7. Critica dell`idea di esistenza dei corpi esterni Approfondiamo

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7. Critica dell’idea di esistenza dei corpi esterni
Approfondiamo questa critica.
Hume nota che tutti noi siamo spontaneamente inclini a credere nell’esistenza degli
oggetti materiali.
Crediamo che alle nostre immagini mentali di una classe, di una cattedra, e così via,
corrispondano veramente degli oggetti materiali che sono simili a quelle immagini (una
classe, una cattedra, e così via).
Hume sostiene che questa credenza è ingiustificata.
Egli argomenta innanzitutto che
le immagini mentali vanno distinte dai fenomeni.
Ecco due ragioni per questa tesi:
1. Le percezioni e immagini mentali variano. Ad esempio, l’immagine della cattedra si
rimpicciolisce quando mi allontano e si ingrandisce quando mi avvicino.
Ma noi crediamo che la cattedra abbia sempre la stessa misura, indipendentemente
dalla mia posizione.
2. Le nostre percezioni sono discontinue. Ad esempio, se mi giro non percepisco più la
cattedra.
Ma noi crediamo che gli oggetti materiali esistano continuamente.
Quindi le immagini mentali non vanno identificate senza esitazioni con le cose
materiali di cui sono immagini.
Secondo Hume, una volta distinti immagini mentali e oggetti esterni, dobbiamo renderci
conto che
ciò che si presenta alla mente non sono gli oggetti stessi, ma le loro
percezioni o immagini.
L’esperienza non può aiutarci a provare l’esistenza degli oggetti materiali, perché non
abbiamo mai esperienza di quegli oggetti, ma solo delle nostre immagini mentali di tali
oggetti.
Per Hume, le impressioni non sono ciò mediante cui conosciamo gli oggetti materiali al di
fuori di noi, ma sono esse stesse gli oggetti della nostra conoscenza.
Da buon empirista, infatti, Hume identifica l’esistenza di qualcosa con la sua impressione,
tale per cui quel qualcosa è innanzitutto la sensazione che ne ho e per mezzo del quale lo
conosco.
“Fissiamo la nostra attenzione fuori di noi stessi per quanto ci sia possibile […]. Noi in
realtà non avanziamo nemmeno di un passo al di là di noi stessi; né possiamo concepire
alcun genere di esistenza all’infuori delle percezioni che ci appaiono nell’ambito più
ristretto”.
Non ho esperienza della sedia, quale oggetto immediato della mia conoscenza, ma ho
esperienza di certe percezioni, che sono la base per la rappresentazione di una sedia
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nella mia mente; da queste percezioni inferisco l’esistenza della sedia come causa di
quelle percezioni.
Ma “la sola esistenza di cui noi siamo certi sono le percezioni”, mentre non si può
giustificare la convinzione che la mente percepisca direttamente le cose stesse (per non
parlare delle sostanze, siano esse spirituali o materiali).
Hume trae da ciò la conclusione che l’esistenza di un mondo esterno non trova alcun
valido fondamento in sicuri elementi conoscitivi.
Infatti né i sensi né la ragione ci forniscono alcuna idea dell’esistenza esteriore e
continua dei corpi, per quanto siamo naturalmente e inevitabilmente inclini a credere
nella loro esistenza.
Ci salva comunque l’immaginazione insieme all’abitudine, dirà Hume, poiché noi
continuiamo a credere che la stanza da cui usciamo continua a esistere.
Si tratta però di un “dare per scontato” che ha più a che fare con l’istinto che con la
ragione.
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8. Critica dell’idea corrente di causalità
L’analisi del principio di causalità è uno dei temi più noti e originali (nonché dei più ardui
da spiegare in classe) del pensatore scozzese, quello su cui Hume ha più insistito nel
corso della sua speculazione, e a cui dedica quasi interamente la Ricerca sull’intelletto
umano.
Su di esso si basa l’intera scienza sperimentale, quell’atteggiamento scientifico che ha il
dovere di formulare previsioni sui fenomeni, ovvero – date alcune cause – prevedere degli
effetti che possano essere oggettivamente necessari, cioè assolutamente validi,
costanti nel tempo e tali che la loro negazione costituirebbe contraddizione.
Ora, la domanda di Hume relativamente al nesso di causa ed effetto è più o meno questa:
“su cosa è fondata l’evidenza che ci assicura che un determinato evento dovrà
realizzarsi nell’ordine della realtà naturale (che alla fiamma segua il calore ad
esempio)? Qual è la logica del nesso causa ed effetto? Qual è la natura di questa
evidenza? Vi è la possibilità di dimostrare in modo razionale il potere di un oggetto
di produrre il comportamento di un altro oggetto? Il fatto che domani il sole sorgerà
ha la stessa evidenza dimostrativa del fatto che tre volte quindici sia la metà di
trenta? Oppure la certezza di questo fatto poggia su princìpi tutt’altro che
dimostrabili?”.
Dati questi presupposti è chiaro che una critica del concetto di causalità è una critica al
valore di validità del discorso scientifico, il quale – appunto – basa sulla relazione di
causa-effetto i suoi ragionamenti attorno alla realtà.
Da qui lo scetticismo humeano, che, a spiegare la nostra certezza relativa al
comportamento di determinati fenomeni sostituirà l’abitudine e la credenza, ossia due
elementi del mondo dei sentimenti, alla presunta razionalità e oggettività della
scienza.
Attenzione, Hume non nega, ovviamente, che alla fiamma segua effettivamente il calore, o
che alla neve segua effettivamente il freddo.
Quello che nega è che:
1. nel percepire gli oggetti e i loro rapporti, si possa realmente cogliere e trovare alcuna
relazione di causalità;
ciò che nega è che esista nel mondo fenomenico qualcosa come una relazione
causa-effetto intesa come un potere o una proprietà o una energia che sta nei
corpi, e che può essere colta dai sensi come se ne coglie la figura e la dimensione
o altre qualità sensibili: “Quando guardiamo intorno a noi verso gli oggetti esterni e
consideriamo l’operazione delle cause, non riusciamo mai, nei singoli casi a
scoprire qualche potere o connessione necessaria, cioè una qualche qualità che
leghi l’effetto alla causa e che renda l’uno un’infallibile conseguenza dell’altra. Noi
troviamo soltanto che l’uno, presentemente, di fatto, segue l’altra”.
In altri termini Hume nega che la relazione causa ed effetto sia:
una legge naturale che ha una sua radice nella realtà;
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2. In particolar modo Hume nega, inoltre, che la conoscenza del nesso di causa-effetto si
possa conseguire mediante ragionamenti a priori, o mediante procedimenti dell’intelletto
e del pensiero; essa nasce infatti soltanto dall’esperienza “quando troviamo che certi
particolari oggetti sono costantemente congiunti tra loro”.
Dal primo apparire di un oggetto, senza averne mai fatto esperienza, non
possiamo congetturare, né pronunciarci con certezza, mediante il semplice
ragionamento, circa l’effetto che ne risulterà.
Essa è piuttosto un modo in cui gli esseri umani, sulla base della loro esperienza passata,
collegano – in modo più o meno istintivo e consapevole – nella loro immaginazione il
presente con il futuro.
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Primo momento della dimostrazione:
Ponendoci dal punto di vista humiano dobbiamo esaminare quali sono i dati
effettivamente riscontrabili mediante osservazione ed esperienza ogni volta che si
verifica la causalità.
Facciamo l’esempio dello stesso Hume: “Ecco una palla di biliardo che sta ferma su di un
tavolo ed un’altra palla che si muove verso di essa con rapidità; le due palle si urtano e
quella delle due che prima era ferma, ora acquista un movimento”.
Ora, è evidente – prosegue Hume – che le due palle da biliardo sono venute a contatto
prima che la seconda si mettesse in movimento: “perciò la contiguità nel tempo e nello
spazio è una circostanza richiesta perché operi una causa qualunque”.
In primo luogo, dunque, tutto quello che la nostra esperienza ci mostra lì dove si verifica
causalità è
una relazione tra due fenomeni per cui uno è vicino all’altro nel tempo e nello
spazio.
Allo stesso modo è evidente che il movimento della prima palla da biliardo precede il
movimento della seconda, per cui:
“la priorità nel tempo è un’altra circostanza che si richiede per ogni causa”.
In secondo luogo, allora, la causalità è un rapporto di successione temporale tra due
fenomeni, tale per cui ciò che è causa precede ciò che è effetto.
Facciamo la prova con qualsiasi altro oggetto e troveremo che l’impulso dell’uno produce
sempre il movimento dell’altro.
Ecco quindi una terza circostanza, quella cioè della
congiunzione costante fra la causa e l’effetto, ovvero del continuo ripresentarsi, al
movimento e urto dell’uno, il movimento dell’altro.
In sintesi: Hume trova che il nesso di causalità ha il proprio fondamento nella
contiguità di tempo e spazio fra ciò che si considera la causa e l’effetto;
nella priorità della causa rispetto all’effetto;
nella loro congiunzione costante.
Queste sono le tre circostanze che possono essere osservate direttamente quando
esaminiamo il rapporto fra una causa e un effetto. “Per qualunque lato io giri la cosa, e per
quanto la esamini, non vi posso trovare nulla di più”.
Tuttavia mai si manifesta l’esistenza di alcun legame o connessione necessaria tra due
fatti interamente diversi.
Un rapporto di contiguità (B accanto ad A) e di successione (B dopo A) non è ipso facto
(ossia di per sé) un rapporto di causalità (B perché A), nesso che appunto non cogliamo
affatto nella percezione, ma che semmai è un nostra inferenza, ossia un’aggiunta (e
dunque soggettiva, e quindi non scientifica) alle sopra citate relazioni di contiguità,
successione e costanza.
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Secondo momento della dimostrazione:
Quello appena descritto era il caso che si verifica quando sia la causa sia l’effetto sono
presenti ai sensi.
Occupiamoci ora invece del caso in cui, dato un fatto A, non è presente l’effetto B:
Hume ritiene che non ho la possibilità di congetturare l’effetto che quel fatto A
produce, senza averne fatto precedentemente esperienza.
In altre parole, il rapporto di causa-effetto non è qualcosa che si possa congetturare a
priori, ossia senza l’ausilio dell’esperienza.
E’ questo, propriamente, il momento più importante e utile del principio di causalità: solo in
forza della relazione di causa ed effetto la nostra conoscenza può andare oltre quanto
testimoniato dalla evidenza attuale dei sensi.
Di tale natura sono i ragionamenti che facciamo nella condotta della vita (es: non
sappiamo nuotare e di fronte a noi abbiamo il mare; siamo al sicuro sulla spiaggia, e
dunque l’evento “annegamento” non è manifesto ai nostri sensi e alla nostra coscienza;
pure sappiamo che, tuffandoci nell’acqua, esso si verificherà).
Ritornando all’esempio della palla da biliardo, Hume scrive: “Se un uomo fosse creato,
come Adamo, nel pieno vigore della sua intelligenza, egli senza esperienza non sarebbe
in grado di inferire dal movimento ed impulso della prima palla il movimento della
seconda”.
In altre parole: che A abbia il potere di produrre un effetto su B io non posso ricavarlo a
priori dalla conoscenza delle sue proprietà, ma vengo a saperlo soltanto se lo verifico
attraverso un’esperienza, e dunque a posteriori.
Ciò equivale a dire che l’esperienza di fatti passati sta a fondamento della nostra
inferenza circa fatti futuri.
“Sarebbe stato quindi necessario per Adamo aver avuto esperienza dell’effetto che ha
tenuto dietro all’urto delle due palle da biliardo. Egli avrebbe dovuto vedere, in più casi,
che quando una palla ne urta un’altra, la seconda si mette sempre in movimento. Se
avesse visto un numero sufficiente di casi di questo genere, ogni volta che vedesse una
palla muoversi verso un’altra, concluderebbe sempre senza esitazione che la seconda si
metterà in movimento. Il suo intelletto anticiperebbe la sua vista e formerebbe una
conclusione conforme alla sua passata esperienza”.
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Terzo momento della dimostrazione:
L’esperienza è allora l’unica fonte possibile dell’idea di causa, la quale non è il frutto di
nessuna necessità logica, non nasce da alcun ragionamento che la mente possa fare,
ma scaturisce solo dall’osservazione di esperienze specifiche.
Insomma, il nesso di causa-effetto pare sempre più come qualcosa che ha a che fare con
il mio esperire, piuttosto che con un ente esistente di per sé.
E’ la costante abitudine di vedere determinati eventi legati tra loro, a produrre il concetto di
causalità, ovvero di un nesso tra i fenomeni.
Ma inferire fatti relativi al futuro sulla base di esperienze passate implica, anzi necessita
alla sua base, la supposizione circa l’uniformità del corso della natura.
Leggiamo le parole di Hume: se tutti i ragionamenti che riguardano la causa e l’effetto
sono fondati sull’esperienza, ne segue che “tutti i ragionamenti che derivano
dall’esperienza sono fondati sulla supposizione che il corso della natura continuerà ad
essere uniformemente lo stesso”.
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Quarto momento della dimostrazione: l’abitudine e la credenza
Dunque si è detto che:
a) tutti gli argomenti riguardanti l’esistenza sono fondati sulla relazione di causa ed
effetto;
b) che la conoscenza della relazione di causa ed effetto deriva solo ed esclusivamente
dall’esperienza;
c) che tutte le nostre conclusioni intorno all’esperienza si fondano sulla supposizione
che il futuro sarà conforme al passato.
Ma qual è il fondamento della supposizione circa l’uniformità della natura?
Innanzitutto è da escludere che vi possa essere una dimostrazione del fatto che il corso
della natura debba continuare a essere uniformemente lo stesso, e che il futuro debba
comportarsi allo stesso modo del passato.
E’ infatti possibile che il corso della natura possa cambiare, dal momento che possiamo
concepire tale cambiamento, e il pensarlo non implica contraddizione alcuna.
Scrive Hume nella Ricerca sull’intelletto umano: “Non posso forse chiaramente e
distintamente concepire che un corpo, che cade dalle nubi e che sotto tutti gli altri riguardi
assomiglia a neve, abbia gusto di sale o si presenti al tatto come fuoco? […]. Ora tutto ciò
che è intelligibile e può essere distintamente concepito non implica contraddizione e non
può essere provato falso da alcun argomento dimostrativo”.
Questa conformità tra passato e futuro, se deve essere provata, non ammetterà altra
prova che non sia quella dell’abitudine.
La conclusione di Hume è che “noi siamo determinati soltanto dall’abitudine a supporre
che il futuro sia conforme al passato”.
E’ l’abitudine che ci induce a supporre il futuro conforme al passato, rendendo così
attendibili le nostre previsioni sui rapporti di tipo causale.
“Quando vedo una palla da biliardo che si muove verso un’altra, la mia mente è
immediatamente spinta dall’abitudine verso il consueto effetto ed anticipa la mia vista
concependo la seconda palla in movimento”.
L’uomo in realtà, per Hume, è portato a credere alla regolarità dei fenomeni solo sulla
base di una disposizione psicologica e istintiva come l’abitudine, la quale lo spinge
ad assumere determinate aspettative nei confronti degli eventi e a fondare su esse l’intero
corso della propria vita.
E’ abitudine, quella del pensiero, di passare dalla causa all’effetto che solitamente ne
consegue.
Senza l’abitudine noi saremmo del tutto ignoranti circa ogni questione di fatto, al di fuori di
quelle immediatamente presenti ai nostri sensi.
Ma come opera concretamente l’abitudine e la credenza a inferire dal passato
conseguenze nel futuro?
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Con le parole dello stesso Hume: “avendo trovato, in molti casi, che alcune coppie di
oggetti – fiamma e calore, neve e freddo – sono sempre state congiunte insieme, se
una fiamma o della neve si presentano di nuovo ai sensi, la mente è portata dalla
consuetudine ad aspettarsi caldo o freddo, ed a credere che tale qualità esiste e che si
manifesterà a un ulteriore avvicinamento”; sicché, “dopo il ripetersi di casi simili, la mente
viene spinta dall’abitudine, in base al presentarsi di un evento, ad attendere l’evento che di
solito lo accompagna ed a credere che esso si verificherà”.
Hume ne trae la seguente conseguenza:
“Non è dunque la ragione la guida della vita, ma l’abitudine. Essa soltanto muove la
mente, in tutti i casi, a supporre il futuro conforme al passato”.
Ma l’abitudine è una condizione che si verifica nel soggetto, e che non ha il carattere
della razionalità, appartiene semmai al mondo del sentimento, o meglio dell’istinto
naturale e immediato, non dell’intelletto discorsivo e razionalizzante.
La credenza nella necessità e nella certezza dei nessi causali non ha dunque alcun
fondamento nella ragione, anzi la sua radice è sentimentale e istintiva.
La credenza non è una legge della ragione, o della natura, anzi non è affatto nulla di
razionale, ma è un sentire in modo diverso.
La credenza è un modo del sentire, una sensazione o un sentimento interno, che
però mi dà garanzia di certezza.
Come ogni sentimento la credenza è qualcosa impossibile da descrivere a parole, allo
stesso modo che se cercassimo di definire il sentimento del freddo o la passione dell’ira a
qualcuno che non abbia mai avuto esperienza di questi sentimenti.
Ognuno, però, ne ha coscienza al proprio interno: la credenza è un sentire la verità di una
concezione a cui diamo il nostro assenso (la verità del fatto che a un dato fenomeno
seguirà un dato effetto) in modo più forte, più vivace e più stabile, più intenso e
potente del suo contrario.
Ad esempio: sebbene a livello logico non vi sia nessuna contraddizione nel concepire che
una palla di biliardo in movimento su una tavola liscia si fermi al contatto con un’altra posta
sullo stesso piano, pure questa ipotesi “è sentita molto diversamente da quella concezione
con la quale mi rappresento l’impulso e la comunicazione di movimento da una palla
all’altra”.
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Sintesi per punti:
1. Non sappiamo nulla di più in merito alla causazione della semplice osservazione della
congiunzione costante di oggetti;
2. Senza ricorrere all’esperienza non si può predire l’effetto solo in base alla
considerazione della causa;
3. Quando la causa si presenta, la mente, in forza dell’abitudine, passa immediatamente
al pensiero e alla credenza dell’effetto usuale (più facile ancora: causalita= costante
congiunzione di oggetti + inferenza della mente dall’uno all’altro);
4. Anche dopo aver avuto esperienza di tali effetti è soltanto l’abitudine, e non la
ragione, che ci induce a fare dell’esperienza stessa la regola dei nostri giudizi futuri;
5. La credenza è qualcosa di diverso da un atto della ragione o dell’intelletto, fa in
modo che la nostra inferenza o giudizio dalla causa all’effetto sia sentita in modo forte e
vivace.
6.Si tratta dunque di un modo particolare di sentire da parte del soggetto; un atto della
parte sensitiva, non razionale, della coscienza.
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9. Conclusioni dell’analisi humiana del nesso di causa ed effetto:
Siamo arrivati al vero significato dello scetticismo humeano:
se il principio di causalità si fonda sull’abitudine e la credenza, e l’intera scienza
sperimentale o della natura fisica si fonda sui nessi di causa-effetto, allora
l’abitudine e la credenza costituiscono il suo più vero fondamento.
Le leggi scientifiche, lungi dall’avere valore assoluto e oggettivo, sono fondate su un
principio psicologico, su una condizione del sentire (inteso come to feel) più che del
conoscere, e dunque sono probabili.
La causalità non è altro che la propensione della mente a passare dalla causa
all’effetto; credenza e abitudine diventano così il fondamento del conoscere: “La
consuetudine, dunque, è la grande guida della vita umana. E’ questo quell’unico principio
che ci rende utile l’esperienza e che ci fa attendere, per il futuro, un seguito di avvenimenti
simile a quello che ci si è presentato nel passato”.
Sul piano gnoseologico è affermato il primato della consuetudine, cioè di un atteggiamento
psicologico, di una inclinazione soggettiva dovuta all’abitudine, sui procedimenti obiettivi
della razionalità.
La credenza ha la priorità sulla conoscenza rigorosa, il sentimento istintuale sulla
ragione:
è questo il punto centrale dello scetticismo humeano, in quanto sottrae alla
conoscenza un potere che finisce per conferire invece al sentimento, cioè a una
sorta di istinto.
L’originalità di Hume consiste pertanto nell’aver portato la sua rigorosa analisi della
conoscenza umana a un risultato impensato: quello che scopre
alle stesse radici dell’inferenza causale, e quindi di tutta la nostra conoscenza
scientifica dei fatti, la dimensione istintiva dell’abitudine.
La parte critica e scettica della filosofia humiana è dunque volta direttamente a demolire
ogni forma di razionalismo metafisico, dimostrando che nella stessa conoscenza dei
fenomeni naturali noi siamo guidati non già dalla ragione, ma da forti istinti naturali.
Il risultato che si ottiene è l’apprendimento della modestia e dell’umiltà riguardo alle
operazioni delle nostre facoltà naturali: in altre parole lo scetticismo humiano ci insegna da
una parte a riportare la conoscenza umana entro i confini dell’esperienza; dall’altra a
non nutrire troppa fiducia nella ragione (come avveniva nella metafisica razionalistica
che abbiamo visto in Cartesio).
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10. L’identità personale
Hume critica anche la credenza che noi siamo delle sostanze permanenti nel tempo.
Per Hume noi non possiamo provare questa credenza.
Infatti non abbiamo impressioni di un io permanente, ma solo impressioni dei nostri
stati d’animo, che cambiano continuamente.
Il nostro stesso io potrebbe essere nient’altro che una sorta di “palco” o “teatro”, in
cui si susseguono tutti questi stati d’animo, così come gli attori si susseguono sulla
scena.
Fuor di metafora: il nostro io potrebbe essere nient’altro che una successione continua
di stati percettivi e mentali.
Ciò che va perso in questa concezione dell’io come successione di stati mentali è la sua
identità attraverso il tempo (identità personale).
Hume contrappone una concezione dell’io come successione di stati d’animo sempre
diversi alla concezione della natura sostanziale e spirituale dell’anima, ossia
dell’io (o dell’anima) come una sostanza spirituale permanente nel tempo,
sempre identica a se stessa e dunque immortale.
L’io, dunque, non è che un sistema di percezioni, tutte unite insieme; non è una
sostanza a cui le percezioni appartengano, ma viene costituito dall’insieme delle
percezioni, a cui si riduce.
Dunque noi non abbiamo alcuna idea di una sostanza in generale, sia essa materiale o
spirituale, perché non abbiamo alcuna idea che non derivi da qualche impressione, e non
abbiamo nessuna impressione di una sostanza, bensì soltanto di qualità e percezioni.
Tuttavia, anche qui, nonostante il nostro io si debba ridurre in modo corretto a un fascio di
impressioni o a una collezione di differenti percezioni, Hume chiarisce anche che vi è
in noi l’avvertimento istintivo del nostro io quale centro dei nostri pensieri e
sensazioni.
Ancora una volta, però, garanzia di questa certezza non è un’argomentazione della
ragione, della mente razionale, bensì un sentire immediato dovuto all’istinto.
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11. Conclusione: scetticismo
Abbiamo visto che le riflessioni di Hume giungono a conclusioni scettiche riguardo alla
fondazione delle nostre credenze riguardanti
• i nessi causali;
• l’esistenza di sostanze materiali;
• l’identità personale.
Secondo Hume, non possiamo avanzare nessuna pretesa di certezza riguardo a queste
credenze. Hume tende a sostenere che possiamo considerarle (al più) probabili.
Al termine del primo libro del Trattato, egli ammette di essere approdato a una forma di
scetticismo.
Tuttavia, sia in quelle pagine che (più chiaramente) nella Ricerca sull’intelletto umano,
difende quella che considera una forma moderata, cauta e non radicale, di scetticismo, e
che assume quale indirizzo generale del suo pensiero.
Hume chiama “scetticismo radicale” una forma esasperata di dubbio che porta alla
negazione di ogni realtà e di ogni affermazione: è il dubbio iperbolico di Cartesio, ossia la
posizione di chi nega ogni valore a conoscenze che non siano state provate sulla base di
certezze indisputabili (come il cogito di Cartesio, per l’appunto).
Egli dubita che si possa veramente sostenere questa posizione fino in fondo.
Nella Ricerca Hume scriverà che la natura ci spinge ad affermare e a negare come a
respirare; in entrambi i casi la natura si impone con la sua forza istintiva, contro tutti i
propositi astratti della ragione.
Si può spingere agli estremi il dubbio intorno alla fiducia da accordare sia ai sensi che alla
ragione; ma alla fine la natura umana finirà per prevalere, portandoci a credere e ad
affermare anche ciò che la ragione astratta non trova persuasivo e convincente.
Da un lato, gli argomenti scettici si snodano l’uno dall’altro con estremo rigore, investendo
i fondamenti stessi della nostra conoscenza; però dall’altro, non possiamo non accorgerci
che questa raffinata indagine intellettuale con le sue conclusioni negative lascia pur
sempre sussistere in noi quella pressione del mondo pragmatico-istintivo che guida
con maggiore ottusità, ma con non minore efficacia, la nostra vita quotidiana.
Dopo tutto, non appena una persona mette da parte le speculazioni filosofiche, ritornerà
ad agire come se esistessero sia il mondo esterno che quello interno (ossia il soggetto
conoscente, inteso come una sostanza permanente nel tempo e dotata di una stabile
identità personale).
“La natura – scrive Hume – conserverà sempre i suoi diritti, e prevarrà alla fine su
qualsiasi ragionamento astratto, qualunque esso sia. Per quanto noi concludiamo, per
esempio, che, in tutti i ragionamenti derivanti dall’esperienza, c’è un passo compiuto dalla
mente che non è sorretto da alcun argomento o processo dell’intelletto, non c’è pericolo
che questi ragionamenti, dai quali dipende quasi l’intera conoscenza, vengano intaccati da
una simile scoperta”.
Al termine del primo libro del Trattato, Hume suggerisce che la sua filosofia conduce a un
dilemma:
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– o si dà credito alla speculazione filosofica, ma allora si devono rifiutare credenze senza
le quali, sul piano pratico, non potremmo orientare la nostra vita neanche per un momento
(non possiamo agire se non assumiamo l’esistenza del mondo esterno e di soggetti
conoscenti dotati di un’identità permanente nel tempo: è impossibile vivere seguendo i
dettami di uno scetticismo estremo e impraticabile);
– o si rinuncia alla speculazione filosofica, ma allora si basa la propria vita su credenze
che quella stessa speculazione filosofica aveva provato essere inconsistenti e assurde.
Hume non risolve esplicitamente e chiaramente il dilemma, ma fornisce una descrizione
della propria posizione che può essere considerata, in un certo senso, come una risposta
pratica a questo dilemma.
Quando Hume cena, gioca a calcetto, e conversa con gli amici, egli vede i suoi dubbi
filosofici come un ricordo distante, che non gli impedisce di apprezzare le gioie della vita.
Lo scetticismo filosofico è quindi temperato dal ritorno della fiducia naturale e
pragmatica nel mondo della realtà come condizione in cui l’esperienza umana si trova
racchiusa.
D’altra parte, egli non abbandona la filosofia. Fare filosofia è naturale e, anzi,
necessario, per non essere vittima della superstizione e migliorare la propria
comprensione del mondo.
La filosofia ci impone di sostenere che nessuna delle nostre conoscenze è immune dal
dubbio.
Non dobbiamo illuderci che chiunque finirà per accettare lo scetticismo – molte persone
non si occupano affatto di questioni filosofiche.
Nondimeno, possiamo sperare che lo scetticismo moderato ci conferisca un giusto
atteggiamento critico e ci mantenga distanti dal dogmatismo e dall’intolleranza.
Lo scetticismo, allora, come lo intende Hume, è il tentativo di “darci una nozione delle
imperfezioni e dei ristretti limiti in cui si muove l’intelletto umano”.
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