quanto proposto in precedenza e del convincimento circa la verità che può essere conseguita tramite ragione più facilmente dal singolo individuo, Cartesio tenda a creare, attorno alla propria attività di ricerca teoretica una specie di “terra bruciata”. Egli fa il vuoto, rifiutando qualsiasi opinione, presente o passata, e arrivando a pensare o a credere di poter pensare, nello status di perfetta solitudine. Com’è che si perviene in tale stato? Come si riesce a fare il “vuoto” attorno a sé e in sé? Come ci si isola dal mondo? Si pongono sotto osservazione prima e in stato d’accusa poi i propri sensi: “poiché i nostri sensi talvolta ci ingannano, volli supporre non esserci nessuna cosa che fosse quale essi ce la fanno immaginare”2. Si ricordi qui che per parte nostra ci stiamo chiedendo cosa sia la cosa (evento o accadimento), che si dà alla nostra conoscenza. 1 2 Cartesio, Discorso, I, p. 23. Ibidem 22 Cartesio sembra rispondere che la “cosa” è inesistente, almeno rispetto alle rappresentazioni che ci si propongono di volta in volta. Pertanto il sensorio, mediante percezioni e sensazioni, offre a noi soltanto un’apparenza della realtà, che consiste nei “fenomeni”, inducendo così a falsi ragionamenti, mai a vere e proprie dimostrazioni. Il “falso ragionamento” consiste nel fatto che si stabilisca in modo indebito la corrispondenza di un quid con quel che è l’apparenza immaginifica prodotta dal sensorio. Viene così messo in stato d’accusa l’apparato sensoriale, che crea di primo acchito un collegamento col mondo. In conclusione, la verità non proviene affatto dai sensi1. Si va poi ben oltre questa prima e importante osservazione: gli stessi pensieri devono essere presi in considerazione soltanto in forma dubitativa. Come lo si dimostra? Il ragionamento proposto è semplice. Gli stessi pensieri, presenti nella mente in stato di veglia, possono aversi anche durante il sonno. Anzi, altrove viene detto che alle volte i pensieri del dormiente sono addirittura più vivi e manifestano maggiore senso di realtà rispetto a quelli che si hanno nello stato di veglia. Ora è di tutta evidenza che i pensieri di colui che sogna non abbiano alcuna realtà, perché parto di fantasia e d’immaginazione da parte del sognatore, ma allora, almeno in un primo tempo e per finzione, si può arrivare a concludere “che tutto quanto è entrato nel mio spiri1 Si ricorderà qui opportunamente come questa sia la medesima conclusione cui perviene Platone, contrapponendosi alla dottrina protagorea della conoscenza, identificata con la sensazione. 23 to sino a quel momento con sia affatto più vero delle illusioni dei miei sogni”1. Pertanto così come non sono veri e reali i pensieri del sogno allo stesso modo potrebbero non essere tali neppure quelli della vita di veglia, i quali poi spesso risultano anche addirittura meno vivi di quelli avuti in sogno. Dunque, se posseggo dei pensieri ciò si deve al fatto che qualcosa, dal di fuori del mio “io”, è penetrato in me, qualcosa che, possedendo la stessa evidenza delle immagini oniriche, è da giudicare illusoria e ingannevole, così come lo sono gli stessi sogni. In conclusione ogni cosa, sia che si tratti di percezioni, di sensazioni e di sentimenti, sia che si tratti di pensieri, può anche essere non vera. Tutto è così da porre in dubbio. Non è possibile conseguire alcuna verità, neppure mediante l’analisi dei nostri pensieri, così come in precedenza si è visto e si è detto in merito al nostro sensorio. 7 Tutto è da porre in dubbio, qualsiasi tipo di conoscenza. La considerazione finale, cui si perviene, permette però di incrinare la stessa universalizzazione. Insomma, non tutto, in realtà, può essere messo in dubbio: “subito dopo mi accorsi che, mentre volevo in tal modo pensare falsa ogni cosa, bisognava necessariamente che io, che la pensavo fossi pur qualcosa. Per cui, dato che questa verità. io penso dunque sono è così ferma e certa che non avrebbero potuto scuoterla ne1 Cartesio, Discorso, I, p. 23. 24 anche le più stravaganti supposizioni degli scettici, giudicai di poterla accogliere senza esitazione come il principio primo della mia filosofia”1. L’aver voluto pensare ogni cosa come non vera, per una scelta imposta proprio dal dubbio metodologico relativo a tutte le opinioni, proprie ed altrui, ha portato inevitabilmente a una conseguenza: il dubbio stesso non può essere totale, dal momento che proprio in forza del dubitare qualcosa risulta certo, dunque vero: l’io, il soggetto o la coscienza che sta esercitando il dubbio metodico, l’io, nell’atto stesso del proprio dubitare. Proprio per aver voluto dichiarare che tutto è non vero, si è fatta strada, di soppiatto, ma anche in modo deciso, almeno una verità: io penso, dunque sono, che nella traduzione latina delle Meditationes suona così: ego cogito, ergo sum, sive esisto. Questa è di fatto una verità, la prima che si è conseguita, perché possiede i caratteri di un’idea chiara e distinta, vale a dire possiede i requisiti logico-metodologici a suo tempo presentati come condicio sine qua non del reperimento stesso di una verità teoretica. Questo è il principio indiscusso e indiscutibile della filosofia cartesiana, ma allo stesso tempo, a ben riflettere, è il nostro stesso fondamento, se è vero che questa pagina del Discorso ha inciso profondamente nell’intero pensiero occidentale, con quel che segue, come si vedrà. Viene poi proposta un’importante precisazione, che almeno nel Discorso evita la critica del passaggio 1 Ibidem 25 indebito alla sfera ontologico-esistenziale. La verità prima che si consegue non riguarda il pensato o dei particolari pensieri, ma la stessa attività del pensiero. Non si sostiene, insomma, la verità di uno specifico giudizio, di un’opinione, tra quelle considerate dubbie; quel che è vero, evidentemente tale, in modo chiaro e distinto, è il pensiero pensante: è vero che si pensi, è vero il che del pensare, non il cosa del pensiero, non questo o quel pensiero particolare. Si riconosce, dunque, come reale/vera la facoltà del pensare, pur dovendo continuare ad ammettere, al momento, come si vedrà, che quel che si pensa possa essere pura illusione, della natura stessa di un sogno, un’autentica non verità. Sembra essere vera l’attività del pensare, mentre rimane nel dubbio il suo stesso prodotto, ogni suo prodotto. 8 Si è pervenuti al fondamento stesso della filosofia cartesiana, che va però approfondito. Si torna così a radicalizzare il dubbio universale, sostenendo la possibilità di fingere addirittura la non esistenza del proprio corpo, del mondo intero, come anche di qualsiasi “luogo” spazio-temporale, in cui l’io, in particolare l’io penso, abbia modo di soggiornare. Anche in questo caso possiamo certamente simulare la non esistenza del mondo e del corpo proprio, che è in uno col mondo, ma senza alcun dubbio non si può fingere che l’io che pensa non abbia esistenza. Anzi, proprio il fatto che arriviamo a dubitare dell’esistenza 26 di quel che è altro-da-noi stessi, fa sì che si possa pervenire alla certezza ed evidenza dell’esistenza del proprio sé. Vale a dire, si è garantiti in certo qual modo del luogo stesso da cui si dubita, che permette di dubitare. Riflettiamo ancora un po’. Qui l’io penso è contrapposto a quel che è altro da sé. L’alterità è rappresentata globalmente dal mondo, ma prima ancora dallo stesso corpo che appare essere il proprium di quell’io, che è soggetto in causa, corpo che è indubbiamente parte di mondo. Ancora di più: la contrapposizione è proposta tra un esterno (il mondo/corpo) e un interno (l’io/anima). Pertanto, e di conseguenza, si può concludere che se l’io fosse privo dell’attività del pensare sarebbe addirittura privo di esistenza, perché l’esistenza gli inerisce proprio in quanto pensante. Troviamo così scritto che l’io “è una sostanza di cui tutta l’essenza o natura consiste solo nel pensare e che per esistere non ha bisogno di luogo alcuno né dipende da alcuna cosa materiale”1. L’io, insomma, non avrebbe bisogno di un mondo in cui collocarsi, né di un corpo proprio in cui insediarsi. La conclusione è d’obbligo: “questo che dico “io”, e cioè l’anima per cui sono quel che sono, è qualcosa di interamente distinto dal corpo ed è anzi tanto più facilmente conosciuto, sì che anche se il corpo non esistesse, non perciò cesserebbe di essere tutto ciò che è”2. Si dice, perciò, che l’io è tutt’uno con l’anima, e in seguito la filosofia occidentale parlerà del soggetto, 1 2 Ibidem Ivi, pp. 23-24. 27 della coscienza, della mente, per dire pressappoco lo stesso. L’io possiede un suo essere in sé e per sé costituito; insomma, non avrebbe bisogno di null’altro per essere quel che è, al di fuori del proprio sé; inoltre è separato, per essenza, dal mondo della materialità e della corporeità. Se, per ipotesi allora, non esistesse il corpo, l’io continuerebbe a essere quel che è, quale io penso. Il corpo, insomma, è inessenziale al nostro esistere quale sostanza pensante. Si è qui in presenza di un’evidente piega platonica del pensiero di Cartesio, per il quale l’anima potrebbe anche avere esistenza al di fuori del proprio corpo, al di fuori di qualsiasi corpo. Mediante il metodo di ricerca, fondato sul dubbio sistematico, si arriva a formulare almeno una proposizione vera, si consegue finalmente una verità. Ma cos’è che fonda la certezza indubitabile di tale proposizione? Scrive Cartesio: “in questa affermazione: io penso, dunque sono non c’è nulla che me ne assicuri la verità, eccetto il vedere chiaramente che per pensare bisogna essere”1. Sembra che venga così ribadito ancora una volta il senso dell’affermazione certa cui si era pervenuti in precedenza. Si avrebbe pertanto il passaggio, con inversione dei termini stessi in gioco da un penso dunque sono a un sono dunque penso (o posso pensare); il passaggio da una riflessione gnoseologica a un’impostazione ontologica del problema. Cerchiamo di capire meglio. Il dubbio metodico porta alla certezza della verità relativa all’io penso, 1 Ivi, p. 24. 28 poiché dubitare è tutt’uno col pensare. D’altra parte, però, la certezza/verità del pensare va a coniugarsi, di stretta necessità, con un’altra certezza, quella relativa all’essere che è in grado di pensare. Vale a dire che non si può ammettere l’esistenza di una sostanza pensante là dove si è costatata l’attività del pensare, che è tutt’una col dubbio. Il pensare, dunque, dev’essere sempre supportato da un essere. Di conseguenza, possiamo arrivare a dire che in tal modo Cartesio stia stabilendo una sorta di primato ontologico dell’essere sul pensiero. Insomma, per poter pensare bisogna prima essere. Per lo meno nel caso dell’uomo, poi, il pensiero specifica l’essere e lo caratterizza quale unicum tra tutti gli altri esistenti. 9 Si è visto così come dal dubbio universale si passi almeno a una certezza/verità e come essa si caratterizzi. Un’altra considerazione, in certo qual modo finale e decisiva, che riguarda ancora il dubbio metodico, porta poi Cartesio a passare dall’idea dell’io a quella di Dio e successivamente alla dimostrazione dell’esistenza di Dio, indispensabile per poter recuperare la verità delle cose stesse del mondo. Leggiamo: “in seguito a ciò, riflettendo sul fatto che io dubitavo e che chiaramente vedevo essere maggiore perfezione il conoscere che il dubitare, per cui l’esser mio non era del tutto perfetto, mi proposi di cercare donde avessi appreso a pensare a qualcosa di più perfetto ch’io non fossi [vale a dire più perfetto 29 dell’io che pensa]; e conobbi con evidenza che doveva essere da una natura realmente più perfetta di me”1. Qui Cartesio sostiene che dubitare è un’attività del pensiero inferiore al conoscere, perché chi dubita è sempre in stato di palese inferiorità rispetto a colui che sa, tanto è vero che fa ogni sforzo possibile per uscire dal dubbio e approdare alla conoscenza certa. Di conseguenza, allora, dal momento che l’attività del pensare, nel caso specifico quella di Cartesio, versa in fondo nel dubbio, la natura dell’uomo, quale sostanza pensante, risulta essere imperfetta. D’altra parte, poi, il dubbio metodico investe indistintamente tutte le idee che albergano nella nostra mente. Qual è la loro provenienza? Possono e, forse, devono essere rifiutate, perché non sufficientemente chiare e distinte? Se risultano vere, dall’io stesso che, per quanto imperfetto, è riuscito a produrle; se invece false, dal nulla, vale a dire sempre dalla natura dell’io, che proprio perché staziona nel dubbio è imperfetta e produce così, di conseguenza, anche la non verità. Quel che viene asserito, però, come realtà di natura inferiore all’io non può essere sostenuto per un’idea che sia a esso superiore. Insomma, non possiamo ragionare in modo analogo a quel che facciamo per i pensieri dell’io, relativamente all’idea stessa di una realtà superiore e più perfetta che l’io arrivasse a pensare. Se si dà, pertanto, nella sostanza pensante imperfetta dell’uomo l’idea di un essere perfetto, superiore all’uomo che lo pensa, tale idea non può in nessun caso 1 Ibidem 30 provenire (essere creazione di) da quell’essere dichiarato per essenza imperfetto, ma solo da un essere perfetto, da quello stesso essere di cui si possiede l’idea: “essa [l’idea di essere perfetto] doveva, dunque, essere stata messa in me da una natura realmente più perfetta di me, e tale, anzi, che avesse in sé tutte le perfezioni di cui io potevo avere qualche idea, cioè, per dirla con una sola parola, che fosse Dio”1. Si ha così il passaggio dall’io (penso) a Dio; meglio ancora, dall’idea dell’io e dalle idee che l’io ha nella propria mente, e che sono tutt’uno con esso, perché l’io è in quanto pensa, a un’idea particolare qual è l’idea di un essere perfetto, Dio stesso. 10 Si tratta ora di compiere un ultimo passo, che porterà dall’idea di Dio, quale essere perfetto, alla sua esistenza, dovendo affrontare tutti i problemi concernenti le garanzie che si possono avere nel passaggio dall’idea all’esistenza di una cosa. Bisogna affrontare prima il problema relativo alle difficoltà che si hanno nella dimostrazione dell’esistenza, a partire dalle idee e dal pensiero, non tanto quelle che riguardano l’esistenza di Dio, ma anche quelle relative all’esistenza del mondo e dell’anima, e cioè dell’io stesso del cogito. Secondo Cartesio il motivo delle difficoltà risiede nel fatto che non si riesce a elevare la propria mente al di sopra della realtà materiale e sensibile. Non siamo abituati, infatti, a prendere in debita considerazione 1 Ibidem 31 alcunché, se non mediante l’immaginazione, vale a dire mediante rappresentazioni, ma questo è il modo proprio di pensare la realtà specifica delle cose sensibili. La filosofia scolastica sembra aver fatto proprio l’insegnamento materialistico di Aristotele, portando sino alle estreme conseguenze l’impossibilità di dimostrare razionalmente l’esistenza dell’anima (l’io) e di Dio, quando crede di doversi fondare sul principio gnoseologico secondo cui “non vi è nulla nell’intelletto che prima non sia passato attraverso i sensi”. Certo che nessuno abbia mai fatto esperienza sensibile né dell’anima, né di Dio, intesi quali “puri spiriti”, si dovrà concludere che le idee di “anima” e di “Dio” non sono intelligibili e dunque non vere. Questo naturalmente nonostante che la stessa Scolastica abbia poi creduto di poterne ugualmente dimostrare l’esistenza! Contro questa deriva nichilistica del pensiero, Cartesio ritiene di poter ribadire che chi pretende di comprendere la verità di queste due idee, servendosi della “prova” dell’immaginazione e delle connesse rappresentazioni è del tutto fuori strada. È come se si volessero udire i suoni oppure sentire degli odori, mediante gli occhi. Si dice poi ancora di più, quando si sostiene che lo stesso criterio di verità degli organi di senso (della sensibilità e pertanto dell’immaginario) è da connettere strettamente all’intelletto e dunque mai ai sensi stessi, che possono sempre ingannare. Si faccia qui riferimento a quanto affermato sin dall’inizio del Discorso. 32 Il criterio di verità è dato perciò solo dalla ragione, mai dai sensi o dall’immaginazione. Con quali specifiche modalità la ragione consegue la verità? non certo perché essa garantisce che quel che cade sotto i sensi oppure quel che immaginiamo sia vero, in una specie di corrispondenza speculare tra la realtà “fotografata” dalle percezioni e le rappresentazioni che albergano in noi, ma piuttosto perché ci assicura che le idee e i pensieri che sono in noi debbano avere qualche fondamento di verità. Questo “perché è impossibile che Dio, il quale è tutto perfezione e tutto veracità, le abbia messe in noi senza alcun fondamento”1. Tra le indubbie qualità di Dio non può assolutamente esservi quella negativa di trarre in inganno l’uomo, creando in lui delle illusioni, mediante immaginazioni e rappresentazioni, fondate su conoscenze empiriche, originate dal sensorio. Vediamo ora di cosa sia criterio di verità la nostra ragione. Essa non dà conto della verità di una realtà esterna all’io che pensa, ma solo della verità di una certa e necessaria correlazione tra le idee dell’ego cogito e un aliquid che appartiene al mondo, che è esterno rispetto all’io stesso. Tale correlazione non può che essere veritiera (ha cioè un fondo per lo meno di verità), poiché le idee, e in particolare quella stessa di correlazione tra interno ed esterno, sono immesse nell’io da Dio stesso, da quell’essere perfetto che per natura non può ingannare. 1 Ivi, p. 28. 33 Dio garantisce così il fondamento di verità della ragione e dunque dell’io penso, nella corrispondenza tra quel che sembra essere la realtà di un mondo, fenomeno esterno a noi, e l’io che sente e immagina e pensa quel che è altro da sé ed “esterno”. 11 Fermiamo qui la lettura del Discorso e occupiamoci delle Meditationes de prima philosophia, in particolare della seconda e della sesta1. Nella seconda Cartesio indaga sul fondamento del filosofare e si chiede se lo stesso “io” possa essere considerato almeno come un qualcosa. In particolare, se l’io possa essere considerarsi legato ai sensi e al corpo, e se sì, come ciò sia possibile. Anzitutto, se si considerasse l’essere dell’uomo come un composto di visobraccia-membra-ossa-carne, il corpo sarebbe in fondo da intendere come una macchina priva di vita. Non si può pertanto rispondere all’interrogativo “chi è l’io dell’uomo?”, facendo riferimento unicamente al corpo, e di conseguenza non sarebbe vera la risposta: io sono il mio corpo. 1 In sintesi: nella I si tratta del dubbio metodico; nella II dello spirito dell’uomo e della sua distinzione dal corpo; nella III delle prove dell’esistenza di Dio; nella IV della verità di quel che si concepisce in modo chiaro e distinto: nella V si insiste sulle prove dell’esistenza di Dio con altre dimostrazioni; nella VI si distingue tra azione dell’intelletto e attività dell’immaginazione, mostrando la distinzione dell’anima dal corpo e allo stesso tempo il fatto che essa risulti a esso congiunta. 34 Se, infatti, oltre che la “struttura” del corpo si considerano anche le sue attività, dobbiamo ipotizzare altro, che si associ al corpo stesso, per arrivare a costituire così il totum dell’uomo. Insomma, la considerazione del fatto che l’io si nutra, si muova, senta e pensi comporta l’esistenza dell’anima, con la specifica funzione di dar vita (vegetativa, sensitiva e intellettivospirituale) al meccanismo corporeo. Si è detto che io sono non è da identificare al solo corpo, ma neppure si può arrivare a dire che coincide con quel che è l’anima, che sembra dar vita al corpomacchina. Io sono non viene spiegato, insomma, da certe prerogative dell’anima, che arriva a muovere le membra del meccanismo corporeo, che è aria sottile e penetrante1, diffusa nelle membra, che è “soffio di vento”, perché io sono una cosa che pensa, vale a dire uno spirito, un intelletto e una ragione. Leggiamo: “ma che cosa, dunque, sono io? Una cosa che pensa. E che cos’è una cosa che pensa? È una cosa che dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina anche, e che sente. Certo non è poco, se tutte queste cose appartengono alla mia natura”2. Sostenere che la prerogativa dell’io risiede nel pensare significa, com’è naturale, includere nel pensiero il dubitare-concepire-affermare-negarevolere, ecc. Ma c’è anche dell’altro; altri attributi ap1 Scrive Cartesio: “qualcosa di rado e di sottile, come un vento, una fiamma, o un’aria delicatissima insinuata e diffusa nelle parti più grossolane di me” (…) 2 Cartesio, Meditationes, I, I, p. 81. 35 partengono al pensiero e dunque all’anima, pur essendo di per sé e di primo acchito collegabili al corpo. Da una parte la facoltà di immaginare, dall’altra il sentire, il provare sensazioni e percezioni. Sia l’immaginazione, sia il sentire debbono essere considerate null’altro che pensare. Si noti che qui Cartesio sta sostenendo che l’essere dell’uomo informa di sé, del proprio stesso essere tutto quel con cui viene in rapporto e pertanto risulta essere diverso il sentire e l’immaginare dell’uomo rispetto a quello dell’animale o del vegetale. L’immaginare, il sentire/sentimento dell’uomo sono infatti informati da ragione e da pensiero. 12 Consideriamo ora, almeno in parte, la sesta meditazione, Dell’esistenza delle cose materiali e della reale distinzione tra l’anima e il corpo dell’uomo. Nella seconda meditazione Cartesio aveva notato come la conoscenza di un corpo, elemento spirituale, fosse un atto mentale e dunque come fossero da includere nell’ambito proprio e specifico del pensiero e dell’anima anche percezione e immaginazione. Si arriva così al paradosso di sostenere che è più facile conoscere il proprio io (lo spirito), piuttosto che la realtà del corpo, che è esterno rispetto all’io. Nella sesta meditazione tale problema è radicalizzato. Affrontando il discorso relativo alla materialità dei corpi, che appare “esterna” all’io penso, ci si chiede addirittura se esistano mai delle cose materiali, dal momento che sinora si è potuto riconoscere soltan- 36 to l’esistenza del cogito e dunque di una sostanza pensante o spirituale. La domanda sembra legittima: il dubbio metodico ha posto in forse ogni realtà; l’unica poi che è risultata indubitabile è stata quella relativa al pensiero, dunque una realtà immateriale. C’è però da dire che alberga nell’uomo una facoltà particolare che tenta di convincere dell’esistenza della materia. Tale facoltà è l’immaginazione, mediante la quale la capacità di conoscere si applica ai corpi; essa è da distinguere da altri tipi di conoscenza, quelli relativi al pensiero e alla ragione. Nell’intento di mostrare la distinzione tra due diverse conoscenze, Cartesio propone l’esempio di un triangolo. Esso viene concepito mediante un concetto, come quella particolare figura geometrica compresa tra tre linee, così come se lo rappresenta l’immaginazione, che lo equipara all’ipotetica materia di un quid conosciuto, che di dà “in natura”. La “figura” concettuale di triangolo, di cui si è potuto senz’altro fare esperienza, nella considerazione di una materia dalla forma triangolare, figura che è compresa tra tre linee tenute assieme in un certo modo in osservanza a determinate leggi, è stabilita dalla ragione, che determina i dispositivi secondo i quali si dà un triangolo e in mancanza dei quali esso non può proprio darsi. Cartesio conclude osservando come questo accada “per la forza e per l’applicazione interna del mio spirito”. La cosa è senza dubbio più chiara se facciamo riferimento a un’altra figura geometrica: il chiliogono. In questo caso dobbiamo immaginare e pensare una figura 37 geometrica di mille lati. Ora se è vero che noi, anche se con maggiori difficoltà rispetto al triangolo, possiamo arrivare a stabilire gli elementi essenziali “di ragione” per una tale figura, di essa, però, non potremo certo averne un’immagine, a differenza di quel che capita per il triangolo. Seguendo la nostra abitudine per rappresentare cose corporee, anche in questo caso si tenterà di pervenire a elaborare un’immagine, ma essa risulterà alquanto confusa. Che differenza potrà mai darsi, a livello di immagine si badi bene e non certo di concetto, tra un chiliogono e un miriagono (figura geometrica di diecimila lati)? Conclude pertanto Cartesio: “com’io conosco chiaramente che ho bisogno di una particolare tensione dello spirito per immaginare, della quale non mi servo per concepire; e questa particolare tensione di spirito mostra evidentemente la differenza che passa tra l’immaginazione e l’intellezione o concezione pura”1. Qui si sostiene che deve darsi l’esistenza di una “tensione dello spirito”, quale specifica facoltà, perché si possa pervenire all’elaborazione di immagini delle cose: lo “spirito” è attivo a supporto della facoltà di immaginare. Inoltre esiste anche un’altra tensione del medesimo spirito, tesa a concepire, vale a dire a pensare le cose. Infine si marca una sostanziale differenza tra le due tensioni spirituali: una cosa è immaginare, altra cosa è concepire; una cosa è avere rappresentazioni delle cose, altra cosa è possedere concetti delle stesse. 1 Ivi, p. 122. 38 Cartesio va poi ben oltre questa precisazione, quando sostiene che “questa mia facoltà di immaginare, in quanto differisce dalla facoltà di concepire, non è in nessun modo necessaria alla mia natura o alla mia essenza, e cioè all’essenza del mio spirito”1. Si ritiene, insomma, che l’io sia una sostanza pensante, per cui tutto ciò che esula di per sé dal pensiero, pur essendo legato allo spirito umano, alla sua “tensione”, è in realtà inessenziale. Si è così pervenuti a ipotizzare una doppia funzione dell’io. Da una parte lo spirito che pensa, che elabora concetti e idee e tutto questa elaborazione avviene al suo stesso interno, perché esso “si volge verso se stesso”; dall’altra lo spirito che immagina, che produce rappresentazioni delle cose, rivolgendosi in realtà verso l’esterno, al di fuori del proprio sé, verso l’altro da sé: infatti “si volge verso il corpo”, il proprio, come anche verso altri corpi, verso il mondo dei corpi o delle cose materiali. Ci si chiede ora come si arrivi a produrre rappresentazioni e immagini. Bisogna ipotizzare l’esistenza di cose esterne ed estranee alla realtà vera, all’unica verità della sostanza pensante dell’io. Tale ipotesi è dovuta al fatto che abbiamo in noi stessi, nel nostro “interno” spirituale, un’idea di “cosa” che va distinta dalla stessa natura pensante: dal momento, poi, che la sostanza pensante è spirituale, per contrapposizione quel che è altro da essa sarà materiale. 1 Ibidem 39 A proposito della “percezione” della materialità delle cose corporee, sinora Cartesio ha fatto riferimento soltanto alla geometria, con la proposta della distinzione tra figura geometrica colta “in natura” e di cui si possiede una rappresentazione e “concetto” della medesima figura. Pertanto sinora solo il senso della vista era di per sé preso in debita considerazione, nell’atto di percezione. Ora si nota, però, che oltre alla vista anche altri sensi siano impegnati, e di continuo, nel momento in cui dalla tensione dello spirito vengono elaborate le immagini. Delle sollecitazioni, insomma, provengono da tutto il sensorio, assieme alla memoria, che ricorda sensazioni e percezioni avute in precedenza. Sin dall’inizio Cartesio ha messo in dubbio la fede nei sensi e, di conseguenza, nell’immaginazione, indicando e proponendo quale unica verità dell’esistenza quella legata al solo pensiero. D’altra parte, però, ha dovuto anche ammettere che sentire e immaginare ineriscono strettamente alla sostanza pensante, in quanto sottoposte a una “tensione” specifica dello spirito dell’uomo. La certezza di esistere dell’io dipende unicamente dal cogito, vale a dire dall’io stesso: sono, dunque penso e, ancor prima penso, dunque sono. Questo è il portato ultimo dell’antropologia e dell’ontologia cartesiana: l’uomo è quel qualcosa che pensa. Sembrerebbe in linea con la definizione di marca aristotelica: zoon logon echon, sennonché in Cartesio piuttosto che vivente e senziente (zoon) il corpo dell’uomo è macchina e automa. 40 13 A questo punto, però, il corpo è posto oramai come problema. Se l’uomo, infatti, è sostanza pensante, cos’è allora il suo corpo? Qual è il rapporto che si deve stabilire tra l’io che pensa e il corpo proprio? Leggiamo: “e sebbene forse (o piuttosto certamente, come dirò subito dopo) io abbia un corpo, al quale sono assai strettamente congiunto, tuttavia poiché da un lato ho una chiara e distinta idea di me stesso, in quanto sono solamente una cosa pensante (res cogitans) e in estesa e dall’altro lato ho un’idea distinta del corpo, in quanto esso è solamente una cosa estesa (res extensa) e non pensante, è certo che questo io, cioè la mia anima, per la quale sono ciò che sono, è interamente e veramente distinta dal mio corpo e può essere o esistere senza di lui”1. Dell’uomo e sull’uomo si hanno pertanto due distinte idee: una chiara del suo io o del sé, la sostanza pensante e immateriale, l’altra non chiara, anche se distinta dall’io stesso, vale a dire il corpo proprio, quale sostanza non pensante e materiale. Si ha così a che fare con due ben diverse realtà, la res cogitans e la res extensa. Si conclude che l’io, quello di cui si ha esperienza diretta, l’anima stessa, per cui siamo quel che siamo, è del tutto distinto dal proprio corpo. Insomma, l’anima può esistere prima del corpo e, pertanto, priva di esso2. 1 Ivi, pp. 126-7. Appare qui di tutta evidenza il riferimento all’antropologia platonica. Nel Fedone, dialogo in cui si prospetta l’essere umano di fron2 41 In conclusione, Cartesio afferma che l’io è e che il suo essere non dipende dal suo avere. Subito dopo aggiunge che l’io ha caratteri peculiari, che lo contraddistinguono da ogni altro essere. Esso è sostanza pensante, è per essenza pensiero, ma, al tempo stesso, l’io ha (deve avere) un corpo proprio. Si sottolinea, dunque, come essere e avere coappartengano alla medesima realtà. Si tratta allora di stabilire come essere e avere trovino il modo di coesistere nel medesimo io e di comunicare. Questo perché l’io non risulta essere semplicemente alloggiato nel corpo proprio, ma intimamente e strettamente congiunto a esso, confuso con esso. L’io (o anima) e il corpo sono così da considerare, almeno nell’uomo, un tutt’uno, possedendo la medesima unità di struttura. Insiste in proposito Cartesio, sostenendo che l’io non è nel corpo così come il pilota è nel battello, che guida tra le onde. Infatti, se il corpo è ferito si prova dolore, proprio perché corpo e anima sono tutt’uno, una inscindibile unità. Non si sentirebbe dolore a livello fisico, dunque, ma se ne avrebbe solo un’idea in spirito cogliendo la ferita solo tramite l’intelletto, se l’io fosse nel corpo in un rapporto di mera esteriorità, te alla fine dell’esistenza, si delinea la fine dell’organismo vivente con due destini ben diversi, due prospettive ontologiche distinte per anima e per corpo. Mentre la res materiale è senz’altro destinata alla corruzione, la res spirituale mantiene il suo stato, indipendentemente dal destino del corpo: in seguito all’avvenuta purificazione, è destinata a tornare contemplare quel mondo delle idee, da cui trae la stessa origine. 42 così come il pilota in una nave ha idea della falla che si è aperta, ma non ne soffre personalmente. Cartesio pone il problema del corpo proprio e, più in generale, dei corpi, vale a dire delle realtà mondane estranee all’io che le pensa. Nel trattato su Il mondo1, dopo aver stabilito verità concernenti l’io penso, Dio e la sua esistenza, egli si appresta così a mostrare altre verità che concernono il mondo fisico in generale. Di nostro interesse è il fatto che si crede di mostrare con quali modalità gli oggetti, che sono esterni rispetto al nostro io, riescano a imprimere in esso diverse idee e pensieri, mediante luce, suoni, odori, sapori… Si cerca così di spiegare come rappresentazioni e immagini, legati al nostro sentire e percepire, si imprimano nell’io e vi rimangano. Cartesio precisa che è in una parte del corpo proprio che si annidano idee e pensieri e rappresentazioni. Tutto avviene nel cervello. Dove, però, in particolare e specificamente? Si localizza con maggiore precisione “scientifica” il topos proprio del pensiero, quando si parla del “senso comune dove tali idee vengono raccolte”. Il senso comune è il sensorio, vale a dire l’organo interno al cervello stesso, comune a tutti i sensi. Il sensorio è individuato nella ghiandola pineale, che ha sede al centro del cervello, alla quale affluireb1 Il trattato non verrà mai pubblicato, in seguito alla condanna di Galilei e sarà solo indirizzato ai “dotti”, e cioè ai filosofi e ai teologi scolastici, di idee tradizionaliste, contro i quali si andava imponendo la nuova scienza della natura, fondata su esperimento e calcolo matematico. 43 bero tutte le immagini delle impressioni sensibili e nella quale avrebbe anche sede la stessa anima con i suoi pensieri e con le sue idee. 44 PARTE PRIMA. KANT, I 1 Si è portata l’indagine su Cartesio, alla ricerca di un chiarimento circa il darsi della cosa, del come del suo darsi e delle modalità di rappresentazione di quel che appare, perché si è inteso proporre tale problematica agli albori del pensiero moderno, convinti che proprio quel pensiero costituisce l’ossatura portante del nostro stesso pensiero. Si è visto come il dubbio metodico conduca all’unica certezza del cogito e, dunque, del soggetto conoscente. Nella speculazione cartesiana si fa però strada l’interrogativo relativo alla garanzia della veridicità delle nostre cogitationes: come accertarsi che i pensieri e i concetti, presenti nella mente, abbiano un corrispettivo nella realtà, esterna a noi, nella perfetta congruenza con cose effettivamente esistenti? È posto così il problema dell’essere, non garantito certo e di per sé dalla facoltà del pensare, ancora meno del dubitare. Come si ricorderà, Cartesio individua in Dio, e ancora prima nell’idea di un Dio la garanzia del fatto che non possiamo in nessun caso cadere in errore quando crediamo a una corrispondenza tra immagini mentali e cose, presumibilmente esistenti e indipendenti da noi stessi, che immaginiamo proprio quelle e non altro. Perché non si tratterebbe di pura e semplice illusione? Si risponde che Dio, Summum Bonum, non potrà mai prendersi gioco di noi, come un perfido diavolo in- 45 gannatore. È però naturale che, fondando il suo discorso sull’idea di Dio, tutto sta a dimostrare che egli esista e, soprattutto, che l’io non s’inganni proprio con quell’idea che possiede di lui. Cartesio crede di riuscire a farlo, puntando come si è visto sull’idea di perfezione. A noi non interessano qui tanto le diverse prove dell’esistenza di Dio, quanto piuttosto sottolineare il fatto che il ricorso a lui sia indispensabile per supportare l’argomento di garanzia. È interessante qui notare come, nonostante l’opposizione pregiudiziale a tutta la tradizione e in particolare alla scolastica tomista, proprio nel reperimento del garante della verità e della corrispondenza tra idea pensata e cosa esistente, Cartesio si rifaccia a Tommaso d’Aquino. Difatti le prove dell’esistenza di Dio sono analoghe a quelle proposte nella Summa teologica, nella questione An Deus sit, anche se c’è da sottolineare il fatto che mentre Tommaso si muoveva ancora e soltanto in un ambito di intellectus fidei, e dunque decisamente teologico, qui la prospettiva intenderebbe essere soltanto di stampo teoretico, fornendo delle prove puramente razionali; inoltre il rapporto stretto, e l’adaequatio, tra cose e intelletto è garantito da una precedente concordanza tra le idee di Dio e le cose create o da creare proprio in virtù e in forza di quelle stesse idee. Cerchiamo ora di portare sino in fondo l’analogia con Tommaso. In proposito sarebbe interessante il confronto puntuale con gli articoli della quaestio citata della Summa. 46 Cosa sta a significare che Dio è garante della verità del nostro dire, delle nostre conoscenze, vale a dire della corrispondenza tra cosa e idea, dell’adaequatio rei et intellectus? Significa che tutte le nostre verità, le verità insite nel nostro dire (logos) sono tutte dipendenti, senza eccezione alcuna, da quelle verità che risiedono sin dall’origine della creazione in mente Dei, le quali arrivano a realizzare l’adaequatio in modo totale e perfetto, essendo completa la conformità tra le idee in (e di) Dio e la loro stessa realizzazione negli enti mondani, da lui stesso creati. Dice in fondo lo stesso Platone, quando nel mito della caverna della Repubblica rivela che quelle ombre che si muovono sulla parete della caverna corrispondono per omoiosis agli oggetti posti al di fuori, illuminati dal Sole. In conclusione, nel tentativo di proporsi in alternativa alle auctoritates della tradizione, Cartesio continua a collocare il suo pensiero, che pure dovrebbe far perno sulla sola ragione, in un luogo teologico. Il suo finisce con l’essere un discorso su Dio e di Dio, là dove la verità in Dio è quella che pregiudizialmente garantisce la possibilità stessa che si diano poi delle verità per l’uomo. 2 Poniamo ora il caso che la “prova” dell’esistenza di Dio non tenga o che semplicemente non venga ritenuta probante; in questo caso verrebbe a mancare la garanzia riguardo alla corrispondenza tra idee e realtà, vale a dire non si avrebbe più alcuna certezza dell’esistenza 47 delle cose del mondo, adeguate a quel che appare. È questo proprio il caso del pensiero moderno, in certo qual modo “laicizzato”, è il caso di Immanuel Kant. Nella Critica della ragion pura la verità, infatti, non viene più considerata, programmaticamente, in un luogo teologico, perché si ritiene impossibile che la pura ragione (die reine Vernunft, puro intelletto) possa arrivare ad avere idee di Dio, della libertà umana e dell’immortalità dell’anima, e dunque a darne una dimostrazione, quali oggetti di possibile esperienza. A ragion veduta, dunque, nella Prefazione alla seconda edizione della Critica della Ragion pura Kant scrive che su tali argomenti “ho dovuto sopprimere il sapere per sostituirvi la fede”. Tale puntualizzazione è ben lontana, come si è avuto modo di vedere, da quella cartesiana del Discorso e delle Meditationes. Se è vero che non può e non vuole muoversi il luogo teologico (logos su Dio), Kant intende allora collocarsi in luogo antropologico della verità, proprio facendo a meno ormai della garanzia di un Dio, per arrivare a concepire e a dire il vero. C’è da osservare qualcosa che va ancora oltre: di fatto Kant non sembra più interessato alla verità stessa, intesa almeno come adaequatio rei et intellectus, meglio ancora egli crede di non doversi (potersi) più occupare nemmeno del conformarsi (omoiosis) della realtà delle cose del mondo con l’intelletto che le conosce. Ma allora, di cosa ha da occuparsi la filosofia? Figlio del suo tempo, egli eredita almeno in parte lo scetticismo di David Hume, circa la inconoscibilità 48 della realtà esterna al soggetto conoscente. Pertanto opera una scelta di campo quasi obbligata e ben precisa tra i due corni del dilemma, rivelatisi inconciliabili, tra due realtà che entrano in rapporto tra loro, ma che sono di natura totalmente diversa. Egli finisce col privilegiarne una sola. Tra l’io conoscente e la cosa conosciuta, tra la ragione e la realtà (per tornare alla nostra terminologia), egli s’interessa soltanto della ragione (nella terminologia kantiana, del Verstand, intelletto) e, soprattutto, delle condizioni di possibilità della conoscenza dell’altro da sé, in cui risiede il dato di esperienza. Kant non sembra dunque affatto interessato a quel che è la realtà, altro da noi, che si arriva a conoscere, anzi dice espressamente e a più riprese che essa, proprio in quanto altro, o alterità assoluta, risulta inconoscibile. S’interessa allora delle modalità del nostro conoscere e del “luogo” in cui esso si svolge. Considera così la struttura conoscitiva dell’io penso di Cartesio, vale a dire, volendo impiegare la sua terminologia, indaga sulle condizioni di possibilità indispensabili, senza le quali non si potrebbe mai dare conoscenza per l’uomo. Tali condizioni costituiscono il trascendentale, e cioè quel che si riferisce al fondamento apriori, a prescindere da qualsiasi esperienza, della possibilità stessa di un’esperienza. 3 Cerchiamo ora di far luce sul luogo teoretico e antropologico, in cui si muove il filosofo tedesco. Tro- 49 viamo scritto: “chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupa non di oggetti, ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti, in quanto questa dev’essere possibile apriori”1. La filosofia trascendentale kantiana, pertanto, è qua tale priva di contenuti, e cioè priva di qualsiasi riferimento diretto alla realtà. Essa non ha “oggetti” propri. Quello di Kant appare così un discorso propedeutico alla filosofia. Nell’Antropologia pragmatica leggiamo difatti che “non si può insegnare la filosofia, ma solo a filosofare”. La Critica della ragion pura, perciò, non intende offrire al lettore un contenuto di verità, come pretenderebbero un po’ tutti i sistemi filosofici, quanto piuttosto la struttura di trasformazioni possibili nella dinamica dell’attività conoscitiva, in una sorta di gioco concettuale. Non si tratta, però, di una mera e superficiale costruzione ludica, fine a se stessa, dal momento che Kant intende mostrare come, nello sviluppo del conoscere e nella sua articolazione pratica si attui il processo di oggettivazione. Proprio partendo dalle analisi relative alla struttura dell’io penso e delle modalità trascendentali di conoscenza, si arriva così a mostrare come si costituisca l’oggetto di conoscenza. Da notare come le condizioni che Kant indica circa il costituirsi dell’oggetto siano esse stesse progettuali, e dunque a loro volta tali condizioni non possono essere considerate degli oggetti. Eppure si è alla presenza di un processo reale, in cui si 1 I. Kant, Critica della ragion pura, Bari, Laterza, p. 58. 50 costituisce, e quindi si oggettiva, la realtà fenomenica, mediante pratiche diverse. Lo studio di tale processo è contenuto nella Critica della ragion pura. Dal momento che le conoscenze trascendentali che rendono possibile l’oggettivazione non sono oggetti esse stesse, devono essere prese in considerazione, almeno in prima battuta, come presupposti o postulati. Anzi, Kant ne parla di per sé e più semplicemente come dei fatti: 1. il fatto della sensibilità, che consiste nel costatare l’esistenza di una materia sensibile, di cui sembra essere costituito l’oggetto di esperienza. Come sia (stata) posta in essere tale materia non è dato a noi di saperlo, perché ci troviamo ancora a livello di quelle condizioni che precedono qualsiasi processo indagabile; 2. il fatto dell’intuizione, che costata l’esistenza delle due forme di spazio e di tempo, che ricevono e organizzano a loro modo quel materiale sensibile che concerne il fatto della sensibilità; 3. il fatto dell’intelletto, che rileva la struttura delle dodici categorie, che costituiscono l’intelaiatura necessaria per la formazione stessa dei concetti. Si noti qui che tali fatti, dati come presupposti o come postulati, sono assunti senza il bisogno o la necessità di stare in qualche modo a giustificarli. La spiegazione avverrà da ultimo, a costruzione compiuta, quando sarà stata chiarita la loro funzione. 4 In base a tali presupposti, vediamo ora di chiarire quello che viene considerato a buon diritto il principio 51 stesso “motore” del trascendentalismo. Quidquid recipitur admodum recipientis recipitur. La massima latina sta a significare che la forma del recipiente o del ricevente condiziona e struttura in certo qual modo e necessariamente le modalità stesse delle ricezione. Si pensi qui a un liquido che va ad assumere, di volta in volta, la forma del contenitore in cui viene versato e conservato. Non può non essere che così. Tale principio non costituisce affatto una novità all’interno della storia della filosofia. Quel che è il novum in Kant e nel suo trascendentalismo, così inteso, è il pensare che questo condizionamento è la condicio sine qua non della stessa ricezione sensibile. Pertanto Kant non dice soltanto che le forme della struttura di ricezione modellano quel che viene da noi percepito, ma addirittura che non si dà ricezione o percezione alcuna senza quelle forme specifiche e particolari di ricezione. Quindi il formarsi di un qualsiasi oggetto di esperienza è possibile soltanto se vengono riconosciute le forme di ricezione condizionanti di spazio e di tempo, quali trascendentali e pertanto presupposte. In conclusione, quel che è materia, vale a dire il fatto primo della sensibilità, o si assoggetta alle condizioni previe di spazio e di tempo, e cioè all’intuizione sensibile, oppure resta al di fuori della possibilità stessa di conoscenza. Insomma sarebbe del tutto inesistente per noi. Vediamo ora più da vicino in cosa consista il novum che si riscontra in Kant. Certamente nel fatto che spazio e tempo siano considerati organi trascendentali 52 della sensibilità. In fondo anche l’occhio condiziona la visione, così come l’orecchio lo fa per l’audizione, eppure occhio e orecchio e le loro modalità di funzionamento non sono affatto trascendentali. In fondo noi possiamo ricevere sensazioni e conoscenze anche senza servirci di questi due organi e delle rispettive modalità formali di funzionamento. Mentre invece, ed è un fatto, il fatto o presupposto della sensibilità in uno col fatto dell’intuizione, che nessun intelletto umano possa ricevere materia dalla sensibilità se essa non sia informata precedentemente da spazio e da tempo. Sin qui si è parlato di trascendentale in riferimento alla materia dell’esperienza sensibile, poniamo ora il problema riguardo al fatto dell’intelletto. Anche in questo caso si pone il problema dell’apriori e del trascendentale. Le cose, però, sembrano andare diversamente. Finché si parla di sensazione, vale a dire di una facoltà di pura e semplice ricezione, si comprende agevolmente il fatto che la materia, per essere ricevuta, va ad adattarsi docilmente alla modalità e alle forme che sono necessarie per riceverla. Quando invece si tratta dell’intelletto consideriamo una facoltà attiva, che opera spontaneamente. In quanto tale, la facoltà sembrerebbe ben diversa da quel recipiente, che impone in modo automatico una sua forma precostituita, sempre la stessa. Sottolineando così la spontaneità e l’autonomia della facoltà intellettiva, si potrebbe arrivare a concludere che l’intelletto è allora in grado di produrre l’oggetto stesso, mediante le sue specifiche forme. 53 Non si tratterebbe, pertanto, di un semplice adattamento di un oggetto già dato. Neppure questo sembra essere quel che Kant intende, quando parla di autonomia nel fatto dell’intelletto, a differenza di quel che accade nel fatto dell’intuizione sensibile. Prendendo così posizione contro ogni prospettiva di pensiero dualistica e idealistica, egli sostiene che non è affatto l’intelletto a produrre gli ogetti che conosce. Esso non fa allora altro che pensare, a suo modo naturalmente, degli oggetti che però non produce. Tali oggetti sono continuamente indicati e definiti da Kant come oggetti-dati per(al) l’intelletto. Com’è allora che accade che oggetti-dati si presentino a noi soltanto secondo le forme secondo cui l’intelletto li pensa? A esempio, come mai si danno tra i fenomeni delle successioni necessarie che l’intelletto stesso richiede, come se i fenomeni avessero tra loro legami di tipo causale, mentre tale legame è il modo stesso di pensare dell’intelletto, la forma che esso impone alle sue rappresentazioni? Kant riflette per dieci anni su tale problema. Alla fine la sua soluzione è nello schematismo trascendentale, secondo il quale l’intelletto non produce oggetti e pertanto non è neppure nella possibilità di imprimere loro la propria forma, almeno in modo diretto. Esso non può agire, insomma, analogamente a quel che fanno le forme spazio-temporali della sensibilità, che condizionano direttamente la materia. L’intelletto arriva però a imprimere, mediante le dodici categorie, una propria forma alle forme ricetti- 54 ve di spazio e di tempo. Ma allora, esso condiziona per lo meno indirettamente l’oggetto, anche se non lo produce. Infatti, per far parte dell’esperienza ogni oggetto deve conformarsi alla condizione del tempo, ma il tempo, grazie allo schematismo, a sua volta è sottoposto a strutturazione da parte dell’intelletto. Tale strutturazione traduce in schemi temporali (numero, grado, successione) la struttura delle categorie intellettuali (quantità, qualità, materia, causa). Grazie a ciò l’oggetto viene condizionato direttamente dalla forma del tempo, ma è anche vero che esso è poi anche condizionato indirettamente dalle forme dell’intelletto, che a loro volta hanno condizionato la forma-tempo. 5 Colti gli elementi essenziali dello schematismo trascendentale, proviamo ora a fermare la nostra attenzione su quel che sinora si è acquisito. Il punto di vista trascendentale del criticismo kantiano (che in quanto presupposto è l’elemento inindagato, condizionante l’intera ricerca) obbliga a considerare soltanto l’oggetto per noi, mai in se stesso. Si considera, insomma, quell’oggetto che per entrare nell’ambito di un’esperienza possibile deve conformarsi al modo universale e necessario secondo il quale è dato a noi di esperirlo. L’oggetto va a costituirsi in modo conforme al nostro modo di percepire, intuire e pensare. L’errore della metafisica è dovuto al fatto di non aver mai considerato tutto ciò, vale a dire le condizioni che rendono possibile la conoscenza, e ancor prima la 55 stessa esperienza. La metafisica cade pertanto nell’illusione, che inerisce in fondo in modo costitutivo il vedere, di poter arrivare a cogliere percettivamente e a concepire concettualmente le cose stesse, in sé e per sé, ignorando l’indispensabile mediazione del noi, vale a dire dell’io penso. Kant, insomma, sostiene che la cosa in sé non si dà mai a noi qua tale. Quel che si presenta è il fenomeno, scambiato ed equivocato per la stessa realtà, perchè quel che appare a noi sembra coincidere perfettamente con quel che è: l’apparire è tutt’uno con l’essere. Proprio questo è il punto di vista ingenuo del (buon) senso comune e della prospettiva metafisica, che ignorano il punto di vista trascendentale. 6 Affrontiamo ora con Kant il problema gnoseologico, e di seguito, come avvenuto già per Cartesio, quello ontologico. Come si conosce e cosa si conosce? Leggiamo: “la nostra conoscenza scaturisce da due fonti principali dello spirito, la prima delle quali è la facoltà di ricevere le rappresentazioni (la ricettività delle impressioni), la seconda quella di conoscere un oggetto mediante queste rappresentazioni (spontaneità dei concetti). Per la prima un oggetto ci è dato; per la seconda esso è pensato, in rapporto a quella rappresentazione (come semplice determinazione dello spirito)”1. La conoscenza scaturisce dunque da due fonti spirituali. La prima è la facoltà di ricevere rappresenta1 Ivi, p.93. 56 zioni (Vorstellungen), e cioè tutte quelle impressioni che s’imprimono nei nostri sensi; la seconda è la facoltà di conoscere un oggetto, proprio in forma mediata da quelle stesse rappresentazioni e impressioni. La conoscenza consta, pertanto, di due momenti (Cartesio parla di due distinte conoscenze, come si ricorderà): di una ricezione in certo qual modo passiva di immagini e di rappresentazioni e della conoscenza vera e propria, che comporta la produzione di concetti, che si fondano sul collegamento indispensabile alle rappresentazioni del primo momento conoscitivo. Si arriva a conoscere un oggetto, mediante la “spontaneità” dei concetti. La conoscenza, pertanto, ed è proprio questa la conclusione cui Kant sembra pervenire, si dà soltanto nei concetti. Inoltre la prima facoltà ha a che fare con un oggetto-dato, mentre la seconda è alle prese con un oggetto-pensato. Da notare come quel che è pensato sia da intendere, per Kant, in stretta e necessaria relazione con quel che è dato nelle impressioni, nelle immaginazioni e nelle rappresentazioni. Di seguito, pertanto, si afferma che “intuizione e concetti costituiscono dunque gli elementi di ogni nostra conoscenza; per modo che né concetti, senza che a loro corrisponda in qualche modo intuizione, né intuizione, senza concetti, possono darci conoscenza”1. L’intuizione è la ricezione di immagini e di rappresentazioni indipendentemente da noi, vale a dire che l’oggetto si dà, si offre alla nostra ricezione tale quale è; i concetti, invece, sono tutt’uno con il pensare l’og1 Ibidem 57 getto, la cui rappresentazione viene elaborata con le modalità proprie dell’io conoscente; in quanto pensato, esso è dunque in dipendenza da chi lo pensa. Sembra poi opportuna una puntualizzazione: non si tratta di ipotizzare due forme di conoscenza, perché essa è pur sempre unica, fondandosi sulla stretta interconnessione tra i due elementi (intuizione di rappresentazioni e concetti): l’uno non può in nessun caso fare a meno dell’altro. Proseguiamo la lettura della Critica: “nessuna di queste due facoltà è da anteporre all’altra. Senza la sensibilità nessun oggetto ci sarebbe dato e senza intelletto nessun oggetto pensato. I pensieri senza contenuto sono vuoti le intuizioni senza concetti sono cieche. È quindi necessario rendere i concetti sensibili (e cioè aggiungervi l’oggetto dell’intuizione), quanto rendersi intelligibili le intuizioni (cioè ridurle sotto i concetti). Queste due facoltà o capacità non possono scambiarsi le loro funzioni. L’intelletto non può intuire nulla né i sensi nulla pensare. La conoscenza non può scaturire se non dalla loro unione”1. Tutto ciò non sta affatto a significare che possano essere scambiate le funzioni delle due facoltà che vengono mantenute ben distinte. È per questo motivo che si propone una duplice indagine, che riguardi per un verso la sensibilità e per altro verso l’intelletto stesso: “per questo noi distinguiamo la scienza delle leggi della 1 Ivi, p. 94. 58 sensibilità in generale, l’estetica, dalla scienza delle leggi dell’intelletto in generale, la logica”1. 7 Proponiamo ora qualche considerazione generale circa la logica e la sua funzione conoscitiva, prima di occuparci decisamente dell’Estetica trascendentale. La logica generale pura o trascendentale astrae da ogni contenuto di conoscenza, vale a dire che non si occupa del rapporto possibile e necessario della conoscenza con il proprio oggetto; difatti essa tratta soltanto della forma corretta del pensiero. A questo punto Kant propone un inciso circa il criterio di verità, che per noi che siamo “passati” attraverso Cartesio, è davvero significativo: “il criterio semplicemente logico di verità, cioè l’accordo di una conoscenza con le leggi universali e formali dell’intelletto (Vernunft) e della ragione (Verstand) è bensì la condicio sine qua non, quindi la condizione negativa di ogni verità; ma la logica non può andare più oltre, e non ha pietra di paragone con cui possa scoprire l’errore che non tocchi la forma, ma il contenuto”2. Qui sembra che Kant contribuisca ad aprire la strada alla critica heideggeriana mossa nei confronti della scienza in generale e della logica in particolare: la scienza non pensa, meglio: la scienza, e ancor prima la logica, non si occupa, non deve occuparsi della verità. Il criterio logico di verità, infatti, essendo costituito 1 2 Ibidem Ivi, p. 99. 59 dall’accordo di una conoscenza con le leggi formali dell’intelletto, è una condizione negativa, che nulla ha da dire in positivo, dunque, dell’oggetto conosciuto, del contenuto di conoscenza. D’altra parte la logica non va oltre, perché le è preclusa la possibilità di stabilire accordo e corrispondenza con il contenuto di conoscenza. Essa può così operare un controllo circa l’eventuale errore che riguardi la forma, mai portare la sua indagine sul contenuto. Pertanto, una conoscenza può essere riconosciuta come logicamente corretta e vera, perché rispettosa delle leggi universali e necessarie del pensiero, ma la logica nulla è in grado di dire circa il contenuto di verità, dunque circa l’accordo sempre ricercato tra conoscenza e proprio oggetto. La logica formale affronta i problemi inerenti l’opera e l’attività formale dell’intelletto e dispone tutti gli elementi quali principi di valutazione in forza di questa sua attività. Tale parte della logica viene detta analitica: essa è pietra di paragone negativa di verità, dal momento che si tratta di esaminare e valutare delle conoscenze, anzitutto dal punto di vista formale, prima di poter andare a esaminarne il contenuto “per vedere se contengano una verità positiva, in rapporto con l’oggetto”. E però la sola forma della conoscenza, forma propria della logica, è ben lontana dal poter stabilire la verità oggettiva. Pertanto “nessuno, col semplice aiuto della logica, può arrischiarsi a giudicare e ad affermare checchessia degli oggetti, senza aver prima raccolto, al 60 di là della logica, una fondata informazione intorno a essi”1. Ciò detto, si sostiene subito dopo che esiste anche un’altra forma di logica, che tenta di passare da canone di valutazione a “organo di effettiva produzione, almeno all’apparenza di affermazioni oggettive”, realizzando in realtà, precisa Kant, un uso abusivo della logica. Tale parte della logica generale è la dialettica. Considerata quale organo di conoscenza, tesa ai contenuti oggettuali, la logica generale è sempre, quale dialettica, logica dell’apparenza. È qui da intendere, naturalmente, nel senso negativo e spregiativo del termine. È il modo in cui si cerca di dare alla propria ignoranza circa l’oggettualità una “tinta di verità”, sostanziandola di contenuti, mentre invece il discorso della logica dovrebbe essere relativo solo alle pure forme. Circa la dialettica, poi, leggiamo: “infatti, poiché essa [la dialettica o logica dell’apparenza] non ci insegna nulla circa il contenuto della conoscenza, ma semplicemente le condizioni formali dell’accordo con l’intelletto, le quali del resto, rispetto agli oggetti, sono assolutamente indifferenti; così, la pretesa di servirsene come di strumento (organo) per allargare ed estendere, almeno secondo si pretende, le conoscenze non può riuscire se non a una vuota ciancia, onde si affermi con qualche apparenza, o s’impugni a capriccio ciò che si vuole”2. 1 2 Ivi, p. 100. Ivi, p. 101. 61 La logica non insegna nulla circa il contenuto di verità, ma semplicemente verifica le condizioni formali dell’accordo con l’intelletto; tali condizioni sono del tutto indifferenti rispetto agli oggetti di conoscenza. Ma allora, quando la logica dialettica pretende di servirsi degli strumenti intellettuali con l’intento di estendere e ampliare le proprie conoscenze, risulta nient’altro che vuota chiacchiera. Ciò detto della logica, ne deriva una conseguenza relativa alla ricerca della verità. La verità quale adaequatio è del tutto impossibile da stabilire “logicamente”, perché proprio nell’ambito delle competenze e delle condizioni di possibilità dell’intelletto, non si dà mai alcun accordo tra la conoscenza e la realtà stessa di un oggetto dato. Questo perché la logica generale o trascendentale non deve occuparsi programmaticamente, lo si è visto, di uno dei due corni del dilemma: dell’oggetto di conoscenza o da conoscere. Dell’oggetto che si dà a noi non si occupa la logica, ma piuttosto l’Estetica trascendentale, vale a dire la prima parte della Critica della ragion pura. 62 PARTE PRIMA. KANT, II 1 Per arrivare a comprendere se, come e con quali limiti l’oggetto di esperienza venga colto e considerato, leggiamo almeno in parte l’Estetica trascendentale. Scrive Kant che “non c’è dubbio che ogni nostra conoscenza incomincia con l’esperienza; da che infatti la nostra facoltà conoscitiva sarebbe stimolata al suo esercizio se ciò non avvenisse per mezzo degli oggetti che colpiscono i nostri sensi e, per un verso, danno origine da sé a rappresentazioni, per un altro, muovono l’attività del nostro intelletto a paragonare queste rappresentazioni a riunirle o separarle e a elaborare in tal modo la materia grezza delle impressioni sensibili, per giungere a quella conoscenza degli oggetti chiamata esperienza? Nel tempo, dunque, nessuna conoscenza in noi precede l’esperienza e ogni conoscenza comincia con questa”1. Qui Kant mostra di muoversi secondo le coordinate di una ben precisa e tradizionale linea di pensiero, molto battuta in Occidente, che va da Aristotele alla scolastica di Tommaso e giunge poi al suo tempo con Locke, Berkeley e Hume, dal cui dubbio scettico, come si sa, egli volle prendere le mosse. Sono le tesi proprie dell’empirismo, rivedute e corrette, però, dal suo trascendentalismo. Si pensi qui, quale esemplificazione, all’effato della Scolastica: omnis cognitio incipit a sensu. L’incipit sta appunto a indi1 Kant, Critica della ragion pura, pp. 39-40. 63 care che la conoscenza, ogni conoscenza, trae la propria origine necessitata e necessitante dal “luogo” in cui si compie l’esperienza sensibile. Altro effato significativo, anche per Kant stesso, è poi quello di Locke: “nihil est in intellectu, quod prius non fuerit in sensu”, a cui però già Leibniz aggiungeva, quale importante precisazione, che sembra fare da vero e proprio battistrada alla stessa prospettiva kantiana della Critica: “…nisi intellectus ipse”. L’effato della scolastica sta a significare che si conosce alcunché solo a partire dall’esperienza che si fa con i propri sensi. Ma cos’è esperienza? Per cercare di dare risposta si finisce col prospettare una situazione dualistica ben precisa, che noi moderni abbiamo imparato a conoscere per lo meno da Cartesio in avanti, secondo la quale l’esperienza consiste nella messa in relazione di un interno con un esterno, di un soggetto con un oggetto. Intesa allora, almeno “originariamente”, come esperienza la conoscenza consiste nella messa in contatto tra due, che sembrano distinti e ben diversi. Kant fa riferimento, così, a un “che”, a un qualcosa che provoca e pone in movimento e in essere. Ma cos’è questo aliquid? Si tratta in fondo di “oggetti che colpiscono i sensi”. Detto diversamente, è un quid diverso e altroda-noi stessi che giunge a stimolare l’intero nostro sensorio, dal momento che la provocazione può avvenire per tutti i sensi. Cos’è che accade al momento del contatto? Avviene la messa in relazione di sé (l’io) con altro-da-sé 64 (l’oggetto), che comporta due modalità: 1. il contatto puro e semplice, in forza del quale dalle impressioni che i sensi ricevono dagli oggetti si originano le rappresentazioni. Queste, di per sé, precisa Kant, sono “originate da se stesse”, vale a dire nascono spontaneamente, automaticamente, in modo del tutto autonomo, rispetto al soggetto conoscente; 2. oltre che ad essere contatto tra oggetto percepito e soggetto percipiente la messa in relazione con le rappresentazioni è una sorta di provocazione. Questo sta a significare che gli oggetti, che sollecitano il sensorio, “muovono l’attività dell’intelletto” e lo spingono ad attivarsi, a compiere in tal modo il suo specifico lavoro. In un primo tempo pertanto gli oggetti sono attivi nei confronti dei nostri sensi, che rimangono del tutto passivi; in un secondo tempo, invece, gli oggetti, divenuti ormai rappresentazioni oggettuali (non più quel quid indistinto, che imprime l’immagine sul sensorio), sottostanno a loro volta all’attività della Vernunft. Vediamo di precisare in cosa consista l’attività dell’intelletto. Kant parla di un “lavoro” relativo alle diverse rappresentazioni: il paragonarle, con attività di comparazione e di equiparazione; il riunirle, proponendo attività di collegamento; il separarle, con attività propria di differenziazione e di distinzione. Il lavoro sulla materia grezza, proveniente dalla sensibilità è necessario, perché le stimolazioni percettive che avvengono nel sensorio possano arrivare alla prima e fondamentale conoscenza dell’oggetto, che è poi l’esperienza di esso. 65 2 Proseguiamo a leggere l’Introduzione: “sebbene ogni nostra conoscenza cominci [incipit] con l’esperienza non perciò essa deriva tutta dall’esperienza. Infatti potrebbe benissimo essere che la nostra conoscenza empirica fosse un composto di ciò che noi riceviamo dalle impressioni e di ciò che la nostra propria facoltà di conoscere vi aggiunge da sé (stimolata unicamente dalle impressioni sensibili); aggiunta che noi propriamente non distinguiamo bene da quella materia che ne è il fondamento, se prima un lungo esercizio non ci abbia resi attenti a essa, e non ci abbia scaltriti alla distinzione”1. Detto che ogni conoscenza dell’uomo, che è spirito incarnato immerso nella materia, ha origine di necessità dall’esperienza sensibile, c’è da aggiungere subito dopo che non tutta la conoscenza può essere ricondotta e ridotta all’esperienza sensibile. Vale a dire: la conoscenza non trova spiegazione esaustiva in uno studio concernente la sensibilità. La stessa conoscenza sensibile, riconducibile naturalmente alle percezioni sensibili, non si riduce affatto a esse, perchè risulta essere un composto. Da una parte si dà quel che noi riceviamo dall’esterno mediante le impressioni dei nostri sensi, in quanto soggetto percipiente, che sente il mondo oggettuale; dall’altra si dà quel che sempre aggiungiamo per conto nostro, indipendentemente da quel che proviene dall’esterno e che ci ha provocato: si tratta di altro rispetto a quel 1 Ivi, p. 40. 66 che sono le nostre pure e semplici impressioni sensibili. In questo secondo caso il “noi” è da intendere come struttura del soggetto che conosce tramite percezione e sensazione, con modalità empirica. Qualcosa viene aggiunto proprio in forza del nostro lavoro, che si sviluppa, però, sulla scorta di quel che proviene dal di fuori. Sono ora proposti due rilievi. Si dice anzitutto qualcosa della facoltà, la quale “aggiunge da sé” solo a patto che venga stimolata dalle nostre impressioni sensibili. Dunque la facoltà preposta alla conoscenza empirica non si attiva se non in forza e per virtù di una provocazione, che giunge dall’esterno; inoltre quel che proviene dal di fuori di noi stesi e quel che proviene dalla nostra stessa facoltà costituiscono un composto. Questo sta a significare che si fa esperienza di un tutt’uno, per cui è difficile distinguere in modo netto, con idee chiare e distinte di stampo cartesiano insomma, quel che noi stessi andiamo di volta in volta ad aggiungere, proprio mediante la modalità formale del nostro conoscere. Mediante l’apparato conoscitivo modifichiamo quella “materia grezza” o materia prima che qui è dichiarata Grund, fondamento, del conoscere, la sua condicio sine qua non, davvero indispensabile. Per operare una distinzione tra interno ed esterno si richiede un lungo e faticoso esercizio d’indagine della Critica, rivolto alla conoscenza di quelle forme pure che risultano di per sé indipendenti dall’esperienza e dalle impressioni di tutti i sensi: sono le forme trascendentali, tutt’uno con la struttura del soggetto conoscente e percipiente. Tale conoscenza è a priori, 67 perché si distingue da quella empirica, che invece è a posteriori, avendo origine, come si è visto sin dalle prime battute dell’Introduzione all’Estetica, soltanto in seguito all’esperienza sensibile. Scrive Kant: “noi dunque intenderemo in seguito per conoscenze a priori non conoscenze siffatte che abbiano luogo da questa o da quella esperienza, ma che non dipendano assolutamente da nessuna esperienza. A esse sono contrapposte le conoscenze empiriche, o tali che sono possibili solo a posteriori, cioè per esperienza”1. 3 Si apre a questo punto un inciso, per noi di una certa importanza, anche in vista di quella svolta in ambito conoscitivo che si è vista realizzata nel Discorso sul metodo di Cartesio. Kant fa cenno a certe conoscenze che escono “dal campo di tutte le possibili esperienze e hanno l’apparenza di allargare l’ambito dei nostri giudizi al di là di tutti i limiti dell’esperienza per mezzo di concetti a cui non si può dare in nessuna parte di essa un oggetto corrispondente”2. Qui si arriva a parlare, dunque, di conoscenze che in certo qual modo trascendono il mondo della sensibilità, a tal punto che per i loro concetti non si danno mai oggetti corrispondenti. Saremmo, dunque, al di là dell’esperienza sensibile. A tali conoscenze l’uomo, poi, annette la massima importanza. Scrive infatti in propo1 2 Ivi, p. 41. Ivi, p. 44. 68 sito Kant che esse riguardano le investigazioni proprie della ragione (Vernunft) umana, che “noi riteniamo di gran lunga la più alta, e la loro meta molto più sublime di tutto ciò che possa apprendere l’intelletto (Verstand) nel campo dei fenomeni”1. Qui viene detto allora che tali conoscenze non sono più appannaggio dell’intelletto (Verstand), ma piuttosto della ragione (Vernunft): sarà la Critica della ragion pratica a occuparsi di tutti quei concetti, che sono privi di oggetti corrispondenti, perché non hanno alla loro “base” esperienze sensibili. Quali sono queste conoscenze, proprie della scienza metafisica? Sono i concetti o idee di Dio, della libertà dell’uomo e dell’immortalità dell’anima, che riguardano rispettivamente teologia, etica e psicologia. Pertanto, e concludendo, la prima Critica non sembra aver nulla da dire circa tali concetti, dal momento che non si posseggono rappresentazioni o impressioni sensoriali, non avendo mai fatto esperienza empirica di nessuno di questi tre “oggetti”. Questi tre, infatti, non sono oggetti di esperienza, in quanto non cadono in alcun modo sotto i nostri sensi. Teniamo bene a mente questo inciso, davvero decisivo per mostrare il passo in avanti di fondamentale svolta teoretica di Kant nel pensiero moderno. 4 Dopo l’inciso, che marca in modo netto e inequivocabile la distanza dal pensiero cartesiano del Discorso 1 Ibidem 69 e delle Meditationes, torniamo ora all’Introduzione, per concluderne la lettura. Data la definizione di “trascendentale”, da noi già considerata, Kant conclude sostenendo che oltre alla sensibilità è da considerare anche quel che è il proprium dell’intelletto, volendo intendere la conoscenza nella sua globalità. Leggiamo pertanto che “si danno due tronchi dell’umana conoscenza, che rampollano probabilmente da una radice comune, ma a noi sconosciuta: cioè senso e intelletto; col primo dei quali ci sono dati degli oggetti, col secondo essi sono pensati”1. Sembrano così darsi due possibili conoscenze; meglio ancora, la conoscenza umana è unica, ma può distinguersi in sensibile e in intelligibile. Per il senso gli oggetti di conoscenza sono dati, vale a dire s’impongono all’apparato conoscitivo della sensibilità del soggetto che li conosce; per l’intelletto, invece, gli oggetti sono pensati, vale a dire che per il dato proveniente dalla conoscenza sensibile arriva a realizzarsi una specifica elaborazione da parte dell’intelletto, consistente nella sua concettualizzazione. Soltanto a questo punto la conoscenza umana risulta completa. Il fatto che, nonostante la distinzione necessaria tra senso e intelletto, la conoscenza sia unica, viene sottolineato nel dire che sia l’una che l’altra facoltà hanno la medesima origine. Da osservare, infine, la notazione circa la “radice comune” delle due facoltà conoscitive (sensi ed intelletto), che risulta “a noi sconosciuta”. Si ricorderà qui come Cartesio invece 1 Ivi, p. 61. 70 credesse di poterla identificare nella ghiandola pineale, all’interno del cervello. 5 La prima parte della Critica riguarda la teoria trascendentale della sensibilità. Si tratta dell’Estetica trascendentale, che studia le condizioni di possibilità, indispensabili perché si dia conoscenza empirica. Il nostro interesse per l’Estetica piuttosto che per la Logica è dovuto al fatto che proprio in essa è delineato il rapporto diretto tra l’io e la realtà, tra soggetto conoscente e oggetto da conoscere o conosciuto; viene insomma proposta la relazione con l’oggetto dato o con il dato dell’oggetto. Leggeremo alcuni brani della prima parte dell’Estetica e successivamente i Paralogismi, esclusi dalla seconda edizione della Critica, che riguardano proprio il rapporto tra l’io che conosce e il mondo esterno, oggetto di conoscenza. Nel primo paragrafo troviamo scritto: “in qualunque modo e con qualunque mezzo una conoscenza si riferisca a oggetti, quel modo, tuttavia per cui tale riferimento avviene immediatamente e che ogni pensiero ha di mira come mezzo, è l’intuizione”1. Anzitutto qui si fa questione di una conoscenza, che faccia riferimento a oggetti di esperienza. Si precisa poi che diverse sono le modalità del conoscere, ma che se ne dà una in particolare che propone un riferimento della conoscenza al suo oggetto, in modo presso1 Ivi, p. 65. 71 ché immediato; tale messa in relazione tra soggetto che conosce e oggetto da conoscere è un medium che il pensiero deve privilegiare, in vista di una conoscenza completa e compiuta. La conoscenza immediata è data dall’intuizione (Anschauung), che è una specie di “colpo d’occhio” percettivo: consiste nel fatto dell’intuizione, quello che informa la materia “grezza” dell’esperienza, mediante le forme di spazio e di tempo. Essa poi fa da medium tra oggetti di esperienza e pensiero, poiché si riferisce all’oggetto immediatamente, mentre il pensiero lo fa mediatamente per il tramite, appunto, dell’intuizione. Prosegue, poi, Kant: “ma questa [l’intuizione] ha luogo soltanto a condizione che l’oggetto ci sia dato; e questo [l’oggetto dato], a sua volta, è possibile, almeno per noi uomini, solo in quanto modifichi, in certo modo lo spirito. La capacità (ricettività) di ricevere rappresentazioni per modo in cui siamo modificati dagli oggetti, si chiama sensibilità”1. Cos’è che fa lo spirito umano, l’io dell’uomo, per intuire? Com’è che può darsi l’intuizione, vale a dire la percezione della materia oggettuale? Risulta indispensabile una condizione, senza la quale non potrebbe darsi alcuna intuizione. L’oggetto, che è il contenuto stesso dell’intuizione sensibile, è a noi dato: questo sta a significare che essa non può in alcun modo essere intesa quale visione, frutto di immaginazione e di fantasia creativa dell’io penso. Ancora più precisamente: il fatto che l’oggetto si dà (es gibt) a noi in modo autonomo, in1 Ibidem 72 dipendentemente dalla nostra volontà soggettiva, è possibile solo a patto che il nostro spirito venga modificato proprio da esso. E cioè, il fatto che l’oggetto s’imponga a noi è tutt’uno con la modifica che avviene nel nostro essere. L’io viene dunque modificato da quel che gli risulta esterno, così come esso stesso arriva a modificare l’altro da sé. Si precisa poi che tutto ciò accade “almeno per noi uomini” (la precisazione è apportata alla seconda edizione della Critica), a noi che non siamo “puri”, ma spiriti incarnati nella materia e interagenti con essa, dunque dipendenti fondamentalmente e originariamente dalla sensibilità. È proprio alla sensibilità che si rivolge un’ultima osservazione: l’intuizione è prodotto peculiare della facoltà di essere modificati dagli oggetti, ricevendo immagini e rappresentazioni di cose dall’esterno. Tale facoltà è la sensibilità. Notiamo subito come qui si faccia riferimento semplicemente e soltanto a un primo contatto che avviene tra realtà esterna e interno dell’io-soggetto: si tratta infatti della percezione dell’oggetto. Non si dà ancora, allora, una conoscenza sensibile vera e propria, che si avrà soltanto nella sensazione, nella considerazione non solo dell’attività dell’oggetto sull’io, ma anche del fatto che la struttura conoscitiva viene modificata proprio in forza di tale attività. In conclusione, l’intuizione è altra cosa rispetto alla conoscenza, anche intesa semplicemente come conoscenza sensibile. Viene poi detto che quell’oggetto fornito dal senso tramite intuizioni e rappresentazioni è in seguito 73 pensato dall’intelletto, che elabora le rappresentazioni in concetti. Kant insiste con la solita annotazione, in stretta relazione al fatto primo e indubitabile che omnis cognitio incipit a sensu: il pensiero, di stretta necessità e in qualsiasi modo diretto o indiretto, deve rifarsi sempre a intuizioni e pertanto alla sfera della sensibilità. Esso coglie infatti l’oggetto di conoscenza con concetti solo tramite il medium dell’intuizione sensibile. È così allora che noi non possiamo avere a che fare con alcun oggetto da conoscere, se l’oggetto stesso non ci è dato o non si dà a noi nell’intuizione sensibile. Anche in questa nota, poi, si insiste sul fatto che si debba far riferimento a una radice comune e fonte di per sé sconosciuta, che è condizione prima e indispensabile per qualsiasi conoscenza umana. 6 Proseguiamo la nostra lettura: “l’azione di un oggetto sulla capacità rappresentativa in quanto noi ne siamo affetti è sensazione. Quella intuizione che si riferisce all’oggetto mediante sensazione, dicesi empirica. L’oggetto indeterminato di una intuizione empirica si dice fenomeno”1. Nella percezione, come si è visto, avviene il primo contatto tra l’io e la realtà del mondo, che, però, può essere considerato da due diversi punti di vista: da parte dell’oggetto e da quella del soggetto. Abbiamo già detto del primo e si è mostrato come l’oggetto in quanto dato, modifichi lo spirito dell’uomo, imponendosi 1 Ibidem 74 con le sue impressioni, tramite immagini e rappresentazioni. Infatti l’oggetto risulta attivo, mentre il soggetto ricevente è passivo. Ora Kant considera il secondo punto di vista. Dice infatti che si deve anche far riferimento all’azione dell’oggetto dato sulla nostra facoltà di rappresentare “in quanto noi ne siamo affetti”, vale a dire che dobbiamo tenere in debita considerazione le conseguenze del contatto ex parte subjecti. È così che arriviamo a occuparci della sensazione. Pertanto, mentre la percezione comporta mera passività dell’io, la sensazione implica un processo che vede l’io sempre attivo. Infine, si è letto che l’oggetto indeterminato, vale a dire qualunque oggetto, contenuto in una intuizione empirica, che trova corrispondenza nell’esperienza sensoriale, viene definito da Kant fenomeno. “Fenomeno” è Erscheinung e sta a indicare “quel che si manifesta, che appare”. Nell’Estetica kantiana il termine è da leggere in stretta connessione ad Anschauung, intuizione. Anschauung, da schauen guardare, sta a indicare “quel che è guardato”, mentre Erscheinung indica piuttosto “il da guardare”, “quel che appare, perché sia visto/guardato”. E difatti l’Erscheinung è l’oggetto di un’Anschauung, vale a dire che il fenomeno è oggetto di visione intuitivo-percettiva. Fenomeno è oggetto di percezione, oggetto primordiale di conoscenza, dal momento che l’atto percettivo mette in contatto, in un primo contatto, l’io con la realtà. Proseguiamo ora l’esame del testo kantiano. Nel fenomeno Kant distingue due elementi, che comunque 75 risultano inscindibilmente connessi l’un l’altro: la materia, che corrisponde alla sensazione, e la forma, che corrisponde al fatto che la molteplicità delle rappresentazioni materiali e sensibili sia di fatto ordinata “in determinati rapporti”1. Si propongono qui alcune notazioni: 1. la forma, vale a dire l’ordine che le rappresentazioni sensibili assumono di volta in volta, non può essere a sua volta oggetto di sensazione, perché non può darsi esperienza alcuna di una forma qua tale; 2. la materia del fenomeno è data sempre a posteriori, e cioè essa è relativa a un oggetto dato, di cui si ha intuizione e percezione solo in forza di un’esperienza; 3. la forma del fenomeno, invece, si trova bell’e pronta nello spirito umano come a priori, essendo parte ricettiva delle rappresentazioni. Essa prescinde da ogni possibile sensazione, precede la sensazione e pertanto risulta da essa separata. Ciò detto, Kant ipotizza ad experimentum un doppio processo di astrazione. Si formula così l’ipotesi di avere la rappresentazione di un corpo, vale a dire di essere alle prese con l’intuizione e con l’esperienza di un oggetto reale, dunque materiale. Proviamo allora a separare da tale rappresentazione: a. quel che ne pensa l’intelletto, vale a dire quel che il Verstand aggiunge all’oggetto dato, mediante la sua specifica modalità di conoscenza, secondo lo schematismo trascendentale; b. quel che appartiene alla sensazione, vale a dire quel che il sensorio tutto aggiunge, mediante la specifica moda- 1 Ivi, p. 66. 76 lità del percepire, con l’impenetrabilità dei corpi, la durezza, il calore dell’oggetto dato, ecc. Ebbene, operate tali “sottrazioni” e decurtazioni, non tutto sembra vanificare, perché qualcosa pur sempre rimane. Non arriviamo, cioè, ad annullare in toto le rappresentazioni da cui siamo partiti nella nostra ipotesi sperimentale. Dalla intuizione epirica, cui si è sottratto il lavoro concettuale dell’intelletto e la precedente e necessaria elaborazione del sensorio, rimane la forma che “ha luogo a priori nello spirito, anche senza un attuale oggetto dei sensi, o una sensazione quasi semplice forma della sensibilità”1. Lo studio delle forme pure della sensibilità è affidato all’estetica trascendentale, che costituisce la prima parte della dottrina trascendentale degli elementi ed è da distinguere dal sapere che invece contiene e studia i principi del pensiero puro, la logica trascendentale: “in questa ricerca si troverà che vi sono due forme pure di intuizione sensibile come principi della conoscenza a priori, cioè spazio e tempo”2. 7 Non andiamo oltre la nostra considerazione della Critica, ma leggiamo il § 8 su Osservazioni generali sull’estetica trascendentale. Kant riepiloga il suo pensiero circa la natura stessa della conoscenza sensibile, intesa in termini molto generali. Elenchiamo qui di se- 1 2 Ibidem Ivi, p. 67. 77 guito quei punti fermi che sono stabiliti e che fungono per noi da riepilogo di quanto si è detto: 1. la nostra intuizione altro non è se non la rappresentazione di un fenomeno, vale a dire il nostro modo di cogliere e, poi, di dire tutto quel che ci appare; 2. abbiamo intuizione delle cose, le quali, proprio in quanto oggetto, sono altro rispetto a quel che noi siamo in grado di cogliere effettivamente di esse; 3. oltre alle cose, esistono poi le relazioni tra le cose stesse, che costituiscono il mondo, la realtà complessa e globale delle cose-di-mondo. Anche queste relazioni sono diverse, di per sé, da quel che ci appaiono; sono dunque da distinguere rispetto ai fenomeni. Pertanto i rapporti tra le cose sono altro rispetto a quella rappresentazione, che sappiamo intercorrere tra esse; 4. formuliamo ora l’ipotesi della scomparsa dell’uomo dalla faccia della terra. Verrebbe così a mancare quel soggetto che percepisce, facendo esperienza di mondo. Oppure, e più semplicemente, facciamo l’ipotesi della soppressione, anche solo momentanea, della “natura soggettiva dei sensi in generale”1: quale conseguenza avremo che la natura, i rapporti tra le cose della realtà e, finalmente, le forme pure di spirito e di tempo svanirebbero addirittura nel nulla; 1 Ivi, p. 83. 78 di conseguenza, “i fenomeni non possono esistere in sé, ma soltanto in noi”1. Se, per ipotesi, venissimo meno noi, non esisterebbero neppure più i fenomeni naturali, i rapporti tra le cose e le intuizioni pure di spazio e di tempo. Fatte queste precisazioni e stabiliti così dei punti fermi, Kant deduce, e in certo qual modo sembra costretto a farlo, che è per noi del tutto “sconosciuto e inoltre è proprio inconoscibile quel che ci possa essere negli oggetti in sé e separati dalla ricettività dei nostri sensi”2. Degli oggetti, o cose di mondo, noi riusciamo a conoscere soltanto, mediante intuizioni empiriche, quel che a nostro modo percepiamo. Viene poi puntualizzato che tale modalità di ricezione non appartiene a ogni essere, ma solo a noi uomini. Da notare in questo discorso l’importanza del modo di percepire, assieme a quella dell’intuizione, a motivo del fatto che noi possiamo avere a che fare solo con esso, si può arrivare a conoscere solo quel che concerne il modo di percepire gli oggetti e non gli oggetti stessi. Di tale modalità si distinguono, come a suo tempo si è visto, delle forme pure (spazio e tempo) di una materia, che risiede nella sensazione degli oggetti dati, all’apparenza a noi esterni, o che almeno vengono sentiti come tali. Le forme sono colte a priori e corrispondono all’intuizione pura, mentre la materia viene invece colta a posteriori e corrisponde all’intuizione empirica. 5. 1 2 Ibidem Ibidem 79 A questo punto Kant nota che anche se portassimo la nostra intuizione al più alto grado di chiarezza, non potremmo mai arrivare a conoscere null’altro all’infuori del nostro modo di intuire o di percepire, nelle particolari e peculiari condizioni di spazio e di tempo. Conclude pertanto: “ma che cosa possano essere gli oggetti in se stessi, per illuminante che sia la conoscenza dei fenomeni, che soltanto ce n’è data, non ci sarebbe mai noto”1. Per quanto arriviamo a rendere chiara la conoscenza sensibile e intuitiva relativa agli oggetti per noi, vale a dire ai fenomeni (è l’oggetto che ci appare, oggetto per la nostra rappresentazione sensibile), non potremo mai arrivare a conoscere gli oggetti in se stessi e per se stessi. Più avanti, poi, Kant fa notare che comunque viviamo sempre nella illusione di poter arrivare a conoscere le cose in sé, mentre invece, si ribadisce, malgrado le più attente ricerche, non possiamo pervenire che ai fenomeni. Si conosce empiricamente non tanto il mondo reale, quanto piuttosto il mondo fenomenico. 8 Concludiamo la lettura del § 8 sulle Osservazioni generali, con un’ulteriore precisazione, che concerne il fenomeno. Si torna così a ribadire che mediante le forme pure di spazio e di tempo, vale a dire mediante l’intuizione degli oggetti esterni, e mediante l’intuizione che lo spirito ha di sé stesso con l’aiuto del senso in- 1 Ivi, p. 84. 80 terno, si approda alla percezione non tanto di oggetti in sé, quanto piuttosto del modo in cui essi appaiono a noi. Viene fatta la seguente precisazione: il fatto che ci troviamo ad avere a che fare con oggetti così come appaiono, non sta a significare affatto che gli oggetti che arriviamo in tal modo a conoscere siano una pura e semplice parvenza. In Kant “fenomeno” è Erscheinung, mentre invece Schein è “parvenza”. Apparenza/parvenza è qui considerata come qualcosa che, alla prova dei fatti, risulta fuorviante e illusoria. Troviamo infatti scritto che “sarebbe un errore se facessi una pura parvenza di ciò che invece devo considerare come fenomeno”1. Nel fenomeno gli oggetti, e assieme a essi le qualità che noi attribuiamo loro, sono da considerare come effettivamente dati. Solo pertanto per il fatto che le qualità dipendono unicamente dal modo di relazionarsi del soggetto all’oggetto che l’oggetto stesso in questione ha da essere distinto, proprio in quanto fenomeno, dall’oggetto in sé. I predicati o qualità del fenomeno vengono attribuiti all’oggetto da conoscere in relazione e dipendenza dal nostro senso. Dunque, quel che viene detto del fenomeno è strettamente connesso al rapporto tra oggetto e soggetto conoscente, a quel primo contatto che avviene tra la realtà mondana e l’io. Si pensi a esempio al color rosso di una rosa: l’oggetto “rosa” è rosso soltanto in quanto entra in relazione con la sensibilità del nostro “io”. 1 Ivi, p. 90. Altre traduzioni rendono con “apparenza” il termine Er- scheinung, ma poi fanno corrispondere Schein a “illusione”. 81 Kant nota così come l’attribuzione di predicati all’oggetto può avvenire solo mediante il rapportarsi con il senso. Proviamo a dirlo diversamente: non si può attribuire di per sé un qualsiasi predicato, il medesimo predicato di un fenomeno all’oggetto inteso quale “semplice parvenza”, all’oggetto di cui non si ha esperienza sensibile. In quest’ultimo caso, infatti, “si verrebbe ad attribuire all’oggetto per sé, ciò che invece gli può convenire solo in rapporto ai sensi o in generale al soggetto”1. Qui Kant ribadisce con efficacia quanto già detto precedentemente a proposito di realtà e di idealità, di realtà empirica e di idealità trascendentale di spazio e di tempo, in relazione al fenomeno, vale a dire all’oggetto per noi della conoscenza empirica. Troviamo così scritto che “fenomeno è ciò che non appartiene all’oggetto in se stesso, ma si trova sempre nel rapporto di esso [oggetto] col soggetto ed è inseparabile dalla rappresentazione di questo [soggetto]”2. Pertanto il fenomeno, inseparabile dalla rappresentazione che di esso si fa il soggetto conoscente, di per sé non appartiene all’oggetto dato, ma neppure si può sostenere, nota Kant, che appartenga al soggetto. Ci si pone così sia contro il realismo ingenuo, sia contro l’idealismo acritico e assoluto. Si dà fenomeno, allora, soltanto e unicamente all’interno di una ben precisa relazione tra soggetto e oggetto, nel contatto tra i due 1 2 Ibidem Ivi, p. 90. 82 protagonisti, entrambi necessari per la intuizione empirica. Quando si crede di poter attribuire predicati agli oggetti in sé e per sé considerati, e non agli oggetti per i nostri sensi, ignorando così il rapporto indispensabile dell’oggetto in questione con il soggetto (ignorando che l’oggetto è sempre e soltanto oggetto per noi), allora non ci troviamo più alla presenza di una fenomeno, ma di una parvenza o di una illusione. È l’illusione che possa esistere, che si dia a noi, una realtà a se stante, indipendente dal nostro io che tende a conoscerla; meglio ancora, ci si illude che possa essere conosciuta una realtà esterna qua tale, vale a dire staccata da ogni relazione con il noi soggetto che conosce. Pertanto, e concludendo, un quid che sia altro, totalmente altro da noi potrà pure esistere, ma al di fuori del suo darsi a noi esso sarebbe per noi irraggiungibile, proprio perché alterità assoluta, ab-soluta sciolta da condizionamenti, e cioè svincolata da qualsiasi relazione. Accade infatti che proprio nel momento in cui noi giungiamo a descrivere e a conoscere l’oggetto dato quale oggetto altro, noi lo rielaboriamo e lo trasformiamo di stretta necessità. Questo altro da noi, allora, da realtà in sé e per sé diviene, mediante trasformazione empirica, una realtà per noi. Con Kant di fatto è impossibile portare l’indagine sulla realtà tout court; non è poi nemmeno possibile, però, indagare sul soggetto per sé considerato (si è visto, difatti, come Kant sia contro il realismo, ma anche 83 contro l’idealismo). Il “luogo” teoretico in cui è possibile e necessario condurre l’indagine, allora, è quello del rapporto tra soggetto e oggetto, chiarendo però che non si è mai collocati in una posizione del tutto neutrale, perché pur sempre situati dal punto di vista del soggetto stesso. In tale luogo arrivano a costituirsi sia la realtà oggettuale per noi, il mondo dei fenomeni, sia il soggetto conoscente, che non esiste mai quale struttura vuota, del tutto priva di un qualsiasi contenuto. 84 PARTE SECONDA. HUSSERL, I 1 Platone, Cartesio e Kant sembrano indirizzarci al dialogo con un altro filosofo, Edmund Husserl. La filosofia, ci dice Platone, ha origine nel thaumazein, il “provar stupore” al cospetto dei phainomena, di fronte alle “apparenze” delle cose. Cartesio, poi, si chiede se e come possiamo assicurarci che le rappresentazioni mentali, quel che ci appare nella sfera dell’immaginario, siano reali, quale corpo-altro rispetto al nostro “io penso” (cogito). Kant sembra voler evitare dubbi, confusioni e situazioni teoretiche di stallo: con l’esclusione di Dio quale “oggetto” di discorso si pone nell’impossibilità di assicurarsi la garanzia della verità come adaequatio. Egli opera così una decisa e netta scelta di campo a favore del soggetto conoscente, sostenendo di voler portare l’indagine unicamente sulla struttura trascendentale dell’io penso, dal momento che le cose, gli oggetti intesi in sé e per sé e di cui c’è comunque da ipotizzare l’esistenza, gli oggetti che si danno a noi, sono di fatto inconoscibili. Nel pensiero contemporaneo Edmund Husserl è quel pensatore che potrebbe a buon diritto essere definito il “continuatore”, anche se critico come si vedrà, di Cartesio e di Kant, proprio per il suo intento di elaborare una fenomenologia trascendentale. Da Cartesio egli eredita, con la sua epoché, il dubbio metodico; da Kant, invece, l’attenzione al fenomeno, anche se si dovrà marcare una ben precisa di- 85 stinzione tra fenomenologia trascendentale husserliana e trascendentalismo kantiano. 2 Per introdurci al pensiero di Husserl, occupiamoci di un breve scritto del 1910, uno dei primi da lui pubblicati, in certo qual modo programmatico, intitolato La filosofia come scienza rigorosa. In esso si delinea una di quelle che saranno poi le idee guida del pensiero husserliano: l’idea che ha della filosofia il pensatore, in relazione agli altri saperi e alle altre scienze. Leggiamo la Premessa: “fin dal suo primo inizio la filosofia ha preteso di diventare scienza rigorosa, anzi di esser tale scienza da poter soddisfare alle più alte esigenze teoretiche e di render possibile, da un punto di vista etico-religioso, una vita guidata da norme razionali pure. È questa una pretesa che si è fatta valere or con maggiore ed or con minore energia, ma che non è mai stata abbandonata, nemmeno nel tempo in cui gli interessi e le attitudini per la teoria pura han minacciato di rovinare, o in cui le forze della religione hanno vincolato la libertà della ricerca teoretica”1. La filosofia ha da sempre preteso di poter divenire scienza rigorosa, anche quando ha creduto di poter svolgere il compito di guida con norme razionali, elaborate però da un punto di vista etico e/o religioso; tale pretesa non è mai stata abbandonata, anche quando le “forze della religione” hanno in certo qual senso contri1 E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, Torino, Paravia, 1958, p. 1. 86 buito a inquinare la ricerca teoretica, vale a dire quando la filosofia si è mossa in “luogo” teologico. Insomma, l’ethos proprio della moderna filosofia consiste nel fatto che essa tende ad affinare sempre più la propria metodologia, per arrivare finalmente a costituirsi come scienza rigorosa: “ma l’unico frutto maturo di questi tentativi è stata la fondazione e l’autonomia delle scienze rigorose della natura e dello spirito, insieme a nuove discipline matematiche”1. Dunque le scienze, sia quelle della natura sia quelle dello spirito, acquistano sempre maggiore rigore, mentre la filosofia, che pure continua a mantenere con tali saperi un certo rapporto, a tal punto che almeno per le scienze dello spirito si è indotti a dubitare della loro autonomia da essa, non consegue rigore: “il senso proprio dei problemi filosofici non ha mai raggiunto il livello di una spiegazione scientifica”2. Questo capita, nonostante che la filosofia rappresenti “l’immortale pretesa dell’umanità a una conoscenza pura e assoluta”3. Inoltre la filosofia, proprio perché non produce conoscenze certe, è incapace di un insegnamento che abbia validità oggettiva. È interessante notare come qui Husserl citi Kant (si tratta della medesima citazione, a suo tempo da noi stessi proposta), il quale nell’Antropologia pragmatica sosteneva che non si può insegnare la filosofia, ma soltanto a filosofare, propo1 2 3 Ivi, p. 2. Ibidem Ivi, p. 3. 87 nendo così una sorta di “pratica teorica” o una metodologia del pensiero. Questo accade proprio perché la filosofia non è (ancora) una scienza. Se invece lo fosse, sarebbe comunicabile e pertanto anche insegnabile: “se la filosofia non la si può apprendere, gli è perché essa non presenta vedute intellettuali fondate e comprese in maniera oggettiva, cioè perché essa manca tutt’ora di problemi, metodi e teorie che siano concettualmente ben determinati”1. Si discetta ancora sulla differenza tra scienze e filosofia. La filosofia non è affatto da considerare una scienza imperfetta, perché non è affatto una scienza: come tale, insomma, non ha ancora cominciato a esistere. Tutte le scienze, in fondo, sono da considerare imperfette, eppure nessuno può certo “dubitare della verità oggettiva (o anche della probabilità oggettivamente fondata) delle teorie matematiche e scientifiche”2. Nel campo delle scienze non c’è più posto per “opinioni, intuizioni e punti di vista particolari di qualcuno”3. Se questo capita in campo scientifico, si dice che il sapere con cui si ha a che fare deve ancora assurgere al rango di autentica scienza. La filosofia non è scienza, perché ancora “imperfetta”, ma perché in essa “tutto è soggetto a controversia, ogni presa di posizione è solo frutto di convinzione personale o di interpretazione 1 2 3 ibidem Ivi, p. 4. Ibidem 88 propria di una scuola, tutto è questione di punto di vista”1. Si cominci qui col notare come Husserl sostenga, a nostro avviso giustamente, come la filosofia da sempre sia stata fatta coincidere con l’ermeneutica; inoltre sostiene che la filosofia, proprio per il fatto che intenda proporsi come scienza, debba puntare alla ricerca di una “verità oggettiva”, non più soggetta alle opinioni di ciascuno e di tutti, e dunque al di fuori da una prospettiva ermeneutica, fondata sempre e immancabilmente su un punto di vista che è relativo. 3 Ci si chiede poi se la filosofia voglia (e possa) mantenersi fedele allo scopo di diventare scienza rigorosa. Per il suo progresso in questa direzione sono decisivi i momenti storici in cui avvengono vere e proprie rivoluzioni epistemologiche, dovute al fatto che dei pensatori criticano alla radice metodologica le pretese che hanno le filosofie precedenti di costituirsi come “scienze”. Husserl fa cenno al “rivolgimento” socraticoplatonico, alla rivoluzione di Cartesio, agli albori del pensiero moderno, in reazione alla scolastica e infine alla più radicale critica della ragione in Kant. Nella filosofia romantica, però, tale atteggiamento muta. Hegel, a esempio, da una parte tiene ferma la validità oggettiva e assoluta del suo metodo di ricerca e della sua dottrina, d’altra parte, però, mancando il suo sistema di 1 Ivi, p. 5. 89 un’adeguata critica della ragione, che è l’unica a rendere possibile la scientificità in filosofia, arriva addirittura a falsificare la tendenza della filosofia a costituirsi scienza rigorosa. Dopo Hegel si affermano il naturalismo e lo storicismo, che con il loro scetticismo negano la validità assoluta della parola filosofica, ridotta oramai a Weltanschauung. Si è così pervenuti a una sorta di deviazione psicologico-irrazionalistica dell’impulso filosofico, con accentuazione della soggettività e perdita conseguente del valore scientifico. Ogni filosofia troverebbe, infatti, il suo valore e la sua giustificazione soltanto nella relazione al proprio tempo storico. Fatta questa premessa, in due brevi capitoli Husserl critica la “filosofia naturalistica” e lo storicismo o filosofia della Weltanschauung. Portiamo ora la nostra attenzione alla Conclusione, dove si ipotizza una svolta della filosofia moderna, che prende le distanze dall’atteggiamento scettico per instradarsi verso la scienza, fondandosi oramai su basi sicure e seguendo un metodo finalmente rigoroso. La scienza è un valore. Anche la Weltanschauung naturalmente lo è, ma si tratta di stabilire una netta differenza tra le due Weltanschauung è un habitus fondato sulla singola e individuale personalità, mentre la scienza è una “formazione collettiva”, creatasi mediante il lavoro di generazioni di scienziati. Essendo diversa la fonte stessa del valore, restano distinte le funzioni, il modo di operare e di insegnare. 90 La Weltanschauung “insegna nello stesso senso in cui insegna la saggezza; una personalità si rivolge ad un’altra; come maestro, secondo lo stile di questa filosofia, può rivolgersi alla più ampia sfera di pubblico sol colui che vi sia chiamato per una particolarità significativa del suo carattere e per saggezza propria”1. La scienza, invece, è impersonale: gli operatori scientifici non hanno bisogno di essere o risultare “saggi”, ma di possedere doti teoretiche. Leggiamo così che “profondità è affare di saggezza, chiarezza scientifica è affare di teoria rigorosa. Il processo essenziale della ricostituzione della scienza rigorosa sta nel trasformare le intuizioni profonde in forme razionali inequivocabili. Anche le scienze esatte ebbero il loro lungo periodo di “profondità”, e come le scienze nelle lotte del Rinascimento, così, oso sperare, la filosofia nelle lotte del nostro tempo passerà dallo stato della profondità a quello della chiarezza scientifica”2. La scienza, quale valore, è una realtà che s’impone nel nostro tempo storico; è anche per questo motivo che s’intende pervenire a una filosofia che sia scienza, perché essa stessa acquisti realtà e rigore. Per conseguire tale scopo bisogna soddisfare alcune condizioni. Anzitutto “non accettiamo nulla come già dato, né lasciamo valere come punto di partenza quel che ci è stato tramandato e che non ci lasciamo abbacinare dalla grandezza di un Nome, ma in pura dedizione al problema stesso e alle istanze che ne derivano, cerchiamo di 1 2 Ivi, p. 81. Ivi, p. 82. 91 guadagnare il cominciamento; così ci saremo attenuti al radicalismo che è proprio ed essenziale alla autentica scienza filosofica”1. Analogamente a quel che osserva Cartesio nel suo Discorso, Husserl prende le distanze dalla tradizione, da quel che è il gia dato delle filosofie precedenti. Nemmeno l’autorità dell’ipse dixit potrebbe indurci a credere in qualcosa che appartiene a una Weltanschauung, piuttosto che a una verità scientifica. Husserl si rende ben conto che la sua posizione, tesa a esser dediti unicamente “al problema stesso [della filosofia come scienza] e alle istanze che ne derivano”, si attiene al radicalismo, perché propone uno stacco netto rispetto alla storia del pensiero occidentale. Certo la storia potrà essere ancora di aiuto, ma solo perché si possa essere in qualche modo ispirati dalle analoghe svolte teoriche accadute nel tempo e dal loro “contenuto spirituale”, che testimoniano della vitalità della filosofia in ogni tempo. Leggiamo, così, che “non diventiamo filosofi attraverso le filosofie. Rimanere legati alla storia, cercare di occuparsene in un’attività storico-critica, e voler raggiungere la scienza filosofica, mediante un’elaborazione eclettica o in un anacronistico ”rinascimento”, tutto ciò non porta che a tentativi senza speranza. L’impulso alla ricerca non de- ve provenire dalle filosofie, ma dalle “cose” e dai problemi”2. 1 2 Ivi, p. 83. Ibidem 92 4 La filosofia deve svolgere finalmente il suo compito radicale, risalendo sino ai suoi principi e alle sue origini. Deve conseguire lo scopo di pervenire al cominciamento: “i suoi assolutamente chiari problemi, i metodi delineati entro il significato proprio di questi problemi, e prima che abbia trovato il campo ultimo di lavoro, in cui si danno le “cose” con chiarezza assoluta”1. C’è una precisazione che riguarda le “cose”. Husserl invita a non scambiare le “cose” cui fa riferimento con i fatti empirici, perché l’attenzione ai fatti, tipica di un ingenuo e superficiale pragmatismo, dimentica che la scienza filosofica ha sempre piuttosto a che fare con idee, che “sono date in gran copia e in maniera assoluta alla intuizione immediata”. Si tratta allora di prendere atto delle cose-di-pensiero, non venendo però mai meno al principio della “radicale assenza di pregiudizio”. Infine una nota circa il metodo. Ciascuno deve oramai “vedere con i propri occhi”, non falsando sotto l’effetto di pregiudizi quel che effettivamente si è visto. Circa i metodo, e proprio a motivo dell’idea di visione ora delineata, Husserl prende le distanze dalle scienze fisico-matematiche, che pure apparivano costituire un vero e proprio modello. Leggiamo che “poiché è nelle più notevoli scienze moderne, nelle scienze fisico-matematiche che la parte esteriorizzante più grande di lavoro procede secondo 1 Ivi, p. 84. Si consideri qui l’analogia con la prospettiva cartesiana dell’ideale dell’evidenza e della chiarezza e distinzione delle idée. 93 metodi indiretti, noi siamo portati a sopravvalutare i metodi indiretti e a disconoscere il valore delle prensioni dirette”1. La realtà non viene colta dalla ragione filosofica e scientifica indirettamente, ma mediante “prensione” diretta, la “prensione [intuizione] fenomenologica di essenza”, che ottiene “una gran quantità di conoscenze rigorosissime, decisive per ogni ulteriore filosofia”. Si noti qui, anzitutto, la netta presa di distanza dal Kant della Critica della Ragion Pura, il quale sostiene che il Verstand e la Vernunft non contattano direttamente la realtà oggettuale, ma solo indirettamente. Ancora di più: Kant parla di “intuizione pura” quale condizione di possibilità dell’esperienza sensibile, per una conoscenza non ancora proposta nella sfera dell’eidetica, il campo proprio della Logica. Husserl, invece, sta qui parlando della scienza filosofica, fondata sull’esercizio della ragione e sostiene l’idea metodologica di una visione delle cose in presa diretta per una “prensione” delle essenze (eide), che appaiono a noi per quel che sono, al di qua degli eventuali pregiudizi che su di esse si possano avere. Inoltre Husserl individua in questo sapere primo della fenomenologia di essenze il principio e il fondamento di ogni filosofia che voglia trovare i modi di costituirsi come scienza rigorosa: la fenomenologia trascendentale come filosofia prima, dunque. 1 Ivi, p. 84. 94 5 La Filosofia come scienza rigorosa, un testo programmatico di Husserl, non è certo però il suo primo scritto. Il saggio fa da spartiacque tra i primi e importanti scritti husserliani e le opere che potremmo definire della maturità. Si è detto come le due parti centrali del testo, dedicate a una critica del naturalismo e dello storicismo, siano indicative della temperie in cui andava a inserirsi la problematica husserliana. Vediamo ora le cose più da vicino, vale a dire valutiamo il particolare climax culturale che il giovane Husserl viveva per comprendere meglio la sua stessa reazione e la ricerca conseguente di una metodologia teoretica di innovazione. La fenomenologia husserliana nasce nel periodo convenzionalmente detto della “reazione al positivismo”, tra la fine dell’800 e i primi trenta anni del ‘900. Dopo il crollo degli ambiziosi propositi dell’idealismo, si assisteva ora alla radicale messa in crisi dei principi stessi del positivismo. In particolare Husserl prende le distanze in modo netto dal naturalismo empirista, che faceva da base teoretica alle scienze positive della natura. Reagendo al positivismo, la fenomenologia husserliana, poi, carezza l’ambizioso proposito di mettere in questione la tradizione scientifica europea, per aprire la strada a una filosofia prima, che possa proporsi sino in fondo come rigorosamente scientifica e fare così da supporto indispensabile, poi, per qualsiasi scienza. 95 I primi interessi di Husserl sono matematici, sulla scorta e sulle indicazioni del suo maestro Brentano. Nella Filosofia dell’aritmetica (1891) egli entra nella polemica assai viva nella Germania del tempo tra psicologisti e logicisti. Le origini della controversia sono antiche e tradizionali nel pensiero europeo. Nel Medioevo la disputa prende il nome di “problemi degli universali” e divide il campo tra nominalisti e realisti. I nominalisti negano il carattere di realtà separata e di essenza indipendente rispetto ai termini universali o alle categorie che riconducono piuttosto a un’attività mentale del soggetto conoscente. I nominalisti possono essere equiparati agli psicologisti del tempo di Husserl, per i quali ogni “realtà” è un prodotto della psiche. I realisti, invece, credono di poter affermare che i termini logici abbiano un valore di realtà in sé e per sé e che pertanto non possono affatto essere dipendenti dalla situazione dinamica aleatoria e occasionale di associazioni mentali o psichiche del singolo soggetto che pensa. 6 A lungo incerto tra queste due posizioni, Husserl finisce poi per concepire il proposito ambizioso di un superamento di entrambe, che verrebbe compiuto nella sua fenomenologia trascendentale. Mette in crisi lo psicologismo, ereditato da Brentano, la conoscenza dell’opera di Bolzano, matematico e filosofo leibniziano, che elabora una teoria oggettivi- 96 stica della proposizione, della verità e della rappresentazione considerate “in sé”. La scienza non è pertanto studiata come elaborazione psichica del soggetto conoscente, ma secondo una sua struttura oggettiva e logica. Tale struttura, per Bolzano, è del tutto indipendente dall’attività della coscienza, che pure la concepisce, così come si deve distinguere il contenuto di una proposizione dalla sua espressione verbale. Il concetto, insomma, è da distinguere dal termine o dal nome che lo “rappresenta”. Di qui il carattere dell’“in sé”: gli oggetti del pensiero sono irreali e mantengono questo carattere anche quando sono pensati, vale a dire inseriti nella serie reale degli accadimenti e delle produzioni psichiche. Sotto l’ispirazione dell’”oggetto in sé” di Bolzano, dunque, Husserl comincia a impostare il problema delle essenze, delle “figure essenziali” immanenti al divenire di ogni esperienza e senza le quali la scienza stessa, quella empirica e positiva, non sarebbe possibile. È il problema stesso di Platone, delle idee platoniche, che rivive in forme nuove in ogni età e in ogni pensatore; se non lo si affronta, non si potrà mai fondare una scienza, con la pretesa di universalità, che sia veramente rigorosa. Husserl perviene così in un “luogo” teoretico, al di là dei contrasti tra psicologismo e logicismo. Difatti mentre lo psicologismo non conseguiva l’universalità e l’oggettività, il logicismo falliva anch’esso tale compito perché, con il procedere astratto e formale, non comprendeva l’autentica origine del lavoro 97 e del discorso scientifici, che si fondano sempre su esperienze singolari e individuali. L’origine della scienza e ancora prima della fenomenologia quale filosofia prima, proposta a fondazione del sapere scientifico è nell’intuizione, nella capacità di intuire e di “vedere” le figure essenziali che costituiscono le strutture stesse della nostra esperienza, strutture che sono sempre alla portata di tutti, anche se di esse non sempre ne abbiamo chiara coscienza. Ben consapevole di essere tra, di operare una scelta di campo tra esterno e interno, nella elaborazione del proprio pensiero Husserl collega l’influenza in certo qual modo contrastante dei suoi due maestri. D’accordo con Brentano, pone a fondamento della sua ricerca il concetto di intenzionalità, secondo il quale la coscienza “intenziona” il proprio oggetto, vale a dire essa significa sempre qualche cosa: insomma, non si dà mai una coscienza pura e vuota, ma sempre e soltanto una coscienza di (qualcosa). D’accordo poi con Bolzano, riconosce agli oggetti/cose, intenzionati dalla coscienza, il valore di figure essenziali di universali che per un verso sono irreali (non materiali o meramente psicologici) e per altro verso hanno una funzione di realtà, nei casi particolari di esperienze dirette di mondo. 7 Dopo un decennio di ricerche, testimoniato da scritti minori, nel 1913 Husserl pubblica le Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologia 98 (Ideen I): si tratta del vero e proprio atto di nascita della fenomenologia trascendentale. È d’importanza davvero decisiva, per i nostri scopi, la prima sezione, nella quale si riassumono la Ricerche logiche, intitolata Essenza e conoscenza di essenza. Nel primo paragrafo di questa sezione, su Conoscenza naturale ed esperienza, si osserva che le scienze si fondano su visioni originariamente afferenti. Significa che esse si basano su esperienze originarie che danno rappresentazione della cosa nell’originale e non per meri simboli o astrazioni. Simboli e astrazioni rinviano sempre infatti a un’esperienza originaria, che nel caso di realtà fisiche coincide con la percezione “esterna”, mentre in quello di realtà psichiche con la percezione “interna”, o autopercezione. Tutte le scienze di esperienza fanno riferimento al mondo, come campo generale di indagine; queste scienze sono “scienze dei dati di fatto”. Proseguiamo la lettura: “le scienze di esperienza sono scienze dei dati di fatto. Gli atti costitutivi dell’esperienza pongono il reale individualmente, come esistente nel tempo e nello spazio…”. Husserl sembra qui voler far propria la lezione kantiana dell’Estetica, sostenendo che l’oggetto reale è quello che si dà a noi per il tramite delle “forme” di spazio e di tempo. Vediamo ora cosa si dice ancora dell’oggetto di esperienza, tutt’uno col dato di fatto delle scienze empiriche. Anzitutto l’essere proprio dell’oggetto individuale è del tutto casuale. Di esso possiamo infatti affermare: è così, vale a dire esso ha questo status es- 99 senziale, ma avrebbe anche potuto essere diversamente. Insomma, le cose (individuali) di mondo non sono affatto necessarie: le leggi di natura possono pertanto stabilire con una certa precisione che, date certe e particolari circostanze, si danno certe e non altre conseguenze, come dati di fatto. Allora le leggi e le regole di natura sono “fattizie”, perché legate all’individualità esperienziale. Appena, però, stabiliamo che, a motivo di un certo contesto circostanziale, la fatticità comporta una necessità, ecco che, con l’emergere di una regola per la cosa esperita, si affaccia il senso di una universalità. Scrive Husserl: “dicendo: ogni dato di fatto potrebbe “per essenza” essere diverso da quello che è, lasciammo già intendere che al senso di ogni essere casuale si conviene di avere appunto un’essenza, un eidos afferrabile a priori e che questa essenza si inserisce in una gerarchia di verità essenziali di diverso grado di generalità. Un oggetto individuale non è qualcosa di semplicemente individuale, un effimero “questo qui”, ma, in quanto è in se stesso così e così costituito, possiede come propria caratteristica dei predicati essenziali, che necessariamente gli competono (competono all’ente in se stesso)”1. Qui per la prima volta compare il concetto di essenza (eidos). Nel dato di fatto individuale, nella considerazione del “questo qui” che viene esperito, c’è l’eventualità nel suo darsi (es gibt) e casualità. L’individuo 1 E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologia, Milano, il Saggiatore, p. 38 100 può essere quel che è, ma avrebbe potuto anche non essere. D’altra parte, però, per il fatto stesso che l’individuo sia determinato da circostanze, da altro-da-sé e da altri dati di fatto, sta a significare che per esso si può stabilire una necessità: esso doveva essere così e così e non poteva che essere tale quale effettivamente è. Si stabilisce così una norma/legge del suo essere, che travalica questo individuo qui, perché assume carattere di universalità. In queste, determinate circostanze, e soltanto in queste, si dà la particolare essenza, che accomuna o può accomunare poi questo individuo anche ad altri della medesima specie. Ogni cosa materiale, perciò, ha una sua specificità essenziale ed è anzitutto quella “cosa materiale in generale”; quindi ha una determinazione specifica e circostanziata da tempo, durata, figura, ecc. Quello che appartiene all’essenza di un individuo può così appartenere, per specificità di essenza, anche ad altri individui, a categorie intere di individui. 8 Vediamo ora la definizione di “essenza”: “indico anzitutto ciò che si trova nell’essere proprio di un individuo come sui quid. Ma ogni simile quid può venir “messo in idea”. Una visione empirica o individuale può essere trasformata in visione di essenza (ideazione) dove questa stessa possibilità è da intendere come essenziale e non empirica”1. 1 Ibidem 101 Nel cogliere percettivamente il dato di fatto empirico si ha visione del quid di esso, ma allo stesso tempo tale visione si trasforma in visione di essenza, vale a dire in ideazione o intuizione (Anschauung). Questo sta a significare che nell’atto esperienziale rivolto alla cosa materiale si arriva a cogliere, mediante visione o intuizione, quel che è l’essenza o idea della cosa stessa. Si legge subito dopo, difatti, che “l’elemento intuito consiste quindi nella corrispondente essenza pura o eidos”. La visione che permette di cogliere l’essenza delle cose può poi essere adeguata o inadeguata. Essa è adeguata quando le essenze si offrono alla nostra visione solo “da un lato” o anche da più lati, ma mai possono offrirsi “da tutti i lati”, come sarebbe necessario per poter avere effettivamente visioni di essenza perfettamente adeguate. A esempio, una cosa fisica, quale figura spaziale, si offre soltanto e per principio attraverso “adombramenti” unilaterali. Accade allora che per quanto la figura possa di volta in volta arricchirsi di altre visioni, corrispondenti ad altri “lati” della cosa, in consonanza della multilateralità dell’esperienza che si va facendo, di fatto non si arrivano mai a esaurire le più minute determinazioni e si cade in un processo che si svolge ad infinitum. Insomma, nessuna cosa può mai offrirsi al nostro “sguardo”, alla nostra visione di essenza, nella sua totalità, perché non si è in possesso in realtà di uno sguardo panoramico. Questa non è da considerare una imperfezione della cosa, ma il suo stesso essere costitutivo. Le cose e il loro darsi quali fenomeni vanno a coincidere: il 102 darsi è per adombramenti e questo è il proprium della cosa spaziale: è ciò per cui essa è spaziale e non ha un altro modo possibile di essere. Neppure Dio, il creatore di ogni cosa, dirà Husserl, potrebbe avere visione di una cosa spaziale che tradisca il suo modo di darsi o lo “superi”. La cosa spaziale non potrà essere vista nemmeno da Dio stesso “da tutti i lati”, così come l’onnipotenza di dio non potrebbe arrivare a suonare su violini una funzione ellittica. Adeguata o no, la visione empirica individuale può trasformarsi in visione di essenza (eidos), che è oggetto di una nuova specie. Vediamo di arrivare a stabilire ora un punto fermo. Husserl ci ha portati dalla considerazione del questo qui percettivo, della cosa sottoposta a visione e a visione di essenza, all’oggetto di esperienza. Leggiamo: “la visione empirica, in specie l’esperienza, è coscienza di un oggetto individuale; in quanto è visione lo porta a datità [dato di fatto]; in quanto è percezione, lo porta a datità originaria, ossia a consapevolezza di afferrare l’oggetto nell’originale “in carne e ossa””1. La visione di essenza prende consapevolezza di cogliere l’oggetto che si dà “in se stesso”. Tale oggetto, successivamente, potrà anche essere “soggetto” per altre predicazioni, vere o false che siano, ma è importante questa sua prima e originaria determinazione, che è ancora antepredicativa. Proseguiamo la lettura: “ogni possibile oggetto, in termini logici ogni soggetto di possibili predicati veri, ha appunto le sue maniere di 1 Ivi, p. 40 103 presentarsi ad uno sguardo capace di rappresentarlo, di vederlo, di coglierlo nell’originale, prima di ogni pensiero predicativo”1. L’intuizione individuale e la visione essenziale sono una sorta di binomio inscindibile. Non è possibile “vedere” un individuo, senza al tempo stesso e immancabilmente vederne anche l’essenza, perché solo quest’ultima è in grado di render conto di quel particolare individuo, di quel certo e determinato individuo. D’altra parte, c’è anche da osservare e da aggiungere che le essenze non possano sussistere separatamente dagli individui, in quanto esse stanno negli individui come loro forma determinante e al di fuori di tale relazione non hanno alcun essere. Alle differenze tra le due visioni (individuale ed essenziale) corrispondono le relazioni tra esistenza, nel senso dell’esistere individualmente, ed essenza, tra dato di fatto ed eidos. 9 Più avanti, cap. II, § 24, proprio in considerazione del suo punto di partenza determinato dai dati di fatto, Husserl rivaluta l’empirismo, anche se ancora una volta intende demarcare, rispetto a esso, una precisa distinzione, mostrandone “pregiudizi” e “fraintendimenti naturalistici”. Proseguiamo la lettura del testo: “giudicare le cose razionalmente o scientificamente significa volgersi “alle cose stesse”, risalire dai discorsi e dalle opinioni 1 Ibidem 104 alle cose, interrogarle nel loro offrirsi ed eliminare tutti i pregiudizi a esse estranei”1. Cadendo in un equivoco, l’empirismo crede, però, di dire in altro modo quel che sostiene lo stesso Husserl quando afferma che tutte le scienze hanno origine dall’esperienza. Vediamo allora la puntualizzazione che viene proposta. L’empirista pensa che la scienza vera possa identificarsi con la scienza sperimentale; pertanto propone di stare ai dati di fatto, mettendo al bando idee o essenze, quali veri e propri “spettri metafisici”. La vera scienza è quella effettuale, che si fonda sui dati di fatto. Tutto quel che non è realtà, per essa è immaginazione ed una scienza che si fondi sull’immaginazione è di per sé una scienza immaginaria, vale a dire un discorso non scientifico. Naturalmente la scienza della natura non contesta la realtà delle immaginazioni, le quali però in quanto dati di fatto psichici devono rientrare nella scienza della psiche, la psicologia. Da contestare è l’operazione intellettuale, che porta dalle immaginazioni, in virtù della visione essenziale eidetica fondata proprio su di esse, alla considerazione degli oggetti irreali. Insomma, la scienza naturalistica contesta a Husserl una specie di “acrobazia ideologica”, con costruzione speculativa a priori di marca idealistica. Alla critica che viene dal mondo della scienza Husserl risponde, sostenendo che quel che afferma l’empirista si fonda semplicemente su fraintendimenti e su pregiudizi: “l’errore di principio dell’argomentazione 1 Ivi, p. 43. 105 empiristica sta nell’identificare o scambiare la fondamentale esigenza di un ritorno alle “cose stesse” con l’esigenza di ridurre all’esperienza ogni fondazione della conoscenza. Per lui [per l’empirista], data la comprensibile restrizione naturalistica della sfera delle cose conoscibili, l’esperienza è senz’altro l’unico atto capace di offrire le cose. Ma le cose non sono senz’altro cose della natura, la realtà nel senso usuale non è senz’altro la realtà in generale e quell’atto originariamente offerente che diciamo esperienza si riferisce soltanto alla realtà della natura”1. L’empirista confonde l’esigenza del “ritorno” alle cose stesse o ai dati di fatto con l’altra esigenza riduzionistica, di per sé, di limitare la fondazione stessa della conoscenza all’esperienza. Ancora di più: l’empirista naturalista riduce la conoscenza alla sfera delle cose soggette alla sensibilità, non comprendendo che le cose in generale, che pure sono cose di natura, non coincidono affatto in modo esaustivo con esse. Compiere l’identificazione tra cose naturali, di cui si può avere esperienza sensibile, e cose in generale, è un’operazione che viene considerata ovvia e legittima; essa è però fonte di fraintendimento, dal momento che è proprio l’ovvietà inindagata a indurre all’errore. La critica di Husserl va poi ancora più a fondo, per mostrare come l’empirista nella sua considerazione della conoscenza faccia valere un pregiudizio di fondo, relativo proprio alla fondazione empirica della stessa co1 Ivi, p. 44. 106 noscenza. L’esperienza diretta cui crede di doversi e volersi appellare, quale unico input della conoscenza, fornisce solo singolarità e nessuna generalità o universalità. L’esperienza, dunque, così come la intende l’empirista naturalista, non è sufficiente. D’altra parte, egli non può fare appello, come invece fa Husserl, alla visione di essenze, perché le nega di principio, appellandosi unicamente all’induzione in uno con quel complesso di ragionamenti mediati, per mezzo dei quali la scienza empirica perviene ai suoi principi generali. A questo punto ci si chiede: di che natura è la verità dei principi mediati, induttivi o deduttivi che essi siano? Tale verità è forse percepibile? Di che natura sono poi i principi che reggono le modalità di ragionamento dell’empirismo? Empirica, forse? In conclusione, “pare proprio che gli empiristi non si siano accorti che le pretese scientifiche, da loro sollevate nelle loro tesi, si ritorcano contro quelle stesse tesi”. Difatti è proprio assurdo e contraddittorio affermare, quale principio, che “tutti i giudizi si debbano fondare sull’esperienza empirica”: questa affermazione è manifestamente non vera, non valida universalmente, in quanto essa non si fonda sull’esperienza empirica. Il principio enunciato risulta pertanto falso, proprio in base al suo stesso enunciato, che impone il doversi fondare tutti i giudizi sull’esperienza empirica. Husserl affonda poi la sua critica, mostrando come la presa di distanze dall’empirismo, legato alle scienze della natura, nei confronti delle filosofie, intese ideologicamente, risulti davvero illusorio, poiché essi 107 stessi soffrono, proprio nei loro principi, di pregiudizi di fondo. Gli empiristi criticano, infatti, i filosofi in quanto ideologi, con teorie astratte e preconcette. In realtà sono loro stessi ad avere teorie preconcette e pertanto risultano sin troppo simili a quei filosofi che criticano. 10 A questo punto, prendendo le distanze dall’empirismo naturalistico, con la sua visione di essenze di stampo fenomenologico Husserl arriva a smarcarsi anche da prospettive filosofiche: “mentre essi [gli empiristi naturalistici] da veri filosofi che partono da un determinato punto di vista e in palese contraddizione con il loro principio della libertà da ogni pregiudizio prendono le mosse da opinioni non chiarite e non fondate, noi partiamo da ciò che sta prima di tutti i punti di vista: dalla sfera complessiva del dato visibile anteriore ad ogni pensare teorizzante da tutto ciò che si può immediatamente vedere e afferrare, purché non ci si lasci accecare dai pregiudizi e distogliere dal prendere in considerazione intere classi di dati genuini”1. Ricordiamo qui quanto asserisce Husserl nella Filosofia come scienza rigorosa: le filosofie non conseguono alcuna verità oggettiva, perché non hanno il rigore metodologico della scienza. In esse tutto è soggetto a controversia, le prese di posizioni sono arbitrarie e fondate su convincimenti personali, su interpretazione e su punti di vista. 1 Ivi, pp. 46-7. 108 Qui si sostiene che la conoscenza dell’empirismo naturalistico è ben lungi dall’essere scientifica, perché l’empirista si comporta come il filosofo, fondando il proprio ragionamento, il proprio input conoscitivo, su un punto di vista. Si sta così affermando: 1. tutte le filosofie, di ogni tempo e di ogni dove, hanno fallito quello che pure sembrava essere il loro obiettivo primario (il costituirsi come “scienza rigorosa”), perché hanno assunto un punto di partenza falsato da uno specifico e particolare punto di vista: da intendere quale pregiudiziale, rispetto alla ricerca di una qualsivoglia verità oggettiva; 2. tutte le filosofie sono pertanto da considerare ideologie, perché hanno per base o punto di partenza e quale idea-guida un principio di parte, inindagato e indiscusso, che orienta ad unum la ricerca. Tutte le filosofie sono così interpretative della realtà, proprio in forza di quel loro principio primo; 3. l’empirismo, in quanto filosofia, non si sottrae a questa situazione di impasse e a questa contraddizione: crede di proporsi come scienza, ma finisce per falsare la propria indagine circa i dati di fatto, cui pure fa costante riferimento con un’idea da cui ha origine la sua prospettiva e che in realtà non risulta mai esperibile come puro e semplice “fatto” empirico. 109 L’empirismo è dunque in contrasto palese con gli stessi principi della scienza, che crede di dover indagare sempre sui dati di fatto, con spirito scevro da qualsiasi pregiudizio, non prendendo le mosse da opinioni non chiare e infondate. Con la sua fenomenologia, che intende proporsi come “scienza rigorosa”, Husserl, invece, prende le mosse proprio da quel che precede qualsiasi punto di vista, da quel che è l’oggetto dato, che si propone alla visione, prima ancora che di esso possiamo articolarne una teoria, se non addirittura un concetto. Si crede così di proporre una metodologia di ricerca, una gnoseologia scientifica, che si fondi su un principio secondo il quale l’oggetto da conoscere può essere visto e afferrato (greifen) immediatamente, senza la mediazione dunque di pregiudizi (teorie e opinioni), senza che si diano “filtri” al nostro occhio, nell’atto della sua visualizzazione. L’oggetto afferrato (gegreift) soltanto in seconda istanza diviene concetto (Begrift). 11 A questo punto Husserl, che pure, come si leggerà ancora meglio nell’Introduzione della Krisis, intende opporsi al positivismo, afferma: “se positivismo è la fondazione assolutamente spregiudicata [priva di pregiudizi] di tutte le scienze sul “positivo”, cioè su quello che si afferma originariamente, noi siamo i veri positivisti. Effettivamente non permettiamo ad alcuna autorità nemmeno a quella delle moderne scienze naturali, 110 di privarci del diritto di riconoscere tutte le modalità della visione come equivalenti sorgenti di conoscenza”1. Nota poi il filosofo tedesco che la fenomenologia viene accusata di realismo platonico, vale a dire che si pongono le idee e le essenze come fossero degli oggetti e così come si fa per gli altri oggetti, si attribuisce loro essere reale e vero e quindi la possibilità di poterle cogliere mediante intuizione o visione. Si difende la fenomenologia, precisando che non si è inteso affatto proporre una sorta di ipostatizzazione platonica delle idee, dal momento che comunque i concetti stessi di essenza e di oggetto dato sono sempre ben distinti. Vengono poi proposte ancora una osservazione e un’obiezione. Idee ed essenze sono pur sempre dei concetti e pertanto delle formazioni psichiche, prodotte da astrazione: sono nomi illustri e altisonanti per “modesti fatti psicologici”, che sembrano scaturire per via di astrazione da visioni individuali. Si tratta dunque di prodotti psicologici. In quanto tali, esse hanno la stessa importanza e la stessa validità e veridicità di qualsiasi finzione arbitraria: a esempio l’idea del centauro, che suona il flauto, da noi liberamente immaginata, che è una nostra formazione rappresentativa, sarebbe da considerare visione individuale di un prodotto psichico. Consideriamo ora la risposta di Husserl. Certo la formazione dei concetti si produce liberamente e spontaneamente quale prodotto dello spirito; inoltre nell’idea di centauro che suona il flauto, nella formazione specifica di questo concetto, come di ogni altro, si ha 1 Ivi, p. 47. 111 una rappresentazione, ma questa non trova alcuna corrispondenza in un Erlebnis psichico1. Perciò il centauro non è di fatto nulla di psichico, perché non esiste nell’animo, né nella coscienza, né altrove: esso è niente (niente), perché risiede in toto nell’immaginazione. Eppure l’Erlebnis/immaginazione è sempre immaginazione di un qualcosa (del centauro che suona, appunto), vale a dire che all’Erlebnis appartiene il centauro fantasticato, in quanto a un atto psichico appartiene qualcosa che non esiste nella psiche: “non si confonda l’Erlebnis dell’immaginare con ciò che in esso [Erlebnis] è immaginato, come tale”. Concludendo: “il coglimento e la visione di essenza è un atto che può atteggiarsi secondo parecchie modalità, in particolare la visione dell’essenza è un atto originariamente offerente e quindi è l’analogo del percepire sensibile e non dell’immaginare”2. 1 Si noti qui come Erlebnis sia difficilmente traducibile. Il termine indica il momento vivente contenuto nella coscienza. Si può pertanto avere l’Erlebnis del percepire, del fantasticare, del ricordare, del desiderare, ecc. 2 Ivi, p. 50. 112 PARTE SECONDA. HUSSERL, II 1 Proviamo a riassumere il pensiero di Husserl, acquisito mediante la lettura del primo capitolo di Ideen I, che riassume le Ricerche logiche e, più in generale, tutto il cosiddetto “primo Husserl”. Anzitutto, dal concetto di essenza o di eidos, come anche da quelli di intuizione e di visione sono rigorosamente da escludere tutte le suggestioni mistiche e le ipotesi neoplatoniche, che si rifanno alla tradizione. Difatti le essenze si offrono a noi, di danno nella nostra vita quotidiana, nell’esperienza più comune e abituale, che si possa fare. Ci si presentano di continuo i dati di fatto, vale a dire tutti gli accadimenti legati a individualità: il rumore che mi arriva dalla strada, la voce del docente, la luce che entra dalla finestra, l’essere venuti al mondo in quel giorno. Sono tutti dati di fatto. Un dato di fatto casuale e individuale diviene, però, necessario, perché sempre visto all’interno di una struttura ben definita, che costituisce la modalità stessa del suo darsi a noi; la fenomenologia parla così del suo esser fenomeno: il puro e semplice atto percettivo individuale diviene universale, per il darsi di certe sue determinazioni contestuali. La parola “fenomeno” non è qui intesa, come in Kant, quale manifestarsi apparente di qualcosa, che è “cosa in sé”, che nella sua natura più propria si nasconde proprio nel fenomeno; in Husserl, invece, fenomeno 113 è il darsi della cosa stessa, come essa è in se stessa, perché proprio in quanto si dà la cosa è tutt’una col suo apparire: la cosa è, in quanto appare. Ogni cosa o dato di fatto si dà così a noi con una sua essenza pura (il rumore dato-di-fatto è questo rumore qui), ma l’essenza sta a prospettare una tipicità del questo qui che lo distingue a esempio dal colore, dal suono, ecc. Un “questo qui” totalmente privo di determinazioni essenziali, quelle che costituiscono il fenomeno e senza le quali non si dà ente, non avrebbe alcun significato, perché non sarebbe proprio il questo qui, dunque si potrebbe identificare con il niente, oppure si tratterebbe della materia prima informe, proposta in forma dubitativa dallo stesso Aristotele. Anche il più grezzo e confuso accadimento, dunque, ha in sé dell’universalità. Tale universalità precede qualsiasi nostro giudizio o ragionamento, qualsiasi induzione o deduzione, dunque qualsiasi filosofia o ideologia, che si delinei come sistema, così come qualsiasi scienza, perché si presenta come il modo stesso di essere (lo “stile”) del mondo, di quel mondo che si dà quale fenomeno, che è sempre già dato prima di qualsiasi nostra riflessione su di esso. È per questo che l’universalità, allo stesso modo delle essenze, è intuitiva, cioè naturalmente, spontaneamente e immediatamente visibile e direttamente afferrabile, mediante percezione. Insomma, il rumore si dà, come caso particolare dell’eidos “rumore”, si dà a me, il che significa che io, posto immediatamente al suo 114 cospetto quale dato che si presenta alla mia vita percettiva, lo afferro. Le essenze sono contenute nelle esperienze fattuali, nei dati di fatto, ed è possibile una scienza di tali essenze: la fenomenologia. In quanto basata sull’intuizione e sulla visione, essa è scienza positiva; non è una teoria, perché si basa sempre e fondamentalmente sull’esperienza percettiva, ma non è neppure una scienza sperimentale, come si è visto. La fenomenologia è anzi il più radicale empirismo, perché essa si basa sul seguente principio generale: quello che è sperimentato è sperimentato, quello che è dato è dato. Nessuna teoria, opinione, punto di vista o Weltanschauung può cancellare questo fenomeno, che è condizione di possibilità trascendentale, perché possano darsi teoria, opinione e punto di vista. Si ha da assumere quel che è dato, così come è dato e nei limiti e determinazioni in cui si è dato, vale a dire nel modo in cui si è dato. 2 Bisogna sforzarsi di descrivere, allora, quel che si trova, quel che realmente si percepisce, si ricorda e si fantastica. La fenomenologia non è pertanto una costruzione di sistema o una razionalizzazione di esperienze, ma pura e semplice descrizione dei dati di fatto, il dire che le cose stanno, così come si danno. Tutto questo però è molto meno semplice di quel che può sembrare a prima vista, perché per descrivere quello che realmente si prova bisogna liberarsi dagli innumerevoli pregiudizi teorici, mettendo così in luce le 115 strutture essenziali di ogni nostra esperienza dei fenomeni di mondo, vale a dire dei dati di fatto. Per liberarsi dei pregiudizi bisogna fare epoché, sospendendo il proprio giudizio. L’epoché, antica prassi filosofica, nello scetticismo greco sta a indicare la “sospensione del giudizio”, che Pirrone e i suoi discepoli esercitavano sul mondo e sulle opinioni degli uomini.. In Husserl l’espressione sembra essere più vicina al dubbio metodico di Cartesio, nell’insistenza circa il suo carattere fondativo rispetto alla scienza: essa, infatti, non sarebbe negativa e fine a se stessa come nello scetticismo greco relativistico e nichilistico. In Husserl si manifesta, poi, anche l’eredità socratica, che dà all’epoché un’intonazione decisamente etica. Da una parte, allora, si abbandonano i pregiudizi, dall’altra c’è assunzione di responsabilità personale del pensatore che deve anzitutto conoscere se stesso (gnoti seauton socratico), per assumere “in prima persona” il compito del sapere. È quel che chiede Cartesio nel Discorso, quando sostiene l’esigenza di tornare a se stessi “almeno una volta in vita”. È interessante notare come Husserl, al termine delle Meditazioni cartesiane, ricordi l’importanza del motto di Agostino: noli foras ire, redi in te ipsum (in interiore nomine habitat veritas, prosegue il testo, come si sa). Vediamo ora, più specificamente, in cosa consista l’epoché. Anzitutto è l’astensione dalla validità e dall’ovvietà del mondo quotidiano, dalle cosiddette “ovvietà mondane”. Il mondano è tutto quello che si offre alle 116 nostre attenzione e considerazione come fornito di una validità e di un valore che risultano inindagati. È il campo di quel che è abituale, circa il quale non si pone alcuna domanda relativamente al “perché?” e al “come?”. Portato alle ultime conseguenze: si dà per scontato e per acquisito, quale ovvietà prima e universale, che c’è e si dà un mondo. Husserl, insomma, con l’epoché, non intende affatto negare l’essere del mondo e neppure annullarne in certo qual modo la validità, ma piuttosto la sospende, simulando la sua non validità, almeno in un primo momento e di primo acchito. Si può pertanto sospendere una validità che si possiede, non cancellandola, ma ponendola “tra parentesi” ed eventualmente, in seguito, la si potrà recuperare. Quale la conseguenza? Non si permane più nell’atteggiamento naturale e aproblematico nei confronti del mondo; non si è nell’ingenuità naturale, ma ci si chiede: come può accadere che io abbia un mondo ,”come mi è dato (o mi si dà) un mondo”. Si fa questione, insomma, del modo di essere e della forma propria del fenomeno. Nel volgersi per la prima volta in questo modo problematico all’essere del mondo risiede il primo attuarsi dell’epoché. Con essa si inibisce l’atteggiamento naturalistico e mondano, da considerare con sospetto: non è più così ovvio e scontato, in fin dei conti, che ci sia o si dia un mondo reale davanti a noi, quale oggetto che si contrappone a un soggetto. Esso diviene così, per noi che lo sperimentiamo, un puro fenomeno: è in quanto ci si dà, per l’evento del suo darsi, e nel modo in cui 117 ci si dà, in forza delle modalità del suo darsi. Di tale fenomeno Husserl intende penetrare il come, arrivando a manifestarne così il senso. La realtà del mondo, ovvia e naturale, è così ridotta (si tratta della riduzione eidetica o fenomenologica) al fenomeno “mondo” o, se si vuole, al mondo dei fenomeni. Dalla realtà cosiddetta oggettiva si è passati alla realtà fenomenica (oggi si potrebbe ipotizzare un ulteriore passaggio alla realtà virtuale). 3 L’epoché viene prospettata da Husserl sin da Ideen I, ma è poi ripresa nella Krisis, dove la “via cartesiana” è alla fine abbandonata, evitando il brusco passaggio dall’atteggiamento naturalistico a quello trascendentale, che viene richiesto dall’epoché. A differenza di Cartesio, il punto di partenza non è più l’idea di una conoscenza apodittica, che il pensatore francese ingenuamente recupera dalle cosiddette scienze esatte, come si ricorderà, ma risiede nel concreto mondo della vita (die Lebenswelt), tema dominante l’intera Krisis. È l’epoché infatti a rendere concretamente possibile una fenomenologia, e dunque anche una scienza, del mondo della vita. Iniziamo ora a leggere il § 39 della Krisis: “come può l’essere-già-dato del mondo della vita diventare un tema autonomo e universale? Evidentemente solo attraverso un mutamento totale dell’atteggiamento naturale, un mutamento per cui non viviamo più come prima, in quanto uomini dell’esistenza naturale, nella costante 118 partecipazione alla produzione delle validità del mondo già dato, anzi ci asteniamo proprio da questa partecipazione […]. Soltanto così possiamo penetrare ciò che il mondo è in quanto terreno di validità della vita naturale nei suoi propositi e nelle sue attuazioni e, correlativamente, ciò che la vita naturale e la sua soggettività in definitiva sono, la soggettività in quanto pura soggettività, che funge nella produzione delle validità”1. Husserl indirizza l’attenzione e la speculazione sull’oggetto dato kantiano e si chiede come si possa individuarlo quale tema specifico, vale a dire “autonomo”, a se stante e privo di interpolazioni e sovrastrutture, e “universale”, con una conoscenza che risulti valida per tutti e non soltanto per coloro che ne fanno esperienza. Per realizzare tale obiettivo si esige un radicale mutamento di atteggiamento, vale a dire non si deve assumere più l’atteggiamento spontaneo e naturale, che riconosce come ovvietà indiscussa e indiscutibile il mondo già dato. In quanto esistenti, semplicemente e soltanto come naturali, partecipiamo alla produzione della validità delle cose del mondo, senza neppure rendercene conto. Si tratta di operare una sorta di astensione da tale partecipazione irriflessa: in questo consiste il mutamento totale e radicale che viene auspicato. Viene inoltre detto che mediante il radicale mutamento di atteggiamento: 1. si riesce a penetrare quel che il mondo è, il suo essere, quale presupposto della 1 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, il Saggiatore, § 39. 119 vita che viviamo con atteggiamento naturale; 2. si riesce a penetrare quel che la stessa vita naturale e la soggettività a essa relazionata e connessa sono; 3. la soggettività (il cogito cartesiano) è qui da intendere quale “pura soggettività”, che produce, elabora e realizza le validità stesse della vita naturale. Husserl nota che la vita che realizza le validità del mondo non può essere indagata restando nell’ambito dell’atteggiamento naturale, per cui “occorre un rivolgimento totale, una epoché universale assolutamente peculiare”. Proseguiamo nella lettura: “è possibile un modo di epoché universale, quello che d’un colpo solo mette fuori gioco nel suo complesso quell’atteggiamento implicato dall’intreccio complessivo della validità, che costituisce, in quanto “atteggiamento naturale” unitario, la “semplice” vita diretta” […]. In altre parole, noi assumiamo un atteggiamento che si pone al di sopra della vita universale (soggettiva e intersoggettiva) della coscienza nella quale il mondo per coloro che lo vivono ingenuamente è “qui”, indiscutibilmente alla mano, è l’universo di tutto ciò che è alla mano, il campo di tutti gli interessi di vita già praticati e che continuamente si riproducono. Tutto ciò è posto preliminarmente fuori gioco dall’epoché e perciò è posta fuori gioco tutta la vita naturale, orientata sulla realtà “del” mondo”1. L’atteggiamento che si assume pone al di sopra della vita della coscienza singolare e collettiva, che ragiona secondo il buon senso comune per il quale il mondo 1 Ivi, § 40. 120 e la vita: a. sono qui e lo sperimentiamo nell’immediatezza del loro darsi a noi; b. sono alla mano, nel senso che possiamo coglierli in presa diretta; c. sono tutt’uno con quanto singolarmente e collettivamente pratichiamo, produciamo e riproduciamo. 4 Capita proprio che l’epoché ponga fuori gioco tutte queste certezze e ovvietà indiscusse relative al mondo e alla vita. Dunque si pone in sospensione di giudizio la stessa realtà del mondo. A questo punto Husserl fa una puntualizzazione circa l’epoché che tende a smarcarlo da un’adesione totale alla “via cartesiana”. A differenza del dubbio metodico, che va praticato per lo meno una volta in vita (e può darsi una sola volta!), infatti, l’epoché è da intendere come un atteggiamento abituale, cui ci si indirizza e per il quale ci si decide una volta per tutte. È dunque il frutto di una scelta motivata, che poi “regge” ogni momento di vita successivo. Dunque, “non è affatto un atto transitorio, che può essere anche ripetuto, ma che rimane isolato e casuale”. Grazie all’epoché permanente, quale atteggiamento “professionale”, lo sguardo del filosofo, da intendere nel senso più ampio possibile, si rende veramente libero da pregiudizi. A cosa equivale la libertà conquistata? Precisa Husserl: “questa liberazione equivale alla scoperta della correlazione universale, in sé assolutamente conclusa re assolutamente autonoma di mondo e di coscienza di mondo”1. Insomma, Husserl sostiene che 1 Ivi, § 41. 121 l’epoché è in grado di mostrare la caratteristica peculiare del mondo della vita, nel suo carattere “fungente” e fondativo, rispetto al mondo colto in atteggiamento naturale e ovvio. La sua “riduzione” a fenomeno comporta lo svelarsi di una correlazione universale di mondo e di coscienza, che in forza dell’intenzionalità brentaniana è sempre coscienza-di e dunque coscienza-dimondo. Mondo e coscienza-di-mondo non possono essere presi come due realtà separate e contrapposte: in questa affermazione è chiara l’altra critica a Cartesio e al suo dualismo, che è pregiudizio implicito della coscienza ingenua, che si atteggia naturalmente. Il modo di essere del mondo è modo di essere fenomeno per una coscienza; d’altra parte, poi, la coscienza è intenzionale e il suo modo di fungere intenzionalmente acquista sempre il carattere della mondanità spazio-temporale. Prosegue poi il testo: “quest’ultima [la coscienza di mondo] non è altro che la vita di coscienza della soggettività, che produce la validità del mondo, la soggettività che nelle sue continue attuazioni ha sempre un mondo ed è sempre attivamente formatrice”1. È interessante marcare qui ancora una volta una presa di distanze da Cartesio. Husserl sostiene che è la vita della coscienza del soggetto a dare validità al mondo. Ciò si realizza mediante l’attività propria del soggetto, il quale da una parte possiede sempre un mondo, d’altra parte nella sua attività è sempre formatore, vale a dire ricrea un mondo. 1 Ibidem 122 Husserl mostra così di non porsi affatto il problema, così come lo poneva Cartesio, il quale era pervenuto a un io penso che non poteva avere alcuna garanzia della verità dei suoi pensieri. La garanzia cartesiana in Dio, il quale ha immesso nell’io o permette che siano in lui delle idee che hanno un corrispettivo nella realtà. Husserl non sembra aver bisogno di tale “garanzia”, perché il punto di approdo dell’epoché, a differenza del dubbio cartesiano, è il correlato coscienza-di-mondo, con l’idea di un soggetto che è in grado di produrre da sé la “validità del mondo” dei fenomeni. Un’ultima puntualizzazione: “questa [tutto l’esercizio proposto di epoché, per risalire a una base trascendentale] non è tuttavia una “concezione”, una “interpretazione” appiccicata al mondo. Qualsiasi concezione di…, qualsiasi opinione “sul” mondo trova il suo terreno nel mondo già dato. Proprio a questo terreno mi sono sottratto con l’epoché: mediante l’epoché io sto al di sopra del mondo, il mondo diventa per me un fenomeno, in un senso assolutamente peculiare”1 5 Nel § 42 Husserl sostiene che l’epoché è in grado di rendere possibile, a suo modo naturalmente, uno sguardo sperimentale, per il quale l’oggetto che viene sperimentato è il mondo, il fenomeno-mondo, come pure la coscienza-di-mondo. Nel paragrafo successivo, proprio in forza di queste considerazioni, si mostra la necessità di abbando1 Ibidem 123 nare la “via cartesiana”, che pure si era con profitto intrapresa, proprio per aver “afferrato” mediante epoché e tramite il metodo fenomenologico trascendentale la datità del mondo. Si pone così il problema del come dell’essere già dato del mondo, in quanto proprio il fenomeno sta a indicare la modalità in cui si danno a noi i dati di fatto. Si sta dicendo insomma che non è affatto problematico, come sembrava inizialmente, l’essere dei dati-di-fatto mondani, perché il fatto di un essere giàda-sempre dato del mondo “è accessibile a chiunque sulla base dell’atteggiamento naturale: cioè come l’essere-già-dato di un mondo di cose essenti nella costante evoluzione dei modi relativi di datità”1. Il tema proprio d’indagine della fenomenologia trascendentale husserliana non è allora costituito dal mondo, almeno direttamente, “bensì esclusivamente dall’evoluzione dei modi di datità in cui il mondo si è costitutivamente già dato”. Qui Husserl crede di dover compiere una sorta di autocritica, meglio una correzione di tiro rispetto a Ideen I, dove aveva creduto di dover prospettare una via “più breve” per l’epoché trascendentale. Tale via allora era stata definita come la “via cartesiana”, concepita come puro e semplice approfondimento del dubbio metodico delle Meditationes, anche se “depurata dai pregiudizi e dalle confusioni di Cartesio”. Quale il neo o, come viene definito, lo svantaggio di quel modo di procedere? “Essa [la “via” o il metodo perseguito e posto in atto] con un salto porta sì all’ego 1 Ivi, § 43. 124 trascendentale, ma insieme, in quanto non è oggetto di un’esplicitazione progressiva, rivela l’ego trascendentale in un’apparente mancanza di contenuto”. Insomma, l’io fungente si ritrova solo, in perfetta solitudine, “privo di contenuto”; dunque in situazione analoga a quella di Cartesio, il quale, almeno in seguito e in forza del dubbio metodico, in un primo tempo arriva solo ad affermare l’ego come evidente e certo. Prima di affrontare la tematica propria del mondo-della-vita, vale a dire di mostrare il contenuto dell’ego trascendentale, è opportuno almeno un cenno al cogito e cioè all’ego stesso, in Husserl. In un certo senso il primo campo d’indagine che l’epoché dischiude è proprio quello relativo al cogito o coscienza pura. La coscienza non corrisponde all’indubitabilità dell’io sono di marca cartesiana, quanto al fatto che il passaggio da un atteggiamento naturale diretto verso il mondo a un atteggiamento riflessivo-descrittivo su questo atteggiamento medesimo, pone automaticamente all’interno di quell’esperienza che la coscienza fa da sempre di se stessa e correlativamente del suo mondo. Proprio il riconosciuto carattere intenzionale della coscienza, che è sempre coscienza-di e dunque sempre corredata da un contenuto, fa sì che il cogito husserliano riesca a sfuggire le tentazioni idealistiche. L’accusa di idealismo, come anche quelle di psicologismo e di solipsismo, cui si è già fatto cenno, sembra poco sostenibile, soprattutto leggendo la Krisis. Rivendicando pertanto, come fa a più riprese in contrapposizione alle scienze oggettivistico-positivistiche, l’esigenza di 125 un ritorno al soggetto, Husserl non ci riporta certo a una sorta di atto creatore di Fichte o a un Io assoluto di marca gentiliana, ma piuttosto sul terreno originario di evidenza, del quale la ricerca filosofica e scientifica non può in alcun modo fare a meno. 6 Il soggetto di cui parla la fenomenologia è sempre soggetto incarnato (e si pensi qui all’importanza e alla centralità indiscussa del corpo e del corpo proprio in Husserl); inoltre il soggetto ha sempre come correlato un mondo: questo correlato è intenzionale, dunque è fenomeno non naturalistico, non è insomma una res nel senso cartesiano del termine. Inoltre Husserl non inventa il soggetto, né lo dimostra, ma cerca di descriverne fenomenologicamente le operazioni, che contengono intenzionalmente il significato “mondo” in tutti i suoi modi di datità. Perciò il soggetto possiede un corpo, il corpo proprio (Leib) e questo la coscienza ingenua lo sa da sempre, ma la fenomenologia insegna ad analizzare e a descrivere il come si costituiscono in noi la nozione dell’”avere un corpo” e successivamente, attraverso il corpo proprio, anche l’avere e l’afferarre per intuizione di essenza, il mondo di altri corpi (Körper) e di cose. Ogni indagine non può dunque che partire dal soggetto stesso, dall’io “in prima persona” e mai da una teoria dell’anima, dello spirito o del soggetto astratto, protagonista di filosofie idealistiche; l’indagine prende l’avvio da 126 quel che noi siamo da sempre e che sappiamo e facciamo costantemente sul piano del mondo della vita. In prima persona e “in carne e ossa”, noi non siamo un astratto io trascendentale, ma il soggetto agente delle nostre concrete operazioni; il soggetto che qui parla, che ascolta, che scrive, che pensa… Tali operazioni sono significative: hanno una direzione e un senso, vale a dire una intenzionalità. L’aspetto significativo di tutte le operazioni intenzionali, di quelle operazioni che non compie soltanto una coscienza separata dal corpo, ma l’uomo tutto intero sul terreno del quotidiano mondo della vita, è ciò che Husserl chiama trascendentale. Ancora una parola sull’intenzionalità della coscienza, che ha carattere trascendentale. Immanente alla coscienza, essa annuncia l’esistenza di quel che è altro da essa. Allora, il fatto che Husserl prenda spunto dal soggetto non significa affatto che riduca il mondo alla coscienza e/o a un prodotto della coscienza o dell’io, ma che scopra che è nella coscienza, in uno con essa, la genesi della mondità del mondo, vale a dire delle modalità particolari in cui si danno i fenomeni dei dati di fatto. Insomma, nella coscienza si dà allo stesso tempo e in contemporanea l’estraneità e la partecipazione al flusso di vita della stessa coscienza. È questo quel che si definisce il correlarsi intenzionale tra mondo e coscienza di mondo. 127 7 Occupiamoci ora del “mondo-della-vita” (Lebenswelt). Troviamo scritto che “dobbiamo avviare le nostre ricerche lungo la nuova via rendendo oggetto di un interesse esclusivo e conseguentemente teoretico il mondo della vita, in quanto terreno della vita umana nel mondo e innanzi tutto il modo in cui appunto gli inerisce questa funzione generale di essere terreno”1. La Lebenswelt è il Grund, terreno, ma anche fondamento per qualsiasi riflessione teoretica sulla vita dell’uomo, è il trascendendentale o condizione di possibilità di qualunque conoscenza relativa all’esistenza. Prosegue, poi, Husserl: “inutilmente cercheremo di reperire nella letteratura filosofica mondiale ricerche che ci possano servire di base, ricerche che abbiano visto in questo compito il compito specifico di una scienza autonoma (anche se si tratta di una scienza molto particolare) di una scienza che concerne la tanto disprezzata doxa e che tutt’a un tratto acquista la dignità di un fondamento (Grund) della scienza e pretende quindi all’episteme –e perciò siamo costretti a cominciare completamente da capo”2. Il tema del mondo-della-vita viene così presentato come novità assoluta nel panorama della letteratura filosofica mondiale e quale svolta radicale nel campo proprio della ricerca fenomenologica. Non è del tutto vero: né l’una cosa, né l’altra. Dagli inediti, infatti, sap1 2 Ivi, § 44. Ibidem 128 piamo che la dimensione precategoriale e prescientifica, quella per intenderci delle intuizioni e visioni di essenze, affiora molto presto nella sua riflessione (si pensi qui anche alle Ideen, I); anche se è proprio nella Krisis che perviene a maturità, quale concetto chiave costitutivo e fondamentale su cui fa perno l’intera fenomenologia trascendentale. Inoltre la Lebenswelt è mondo dell’opinione, dunque mondo della doxa, cui lo stesso Husserl fa riferimento, e non certo a caso. Ma allora, come fa il pensatore tedesco a sostenere che tale mondo non è mai stato in precedenza considerato in tutta la letteratura mondiale? Husserl dimentica, forse, il contributo di Parmenide, che pone il problema anche se poi immediatamente lo rifiuta; quello di Platone, che lo accetta in tutta la sua contraddizione; quello di Aristotele, che facendo riferimento a Eraclito dichiara esplicitamente di voler prendere le mosse proprio da esso. Egli dimentica infine Hegel, che nella Fenomenologia dello spirito offre il primo storico tentativo di sollevare il sapere apparente o opinione a sapere rigoroso e scientificamente dispiegato. Husserl ha ragione invece nel sostenere che la sua ricerca è di portata radicalmente innovatrice e trasformatrice, in quanto a modalità di realizzazione. La metodologia che porta a stabilire come la doxa sia Grund del sapere scientifico (episteme) ha la pretesa di essere scientifica essa stessa. 129 8 Leggiamo ora il § 28, dove è ricavabile una definizione della Lebenswelt: “qui possiamo cercare di chiarire i termini del mondo sensibile, mondo dell’intuizione sensibile, mondo sensibile dell’apparizione [fenomeno], nella loro determinata legittimità. In ogni verifica che rientra nella vita degli interessi naturali, che si mantiene nell’ambito del mondo della vita, il ritorno all’intuizione sensibilmente esperiente svolge un ruolo rilevante. Perché tutto ciò che si rappresenta come una cosa concreta nella dimensione del mondo della vita ha ovviamente una corporeità, anche se non è un mero corpo, se, a esempio, un animale o un oggetto culturale e quindi ha anche proprietà psichiche e spirituali. Se noi badiamo soltanto all’aspetto fisico delle cose è chiaro che esso si rappresenta percettivamente soltanto nel vedere, palmare, udire, ecc. cioè nei suoi aspetti visuali, tattili, acustici e simili. Qui partecipa evidentemente e immancabilmente il nostro corpo proprio (Leib), che non manca mai nel nostro campo percettivo, con gli inerenti organi percettivi (occhi, mani, orecchi, ecc.). essi svolgono un ruolo costante per la coscienza in quanto fungono nel vedere, nel sentire, ecc. unitamente all’inerente mobilità egologica, alla cosiddetta cinestesi”1. Siamo posti davanti alla cosa concreta della corporeità del mondo sensibile, nella considerazione prima dell’aspetto fisico delle cose, colte tramite percezione. In questo “luogo” dell’esperienza conoscitiva partecipa, 1 Ivi, § 28. 130 quale parte attiva e determinante, il Leib o corpo proprio con i suoi organi percettivi. A differenza di Cartesio, dunque, che si chiedeva dubbioso se all’idea di un corpo proprio potesse nella realtà delle cose corrispondere un corpo reale, Husserl sostiene invece che gli organi di percezione svolgono una funzione determinante per la coscienza, e dunque per l’io penso stesso, assieme alla mobilità dell’io, o cinestesi. In Husserl il termine “cinestesi” dev’essere forse considerato come formazione neologistica. Di per sé, infatti, la “cinestesia” è “sensibilità muscolare che interviene nella regolazione dell’attività motoria”. Con cinestesi, invece, Husserl sembra intendere i movimenti del corpo vivo e animato (Leib), che distingue dal corpo meramente passivo (Körper). Le cinestesi ineriscono a ogni percezione. L’ego, cioè, percepisce attraverso le intenzionalità cinestetiche degli organi di senso, unificati nel corpo proprio, inteso come organo unificatore. Si tratta di qualcosa di analogo al “sensorio comune” di Aristotele o al sensus communis dei medievali. Nota poi Husserl che nelle precedenti considerazioni sulla coscienza percettiva delle cose, relativamente al proprio campo percettivo, quel che può essere percepito è unicamente il corpo proprio e mai un corpo estraneo, in quanto corpo proprio. Insomma, questa è la ragione teoretica per la quale la fenomenologia deve, almeno in prima istanza, accettare una sorta di solipsismo, quel medesimo rischio in fondo che corre Cartesio con il dubbio metodico e con l’unica certezza del cogito, dell’io penso. Posso prendere le mosse soltanto dalle e- 131 videnze intuitive personali, dalle mie visioni-intuizioni di essenze, conseguite mediante cinestesi; questo capita perché solo il mio corpo è per me corpo proprio, capace appunto di cinestesi, e solo in esso l’Io assiste a un decorso temporale degli Erlebnisse. I corpi degli altri sono invece estranei, per l’io sono meri oggetti (Körper). 9 Non possiamo in questa sede cercare di risolvere il problema dell’intersoggettività, che nella Krisis Husserl torna ad affrontare, dopo averlo trattato nelle sua Meditazioni cartesiane. Riprendiamo, invece, la tematica della Lebenswelt, ponendola in stretta relazione all’elaborazione scientifica e prima ancora all’ipotesi di una filosofia prima, che si proponga e s’imponga come scienza rigorosa. È proprio così che si ritorna al momento iniziale e programmatico della riflessione husserliana. Husserl ricorda che “la scienza è una realizzazione dello spirito umano che storicamente presuppone un punto di partenza costituito dal mondo intuitivo della vita a tutti già dato, ma che insieme, in quanto è praticata [la scienza] e in quanto si sviluppa, presuppone questo mondo circostante, il quale è costantemente dato per ogni scienziato” Ci si chiede, a questo punto, se la Lebenswelt debba diventare un tema autonomo, un “tema di constatazioni scientificamente garantite”, vale a dire, appunto, soggette a scienza. D’altro canto sembrerebbe 132 che trattare “il mondo della vita in quanto tema scientifico lo fa apparire un tema accessorio e parziale nell’ambito del tema complessivo della scienza obiettiva”. Insomma, tale tema apparirebbe come secondario. E invece: “è chiaro che prima del problema generale della sua funzione per una fondazione evidente della scienza obiettiva, il problema del senso di essere peculiare e costante di questo mondo della vita per gli uomini che vivono in esso, ha buona ragione di essere posto. Non sempre questi uomini nutrono interessi scientifici e gli scienziati stessi non sono sempre occupati nel loro lavoro scientifico; inoltre, come mostra la storia, non sempre c’è stata nel mondo un’umanità che vivesse abitualmente nella dimensione di un interesse scientifico da molto tempo costituito. Il mondo della vita, invece, c’è sempre stato, prima di qualsiasi scienza, qualunque sia il modo d’essere che esso ha nell’esperienza della scienza. Si può quindi porre il problema del modo d’essere del mondo della vita in sé e per sé; ci si può porre completamente sul terreno di questo mondo intuitivo, mettendo fuori gioco tutte le opinioni e le nozioni della scienza obiettiva [che, com’è naturale, pure si interessa del “mondo”]”1. In vista di una fondazione o rifondazione delle scienze, nel campo scientifico il problema del senso della Lebenswelt deve essere posto, per diverse buone ragioni: 1. non sempre l’umanità cura interessi scientifici, come anche non sempre gli stessi scienziati si occu1 Ivi, § 33. 133 pano di scienza; 2. la storia dell’uomo dimostra che non sempre c’è stata un’umanità che vivesse abitualmente in una tensione scientifica, mentre invece: 3. la Lebenswelt si dà sempre e immancabilmente, perché essa è prima di ogni attività teoretico-scientifica, prima di ogni teoria, come si è visto. Si esige dunque lo studio della Lebenswelt, mediante la fenomenologia trascendentale. All’obiezione che essa,come tale, è già universalmente nota, quale ovvietà che inerisce a qualsiasi vita umana, Husserl risponde che questo è senz’altro vero, ma che riguarda ancora l’atteggiamento naturale delle cose e del mondo e non ancora propriamente quello fenomenologico: “certo alla vita prescientifica questa conoscenza basta, come le basta il suo modo di trasformare la non conoscenza in conoscenza e di attingere occasionalmente una conoscenza sulla base dell’esperienza e dell’induzione […]. Ciò basta alla prassi quotidiana”, ma bisogna “compiere un passo in avanti, per pervenire a una conoscenza scientifica”. Sinora non si è mai indagato scientificamente il modo in cui la Lebenswelt funga da fondamento e il modo in cui sono fondate le sue molteplici validità prelogiche rispetto alle verità teoretiche. Troviamo scritto: “probabilmente la scientificità richiesta dalla Lebenswelt come tale nella sua universalità è una scientificità peculiare, non di ordine logico-obiettiva, una scientificità che, per essere definitivamente fondante è la più alta nella scala dei valori”. 134 Si chiede Husserl, allora, come arrivare a realizzare questa diversa scientificità. Occorre “evitare di ricorrere ai dati della sensibilità come se essi fossero effettivamente ciò che caratterizza immediatamente le datità puramente intuitive del mondo della vita”. I dati della sensibilità sono per Husserl già una “teoria”, che si sovrappone in modo sovrastrutturale alla Lebenswelt. Come tutte le teorie anche questa persegue un ideale logico-obiettivo, ma non sfugge all’idea della verità in sé delle cose. Per la fenomenologia trascendentale tale idea è un’indebita astrazione compiuta inconsapevolmente sulla base della Lebenswelt, dove le cose non sono sperimentate “in sé”, come potrebbe apparire per i dati della sensibilità osservati oggettivamente, ma soltanto nella correlazione a una coscienza. 10 Prosegue Husserl, dicendo che” il primum reale è l’intuizione “meramente soggettivo-relativa” della vita prescientifica nel mondo. Certo, per noi [quoad nos] il “meramente” ha una sfumatura di spregio che esprime la diffidenza tradizionale per la doxa, ma nella vita prescientificfa stessa questa sfumatura scompare. Qui il “meramente” sta a indicare una sicura verificazione, un complesso di conoscenze predicative controllate e di verità precisamente definite secondo le esigenze imposte dai progetti pratici di vita, i quali ne determinano il senso […]. Le scienze costruiscono sopra l’ovvietà della Lebenswelt, se ne servono attingendo a esso tutto ciò che volta per volta è necessario ai loro scopi. Ma usare 135 in questo modo la Lebenswelt non significa conoscerla scientificamente nel suo modo di essere”1. Il “ritorno al soggetto” anche in campo scientifico è qui ribadito: “mentre lo scienziato è occupato e interessato in questo modo, obiettivamente, d’altra parte l’elemento soggettivo relativo funge per lui non in quanto semplice tramite irrilevante, bensì in quanto ultimo elemento fondante della validità di essere di qualsiasi verifica obiettiva, e quindi sorgente di evidenza, quale sorgente di verificazione […]. Il mondo della vita è un regno di evidenze originarie. Ciò che è dato in modo evidente è “esso stesso” dato nella percezione e cioè esperito nella sua presenza immediata oppure è ricordato nella memoria […]. Qualsiasi verifica pensabile riconduce a questi modi dell’evidenza, perché “esso stesso” sta in queste intuizioni come un elemento realmente esperibile e verificabile”2. Husserl determina, infine, il compito fenomenologico. Si tratta di considerare concretamente, in tutti i modi della relatività soggettiva che gli ineriscono, il mondo della vita, in cui tutti si vive intuitivamente, con le sue realtà così come esse si danno. Il compito esclusivo è quello di cogliere lo “stile” del mondo nel suo fluire eracliteo, che è “meramente soggettivo e apparentemente inafferrabile”. Vediamo ora quali sono le conclusioni: “noi, che abbiamo svolto sinora le nostre considerazioni dall’interno dell’epoché, a ogni momento possiamo riprodurre 1 2 Ivi, § 34. Ibidem 136 l’attività naturale e, dall’interno di essa, indagare le strutture invariabili della Lebenswelt. Il mondo della vita, che comprende in sé tutte le formazioni pratiche (persino quelle delle scienze obiettive in quanto fatti culturali) è immerso in un costante riferimento alla soggettività”1. Nonostante ciò la Lebenswelt mantiene una tipologia essenziale, a cui rimangono legate sia la vita, sia tutte le scienze di cui la vita è “terreno”. Perciò essa possiede un’ontologia propria, che dev’essere attinta soltanto in una pura evidenza. Possiamo allora concludere dicendo che il mondo della vita è certo soggettivo e relativo, ma nel senso che esso è in stretta connessione con il decorso e lo sviluppo di fenomeni di soggettività, relativi a un soggetto individuale e concreto, al suo Leib, il corpo proprio individuale. Tuttavia le strutture di tale mondo della vita non sono relative. La sua evoluzione accade secondo tipicità di essenze, che possono venir descritte, mediante la descrizione fenomenologica, compito filosofico per eccellenza. La qual cosa rende possibile un’ontologia della Lebenswelt, cioè una tipologia del mondo che è sempre disponibile, con le sue evidenze, per il nostro vivere quotidiano e nel quale si edificano i valori della cultura e delle scienze. 1 Ivi, § 51. 137 PARTE TERZA: HEIDEGGER, I 1 Percorriamo ora l’ultimo tratto del nostro itinerario. Ci si occuperà di Martin Heidegger, discepolo di Husserl, il quale sembra seguire gli insegnamenti del Maestro, anche se in realtà ne prende le distanze. Analizzeremo alcuni paragrafi di Essere e tempo. Proprio in questa, che rimane la sua opera principale, viene marcata la differenza con la fenomenologia husserliana, nonostante che Heidegger sostenga, come si vedrà, la bontà del metodo fenomenologico in funzione del procedere stesso del suo pensiero. Sein und Zeit è pubblicato nel 1927, contemporaneamente in un volume e, come articolo, nella rivista di Husserl “Jahrbuch für Phänomenologie und phänomenologische Forschung”. Leggiamo l’esergo, nel quale si prende spunto da una citazione di Platone: “è chiaro che voi da tempo siete familiari con ciò che intendete quando usate l’espressione essente; anche noi credemmo un giorno di comprenderlo senz’altro, ma ora siamo caduti nella perplessità” [Platone, Sofista, 244 a]. Heidegger commenta “abbiamo noi oggi una risposta alla domanda intorno a ciò che propriamente intendiamo con la parola ‘essente’? Per nulla. È dunque necessario riproporre il problema del senso dell’essere. Ma siamo almeno in uno stato di perplessità per il fatto di non comprendere l’espressione ‘essere’? Per nulla. È dunque necessario incominciare col ridestare la comprensione 139 del senso di questo problema. Lo scopo del presente lavoro è quello della elaborazione del problema del senso dell’’essere’”1. 2 Nel Sofista Platone è il primo a porre il problema dell’ente. Ancora oggi dobbiamo dare una risposta, perché non sappiamo propriamente cosa intendiamo con tale parola. Cos’è l’essente (Seiende)? Dunque, prosegue Heidegger, è necessario “riproporre il problema del senso dell’essere”, perché per arrivare a chiarire cosa sia un “ente”, si tratta di reimpostare il problema relativo all’essere dell’ente, su cui si sta ricercando. È di un certo interesse, lo fa notare Heidegger stesso, come noi non siamo per nulla perplessi per il fatto che non abbiamo effettiva comprensione dell’espressione “essere”. Lo scopo del lavoro risiede nell’elaborazione della problematica relativa all’essere, colto storicamente, vale a dire nel tempo. Nel primo paragrafo, Necessità di una ripetizione esplicita del problema dell’essere, Heidegger afferma che nonostante l’intera storia della metafisica, l’essere è stato dimenticato; e d’altra parte non si tratta affatto di una “cosa” qualsiasi, perché è il problema dell’intera filosofia. Sulla base di una speculazione, che ereditiamo dalla filosofia greca, si è costituito una sorta di dogma, che tende a legittimarne l’omissione e addirittura la rimozione: il concetto dell’essere sarebbe da considerare quello più generale e vuoto di tutti ed è 1 M. Heidegger, Essere e tempo, Milano, Longanesi, p. 14. 140 per questo che resiste a qualsiasi tentativo di definizione. Nei confronti della sua stessa impostazione e contro ogni prospettiva si stampo metafisico si prospettano così tre pregiudizi: 1. quello di “essere” è il concetto più generale di tutti. Aristotele riconosce la sua generalità, quale trascendentale (per i medioevali sarà il trascendens), da contrapporre alla molteplicità reale di ogni altro concetto. La generalità riconosciuta risiede nell’unità analogica, per cui on pollakos legherai. Hegel definisce l’essere come l’immediato indeterminato, ponendo tale definizione a base di tutte le successive elaborazioni categoriali (nella Logica, poi, essere e nulla sembrano arrivare a coincidere nel divenire); 2. il concetto di “essere” è indefinibile. Non può essere concepito come un ente, perché sembra fondare l’ente, in forza della sua generalità, D’altra parte non è possibile definire l’essere, muovendo da concetti più alti, né presentarlo, muovendo da quelli più bassi; 3. Il concetto di essere è ovvio. Ogni espressione che lo contenga appare infatti immediatamente comprensibile: tutti credono di comprendere cosa significhi, a esempio, che “il cielo è azzurro e io sono contento”, ma, sostiene Heidegger, questa è una comprensione media, che nasconde di fatto un’incomprensione. Essa sta a mostrare come ogni modo di essere, che pone noi stessi in relazione a un qualsiasi ente, nasconda un enigma. In conclusione, viviamo già da sempre nella comprensione dell’essere, ma allo stesso tempo il senso dell’essere continua a rimanere per noi quasi del tutto 141 oscuro. È per questo motivo che esso è da sempre il ricercato e il da ricercare. Di necessità è allora da ripetere il problema dell’essere, non tanto per offrirne una soluzione, quanto piuttosto per elaborarne in modo adeguato l’impostazione stessa. A proposito di questa necessità individuata di saper trovare il modo giusto di porre il problema dell’essere, compito primo di una filosofia, che voglia prendere le distanze da quella che è considerata vera e propria rimozione, è di un certo interesse una nota relativa alla comprensione media, da cui parte l’indagine. La comprensione media è sempre indispensabile per qualsiasi comprensione: sono qui in gioco metodo e pensiero di Heidegger, vale a dire precomprensione e comprensione, come si avrà modo di vedere. Leggiamo: “la posizione di un problema, in quanto cercare, esige di essere preliminarmente guidata da ciò che è cercato. Il senso dell’essere deve quindi esserci già accessibile in qualche modo. Come dicemmo, noi ci muoviamo già sempre in una comprensione dell’essere. È da essa che sorge il problema esplicito del senso dell’essere e la tendenza alla determinazione concettuale di esso. Non sappiamo che cosa significa ‘essere’. Ma per il solo fatto di chiedere: ‘che cosa è ‘essere’? ci manteniamo in una comprensione del ‘è’, anche se non siamo in grado di stabilire concettualmente il significato di questo ‘è’. E neanche conosciamo l’orizzonte entro cui cogliere e fissare il senso dell’essere. Questa comprensione media e vaga dell’essere è un fatto”1. 1 Ivi, p. 22. 142 3 Il cercato è l’essere, vale a dire quel che (quid) determina ogni ente, in quanto ente, ma l’essere non è esso stesso un ente. In proposito Heidegger sostiene che all’interno della filosofia occidentale si può costatare oblio e rimozione dell’essere, dal momento che anche quando la tradizione ha inteso parlare addirittura di Dio e di Assoluto ha finito col far riferimento a un Ente supremo, piuttosto che all’essere. Pertanto: 1. il senso dell’essere che dev’essere ricercato richiede un apparato concettuale suo proprio, che si differenzi da quei concetti mediante i quali l’ente ottiene la determinazione del suo significato. Si noti qui che Sein und Zeit non sarà portato a conclusione, ma interrotto, dopo la pubblicazione della prima parte, proprio a motivo della mancanza di adeguato linguaggio; 2. l’interrogato è l’ente stesso, se essere significa essere dell’ente, di qualsiasi ente; l’ente verrà inquisito a proposito del proprio essere. Ciò detto viene individuato un ente particolare e specifico, che costituisca la via di accesso alla giusta impostazione del problema del senso dell’essere, perché “volgere lo sguardo”, “comprendere”, afferrare concettualmente” sono comportamenti propri del cercare e modi di essere di un ente particolare, che “noi stessi siamo, i cercanti”. Troviamo così scritto: “questo ente, che noi stessi sempre siamo e che fra l’altro ha quella possibilità di 143 essere che consiste nel porre il problema, lo designamo col termine Dasein (Esser-ci)”1. La posizione esplicita del problema del senso dell’essere richiede un’adeguata esposizione preliminare circa il Dasein. Si esige pertanto un’”analitica ontologica dell’Esserci come estensione dell’orizzonte per l’interpretazione del senso dell’essere in generale”. Si tratta della cosiddetta analitica esistenziale, che riguarda la struttura ontologica del Dasein, che è Existenz. Anche in prospettiva del confronto con la fenomenologia trascendentale husserliana e nell’intento di evidenziare i punti di “rottura” tra le due diverse concezioni della medesima fenomenologia, è per noi interessante un’osservazione circa la comprensione media dell’essere e il Dasein. L’essere, sostiene Heidegger, è il presupposto di qualsiasi ontologia sinora esistita. Com’è da intendere tale presupposizione”? Essa “ha il carattere di un colpo d’occhio (Augenblick) preliminare sull’essere […]. Questo colpo d’occhio direttivo sull’essere nasce da quella comprensione media dell’essere in cui già da sempre ci muoviamo e che, alla fine, appartiene alla costituzione essenziale dell’Esserci”2. Notiamo qui la stretta analogia tra questo colpo d’occhio sull’essere qui ipotizzato e la intuizione di essenze di Husserl; inoltre il concetto di comprensione media rievoca la doxa husserliana. Cominciamo a fare però alcune distinzioni. Heidegger opera uno stacco tra il problema ontologico e 1 2 Ivi, p. 24. Ivi, p. 25. 144 quello ontico, con riferimento alla ricerca in ambito scientifico. In proposito notiamo qui un altro particolare significativo di differenza: mentre Husserl prende l’avvio dal tentativo (cartesiano) di elaborare una filosofia come scienza rigorosa, Heidegger invece dà indicazione circa il problema per eccellenza in ambito teoretico, su cui indirizzare ogni sforzo del pensiero: il senso dell’essere. Inoltre sia l’un pensatore che l’altro criticano le filosofie della tradizione e al tempo stesso le scienze, perché ritengono comunque che un’impostazione radicalmente nuova del pensiero teoretico, mediante metodologia fenomenologica, possa essere rifondativi sia della filosofia sia delle scienze. A proposito del legame e della differenza tra scienza e filosofia scrive Heidegger che “l’indagine scientifica compie la demarcazione e la prima fissazione degli ambiti delle cose in modo grossolano e rozzo”1; altrove, d’accordo in certo qual modo con Kant, sostiene lapidariamente e provocatoriamente addirittura che “la scienza non pensa”. L’elaborazione dell’ambito delle cose avviene dunque sin dall’ambito prescientifico. Inoltre, si parla anche qui, come in Husserl, di “crisi delle scienze”, crisi dei loro stessi fondamenti; e questa osservazione e rilevazione vale sia per le scienze della natura, sia per le scienze dell’uomo, sia per la scienza di Dio, la teologia. Si tratta allora di operare una revisione dei concetti fondamentali, che costituiscono “le determinazioni in cui l’ambito di cose che sta alla base di tutti gli 1 Ivi, p. 27. 145 oggetti tematici di una scienza perviene alla comprensione preliminare che guida ogni ricerca positiva”1. Ora capita che le scienze non siano in grado di pervenire a un chiarimento circa i loro fondamenti. Cosa che può dare soltanto la filosofia, mediante ricerca ontologica, che è “più originaria della ricerca ontica delle scienze positive”2. Le scienze dunque “non pensano”, sia perché non riconoscono i propri presupposti, sia perché non arrivano a chiarire i propri fondamenti; e d’altro canto un’indagine del genere non viene a coincidere con il loro compito precipuo. In conclusione Heidegger, così come ha fatto Husserl, propone l’aspetto trascendentale della sua ricerca: “il problema dell’essere mira perciò alla determinazione a priori delle condizioni di possibilità non solo delle scienze che studiano l’ente, che è tale in questo o in quel modo, e che si muovono quindi già sempre in una comprensione dell’essere, ma anche delle ontologie stesse, che precedono le scienze ontiche e le fondano. Ogni ontologia, per quanto disponga di un sistema di categorie ricco e ben connesso, rimane, in fondo, cieca e falsante rispetto al suo intento più proprio, se non ha in primo luogo sufficientemente chiarito il senso dell’essere e se non ha concepito questa chiarificazione come il suo compito fondamentale”3. 1 2 3 Ivi, p, 29. Ivi, p. 30. Ibidem 146 4 Leggiamo ora il § 6: Il compito di una distruzione della storia dell’ontologia. L’essere del Dasein, su cui anzitutto deve portare l’attenzione il filosofo, che intenda porre di nuovo il problema dell’essere, trova il suo stesso senso nella temporalità: il ci (da) indica infatti il qui e ora della determinazione di un certo ente. La temporalità è la condizione della storicità, che significa la costituzione del divenire storia dell’esserci come tale, sul cui fondamento è possibile qualcosa come storia del mondo. Dunque è l’essere storico di un determinato ente, il Dasein, che determina la storicità del mondo intero. Scrive Heidegger che “nel suo essere effettivo, l’Esserci è sempre come e che cosa già era. Esplicitamente esso è il suo passato”1. Tale storicità elementare però può restare nascosta; essa può essere scoperta solo mediante uno specifico impegno di ricerca. Dunque può accadere che il Dasein “cada” nel mondo che gli appartiene, cada anche dentro una tradizione, e dunque nel proprio passato, senza aver avuto modo di poterla affermare concettualmente in modo esplicito. Accade così che “la tradizione prende il predominio e tende così poco a rendere accessibile ciò che tramanda che, innanzi tutto e per lo più, piuttosto lo copre. Essa rimette il tramandato alla ovvietà e blocca l’accesso alle “fonti” originali, a cui le categorie e i concetti tramandati erano stati attinti in modo originale. 1 Ivi, p. 43. 147 La tradizione fa addirittura dimenticare questa provenienza”1. La tradizione così tramandata ha occultato il problema del senso dell’essere, caduto nella dimenticanza. Bisogna allora che la tradizione in cui da sempre siamo (siamo il nostro passato) sia “resa nuovamente fluida e che i veli da essa accumulati siano rimossi”. Come può avvenire tutto ciò? Risponde Heidegger: “questo compito è da noi inteso come da distruzione (Destruktion) del contenuto tradizionale dell’ontologia antica, distruzione da compiersi sotto la guida del problema dell’essere, fino a risalire alle esperienze originarie in cui furono raggiunte quelle prime determinazioni dell’essere che fecero successivamente da guida”2. Il problema relativo all’interpretazione dell’essere va poi di pari passo con una connessione tematica ineludibile con il fenomeno del tempo e con la problematica della temporalità: essere e tempo, appunto. Nota Heidegger come il primo e l’unico pensatore che ha percorso seriamente almeno un tratto di strada nel senso della direzione della temporalità fu Kant, il quale lo fece sotto la spinta della considerazione del mondo dei fenomeni. La trattazione di Heidegger, almeno per quel che riguarda il tempo, intende gettar luce anzitutto sullo schematismo trascendentale kantiano, fornendone un’interpretazione. Si perverrà alla conclusione che Kant fallì nel tentativo di penetrare nella problematica della temporalità. Fu impedito dalla 1 2 Ivi, p. 45. Ivi, p. 47. 148 dimenticanza del problema dell’essere in generale, e dalla conseguente mancanza di un’ontologia dell’Esserci, di un’analitica ontologica della soggettività del soggetto. Proprio a motivo di ciò Kant accetta dogmaticamente la posizione di Cartesio, nonostante introduca in essa sviluppi davvero essenziali. 5 Nel § 7 su Il metodo fenomenologico della ricerca, Heidegger tratta del concetto di fenomeno, di logos e di fenomenologia. Per il fatto che si sia determinato l’oggetto della ricerca, sembrerebbe già di per sé indicato il metodo d’indagine; e invece il metodo dell’ontologia resta ancora una volta “altamente problematico”. Si tratta di far partire la ricerca da “necessità oggettive” e dal modo di trattazione che viene richiesta dalle cose stesse. Ci si trova di fronte al problema fondamentale della filosofia e il metodo di trattazione dev’essere quello fenomenologico. Le puntualizzazioni che seguono sembrano servire a Heidegger per porsi in modo inequivocabile sulla scia di Husserl: 1. il metodo fenomenologico non subordina il lavoro del filosofo a un punto di vista determinato, né a una corrente di pensiero, che sia più o meno dominante al momento; 2. l’espressione “fenomenologia”, caratterizzando il metodo, non specifica affatto il che cosa reale degli oggetti della ricerca filosofica, ma il loro come, la modalità espressiva e di manifestazione delle cose o dei dati di fatto, come direbbe Husserl; 3. il 149 termine “fenomenologia” esprime la massima che può essere così formulata: “verso le cose stesse”, in contrapposizione a “costruzioni fluttuanti, ai trovamenti casuali, all’assunzione di concetti giustificati solo apparentemente”1. Dopo aver dichiarato in sintesi, in questi tre punti, la fedeltà agli insegnamenti husserliani, s’intende approfondire la questione del metodo d’indagine, con l’esposizione del concetto preliminare di “fenomenologia”. Nel farlo, e lo si fa non accettando acriticamente il significato tradizionale del termine, si perviene a una posizione che addirittura divarica rispetto a quella di Husserl. Insomma, Heidegger intende la fenomenologia ben diversamente da quella prospettata in Ideen e nella Krisis. 6 La “fenomenologia” è espressione composta da due termini: “fenomeno” e “logica” (phainomenon e logos per i greci). Analogamente a quel che diciamo per dei termini analoghi, quali psicologia, sociologia, biologia, teologia, ecc., potremmo sostenere, anche se forse un po’ superficialmente, che si tratta di “scienza dei fenomeni”. Molto probabilmente, cominciamo a osservare, che è proprio così che la intende lo stesso Husserl. Heidegger ritiene invece che si debba anzitutto andare alla radice del significato dei due termini componenti e successivamente stabilire il senso che risulta dalla loro unione. 1 Ivi, p. 54. 150 A. Il concetto di fenomeno. L’espressioe greca phainomenon, da cui “fenomeno”, deriva da phainestai, che significa “manifestarsi”. Phain è “quel che si manifesta”, il manifestantesi; phainestai è la forma media di phaino, che significa “illuminare”, “portare in chiaro” e che deriva dalla radice pha come anche phos, che è “luce”, “chiaro”. Pertanto phainomenon è “ciò in cui qualcosa può manifestarsi, rendendo visibile in se stesso, perché arriva alla luce (in chiaro)”. Allora il “fenomeno” è quel che si rende manifesto in se stesso. Il mondo dei fenomeni è l’insieme di ciò che è alla luce del giorno o che può essere portato alla luce: tutto quel che i greci identificavano senz’altro con ta onta, gli essenti o le cose. Come Kant, poi, Heidegger distingue “fenomeno” da “apparenza” o parvenza. “Fenomeno” sta a significare il modo particolare in cui qualcosa si incontra, inerisce la cosa, mentre “apparenza” significa un rapporto di riferimento interno alla cosa, la quale è, ma appare poi soltanto in un certo modo e dunque cela il suo proprio essere nel carattere fenomenico. Nella tradizione occidentale spesso si è confusa l’apparenza con il fenomeno e pertanto un concetto ordinario e comune di fenomeno con un altro concetto di marca fenomenologica. Si tratta allora di arrivare a cogliere nel fenomeno inteso in senso ordinario quel che “già sempre di manifesta preliminarmente e contemporaneamente, benché non tematicamente”1 e può essere 1 Ivi, p. 60. 151 portato all’automanifestazione. In conclusione, “questo così-automanifestantesi-in-se-stesso (le “forme dell’intuizione”) è ciò a cui noi diamo il nome di fenomeno della fenomenologia”. B. Il concetto di logos. In Platone e in Aristotele tale concetto non è affatto univoco. Il significato fondamentale è quello di discorso; successivamente, proprio su tale base logos è stato tradotto come “ragione”, “giudizio” e “concetto”. A ogni modo logos non significa primariamente “giudizio”, se con tale termine s’intende il collegare un concetto con un altro o il “prendere posizione” e/o “valutare”. Logos quale discorso significa qualcosa come deloun, vale a dire “rendere manifesto quello di cui nel discorso si discute”. Aristotele parla della funzione apofantica (da apophainesthai) del logos, che lascia vedere (phainestai) qualcosa e precisamente quello su cui verte il discorso. Lo lascia vedere per coloro che discorrono fra di loro (logos dia, che è poi dialogos, dialogo). Inoltre, nella sua realizzazione concreta il logos/discorso ha il carattere del parlare, della comunicazione con le parole: logos è phoné. Ancora di più: poiché il logos è un “lasciar vedere” proprio per questo motivo esso può essere vero o falso. Nota Heidegger che bisogna rifiutare l’idea di verità come adeguamento o conformità tra parola e cosa, che viene dalla tradizione metafisica: la veritas quale adaequatio rei et intellectus; questa idea non è affatto un elemento primario del concetto greco di aletheia. 152 Pertanto l’esser vero del logos, in quanto aletheuein significa: “nel legein, in quanto apophainesthai trarre fuori l’ente di cui si discorre dal suo nascondimento e lasciarlo vedere come non nascosto (alethes), scoprirlo”1; d’altra parte “essere falso” (pseudesthai) vuol dire ingannare, nel senso di “coprire”, di “far rimanere nascosto”. “Vero”, nel senso più puro e originario, è il puro noein, la percezione, che guarda puramente alle più semplici determinazioni d’essere dell’ente. Tale noein non potrà mai essere falso; tutt’al più potrà non percepire, avendo accesso insufficiente all’ente. La funzione essenziale del logos, dunque, risiede nel “puro lasciare vedere qualcosa”, nel “lasciare percepire l’ente”. C. Il concetto preliminare di fenomenologia. Leggiamo: “se esaminiamo concretamente i risultati dell’interpretazione di ‘fenomeno’ e di ‘logos’, salta subito agli occhi l’intima connessione che li stringe. L’espressione fenomenologia può essere formulata come segue in greco: leghein ta phainomena, dove leghein significa apophainesthai ta phainomena: lasciar vedere da se stesso ciò che si manifesta, così come si manifesta da se stesso. Questo è il senso formale dell’indagine che si autodefinisce fenomenologia. Ma in tal modo non si fa che esprimere la massima formulata più sopra: verso le cose stesse”2. Cos’è che la fenomenologia deve lasciar vedere, mediante le sue descrizioni? Cos’è che merita il nome di 1 2 Ivi, p. 62. Ivi, p. 64. 153 fenomenologia? Certo è qualcosa che innanzi tutto e per lo più non si manifesta, qualcosa che resta nascosto rispetto a ciò che si manifesta. Ora, puntualizza Heidegger, non si tratta di questo o di quell’ente, ma dell’essere dell’ente, di qualsiasi ente. La fenomenologia ha preso perciò come oggetto tematico qualcosa che esige di diventare fenomeno. Ancora di più: la fenomenologia è il modo di raggiungere quel che deve costituire il tema proprio dell’ontologia. Insomma, “l’ontologia non è possibile che come fenomenologia”1. Il concetto fenomenologico di fenomeno intende proporre l’automanifestazione dell’essere dell’ente, il suo senso. L’essere dell’ente non può essere inteso come qualcosa che stia dietro o sotto alcunché e che non appare, perché “dietro i fenomeni della fenomenologia non si trova assolutamente nulla, a meno che non vi si celi qualcosa di destinato a divenire fenomeno. È proprio perché i fenomeni, innanzitutto e per lo più non sono dati, che occorre la fenomenologia. Esser coperto [dietro] è il concetto contrario di fenomeno”2. 7 Considerata alle prese con il suo oggetto, la fenomenologia è la scienza dell’essere dell’ente o anche ontologia. Heidegger ricorda che è necessaria un’ontologia fondamentale, che assuma come tema l’ente che ha il privilegio di poter indagare e ricercare sull’essere, 1 2 Ivi, p. 66. Ibidem 154 vale a dire porsi la domanda circa il senso dell’essere dell’ente, il Dasein. Anticipa poi che la ricerca che riguarda il Dasein porterà a un risultato certo: “il senso metodico della descrizione fenomenologica è l’interpretazione (Auslegung). Il logos della fenomenologia dell’Esserci ha il carattere dell’ermeneuein, attraverso il quale il senso autentico dell’essere e le strutture fondamentali dell’essere dell’Esserci sono resi noti alla comprensione d’essere propria dell’Esserci. La fenomenologia dell’Esserci è ermeneutica nel senso originario della parola, secondo cui essa designa il compito stesso dell’interpretazione”1. Vediamo cos’è accaduto. Cercando di stabilire il senso dell’essere, tramite l’analitica dell’Esserci e dopo aver delineato il significato del metodo fenomenologico, Heidegger giunge alla conclusione che la metodologia propria e specifica della descrizione fenomenologica è tutt’una con l’interpretazione. Il logos della fenomenologia, che è discorso, come si è visto, ma anche svelamento, è caratterizzato dall’ermeneuein. Notiamo qui come tutto questo mal si concili con quanto avevamo letto ed evidenziato nei testi in cui Husserl proponeva la fenomenologia trascendentale quale scienza rigorosa, contrastando opinioni, punti di vista, Weltanschauungen e interpretazioni. È interessante notare come subito dopo, quasi a voler denegare la presa di distanze netta, addirittura clamorosa nei confronti del maestro, Heidegger tenga 1 Ivi, pp. 68-69. 155 a ribadire, al termine della lunga Introduzione a Essere e tempo, il suo debito nei confronti di Husserl: ontologia e fenomenologia non sarebbero dunque discipline diverse, per i motivi su detti, ma denoterebbero entrambe la filosofia tout court nel suo oggetto e nel suo procedimento: “la filosofia è ontologia universale e fenomenologica, muovente dall’ermeneutica dell’Esserci”1. E ancora: “le ricerche che seguono [e che avranno proprio quelle conseguenze teoretiche!] sono state possibili solo sul fondamento posto da E. Husserl con le Ricerche logiche, dal quale la fenomenologia venne alla luce”2. In una nota, poi, si aggiunge che la ricerca è in grado di compiere qualche passo in avanti verso le “cose stesse” per merito di Husserl, del suo magistero di Friburg, che rese familiari i diversi campi dell’indagine fenomenologica, mediante una guida davvero efficace e permettendo l’accesso anche a ricerche non ancora pubblicate, e dunque probabilmente anche ai materiali preparatori della Krisis. 8 Procediamo ora nella lettura del testo. Delineato il campo proprio dell’analitica esistenziale, rispetto a quelli di antropologia, psicologia e biologia, nel secondo capitolo Heidegger tratta dell’essere-nel-mondo come costituzione fondamentale del Dasein. 1 2 Ivi, p. 70. Ibidem 156 Leggiamo il § 12: Linee fondamentali dell’esserenel-mondo a partire dall’in-essere come tale. Già in precedenza nel § 4 Heidegger aveva sostenuto che “all’Esserci appartiene in linea essenziale di essere in un mondo. La comprensione dell’essere, propria dell’Esserci, concerne perciò cooriginariamente la comprensione di qualcosa come “il mondo” e la comprensione dell’essere dell’ente accessibile all’interno del mondo”1. Per stabilire l’essere proprio dell’Esserci non si può fare a meno del riferimento al mondo. Heidegger, poi, distingue due “comprensioni” che sono della stessa portata, complementari e quindi cooriginarie: la comprensione relativa a un quid che non definiamo come il nostro mondo, quale totalità degli enti e la comprensione dell’essere di un ente, di qualsiasi ente, che viene individuato immancabilmente all’interno del mondo. Qui Heidegger approfondisce il carattere fondamentale della mondità dell’Esserci. Si sostiene che le determinazioni di essere del Dasein possono essere colte solo sul fondamento della costituzione di essere che viene individuata come in-der-Welt-Sein. La traduzione “essere-nel-mondo” non sembra render bene l’idea che Heidegger crede di voler proporre con questo esistenziale. Notiamo anzitutto che si tratta di un neologismo, con espressione unica, i cui termini sono legati da trattini, in vista di un significato unitario. Vediamo ora quale spiegazione dia Heidegger. Per comprendere l’intera espressione bisogna spiegare l’inder-Welt, in secondo luogo si dovrà precisare l’in1 Ivi, p. 33. 157 essere, vale a dire la realtà di quell’essere che è in, nel-mondo, nella sua costituzione di essenza. Cosa significa essere-in, nel-mondo? Di primo acchito, in una comprensione ovvia, che è quella del buon senso comune “in atteggiamento naturale” o “comprensione media” delle cose, si sarebbe portati pensare a un essere che è in, vale a dire che è dentro. Pertanto avremmo a che fare con un ente che è dentro un altro ente, che funge da contenitore rispetto al primo. A esempio: l’acqua è nel bicchiere, la chiave è nella toppa della porta, ecc. Con la determinazione dell’in, inteso come dentro viene proposto un rapporto di essere tra due enti, che hanno una determinata estensione rispetto al loro luogo in uno spazio condiviso. Difatti: acqua, bicchiere, chiave, toppa e porta sono tutti enti contenuti nel medesimo luogo. Naturalmente le relazioni tra gli enti possono essere ulteriormente estese: il banco è nell’aula, che è nell’edificio, che è in Milano, che è in Europa, che è nel mondo. Ecco che così, per gradi o se si preferisce anche in un “colpo solo” si arriva alla determinazione ultima di un ente (di qualsiasi ente) che è nel o dentro il mondo, intendendo quest’ultimo come lo spazio universale, che tutto comprende e contiene. Direbbe Jaspers l’Umgreifende, il tutto-abbracciante. Tutti gli enti, in questa determinazione dell’in come dentro, sarebbero caratterizzati da quella che Heidegger definisce la “semplice presenza”, in quanto sono cose presenti nel mondo. Tale in-essere delle cose è un carattere ontologico categoriale. 158 Heidegger precisa, invece, che l’in-essere dell’inder-Welt-Sein sta a significare un esistenziale. Tro- viamo così scritto: “perciò non può essere pensato come l’esser semplicemente-presente di una cosa corporea (il corpo dell’uomo) “dentro” un altro ente semplicemente presente. L’in-essere non significa dunque la presenza spaziale di una cosa dentro l’altra, poiché l’”in”, originariamente, non significa affatto un riferimento spaziale del genere suddetto”1. 9 Cosa significa allora l’in di in-der-Welt-Sein, se non dentro con una precisa connotazione spaziale? L’in deriva da innan, abitare e soggiornare, in cui an ha il significato di “sono abituato, sono familiare con, sono solito”. Dunque, l’essere cui appartiene per essenza l’inessere è proprio quell’ente che io sempre sono. L’espressione sono, poi, richiama anch’essa l’abitazione. Più esplicitamente di quanto non faccia in Essere e tempo, in uno scritto contenuto nel volume, che raccoglie vari saggi, dal titolo Costruire abitare pensare, Heidegger sostiene che abitare (buan) è tutt’uno con l’essere proprio dell’io, dell’io sono, appunto: in tedesco ich bin. Il modo in cui io sono, il modo in cui l’uomo è sulla terra e nel mondo è il buan, l’abitare2. Io sono, dunque, significa io abito, soggiorno presso: io soggiorno presso il mondo, che mi è familiare. Il mondo risulta allora per me tale, proprio in virtù 1 2 Ivi, p. 93. Cfr. M. Heidegger, Saggi e discorsi, Milano, Mursia, pp. 97-107. 159 di un soggiorno e di un’abitudine. L’essere che io sono, inteso quale esistenziale, significa allora abitare presso, aver familiarità con. Per arrivare a comprendere ancora meglio ed evitare possibili equivoci, che forse permangono se si pensa che tutta questa spiegazione potrebbe a ogni modo essere ricondotta a interpretare l’in come “dentro”, nel senso che l’io è dentro la propria abitazione, potremmo forse appellarci alla traduzione francese dell’espressione in-der-Welt-Sein, a opera della fenomenologia di M. Merleau-Ponty, che suona così: être-au-monde. L’Esserci è allora mondano non tanto perché abita il (nel) mondo, tanto meno perché è un ente che è contenuto nel mondo, ma piuttosto perché tra questo ente particolare e il mondo si dà una sorta di coimplicazione e di simbiosi. Essere-al-mondo comporta una relazione di coessenzialità, che esclude pertanto qualsiasi carattere di esteriorità di un ente rispetto a un altro ente. Più avanti, nel cap. IV, Heidegger dedica la trattazione all’approfondimento del fondamento ontologico dell’in-essere, in quanto tale. L’intento è quello di proporre una specie di “ispezione fenomenologica” di tutte le strutture tipiche e caratterizzanti l’in-der-WeltSein, ma allo stesso tempo “aprire la via alla determinazione dell’essere originario dell’Esserci stesso, la cura (die Sorge)”. Die Sorge è il carattere esistenziale, che specifica al meglio l’essere-al-mondo: con esso difatti Heidegger crede si possa chiarire sia l’essere-presso-ilmondo, vale a dire l’abitare e l’aver familiarità con nel 160 prendersi cura degli enti intramondani, sia il conessere nel mondo, vale a dire il mit-Sein di un mondo comune ad altri Dasein. Così intesa, la cura precede, quale fondamento, ogni situazione, essa è costitutiva di ogni comportamento. Individuata die Sorge come carattere ontologico essenziale dell’in-essere, Heidegger specifica poi i caratteri del Dasein. Scrive così che “l’ente la cui essenza è costituita dall’essere-nel-mondo è il suo ci”; insomma, l’Esserci è specificato dal “ci”. Cosa sta a significare il da del Da-sein? Esso indica il qui e ora, l’hic et nunc, per una determinazione precisa, puntuale spaziotemporale dell’esistenza, di ciascuna esistenza singola. Si tratta del qui e ora di un “io” che è sempre compreso da un essere-per un determinato utilizzabile, un essere-per, che si prende cura, che ha cura degli enti intramondani. Il qui determina l’essere dell’Esserci in modo esistenziale, ne specifica il posto che si fonda nell’essere-al-mondo. L’espressione da (ci) significa allora l’essenziale apertura, che è modalità specifica del proprio essere, perché proprio mediante essa e soltanto con essa l’Esserci ci è, è qui e ora, per se stesso in uno con l’Esserci del mondo. 161 PARTE TERZA. HEIDEGGER, II 1 Veniamo ora alla determinazione per noi fondamentale, proposta nell’Analitica esistenziale. Nel § 28 troviamo scritto che “i due modi cooriginariamente costitutivi in cui l’Esserci ha da essere il suo Ci sono la situazione emotiva e la comprensione. Situazione emotiva e comprensione sono cooriginariamente determinate dal discorso”1. Sta qui prendendo forma, anche se al momento si dà soltanto un cenno, la divaricazione nei confronti della fenomenologia trascendentale di Husserl. In particolare vedremo come il modo stesso di intendere la comprensione e il connesso discorso porteranno Heidegger a prendere le distanze dal Maestro. Intanto si comincia con l’affermare che risultano allo stesso modo e nella stessa misura cooriginarie e coessenziali per l’essere del Dasein, per il suo ci e per la sua cura delle cose, Befindlichkeit, Verstehen e Rede. 2 Prima di occuparci della comprensione (Verstehen), cui dedicheremo l’ultima parte del corso che fungerà anche da confronto con la fenomenologia husserliana, proponiamo qualche breve riflessione sulla situazione emotiva (Befindlichkeit). Anzitutto è quella stes- 1 M. Heidegger, Essere e tempo, p. 211. 163 sa che in sede ontica è riconosciuta sotto il nome di umore o di tonalità emotiva. La Befindlichkeit precede ogni atto di conoscenza e di volizione, perché è costitutiva di qualsiasi attività teorico-pratica; essa è apertura dell’Esserci nel suo stato proprio di in-der-Welt-Sein, che è uno stato di gettatezza (Geworfenheit). Si dà, poi, una situazione emotiva per eccellenza, una Grundstimmung, che risiede nell’Angst (altra cosa rispetto alla Furcht, la paura). Si prova Angst mai di fronte a un ente intramondano, perché l’oggetto di tale Stimmung è sempre e del tutto indeterminato. Il davanti-a-che dell’Angst è pertanto il nulla, l’esperienza di nulla. Cos’è, però, che s’intende per “nulla”? Il nulla non è qui inteso come nihil negativum, come niente, la negazione di un ente determinato, e neppure come privazione della totalità degli enti. Il nulla si fonda qui su qualcosa di assolutamente originario, vale a dire con il mondo stesso. Pertanto, “se il davanti-a-che dell’Angst è il nulla, cioè il mondo in quanto tale, ne viene: ciò dinanzi a cui l’Angst è tale, è l’essere-nel-mondo stesso”1. In conclusione, proprio in quanto elemento ontologicamente costitutivo dell’Esserci, l’Angst apre (è apertura a) originariamente al mondo come mondo, alla mondità del mondo. Di qui l’ulteriore considerazione circa il come ci si senta in questa particolare situazione emotiva: nell’Angst si è spaesati, non ci si sente più a casa propria, l’io è fuori di sé. 1 Ivi, p. 291. 164 3 Prendiamo ora in considerazione l’Esserci come comprensione (Verstehen), leggendo il § 31. Torniamo a quanto già detto, anche perché è lo stesso Heidegger che non si stanca di sottolinearlo e di ribadirlo: Befindlichkeit e Verstehen sono due caratteri ontologici del Dasein, che vanno tenuti sempre assieme. Questo sta a significare che sono cooriginari. Di conseguenza, se si proporrà un’indagine sulla situazione emotiva, si dovrà tener conto anche della comprensione, e viceversa se ci si occupa della comprensione si dovrà nel contempo considerare che essa è sempre indirizzata emotivamente. La comprensione è qui da intendere come comprensione primaria o originaria, vale a dire come un esistenziale o come carattere ontologico del Dasein; ne va dell’essere del Dasein. Questo significa che è da distinguere nettamente dallo spiegare (Erklären) e dalla comprensione com’è comunemente intesa (Verständlichkeit). Insomma, il Verstehen non è affatto un modo possibile di conoscere tra gli altri, ma l’elemento costituente l’essere del ci dell’Esserci, vale a dire la condizione stessa di possibilità (un trascendentale), perché possano darsi, in seguito, lo spiegare e il comprendere. Il Verstehen è allora l’in-vista-di-cui l’essere-almondo risulta aperto come tale e questa apertura è tutt’una con la comprensione, che è da riconoscere pertanto come la modalità propria mediante la quale l’Esserci si rapporta al suo mondo. Troviamo così scritto che “l’apertura della comprensione, in quanto apertura 165 dell’”in vista-di-cui” e della significatività, concerne cooriginariamente l’intero essere-nel-mondo. La significatività è ciò rispetto-a-cui il mondo è aperto come tale. Che l’”in vista-di-cui” e la significatività siano aperti nell’Esserci, significa che l’Esserci è un ente per cui, in quanto essere-nel-mondo, ne va di se stesso”1. L’apertura della comprensione è allo stesso tempo apertura dell’in-vista-di-cui, finalizzata agli enti intramondani come anche apertura di significatività: e cioè gli enti acquistano un preciso significato all’interno del mondo, proprio in forza di essa. La significatività riguarda il rispetto a cui il mondo come tale è aperto, riguarda la relazione biunivoca tra Esserci e mondo. La possibilità stessa di significazione è implicita in tale relazione. Pertanto, sostenere che l’in-vista-di-cui e la significatività sono apertura nell’Esserci sta a significare che l’Esserci proprio per il fatto che è in-der-WeltSein, risulta essere un ente che in forza di tale apertura arriva a porre in gioco se stesso. Questo accade una volta che si sia stabilita la relazione e il modo stesso di relazionarsi ad altro da sé. Spesso si adopera l’espressione “comprendere qualcosa” nel senso di essere in grado di e di essere capace di, di potere; insomma, “della comprensione fa parte, in linea essenziale, il modo di essere dell’Esserci in quanto poter essere”2. Si precisa poi che l’Esserci, in quanto già-da-sempre in una sua specifica situazione 1 2 Ivi, p. 225. Ibidem. 166 emotiva, è insediato in determinate possibilità, non in altre, tanto meno in tutte: “in quanto è quel poter essere che è, ne ha già sempre lasciate perdere alcune [di possibilità]”1. 4 La comprensione è possibilità e progettualità (poter-essere finalizzato e significativo); in quanto tale essa esprime quella che può definirsi la visione dell’Esserci, che è in uno con il luogo di apertura del ci e viene a coincidere con l’Esserci stesso, che viene determinato cooriginariamente nei modi fondamentali dell’in-essere e cioè della visione ambientale, del prendersi cura e dell’aver cura. Dire che ogni visione si fonda sulla comprensione sta, però, a significare che s’intende arrivare a sottrarre all’intuizione il suo rango primario nel processo di conoscenza. Infatti “intuizione e pensiero sono due lontani derivati della comprensione. Anche la visione delle essenze fenomenologica si fonda nella comprensione esistenziale”2. Con questa osservazione, come appare evidente, Husserl sembra essere servito! A conclusione del paragrafo troviamo poi scritto che “situazione emotiva e comprensione caratterizzano, come esistenziali, l’apertura originaria dell’in-derWelt-Sein”3. Si ribadiscono così i caratteri ontologici (essenziali e strutturali) dell’essere dell’Esserci, inteso 1 Ivi, p. 226. Ivi, p. 231. 3 Ivi, p. 232. 2 167 come essere-al-mondo. L’apertura originaria dell’inessere è caratterizzata allo stesso tempo e allo stesso modo da Verstehen e da Befindlichkeit. Difatti, l’Esserci è in grado di vedere, di prendere visione e di comprendere, soltano se si trova in uno stato emotivo, se è caratterizzato emotivamente. L’elemento umorale e affettivo è in uno, dunque, con quello logico e razionale. Per comprendere bisogna essere mossi ed emozionati, perché è proprio nel provare emozioni rispetto agli enti intramondani che si arriva a comprendere gli stessi, in quanto solo così ci si dispone nell’apertura al mondo. Di cosa, poi si ha visione? Qui si tratta di una “visione ambientale preveggente”, di una specie di “colpo d’occhio (Augenblick) situazionale e contestuale, che è tutt’uno col trovarsi nel proprio mondo-ambiente, nel proprio habitat. L’Esserci ha visione del suo poter-essere, della sua stessa possibilità gettata (die Geworfenheit) nell’inessere. Infatti il suo stesso progetto, il progetto dell’inessere, è determinato dal fatto che l’Esserci è gettato nel ci, vale a dire condizionato in quanto storico nel suo essere essenziale per quel che riguarda situazione emotiva e comprensione. 5 Muoviamo ora un passo in avanti, davvero decisivo: “se vogliamo innanzi tutto chiarire fenomenologicamente il modo di essere quotidiano della comprensione quale si costituisce nella situazione emotiva e il modo cor- 168 rispondente di essere dell’apertura integrale del Ci, si rende necessaria un’elaborazione più concreta di questi esistenziali”1. La fenomenologia (ma, chiediamoci, è ancora la medesima metodologia di Husserl?) intende chiarire il come della comprensione, che si determina sempre nella Befindlichkeit. Con questa affermazione Heidegger sembra porsi al di fuori della fenomenologia husserliana, in quanto poco prima aveva sostenuto che la comprensione anticipa le intuizioni di essenze; inoltre la cooriginaria Befindlichkeit di Heidegger è addirittura inesistente in Husserl. Leggiamo il § 32: Comprensione e Interpretazione. Nell’intento di chiarire la modalità quotidiana della comprensione, è necessario elaborare ulteriormente gli esistenziali. Questo può avvenire portando l’attenzione sull’Auslegung, l’interpretazione. Nota Heidegger che il progetto specifico del Verstehen, che è presente almeno in nuce sin dalla prima e originaria considerazione del Dasein, ha la possibilità di un suo sviluppo: “a questo sviluppo del comprendere diamo il nome di interpretazione (Auslegung). In essa la comprensione, comprendendo, si appropria di ciò che ha compreso”2. In che senso, chiediamoci, l’interpretazione è da intendere come uno sviluppo necessario del “progetto” del comprendere? Heidegger risponde che solo mediante Auslegung quel che si trova a livello semplicemente 1 2 Ibidem Ivi, p. 233. 169 progettuale, ovvero quel che è nel poter essere della significatività, si fa concreto e si realizza in una effettiva comprensione. Pertanto si danno due momenti distinti della comprensione: il Verstehen, quale esistenziale, che è in uno con la Befindlichkeit e che è da intendere quale poter essere, potenzialità, e il Verstehen che si appropria di quel che già da sempre ha compreso; e lo fa solo mediante Auslegung. Da queste ultime considerazioni risulta essere molto stretto il legame e il rapporto tra Verstehen e Auslegung, a tal punto che potrebbero essere confuse: comprendere è interpretare, vale a dire che pensare è tutt’uno con interpretare. Difatti nell’Auslegung, la comprensione non si trasforma in qualche altra cosa rispetto a quel che è già, ma diviene se stessa, passando proprio da potenzialità o da virtualità ad atto. Insomma, trattando dell’Auslegung, è pur sempre del Verstehen che ci stiamo occupando. Inoltre, è proprio l’Auslegung che si fonda sul Verstehen e non viceversa, vale a dire –come potrebbe sembrare erroneamente e a prima vista- che è il Verstehen a fondarsi sull’atti di interpretazione. Comprendo effettivamente solo se ho ben interpretato, ma per poter interpretare bisogna avere già compreso. Qui si comincia a delineare il cosiddetto “circolo ermeneutico”. Infine, l’Auslegung non risulta essere mai la semplice riproposizione del Verstehen, ma il suo sviluppo, una successiva, ulteriore e in certo qual senso definitiva rielaborazione, in quanto porta a compimento le po- 170 tenzialità di un progetto, le potenzialità insite appunto nella comprensione. 6 Vediamo ora quale possa essere il percorso di sviluppo del “progetto”, compiuto proprio mediante l’atto di Auslegung. Il punto di partenza è nella significatività o potenzialità di senso, che è poter (sempre) essere proprio del Verstehen: è apertura all’interno del comprendere, apertura al mondo (si torni qui a quanto detto relativamente all’inessere). E cioè, si arriva di volta in volta a rendere concreto ed effettivo il prender cura e l’aver cura degli enti intramondani utilizzabili, ottenendo appagamento con quel determinato e specifico ente che ci si para davanti, con quell’ente con cui si ha a che fare al momento. Mediante Auslegung, dunque, la visione ambientale preveggente che è apertura all’inessere, concretizza la comprensione: questo sta a significare che tale visione giunge finalmente a interpretare un mondo intero, che in qualche modo, però, risulta già-da-sempre compreso. È solo a questo punto del percorso che l’utilizzabile, l’ente intramondano con cui si ha a che fare di volta in volta, accede in modo esplicito alla visione: si è pervenuti così alla vera e propria conoscenza, che risulta completa soltanto in forza dell’Auslegung. Ben diversa, si ricorderà, la visione di essenze husserliana, che non ha bisogno di un “percorso” e di uno sviluppo di progetto per realizzarsi, ma di un “colpo d’occhio” di intuizione. Approfondiamo ora la questione. 171 L’utilizzabile, oggetto di Verstehen e di Auslegung, meglio, progetto di-, è reso esplicito nella sua funzione in quanto utile per un certo scopo o una certa, determinata finalità. Quel che viene allora colto dall’ente intramondano, mediante Auslegung è in modo esplicito qualcosa in quanto qualcosa. Troviamo così scritto che “quando la visione ambientale preveggente chiede che cosa sia un determinato utilizzabile, la risposta conforme alla visione ambientale preveggente è la seguente: “esso è per…”1. L’indicazione che si ricava relativa al per-che-cosa giunge a denominare qualcosa in quanto tale, in piena conformità al proprio essere, dunque. Quel che è compreso perviene all’esplicitazione nell’Auslegung, proprio con un decisivo chiarimento circa l’in quanto, finalmente scoperto. Scrive Heidegger: “l’in quanto esprime la struttura esplicativa del compreso: come tale costituisce l’interpretazione”2. L’Auslegung è però presente dovunque e non soltanto in questa parte dell’Analitica. Il vedere ambientale e preveggente, quel vedere che in certo qual modo precede qualsiasi visione conoscitiva piena e completa, anticipa l’interpretazione ed è tutt’uno con il commercio (Umgang) con l’utilizzabile intramondano. L’Umgang è il modo di essere-al-mondo, in uno con gli enti intramondani, di cui il Dasein si prende cura, proprio in vista della loro utilizzabilità. È il primo modo possibile di a- 1 2 Ivi, p. 234. Ibidem 172 ver rapporto con gli enti, che è, per l’essenziale, un rapporto di significatività. Tale vedere coglie infatti ambientalmente l’ente utilizzabile in quanto “tavolo”, “quaderno”, “penna”, ecc., insomma sta a indicare il “questo” qui e ora e non ha di per sé bisogno di alcuna asserzione circa quel che interpreta ambientalmente, perché si completi la visione. Così inteso il vedere s’identifica con un’esperienza primordiale e originaria del mondo, quella che viene fatta degli enti intramondani con cui si ha a che fare e dei quali ci si prende cura. Essa è senza dubbio antepredicativa o prepredicativa, ma, precisa Heidegger, “è essa stessa comprendente-interpretante”1. A tale esperienza manca ancora, però, una determinazione di essere, che accade soltanto mediante interpretazione (Auslegung), anche se questo non sta a significare che nel commercio con il mondo, con l’utilizzabile intramondano, il Dasein non sia già di per sé interpretante. Com’è possibile? Il carattere esistenziale di interpretabilità o di potenzialità all’interpretazione, ancor prima dell’effettivo atto di interpretazione, che ne stabilisce e determina l’in quanto, è dovuto alle specifiche dell’essere-per dell’ente nel suo aspetto di utilizzabile e nella funzione di rinvio/rimando: l’ente è essere-per altri-da-sé. L’essere-per, che comporta rinvio e relazione, implica una comprensione dell’ente che s’incontra, che precede ogni possibile asserzione (Aussage) tematica circa l’ente stesso. Pertanto “l’asserzione tematica non 1 Ibidem 173 è la matrice dell’”in quanto” ma la sua prima espressione; la quale è possibile solo perché l’”in quanto” preesisteva come esprimibile”1. 7 Proviamo ora a concludere il nostro itinerario teoretico. Nel parlare della visione ambientale preveggente Heidegger l’ha definita semplice visione, in cui ci s’imbatte sempre nel momento stesso in cui si ha a che fare con qualcosa. Ora, tale visione è tutt’altro che “semplice”. Difatti l’immediato accesso che abbiamo alla realtà del mondo, proprio tramite visione ambientale, contiene “in modo originario la struttura dell’interpretazione”2 e pertanto anche l’ipotesi di poter arrivare a percepire qualsiasi ente privo dell’in quanto e cioè privo di qualsiasi considerazione di rinvio e di relazione propria dell’utile-per è totalmente fuori dalla realtà delle cose, e dunque astratta. Quel qualcosa sarebbe infatti lì, davanti a noi, come “semplice presenza” e presupporrebbe uno sguardo non più aperto alla visione, perché non più in grado di comprendere. Quale il motivo? L’ente intramondano non avrebbe in fondo nulla da dire di sé, dal momento che verrebbe a mancare lo stesso presupposto della comunicazione, che risiede proprio, come si è già visto, nel parametro del rinvio e del rimando, nonché della relazione. 1 2 Ibidem Ivi, p. 235. 174 Insomma l’ente intramondano non sarebbe nella possibilità di entrare in relazione con il nostro sguardo, aperto alla visione preveggente: non entrerebbe mai nella visione, neppure in quella originaria ambientale. Esso non possiede i caratteri di un absolutum, in quanto esser per sé, ma è da considerare sempre relativo a un ente che sia in grado di riconoscerlo. Si noti qui come Heidegger insista molto sul carattere ermeneutico-interpretativo di qualsiasi conoscenza, anche di quella più immediata, qual è la percettiva: “ma affermare che ogni percezione di un mezzo utilizzabile è comprendente-interpretante e che, nella visione ambientale preveggente, essa lascia che s’incontri qualcosa in quanto qualcosa, non equivarrà a dire che, innanzi tutto si incontra qualcosa come semplicemente presente e poi lo si giudica in quanto porta, in quanto casa? Ciò equivarrebbe a una completa incomprensione della funzione specifica di apertura propria dell’interpretazione”1. Vengono qui proposte due considerazioni, per noi di rilievo. Anzitutto si dice che non è possibile sostenere che prima incontriamo l’ente come qualcosa di semplicemente presente, che è qui davanti a noi come un qualcosa senz’altra aggettivazione, e poi si arriva a determinarne l’in quanto: lo si caratterizza e specifica come “tavolo”, come “finestra”, come “penna”…; in secondo luogo se si dice che questo è quel che accade, significa fraintendere completamente la funzione che è propria di apertura (l’inessere) dell’interpretazione. 1 Ibidem 175 L’interpretazione non è affatto un’attività intellettiva che rivesta l’ente, il quale di per sé si presenta nella sua “modalità” di “semplice presenza”: nel qual caso si tratterebbe di un oggetto, che si contrappone a un soggetto nella conoscenza scientifica, che prospetta la spiegazione. L’interpretazione rivestirebbe l’ente, fornendolo di un significato e attribuendogli un valore. Non accade questo nella relazione e nel rapporto originari e primordiali, che si stabiliscono tra il Dasein, quale essere-al-mondo e gli enti intramondani con cui esso ha a che fare. Infatti nel rapporto con l’ente intramondano quale utilizzabile si consegue già da sempre, e di primo acchito, vale a dire sin dalla visione ambientale e preveggente, la piena appagatività, e cioè la comprensione dell’in-essere nel proprio mondo, già in atto o che è da sempre. Quel che accade in seconda istanza, però, è che tale appagatività è resa esplicita e perviene all’emergenza e a piena consapevolezza soltanto mediante interpretazione (Auslegung), che rende manifesto qualcosa che già si dà, che già è. Si distingue così una comprensione implicita e originaria, dell’utilizzabile, da un’apprensione esplicita dell’ente, che è realizzata mediante un’interpretazione tematica. La comprensione implicita è il Grund, elemento essenziale e costitutivo, condizione di possibilità dell’interpretazione “quotidiana”, vale a dire di quella che trova corrispondenza nella visione ambientale preveggente. 176 8 In cosa consiste l’interpretazione quotidiana? Essa va ulteriormente chiarita. Ha una struttura che si articola, quale unità composta e complessa, in tre momenti: predisponibilità, previsione e precognizione. PREDISPONIBILITÀ. Nel momento in cui si appropria della comprensione, arrivando così a renderla concreta, l’interpretazione realizza lo svelamento di quel che è implicito e nascosto: “sotto la guida di una prospettiva che stabilisce la direzione in cui il compreso dev’essere interpretato”1. La prospettiva è tutt’una col punto di vista, che naturalmente può differenziarsi: da essa si determina una direzione, che dà indicazioni precise in funzione di una specifica e particolare interpretazione tematica, che si rende necessaria. L’interpretazione, dunque, è predisposta, vale a dire programmata in precedenza, prima ancora di attuarsi effettivamente con particolari modalità. PREVISIONE. L’interpretazione si fonda sempre su qualcosa che assegna e circostanzia il predisponibile, vale a dire una possibilità di interpretazione piuttosto che un’altra, piuttosto che tutte le altre. Questo vuole dire che è prevista la scelta, che è previa allo stesso atto interpretativo. PRECOGNIZIONE. Il compreso, in quanto predisposto e previsto, è infine elaborato in concetti. Qui Heidegger sostiene che l’Auslegung può far scaturire la concettualità in due diversi modi: sia ricavandola dall’ente stesso che è oggetto di comprensione e di inter1 Ivi, p. 236. 177 pretazione, sia proponendo una concettualità elaborata in concetti che in certo qual modo si contrappongono all’ente stesso: l’ente insomma non trova mai perfetta corrispondenza alla sua rappresentazione cognitiva, alla sua Vorstellung. In ambedue i casi, però, l’Auslegung si è già indirizzata per una determinata concettualità, la precognizione appunto. Concludendo questa delucidazione circa l’interpreaione quotidiana, Heidegger scrive che “l’interpretazione di qualcosa in quanto qualcosa è fondata essenzialmente nella predisponibilità, nella previsione e nella precognizione. L’interpretazione non è mai l’apprendimento neutrale di qualcosa di dato”1. Viene detto così che quando l’Auslegung arriva a stabilire l’in quanto di un quid, che è l’oggetto dato ancora privo di determinazioni, di cui fa esperienza (l’in quanto del banco, della finestra, della penna…), essa è fondata e strutturata; essa è conformata. Nell’atto dell’Auslegung, dunque, il Dasein non si presenta mai come ente “privo di qualità”; nel caso dell’Auslegung “quotidiana” non si dà nemmeno una conoscenza neutrale e/o oggettiva: insomma, l’interpretazione non comprende mai un oggetto neutro. L’ente con cui si ha a che fare, il quid di cui si fa esperienza, non è mai percepito come qualcosa di puramente dato e come qualcosa di semplicemente presente. Si propone, in proposito, il caso dell’esegesi dei testi. All’apparenza delle cose si è alla presenza di un 1 Ibidem 178 dato immediato da studiare e da valutare oggettivamente; sembra questa, a esempio, l’idea che hanno gli storiografi. In realtà, precisa Heidegger, contro l’idea “scientifica” dello storico e, più specificamente, dello storico della filosofia, non è affatto vero che tale dato venga accolto come puro, perché c’è da tenere in conto che esso è sempre assunto e recepito da un Dasein, che comprende e interpreta. È da tenere ben presente proprio il fatto che l’assunzione implica una modalità che è implicita in ogni processo interpretativo, vale a dire la modalità di predisposizione, di previsione e di precognizione. Tale modalità è tutt’una con la struttura conoscitiva e di comprensione dell’Auslegung, che si propone il lavoro di esegesi; essa è già-da-sempre posta e pertanto entra in attività per permettere l’atto stesso di Auslegung, che altrimenti e con diverse modalità non sarebbe affatto possibile. 9 Si è detto di predisposizione, di previsione e di precognizione. Com’è da intendere il “pre”? qual è il suo carattere? Heidegger si chiede se possa essere inteso come un apriori formale, di tipo kantiano. In questo caso la funzione del “pre” sarebbe quella di una determinazione di modalità di ricezione dell’oggetto dato noumenico, per stabilire il quoad nos relativo alla res. L’apriori formale rappresenterebbe la condizione trascendentale, e pertanto indipendente da qualsiasi esperienza concreta: prescinde da qualsiasi contenuto 179 di esperienza. Saremmo così alle prese con due strutture, che precedono qualsiasi atto di comprensione e di interpretazione: sia il pre della comprensione, sia l’in quanto dell’interpretazione. Il pre e l’in quanto sono da porre in stretta relazione all’apertura del Dasein nel suo Da e al suo progetto rispetto al mondo, all’inessere del mondo. Si è visto come apertura sia possibilità di significatività, vale a dire il poter essere di un significato, proprio a motivo della relazione che intercorre tra Dasein ed enti intramondani. L’ente intramondano viene così a trovarsi, in quanto progettato nel mondo, in una totalità significativa, che è tutt’una con il prendersi cura. Quando l’ente intramondano viene “portato a comprensione”, viene cioè scoperto a partire dall’essere del Dasein, erroneamente sosteniamo che esso abbia senso. Heidegger precisa che quel che è compreso, perché colto nella visione ambientale preveggente, non è affatto il senso, ma piuttosto l’ente stesso. Cos’è allora il senso e come si dà a noi? È qualcosa che inerisce l’apertura di comprensibilità e di interpretabilità del mondo da parte del Dasein. Il senso è allora tutt’uno con la comprensione e con l’interpretazione: è una cosa sola con il poter essere dell’inessere, nella sua relazione con gli enti; è tutt’uno con la struttura formale dell’Auslegung comprendente. Esso è il rispetto-ache, in base al quale qualcosa di cui facciamo esperienza diviene comprensibile e interpretabile in quanto qualcosa. 180 Proprio perchè tale, il senso è quel che determina sia il pre sia l’in quanto, quale struttura della predisposizione, previsione e precognizione. Conclude Heidegger: “il senso è un’esistenziale dell’Esserci e non una proprietà che inerisce all’ente e che gli sta “dietro” o che vaga in qualche “intermondo”. Solo l’Esserci “ha” senso, e ciò perché l’apertura dell’essere-nel-mondo non è “riempibile” che attraverso l’ente in essa scoperto”1. Il senso non è un quid che appartenga all’ente, che gli inerisca. Non è qualcosa che l’ente possiede, che magari si trova dietro o dentro l’ente, in esso nascosto, ed è pertanto da rendere manifesto attraverso una ben determinata procedura, che sarebbe tutt’una con l’atto di conoscenza e d’interpretazione. Se così fosse, la comprensione e l’interpretazione verrebbero a coincidere con un specie di atto rivelativo e veritativo, che arriverebbe a rendere manifesto quel che già da sempre è nella cosa, nell’essere stesso dell’ente provvisto di senso. Non è l’ente a possedere un proprio senso, ma è piuttosto il Dasein che ha senso. Ma allora, e di conseguenza, il fatto che crediamo di aver scoperto un ente che ha un suo senso sta a significare che è proprio il Dasein che ha donato un senso a quel determinato ente. Il senso che il Dasein possiede è inerente il suo stesso essere-al-mondo, la sua apertura, che è vuota di qualsiasi contenuto, perché apriori formale, finché non siano fatte esperienze effettive di mondo, vale a dire non 1 Ivi, p. 238. 181 accadano comprensioni e interpretazioni di enti intramondani. Se è vero che solo il Dasein è fornito di senso, di conseguenza è esso stesso che dà senso; soltanto esso è in grado di dare senso, possedendone in certo qual modo l’esclusiva. Questo sta a significare che gli enti intramondani non hanno senso alcuno, se non nella loro relazione al Dasein, il datore di senso. È nella relazione, dunque, che il Dasein informa di sé quel che è altro-dasé e mediante tale informazione comunica quel senso che possiede, perché esso è tutt’uno con la sua struttura di esistenza. 10 Di conseguenza gli enti intramondani sarebbero del tutto privi di senso e tali rimarrebbero se non ci fosse un ente particolare che, nell’atto di comprensione e d’interpretazione, non riuscisse a darglielo. Cos’è che Heidegger intende dire qui e quali possono essere le conseguenze per il nostro discorso che tende a marcare la specificità dell’ermeneutica heideggeriana e, nel far ciò, a mostrare la distanza che si delinea rispetto alla fenomenologia husserliana? Il senso di cui si parla, sinonimo qui di significato, indica la finalità, la direzione e il valore, come anche, facendo riferimento al linguaggio, il voler dire. Proviamo ad applicare quanto siamo andati dicendo al libro, a un testo scritto; come si ricorderà Heidegger propone il caso dell’esegesi del testo. Il testo scritto, in quanto oggetto di esperienza, è un ente in- 182 tramondano, come tanti altri; di esso, in quanto tale, facciamo l’esperienza in una tipografia (luogo di nascita), così come in una libreria (luogo di acquisto) e infine sulla nostra scrivania (luogo di lettura e di studio, vale a dire di fruizione del bene acquisito). Il lettore, che comprende e interpreta, ne fa esperienza, dandogli un senso, proprio mediante il suo atto di comprensione. Egli dà senso a quel che di per sé un senso proprio non avrebbe, dà parola a quel che ne è privo. Eppure, almeno nel caso del libro, le cose non stanno esattamente così. Il testo scritto, che dunque ha come in quanto il da-leggere, è difatti un ente intramondano particolare: è il prodotto di una precedente comprensione e interpretazione, che solo successivamente si è reificata e oggettivata nel volume a stampa. Pertanto si dovrà tenere in debito conto che il Dasein/lettore nel donare senso al testo entra in rapporto non soltanto con l’ente intramondano, ma anche con un altro se stesso (altro Dasein): meglio ancora, entra in relazione con un’altra comprensione e apertura all’inessere, che a sua volta, in altro tempo e in altro luogo, ha donato senso. Veniamo ora a considerare quello che può essere considerato il “cuore” stesso dell’Analitica esistenziale, per lo meno per quel che riguarda l’ermeneutica. In quanto si muove necessariamente entro l’apertura del ci dell’Esserci, ogni interpretazione è relativa all’essere-al-mondo nella sua totalità. Pertanto, “in ogni comprensione del mondo è con-compresa l’esistenza e vice- 183 versa”1: si tratta di una relazione biunivoca tra l’essere che comprende e quel che viene compreso con interscambio e rispecchiamento. Inoltre “ogni interpretazione si muove nella struttura del “pre” che abbiamo descritta. L’interpretazione, che è promotrice di nuova comprensione, deve aver già compreso interpretando”2. A questo punto Heidegger valuta attentamente l’obiezione che potrebbe essere mossa a tale tipo di ragionamento da parte della scienza e della logica. Il procedimento dimostrativo non può che rifiutare quel che si sta qui sostenendo, e cioè che quel che si arriva a conoscere mediante l’intrepretazione è in certo qual modo già compreso, prima ancora dell’atto di Auslegung. La scienza e la logica infatti non presuppongono mai quel che si propongono di dimostrare. Heidegger puntualizza: “se l’interpretazione deve sempre muoversi nel compreso e nutrirsi di esso, come potrà condurre a risultati scientifici senza avvolgersi in un circolo, tanto più che la comprensione presupposta è costituita dalle convinzioni ordinarie degli uomini e del mondo in cui vivono? Le regole più elementari della logica ci insegnano che il circolo è circolus vitiosus”3. La scienza, vale a dire quel processo conoscitivo che si autodefinisce “oggettivo”, crede che ci si muova linearmente in un movimento progressivo che va dal non-sapere al sapere, arrivando a conseguire nel momento finale della ricerca qualcosa che non sussisteva 1 2 3 Ivi, p. 239. Ibidem Ibidem 184 nel momento iniziale. Soltanto al termine si dà quel che sin dall’inizio si cercava, ma non si possedeva. Le considerazioni di Heidegger circa la struttura esistenziale del Dasein delineano un processo di conoscenza rappresentabile con un cerchio, piuttosto che con una linea. Comprendere e interpretare implicano infatti un movimento che, una volta che sia pervenuto al termine, indica lo stesso stadio iniziale, insistendo su di esso: la fine contiene così il suo stesso principio, là dove si viene a scoprire anche che il momento iniziale della ricerca conteneva già in nuce il risultato finale. Quel che è da riconoscere e da comprendere/interpretare è anticipato, previsto e preconosciuto, in quanto presupposto necessario nel già conosciuto. Quel che è nello stadio finale del processo di conoscenza è anticipato in quel che è dato nello stadio iniziale e primordiale. Da tale constatazione e da tale differenza deriva una specie di necessaria rimozione di qualsiasi interpretazione storiografica del processo conoscitivo, scientifico-oggettivo, di tipo rigoroso. Questo perché un sapere che si fondi sull’interpretazione storiografica, che accetti la comprensione e la conoscenza storico-dialettica, non può non arrivare a considerare quel che accade come già presente in quel che è già accaduto. Come insegna Hegel, mediante l’esplicitazione del processo dialettico dell’Aufhebung, ogni momento storico contiene il precedente e anticipa in nuce il successivo. 185 L’ideale di conoscenza proprio delle scienze rigorose sembra essere lo stesso anticipato dalla storiografia, che auspica che un giorno il circolo vizioso possa essere evitato, per poter finalmente arrivare a produrre “una storiografia indipendente dall’autore, come si presume lo sia la scienza della natura”1. In questo consiste la cosiddetta neutralità e oggettività, con indipendenza da autore/soggetto e da tentazioni psicologiche, della ricerca scientifica. Si torni qui a considerare le critiche di Husserl a tutte le filosofie, in nome di una filosofia intesa come scienza rigorosa. Puntualizza, però, Heidegger in proposito: “se si vede in questo circolo un circolo vizioso e se si mira a evitarlo o semplicemente lo si “sente” come un’irrimediabile imperfezione, si fraintende la comprensione da capo a fondo” e poco più avanti: “l’importante non sta nell’uscir fuori del circolo, ma nello starvi dentro nella maniera giusta. Il circolo della comprensione non è un semplice cerchio, in cui si muova qualsiasi forma del conoscere, ma l’espressione della pre-struttura propria dell’Esserci stesso”2. Stare nel circolo “nella maniera giusta” sta a significare non lasciarsi imporre predisponibilità, previsione e precognizione dalle opinioni correnti e comuni in modo acritico, ma far sì che il pre e l’in quanto arrivino a evidenziarsi nell’atto esperienziale stesso, in relazione con le cose stesse. Conclude, perciò, Heidegger: “il circolo del conoscere appartiene alla struttura del sen1 2 Ivi, p. 240. Ibidem 186 so, che è un fenomeno radicato nela costituzione esistenziale dell’Esserci, nella comprensione interpretante. L’ente per cui, in quanto essere-nel-mondo, ne va del suo essere stesso, ha una struttura circolare di carattere ontologico”1. 11 Leggiamo ora il paragrafo successivo. In precedenza avevamo letto che “i due modi cooriginariamente costitutivi in cui l’Esserci ha da essere il suo Ci sono la situazione emotiva e la comprensione. Situazione emotiva e comprensione sono cooriginariamente determinate dal discorso”2. Prima di parlare del discorso (die Rede) Heidegger, chiarito il carattere ontologico del Dasein in quanto Befindlichkeit e Verstehen, nel § 33 tratta dell’asserzione (Aussage) o giudizio. Aussage, da sagen aus, indica il “portar fuori (aus) il dire (sagen) nel detto, in quel che effettivamente viene detto. In continuità con quanto già affermato, si tratta di esternare, di portar fuori il compreso, in vista della sua comunicazione, che si attua e si finalizza nella relazione intersoggettiva del mit Sein. Leggiamo così che “ogni interpretazione si fonda nella comprensione. Il senso è ciò che viene articolato nell’interpretazione e che già nella comprensione si delinea come articolabile. Poiché l’asserzione (il “giudizio”) è fondata nella comprensione e costituisce una forma derivata di 1 2 Ivi, p. 241 Ivi, p. 211. 187 perfezionamento dell’interpretazione, anch’essa “ha” un senso”1. Dopo aver ribadito la continuità tra comprensione-interpretazione-asserzione, Heidegger sottolinea un’importante conseguenza. Si riscontra il senso nell’Aussage, nel fatto che essa dice il senso, proprio nel determinarlo. Questo non sta però a significare che il senso abbia una sua origine nell’Aussage, nell’atto del dire e del giudicare, vale a dire nella tematizzazione ed esternazione dell’atto di interpretazione, perché, lo si è visto, esso è colto nella stessa visione ambientale preveggente, che si era avuto modo di considerare come “comprendente e interpretante” allo stesso tempo. In una sorta di precedenza di tipo ontologico, piuttosto che temporale, il senso precede la sua stessa determinazione in un giudizio detto. Cos’è allora il giudizio di asserzione (Aussage)? Più avanti Heidegger ce ne offre una definizione: “l’asserzione è una manifestazione che determina e comunica”2, e cioè è la modalità espressiva dell’Auslegung che caratterizza, puntualizza e specifica il comprendere/interpretare, in vista della sua comunicazione ad altri, per la sua condivisione intersoggettiva nella messa in gioco “pubblica”. A questo punto si indica il passaggio che avviene dall’interpretazione ambientale preveggente, contenuta nella stessa apertura al mondo dell’Esserci, all’asserzione. Si tratta del passaggio dall’in quanto ermeneutico-esistenziale, all’in quanto apofantico, proprio del 1 2 Ivi, p. 241. Ivi, p. 245. 188 giudizio. Insomma, si consuma lo spostamento dalla sfera dell’ontologico a quella dell’ontico. Nel primo caso l’in quanto sta a indicare l’ente come utilizzabile (mezzo per-): è il con-che dell’averea-che fare dell’inessere al mondo; nel secondo caso l’in quanto sta a indicare l’ente che è oggetto dell’asserzione: è l’intorno-a-che proprio di un giudizio, che sta a definire l’ente come presenza, contrapposta al soggetto conoscente e oramai priva dell’originaria significatività. Avviene così una specie di livellamento dell’in quanto originario, che si appiattisce nell’in quanto della semplice presenza “oggettiva”: l’oggetto è Gegenstand rispetto a un soggetto, nell’Aussage. La parola assertiva tradisce il senso originario dell’ente intramondano, proponendosi quale detto e nascondendo il suo non detto, vale a dire il poter essere, che il detto implicito, nelle sue scelte di potenzialità, ha emarginato e messo da parte; tale detto è da intendere quale pensato, che trova esplicitazione nel da pensare, ma che allo stesso tempo anche lo nasconde. 12 Concludiamo ora con la lettura del § 34: L’Esserci e il discorso. Il linguaggio. Troviamo scritto, ed è dunque ribadito, che l’asserzione è il modo proprio di determinazione dell’interpretazione, che tende a realizzarsi nell’espressione della comunicazione. Questo processo ha il suo sbocco nel dire (sagen) e nel parlare (sprechen). In certo qual modo l’asserzione sta a rappresentare la parola inter- 189 na, ancora muta, mentre il dire dà voce a tale parola all’esterno. Inoltre si potrebbe distinguere ulteriormente, manifestando l’asserzione sia viva voce, sia mediante altri segni comunicativi. Scrive Heidegger che “il fondamento ontologicoesistenziale del linguaggio è il discorso. Nelle nostre analisi della situazione emotiva, della comprensione, dell’interpretazione e dell’asserzione abbiamo già ripetutamente fatto appello a questo fenomeno, ma esso è sempre sfuggito in certo modo di soppiatto all’analisi tematica. Il discorso è esistenzialmente cooriginario alla situazione emotiva e alla comprensione”1. Il discorso (die Rede) rappresenta la modalità at- traverso cui si articola la comprensione del mondo, nella quale trova l’espressione ultima e rivelatrice il poter essere della comprensione. Esso sta alla base sia dell’asserzione, sia dell’interpretazione. Nel discorso si articola, infatti, senza alcun dubbio, la molteplicità dei significati, che sono forniti di quel senso, che è in uno con la comprensione, ma che non trova espressione se non nelle asserzioni di un discorso, che lo strutturano così mediante specifici significati. Accade così che nel discorso la totalità dei significati accede alla parola. Sono proprio i significati, precisa Heidegger, che trovano sbocco nelle parole e non viceversa: le parole, intese come cose, di per sé sono prive di senso e arrivano a essere provviste di significati soltanto in un secondo tempo. È il significato, in1 Ivi, pp. 251-2. 190 somma, che anima la parola, la quale in un primo tempo è pura e semplice emissione di voce (flatus vocis). A questo punto viene offerta una precisazione che caratterizza ancora meglio l’aspetto ontologicoesistenziale del discorso. Troviamo così scritto che “la connessione che il discorso ha con la comprensione e la comprensibilità, è chiarita da una possibilità esistenziale del discorso, il sentire. Non è a caso che, se non abbiamo sentito “bene”, diciamo di non aver “capito”. Il sentire è costitutivo del discorrere”1. Si stabilisce così una corrispondenza. Come la comunicazione si fonda sul discorso, così la percezione acustica si fonda sul sentire. Strettamente connesso al discorso e alla comunicazione, il sentire (udire e ascoltare, al tempo stesso) rappresenta “l’apertura primaria e autentica dell’Esserci al suo poter essere più proprio, come ascolto della voce”2. L’Esserci sente, perché comprende e comprende a partire dal suo essere-al-mondo con altri (mit-Sein), con cui comunica. Proprio sul fondamento del poter sentire originario è possibile qualcosa come l’ascoltare. Dinanzi al detto, al discorso di altri, non abbiamo mai percezione acustica di semplici suoni allo stato “puro”. Difatti noi non sentiamo affatto soltanto il suono delle parole, neppure quando il detto viene espresso mediante un linguaggio del tutto comprensibile, perché confuso, oppure perché non abbiamo bene udito oppure perché espresso in una lingua a noi sconosciuta. 1 2 Ivi, p. 255. Ibidem 191 Anche quando il discorso è incomprensibile a chi lo ode, non si presenta mai quale serie di suoni, ma pur sempre come parole incomprensibili. Quando si ascolta, poi, un discorso su un determinato argomento possiamo certo essere portati anche a fare attenzione alla dizione, e dunque al suono delle parole dette, ma questa è davvero secondaria, perché viene senz’altro preceduto da una “comprensione preliminare di ciò che il discorso dice”1. Discorrere e sentire/ascoltare si fondono pertanto nella comprensione e “soltanto chi ha già compreso può ascoltare”2. Per finire, il discorso è costitutivo, essendo in uno con la comprensione del ci dell’Esserci. Difatti l’Esserci è inessere che discorre, è inessere che proprio mediante discorso (ascolto, sentire, parlare, comunicare) esprime al meglio se stesso. “L’Esserci ha linguaggio”, si legge, e altrove, poi, Heidegger afferma che l’uomo è nella lingua e, cioè, parla di continuo. Non è pertanto a caso che i greci, la cui esistenza quotidiana era caratterizzata dal dialogo, avevano definito l’uomo come zoon logon echon, il vivente che parla. 1 2 Ivi, p. 257. Ibidem 192