GIURISPRUDENZA•ESPROPRIAZIONE Risarcimento del danno CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO 30 ottobre 2003 (*) Belvedere Alberghiera c. Italia Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo - - Occupazione illegittima - Contrarietà all’art. 1 Prot. n. 1 alla CEDU - Riparazione delle violazioni già accertate - Dovere di procedere alla restituito in integrum - Possibilità per lo Stato di versare, in alternativa, l’intero valore del fondo - Ammissibilità - Criteri per la liquidazione del danno - Riferimento al valore attuale del terreno, al mancato suo godimento ed al deprezzamento che ha avuto la porzione di terreno residua - Necessità - Danno morale - Ammissibilità (Art. 41 Conv. CEDU) Quando la Corte dei diritti umani ha accertato la violazione del diritto di proprietà tutelato dall’art. 1 Prot. n. 1 alla CEDU per effetto di una condotta di occupazione illegittima, la stessa può disporre la condanna alla restitutio in integrum. Resta, tuttavia, riservato allo Stato il potere di eliminare totalmente le conseguenze attraverso un’equa soddisfazione che, in tal caso, deve necessariamente riflettere il valore intero e totale dei beni, ivi compreso il danno morale patito dal proprietario (Nel caso di specie la Corte ha quindi riconosciuto il danno morale in favore della società proprietaria di un albergo che aveva patito conseguenze negative dalla condotta illecita dell’amministrazione). …Omissis… 1. La controversia scaturisce da una richiesta (n. 31524/96) indirizzata nei confronti della Repubblica italiana con la quale una società a responsabilità limitata di diritto italiano, la società Belvedere Alberghiera s.r.l (“l’attrice”), ha adito la Commissione europea dei diritti dell’uomo (“la Commissione”), il 2 maggio 1996, in virtù dell’originaria formulazione dell’articolo 25 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (“la Convenzione”). L’attrice aveva dedotto l’esistenza di un attacco ingiustificato al diritto al rispetto dei beni. Il primo luglio 1998, la Commissione ha deciso di portare la richiesta a conoscenza del governo italiano (“il governo”), invitandolo a presentare per iscritto delle osservazioni sulla ricevibilità e sul merito. A seguito dell’entrata in vigore, il 1 novembre 1998, del Protocollo n. 11 alla Convenzione e conformemente all’art. 5 §2 del suddetto Protocollo, l’esame della controversia è stata devoluto alla Corte. Conformemente all’art. 52§ 1 del regolamento della Corte, il presidente della Corte ha attribuito la questione alla seconda sezione. Il 21 settembre 1999, la sezione ha dichiarato la richiesta ricevibile ed ha deciso di tenere un’udienza sul caso. L’udienza pubblica si è svolta il 13 gennaio 2000. 2. Con sentenza del 30 maggio 2000 (“la sentenza sul caso principale”), la corte ha ritenuto che si era verificata una violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 perché l’attrice era stata illecitamente privata del suo terreno (Belvedere Alberghiera S.r.l c. Italia, n. 31524/96, CEDH 2000-VI). 3. In base all’articolo 41 della Convenzione, l’attrice ha richiesto la restituzione e la rimessione in pristino stato del terreno oggetto della controversia. Inoltre, essa ha reclamato un risarcimento per il danno patrimoniale, pari ad almeno 80.000.000 di lire italiane (itl), destinato a ristorare in particolare il mancato godimento del terreno nel periodo di occupazione, fino alla restituzione. L’attrice ha reclamato altresì 30.000.000 ITL, a titolo di danno morale che le sarebbe stato causato dal comportamento dello Stato. Essa ha, infine, domandato il rimborso delle spese sostenute per le procedure dinanzi alle giurisdizioni nazionali e alla Corte. 4. La Corte, non ritenendo matura la questione concernente l’applicazione dell’art. 41 della Convenzione ha riservato di decidere, invitando il governo e l’attrice a sottoporle per iscritto, entro sei mesi, le loro osservazioni sulla suddetta questione e particolarmente a metterla a conoscenza di qualsiasi accordo al quale esse fossero addivenute (ibidem, § 69 e punto 2 del dispositivo). [omissis] II) DANNO A. DANNO MATERIALE 1. Riassunto della perizia e conclusioni del perito 17. In trenta pagine, la relazione di perizia contiene una stima del valore del terreno oggetto di controversia al 22 giugno 1987, momento dell’occupazione, e al dicembre 2002, quando la perizia è stata effettuata. In seguito, si illustra la stima del danno patrimoniale nel caso in cui il terreno venga restituito e la stima del danno materiale nel caso in cui il terreno non sia restituito. La stima del perito ha ad oggetto un’estensione di 1.375 metri quadrati, risultanti dal catasto del Comune di Monte Argentario, alla p.lla 22, foglio 15. Per redigere il suo rapporto, l’esperto si è basato sui doNota: (*) La traduzione della sentenza dall’inglese è a cura di G. De Marzo. CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 731 GIURISPRUDENZA•ESPROPRIAZIONE cumenti forniti dal Comune di Monte Argentario, sugli elementi portati dall’attrice oltre che sulle informazioni provenienti dal mercato immobiliare e dal mercato alberghiero. Egli ha inoltre tenuto conto dell’evoluzione del tasso di inflazione e dei prezzi durante il periodo considerato. 18. L’esperto ha constatato che, in seguito all’occupazione del terreno oggetto del contendere, l’albergo, di cui l’attrice è proprietaria, aveva perduto l’accesso diretto al mare. Si tratta di un albergo a tre stelle, con dodici camere. 19. In primo luogo, il perito ha valutato il terreno. A suo avviso, il valore venale del terreno del terreno nel 1987, al momento dell’occupazione, era di 82.500.000 ITL, corrispondenti a 41.833 Euro. Il valore venale del terreno al 31 dicembre 2002, all’epoca della perizia, era di 71.013 Euro. 20. Il perito ha in seguito preso in esame la valutazione del danno patrimoniale nel caso in cui il terreno sia restituito. A questo riguardo, egli ha stimato che le spese di rimessione in pristino ammonterebbero a 11.362 Euro. In seguito l’esperto ha calcolato che la privazione del godimento del terreno fino al dicembre 2002, ha causato un danno dell’ammontare di 76.431 Euro. Essa ha anche determinato un mancato guadagno in relazione all’attività alberghiera che, fino al 2002, ammontava a 169.266 Euro. 21. Il perito ha proceduto infine alla stima del danno patrimoniale nel caso di mancata restituzione del terreno. Oltre al valore venale di quest’ultimo, al danno derivante dalla privazione del godimento fino al dicembre 2001 e al mancato guadagno nell’attività dell’albergatore fino al 2002, il perito ha preso in considerazione il danno patrimoniale futuro nell’ipotesi in cui la situazione attuale divenisse permanente. A tal fine, l’esperto ha stimato che per i prossimi trenta anni, il futuro mancato guadagno nell’attività alberghiera ammonta a 218.832 Euro. Inoltre, il deprezzamento dell’immobile ammonta a 228.149 Euro. 22. Per riassumere le conclusioni dell’esperto: – Danno patrimoniale in caso di restituzione del terreno nel 2003: mancato godimento del terreno fino al 2002: 76. 431 Euro; mancato guadagno fino al 2002: 169.266 Euro; spese di ripristino: 11. 362 Euro; Totale: 257.059 Euro – Danno patrimoniale in mancanza di restituzione dell’immobile: Valore venale del terreno nel 2002: 71.013 Euro; Mancato guadagno fino al 2002 (169.266 Euro) + mancato guadagno futuro (218.832 Euro); mancato godimento del terreno fino al 2003 (76.432 Euro) + deprezzamento dell’immobile (228.431 Euro); Totale: 763.691 Euro. 23. Il governo non ha mosso osservazioni alle conclusioni dell’esperto. 24. Prima che la perizia venisse disposta dalla Corte, il 732 CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 Governo aveva dichiarato che la restituzione del terreno era preclusa per le ragioni indicate dal Consiglio di Stato, in relazione all’applicazione da parte di quest’ultimo del principio dell’occupazione appropriativa. Il Governo ha sostenuto del pari che la restituzione del terreno esulava dall’ambito applicativo dell’art. 41 della Convenzione. Il Governo ha inoltre sostenuto che l’azione di risarcimento danni che l’attrice aveva la facoltà di proporre davanti alle giurisdizioni italiane poteva compensare la violazione lamentata. Da tali premesse, il Governo ha tratto la conseguenza che nessuna somma potesse essere accordata a questo titolo, dal momento che l’attrice poteva ancora domandare il risarcimento dei danni davanti alle giurisdizioni nazionali. 3. Argomenti dell’attrice 25. L’attrice sollecita la restituzione e la rimessione in pristino del terreno oggetto della controversia, misure che costituiscono, secondo la stessa, il solo modo per rimediare alla violazione intervenuta, perché permetterebbero di ristabilire la situazione esistente prima della violazione dell’art. 1 del protocollo. Ella ricorda che il diritto alla restituzione deriva dalla res iudicata amministrativa. 26. L’attrice si dichiara soddisfatta delle conclusioni raggiunte dal perito in relazione al danno patrimoniale in caso di restituzione del terreno. 27. Ella contesta invece la valutazione dell’esperto in mancanza di restituzione del terreno. A questo riguardo, l’attrice ritiene che la Corte dovrebbe condannare lo Stato ad un risarcimento esemplare e punitivo, ammontante almeno al doppio dell’ammontare calcolato dal perito. 4. Decisione della Corte La Corte ricorda che una sentenza che constati una violazione comporta per lo Stato convenuto l’obbligo di mettere fine alla violazione e di eliminare le conseguenze in modo da garantire il ripristino della situazione antecedente (Iatridis c. Grecia (giudizio di equità) [GC], n. 31107/96, § 32, CEDH 2000-XI). 29. Gli Stati contraenti sono in linea di principio liberi di scegliere i mezzi da utilizzare per conformarsi ad una sentenza riguardante una violazione. Tale potere di scelta in in ordine alle modalità di esecuzione di una sentenza, implica libertà in relazione all’obbligazione principale imposta dalla convenzione agli Stati contraenti: assicurare il rispetto dei diritti e delle libertà garantite (art. 1). Se la natura della violazione permette la restituito in integrum, incombe allo Stato convenuto realizzarla, non avendo la Corte la competenza né la possibilità pratica di provvedervi essa stessa. Se al contrario, il diritto nazionale non permette o non permette di eliminare completamente le conseguenze della violazione, l’art. 41 abilita la Corte ad accordare, se del caso, alla parte lesa, la soddisfazione che le sembri appropriata (Brumarescu c. Romania (giudizio di equità) [GC], n. 28342/95, § 20, CEDH 2000-I). GIURISPRUDENZA•ESPROPRIAZIONE 30. La Corte, nella sentenza resa sul caso principale, ha affermato che l’ingerenza nel diritto dominicale che aveva provocato la lite non aveva soddisfatto la condizione di legalità (paragrafi 61-63 della sentenza principale 30 maggio 2000). L’atto dello Stato italiano che la Corte ha ritenuto contrario alla Convenzione non era una espropriazione che sarebbe stata legittima se fosse stato pagato un indennizzo. Al contrario, si è trattato di un impossessamento da parte dello Stato del terreno dell’attrice, al quale quest’ultima non ha potuto rimediare (paragrafo 68 della sentenza principale). La Corte ha di conseguenza rigettato l’eccezione del Governo basata sul fatto che la parte attrice non avrebbe potuto chiedere una pronuncia equitativa, dal momento che avrebbe potuto domandare il risarcimento dei danni alle giurisdizioni nazionali (paragrafo 68 della sentenza principale). 31. Il carattere illecito di siffatto spossessamento si ripercuote per forza di cose sui criteri da impiegare per determinare la riparazione dovuta dallo Stato convenuto, in quanto le conseguenze finanziarie di un impossessamento lecito non possono essere assimilate a quelle di un impossessamento illecito (Ex-Re di Grecia ed altri c. Grecia (giudizio di equità) [GC], no 25701/94, § 75, CEDH 2002). 32. La Corte ha adottato una posizione simile nell’affare Papamichalopoulos (Papamichalopoulos c. Grèce (articolo 50) del 31 ottobre 1995, serie A, n. 330-B, 59, §§ 36 3 39). Essa la concluso per la sussistenza di una violazione in relazione ad una espropriazione di fatto irregolare (occupazione di terreno da parte della marina greca, dal 1967) che durava da più di venticinque anni alla data della sentenza resa il 24 luglio 1993. La corte ha ingiunto in conseguenza allo Stato greco di versare ai richiedenti, per il danno e la perdita di possesso da quando le autorità avevano preso possesso di tali terreni, il valore attuale incrementato dal plusvalore derivante dall’esistenza di alcuni edifici che erano stati costruiti dopo l’occupazione. 33. Tenuto conto delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene che nel presente caso la natura della violazione accertata dalla sentenza le consente di prendere le mosse dal principio della restituito in integrum. 34. La corte prende atto della posizione negativa dello Stato in relazione ad una eventuale restituzione del terreno. In difetto di restituzione del terreno l’indennizzo dovrà, come deciso nell’affare Papamichalopoulos richiamato e concernente l’impossessamento illecito in sé, eliminare totalmente le conseguenze dell’ingerenza nel diritto dominicale. In base all’illegalità intrinseca dell’impossessamento, l’indennizzo deve necessariamente riflettere il valore intero e totale dei beni. 35. Con riguardo al danno patrimoniale, la Corte ritiene in conseguenza che l’indennizzo accordato alla parte attrice non si limiti al valore che la sua proprietà aveva alla data dell’occupazione. Per questa ragione essa ha invitato il perito a valutare anche il valore attuale del terreno oggetto del contendere e gli altri pregiudizi. 36. La Corte ritiene che lo Stato dovrà versare all’interessata il valore attuale del terreno. A questo importo, si aggiungerà una somma relativa al mancato godimento del terreno dal momento in cui le autorità hanno preso possesso di esso nel 1987 e per il deprezzamento dell’immobile. Inoltre, in difetto di controdeduzioni del Governo sulla perizia, viene accordata una somma per il mancato guadagno nell’attività alberghiera 37. Quanto alla determinazione dell’ammontare di tale indennizzo, la Corte recepisce le conclusioni della perizia per la valutazione del pregiudizio subito. L’ammontare si determina in 763. 691 Euro. B. DANNO MORALE 38. L’attrice pretende 30.000 Euro a titolo di danno morale che le avrebbe causato il comportamento dello Stato. In difetto di restituzione del terreno, l’attrice pretende una somma di 100.000 Euro. 39. Il governo ritiene che l’accertamento della violazione costituisca una soddisfazione sufficiente. 40. Resta da verificare se la richiedente possa pretendere la riparazione di un danno morale. La Corte ricorda a tale riguardo che non bisogna escludere in linea generale la possibilità di accordare la riparazione del pregiudizio morale causato ad una persona giuridica: ciò dipende da circostanze delle singole fattispecie (Comingersoll c. Portogallo [GC], no 35382/97, CEDH 2000-IV, §§ 32-35). La Corte non può dunque escludere, alla stregua della propria giurisprudenza, che possa esserci per una società commerciale un danno non solo materiale che esiga una riparazione pecuniaria. 41. Nel presente caso, il carattere illecito della privazione del terreno e il persistere di tale situazione, ha causato al titolare della Belvedere Alberghiera s.r.l. ed ai suoi amministratori e soci, inconvenienti considerevoli, considerando al riguardo la conduzione degli affari correnti della società. A tale fine, deve tenersi conto del fatto che la società richiedente è stata coinvolta in una situazione che giustifica la concessione di un indennizzo. 42. Giudicando secondo equità, come richiede l’art. 41, la Corte concede alla richiedente 25.000 Euro. …Omissis… V INTERESSI MORATORI 52. La corte giudica appropriato calcolare gli interessi moratori in misura pari al tasso di interesse determinato dalla Banca centrale europea per le operazioni di rifinanziamento marginale maggiorato di tre punti percentuali (*). PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE ALL’UNANIMITA’ 1. dichiara, a) che la perizia è valida; Nota: (*) Tale tasso designa il saggio applicato alle operazioni di finanziamento a un giorno. CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 733 GIURISPRUDENZA•ESPROPRIAZIONE b) che lo Stato convenuto deve versare all’attrice, entro tre mesi dal giorno in cui la sentenza sarà divenuta definitiva conformemente all’art. 44 §2 della convenzione, le somme seguenti: I 763.691 Euro per danno materiale; II 25.000 Euro per danno morale; III 30.000 Euro per le spese più IVA e CPA; IV tutto quanto dovuto a titolo di imposta sulle predette somme; c) che lo Stato convenuto deve versare al perito, sig. Dini, entro i suddetti tre mesi, 10.000 Euro; d) che, a partire dalla scadenza suddetta e fino al versamento, tali somme saranno maggiorate di un interesse semplice commisurato un tasso pari a quello praticato per le operazioni di rifinanziamento marginale dalla Banca centrale europea durante questo periodo, aumentato di 3 punti percentuali. [omissis] CORTE DEI DIRITTI DELL’UOMO E OCCUPAZIONE ILLEGITTIMA ATTO SECONDO: IL RISARCIMENTO DEL DANNO IN FORMA SPECIFICA di Roberto Conti La sentenza Belvedere Alberghiera che si commenta, di poco precedente a Corte dir. uomo 13 dicembre 2003, Carbonara e Ventura di cui si avrà pure modo di parlare chiude, almeno temporaneamente, le due vicende che avevano originato le dure condanne rese dal giudice dei diritti umani nei confronti dello Stato italiano a proposito delle occupazioni illegittime operate dall’amministrazione pubblica in danno dei proprietari (1). Corte dir. uomo 30 ottobre 2003, Belvedere Alberghiera Corte dir. uomo 30 ottobre 2003, Belvedere Alberghiera, dopo un supplemento istruttorio nel corso del quale è stata disposta una perizia, ha preso atto delle difese spiegate dall’Italia che si era strenuamente opposta alla domanda restitutoria ritenendo, per un verso, che la restituzione era impossibile per le ragioni espresse dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato - sent. n. 1/1996 - e, per altro verso, che l’azione di risarcimento danni che l’attrice aveva la facoltà di proporre davanti alle giurisdizioni italiane poteva compensare la violazione lamentata. La Corte, tuttavia, non ha accolto tale prospettazione, rilevando che il carattere radicalmente illecito dello spossessamento impediva di escludere, in termini astratti, il diritto alla restituito in integrum, incombendo comunque sullo Stato l’obbligo di realizzarla. A tale premessa, tuttavia, la Corte faceva seguire la precisazione che ove il diritto nazionale non permettesse l’eliminazione delle conseguenze della violazione, essa avrebbe potuto accordare alla parte lesa una tutela diversa che fosse comunque appropriata alla violazione. Preso atto, allora, della posizione assunta dal Governo italiano, la Corte chiariva che in difetto di restituzione del terreno si sarebbe potuto provvedere all’indennizzo che avrebbe potuto eliminare completamente le conseguenze dannose. Il giudice di Strasburgo ha poi richiamato la pro- 734 CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 pria giurisprudenza che impedisce di parificare, ai fini del ristoro spettante al proprietario, l’espropriazione lecita a quella illecita (2). E proprio in ragione dell’intrinseca illegalità dell’impossessamento l’indennizzo doveva necessariamente comprendere il valore pieno ed integrale dei beni e dei pregiudizi sofferti. In questa prospettiva, la Corte ha ritenuto di dovere condannare lo Stato italiano oltre che al danno morale anche al ristoro del valore attuale del terreno, del mancato godimento del bene a far data dalla perdita del possesso dall’epoca dell’occupazione e del mancato guadagno patito nell’esercizio dell’attività di albergatore del proprietario a causa della perdita dell’accesso al mare per i clienti della struttura alberghiera. Si è trattato, a ben vedere, di una condanna esemplare anche dal punto di vista dell’importo riconosciuto al proprietario che sembra andare oltre il caso specifico. Non va peraltro sottaciuta l’opinione conforme del giudice Lorenzen che non ha condiviso i criteri risarcitori utilizzati dalla Corte, auspicando che gli stessi non possano costituire un precedente di riferimento per casi analoghi. Tale critica ha preso le mosse dalla considerazione che l’occupazione illegale aveva riguardato una superficie esigua ed anche considerando l’epoca dell’acquisto dell’immobile ha considerato eccessiva la liquidazione del danno per la perdita dei guadagni e per il mancato godimento dell’area. Tali critiche, tuttavia, non hanno condotto il giudice di Strasburgo a negare il proprio consenso alla decisione in considerazione dell’assenza di contestazioni da parte del Governo italiano. Note: (1) Cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo 30 maggio 2000 - Belvedere Alberghiera c. Italia e Corte europea dei diritti dell’uomo 30 maggio 2000 - Carbonara e Ventura c. Italia, in questa Rivista, 2001, 4,460 ss. con note di Carbone e Bultrini. (2) Corte dir. uomo, 23 novembre 2000, Ex Re di Grecia c. Grecia, in Riv. intern. dir. uomo, 2001, 285 e Osservatorio, in questa Rivista, 2001, 5, 673. GIURISPRUDENZA•ESPROPRIAZIONE La restitutio in integrum come momento centrale - ma non indefettibile - della tutela proprietaria Si è già avuto modo di rilevare che, nel caso Belvedere, la vicenda sottostante doveva essere inquadrata, almeno secondo le coordinate interne fissate dalla Cassazione, nell’ambito dell’occupazione usurpativa, rispetto alla quale viene pacificamente riconosciuta al proprietario tanto la tutela reipersecutoria quanto, in caso di c.d. abdicazione del diritto, il diritto all’integrale risarcimento del danno pari al valore venale dell’area. Ed in effetti il carattere centrale della tutela restitutoria in caso di occupazione usurpativa è stato più volte evidenziato tanto dalla Cassazione (3) che dal giudice amministrativo. Proprio il Consiglio di Stato (4) ha recentemente ribadito che «la effettività della tutela del cittadino nei confronti dell’attività, provvedimentale o materiale, della pubblica amministrazione, predicata a livello costituzionale dagli artt. 24 e 113, impone di non considerare la tutela restitutoria o ripristinatoria come eventuale o eccezionale, limitata ad ipotesi residuale, ed anzi spinge a ritenere che proprio la tutela risarcitoria patrimoniale deve essere considerata sussidiaria rispetto alla prima, con la conseguenza che essa deve considerarsi praticabile solo quando quella restitutoria non possa essere conseguita con successo: anche in tale prospettiva va infatti interpretato il principio di legalità e buon andamento dell’azione amministrativa, sancito dal già ricordato art. 97 della Costituzione, in quanto l’interesse pubblico prevalente (alla conclusione dei lavori o alla realizzazione dell’opera) può invocarsi solo quando il provvedimento amministrativo sia stato legittimamente emanato, non potendo altrimenti sacrificarsi la tutela reale del cittadino all’integrità del diritto illecitamente leso». Orbene, la centralità della tutela restitutoria nel sistema sovranazionale esce confermata dalla sentenza Belvedere con peculiarità straordinariamente simili a quelle che caratterizzano l’attuale esperienza giuridica italiana nella quale, peraltro, non sono agevolmente individuabili precedenti giurisprudenziali che hanno accolto domande restitutorie concernenti beni già asserviti stabilmente alle esigenze pubbliche per effetto della realizzazione di opere programmate. La Corte dei diritti umani, infatti, di fronte alla posizione governativa che aveva difeso a tutto campo la decisione del Consiglio di Stato nella fase interna del contenzioso promosso dalla società Belvedere fino al punto da ritenere - in antitesi con quanto ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità - che si era verificata un’ipotesi esproprio indiretto anche in assenza di valida dichiarazione di p.u. riconosce, in via astratta, il carattere indefettibile della tutela restitutoria a fronte di uno spossessamento illecito. Epperò, richiamando la propria giurisprudenza, consente allo Stato artefice della violazione della C.E.D.U. un’ulteriore chance che, nel garantirgli comunque la disponibilità delle aree ove si è realizzata l’o- pera pubblica, impone tuttavia il risarcimento integrale del valore del bene perduto. La stessa Corte, infatti, nella sentenza Papamichalopoulos (5), dopo avere riconosciuto che la perdita di qualsiasi disponibilità di beni unitamente all’insuccesso dei tentativi volti a porre rimedio alla situazione dannosa può configurare un’espropriazione di fatto incompatibile con il diritto al rispetto della proprietà tutelato dall’art. 1 del primo protocollo addizionale, aveva per la prima volta condannato il Governo greco alla restituzione dei fondi consentendogli, tuttavia, in caso di motivi connessi ad interessi nazionali di difesa, di corrispondere al proprietario una forma equivalente di risarcimento. Ciò rendeva palese che una condanna alla restitutio in integrum si giustificava, certo, in ragione del carattere illecito della condotta ma, tuttavia, non poteva che passare attraverso una scelta non coercibile dello Stato inadempiente. Rimane ora, da sottolineare, l’importanza della sentenza Belvedere che sembra confermare la tendenza della Corte dei diritti umani ad implementare il significato delle proprie decisioni, non più considerate come aventi valore meramente dichiarativo, ma anzi rivolte direttamente ad individuare in concreto la misura che lo Stato inadempiente deve realizzare per elidere la violazione precedentemente perpetrata. E tale adempimento dell’obbligo di esecuzione, che la stessa Corte aveva tradizionalmente riservato alla sfera esclusiva dello Stato, sembra essere risucchiato nell’ambito di operatività delle sentenze di Strasburgo. Sicché l’alternativa risarcitoria, che pure prospetta la Corte, appare caratterizzata da connotati sanzionatori ben più gravi di quelli correlati alla misura di esecuzione diretta individuata dai giudici sovranazionali, soprattutto quando si è in presenza di violazioni radicali del principio di legalità (6). Corte dir. uomo, 11 dicembre 2003, Carbonara e Ventura: l’integrale risarcimento, patrimoniale e morale, per i fatti di occupazione acquisitiva A distanza di pochi mesi dalla seconda sentenza Belvedere Alberghiera, la Corte dei diritti dell’uomo ha definito anche il procedimento di liquidazione dell’indennizzo reclamato da Carbonara e Ventura nell’altro giudizio che aveva condotto all’affermazione della responsabilità dello Stato italiano per violazione dell’art. 1 prot. n. 1 alla CEDU. Note: (3) Cass. 12 dicembre 2001, n. 15710, in Giust. civ. Mass., 2001, 2140. (4) Cons. Stato 29 aprile 2002 n. 2280, in Urbanistica e appalti, 2002, 9,1045. (5) Corte dir. uomo 24 giugno 1993, Papamichalopoulos e altro c. Grecia, in Riv. dir. int. 1994, 492. (6) Padelletti, La tutela della proprietà nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cit., 263. CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 735 GIURISPRUDENZA•ESPROPRIAZIONE La sentenza, nel confermare taluni principi espressi nella Belvedere rappresenta, probabilmente, il definitivo punto di non ritorno rispetto alla costruzione dell’occupazione acquisitiva, confermando quanto si era andato dicendo a proposito della condanna senza appello che la Corte dei diritti umani aveva già pronunziato con le due sentenze del maggio 2000 (7). In essa si ribadisce anzitutto la divaricazione netta tra espropriazione lecita ed ablazione legittima della proprietà che, ancora oggi, la Cassazione appare volere dissimulare (8). La Corte, icasticamente, rileva che la condotta di occupazione acquisitiva ha integrato un’ingerenza contraria alla condizione di legalità e dunque arbitraria e che «l’atto del Governo italiano che la Corte ha ritenuto contrario alla Convenzione non era una espropriazione che sarebbe stata legittima se fosse stato pagato un indennizzo, ma un illegale impossessamento sui beni dei ricorrenti» (9). Non può sottacersi la stretta sintonia di tale affermazione con quella contenuta nella vicenda Belvedere, nella quale i giudici di Strasburgo, per descrivere la condotta usurpativa, avevano parlato di “impossessamento da parte dello Stato del terreno dell’attrice, al quale quest’ultima non ha potuto rimediare” ed altrove di “illegalità intrinseca dell’impossessamento”, proprio a significare che nessuna differenza ontologica la Corte ha colto fra fatto illecito perpetrato in presenza di una dichiarazione di p.u. e condotta materiale usurpativa. Il che conforta le critiche già espresse all’indirizzo delle Sezioni Unite conclamato con le più volte ricordate tre sentenze del 2003. Tale carattere illecito dello spossessamento, riconosciuto anche nel caso Carbonara, doveva quindi ripercuotersi, in base alla giurisprudenza della stessa Corte - Corte dir. uomo 28 novembre 2002, ex Re di Grecia (10) - sui criteri da adottare per determinare la riparazione dovuta dallo Stato convenuto, «non potendo le conseguenze patrimoniali di un impossessamento lecito essere assimilate a quelle di uno spossessamento illecito» (11). L’affermazione è di estrema importanza se si legge insieme al principio, pure espresso dal giudice di Strasburgo, che l’espropriazione per finalità legittime di pubblica utilità può giustificare un rimborso inferiore al valore di mercato integrale - Corte dir. uomo, Papachelas(12). Infatti, il riconoscimento del diritto all’integrale risarcimento del danno riconosciuto nel caso Carbonara e Ventura parifica in modo netto ed inequivocabile le ipotesi di occupazione illegittima che le Sezioni unite continuano invece a distinguere, agli effetti risarcitori, elidendo ogni soluzione di continuità fra occupazione acquisitiva ed usurpativa. Tale affermazione, peraltro, sconfessa decisamente l’assunto, contenuto nelle tre sentenze delle Sezioni Unite del 2003 che, sulla scia della giurisprudenza co- 736 CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 stituzionale, avevano con foga ribadito la conformità del risarcimento non integrale sia alla Costituzione che alla Convenzione, peraltro richiamando, a tale ultimo proposito, la sola sentenza James della Corte dei diritti umani. Passando ora agli altri aspetti della decisione, viene quindi confermato, in parallelo all’affermazione contenuta nella quasi coeva Corte dir. uomo 30 ottobre 2003, Belvedere, cit., il principio che la natura della violazione constatata nella sentenza principale consente alla Corte di “partire dal principio di una restitutio in integrum”. Ancora una volta, il giudice di Strasburgo, nel ritenere che lo Stato ha l’obbligo di restituire il terreno, mostra di non cogliere alcuna diversità sostanziale rispetto al caso Belvedere Alberghiera, la cui gravità - in punto di violazione dell’art. 1 Prot. n. 1 C.E.D.U. - è assolutamente sovrapponibile a quella correlata all’occupazione acquisitiva prodottasi nel caso Carbonara. È stato comunque precisato che gli Stati contraenti sono liberi di scegliere i mezzi da utilizzare per conformarsi ad una sentenza della Corte dei diritti umani che constati una violazione, tanto che l’obbligo della restitutio in integrum può essere sostituito, ove il diritto nazionale non permette o non permette che in maniera imperfetta di eliminare le conseguenze della violazione, con altra misura più appropriata alla stregua di quanto previsto dall’art. 41 C.E.D.U. (13). Note: (7) Sia consentito il rinvio a Conti, commento sub art. 43, in L’espropriazione per pubblica utilità nel nuovo testo unico, a cura di Caringella e De Marzo, Milano, 2002, 441, Id., CEDU, Sezioni Unite ed occupazione acquisitiva:un amore finito male, in Urbanistica e appalti 2003, 1031. (8) Di recente, Cass. 16 maggio 2003 n. 7643, in Foro it., 2003, I, 2333, ha escluso l’incostituzionalità dell’art. 5 bis comma 7 bis d.l. n. 333/1992 convertito in l. n. 359/1992 introdotto dall’art. 3 comma 65 l. n. 662/1996 nella parte in cui non estende i criteri risarcitori riduttivi ivi contemplati ai fatti di occupazione usurpativa, ribadendo, sulla scia di Cass.S.U.1907/1997, che la dichiarazione di p.u. priva di termini non è dotata dei necessari requisiti di completezza concernenti l’opera pubblica in funzione della quale è attribuito il potere ablatorio, sicché deve essere ritenuta giuridicamente inesistente o nulla ab origine e dunque inidonea ad affievolire il diritto soggettivo di proprietà sui beni espropriati. Anche in tale occasione la Cassazione ha continuato a descrivere il pregiudizio da occupazione appropriativa come indennizzo di cui all’art. 42 Cost. avente natura risarcitoria peculiare delle fattispecie ablative atipiche . (9) Punto 36 sent. cit. (10) Corte dir .uomo, 28 novembre 2002, Ex Re di Grecia ed altri c. Grecia, Osservatorio, in questa Rivista, 2003, 5, 673. (11) Punto 37 sent. Carbonara cit. che ricorda, tra l’altro il caso Ex Re di Grecia ed altri c. Grecia, cit. p. 75 che, a sua volta, rimandava ad un precedente reso in sede di giustizia internazionale dal tribunale arbitrale iracheno-americano - sent. 14 luglio 1987, Amoco International Finance Corporation - nel quale si affermava:«Occorre distinguere nettamente tra espropriazioni lecite e espropriazioni illecite, poiché le regole applicabili all’indennizzo che dovrà versare lo Stato espropriante variano in funzione della qualificazione giuridica della privazione di proprietà. (12) Corte dir. uomo, 25 marzo 1999, Papachelas, Osservatorio, in questa Rivista, 1999, 9, 1171, § 48. (13) La Corte, nel p. 35 della motivazione, ricorda in particolare la sentenza 23 gennaio 2001, Brumarescu c. Romania, in www.echr.coe.int. GIURISPRUDENZA•ESPROPRIAZIONE In tale evenienza, peraltro, l’indennizzo da stabilire deve riflettere, secondo la Corte, l’idea di una totale eliminazione delle conseguenze della ingerenza oggetto della lite - p. 39 - . Ancora una volta, la Corte rievoca il caso Papamichalopoulos, utilizzando un iter motivazionale sostanzialmente sovrapponibile a quello espresso nella ricordata sentenza Belvedere del 30 ottobre 2003. Appare quindi consequenziale l’affermazione che il danno materiale sofferto dai proprietari occupati dal comune di Noicattero non poteva limitarsi al valore che aveva la loro proprietà alla data della sua occupazione, ma doveva muovere dalla valutazione attuale del fondo siccome condizionato dalla successiva costruzione di edifici, fra cui la scuola realizzata sull’area illecitamente occupata (14). Sulla scorta di tali premesse, la Corte ha deciso che lo Stato è tenuto a versare agli interessati il valore attuale del terreno aumentato del plusvalore apportato dall’esistenza dell’edificio. Infatti, dalla relazione di perizia era risultato che detto terreno e la zona circostante che disponevano di una potenzialità di sviluppo urbanistico erano stati valorizzati dalla costruzione di edifici, fra i quali la scuola. Solo una comparazione dei valori, stimati dal consulente nominato dalla Corte, consente di comprendere le conseguenze devastanti per le finanze dello Stato derivate dalla condanna pronunziata dalla Corte sovranazionale. Ed infatti, a fronte di una stima dell’area, ritenuta edificabile in assenza di strumento urbanistico all’epoca dell’occupazione, di euro 200.449 - valore rivalutato secondo gli indici ISTAT - la Corte ha riconosciuto ai proprietari l’importo di euro 493.906,05, pari al valore dell’area al momento della stima - così considerando il sopravvenuto piano regolatore che aveva inserito l’area tra le superfici edificabili - e l’ulteriore aggiunta di euro 891.488,55, pari al plusvalore apportato al fondo dall’esistenza di parti di un edificio - appunto la scuola realizzata dall’amministrazione comunale - . È quindi chiaro che il metodo di liquidazione dell’equo indennizzo per i fatti di occupazione acquisitiva per nulla si è discostato da quello operato nel caso Belvedere Alberghiera che aveva riguardato una vicenda di occupazione radicalmente illecita - in quanto non assistita da dichiarazione di pubblica utilità-. Il danno morale per la violazione dell’art. 1 prot. n. 1 alla CEDU In aggiunta alle poste attive riconosciute in favore della società Belvedere Alberghiera e dei sigg.ri Carbonara e Ventura, la Corte dei diritti umani ha pure liquidato, in entrambi i giudizi, i danni morali patiti dai proprietari. Nel caso Belvedere, il giudice sovranazionale ha ritenuto che il proprietario, ancorché persona giuridica aveva subito, attraverso il suo titolare, gli amministratori ed i soci, inconvenienti considerevoli in relazione al- la gestione dell’albergo posto in zona limitrofa ai terreni interessati dall’illecito spossessamento, quantificati in euro 25.000 (15). Nella vicenda Carbonara e Ventura la Corte ha parimenti ritenuto che la violazione della C.E.D.U. ha comportato per i ricorrenti “un sicuro danno morale, risultante da un senso di impotenza e di frustrazione di fronte allo spossessamento illegale dei loro beni” - p. 44 sent.-. Orbene, è noto che la giurisprudenza di Strasburgo, richiamando il principio fondamentale di effettività, ha più volte ritenuto che l’efficacia del diritto garantito dall’art. 6 CEDU «esige che una riparazione pecuniaria anche per il danno morale possa essere riconosciuta anche ad una società commerciale. Il pregiudizio non patrimoniale può infatti comportare, per codesta società, elementi più o meno “oggettivi” o “soggettivi”, fra i quali occorre riconoscere la reputazione dell’impresa, ed anche l’incertezza nella pianificazione delle decisioni da assumere, i disturbi cagionati alla gestione dell’impresa stessa, le cui conseguenze non si prestano ad un preciso calcolo, ed infine, sia pure in minima misura, l’angoscia e i fastidi patiti dai componenti degli organi di direzione della società» (16). La soluzione espressa nella sentenza Belvedere va quindi rapportata all’esperienza italiana ove il danno morale in favore di enti collettivi, pur riconosciuto, viene agganciato alla lesione dei diritti della personalità compatibili con l’assenza di fisicità - diritto all’esistenza, all’identità, al nome, all’immagine, alla reputazione pur negandosi la rilevanza dei dolori e dei patimenti delle persone fisiche che fanno parte a vario livello del sodalizio (17). Il che dimostra, a contrario, quanto risulti approfondita la soglia di tutela del diritto dominicale per i giudici sovranazionali. Note: (14) Va brevemente ricordato che nel caso Zubani - Corte dir. uomo 7 agosto 1996 - il proprietario aveva subito l’occupazione sine titulo di una superficie per la realizzazione di alloggi di edilizia economica popolare. Dopo avere adito la giurisdizione ordinaria prima - per rivendicare la restituzione del possesso - ed il giudice amministrativo - per ottenere l’annullamento degli atti illegittimi e la restituzione del fondo - nelle more della definizione dei giudizi era intervenuta la legge n. 458/1988 - c.d. legge Zubani - che aveva normativizzato l’istituto dell’occupazione appropriativa. Il proprietario, dopo avere ottenuto l’integrale risarcimento del danno, aveva quindi adito la Corte dei diritti dell’uomo che aveva sì escluso che la legge suddetta, nel dare prevalenza all’interesse pubblico sotteso alla realizzazione di alloggi destinati alla comunità, avesse integrato una violazione dell’art. 1 prot. n. 1 alla CE.D.U. Riconosceva però che l’indennizzo integrale dei pregiudizi subiti dal proprietario - comprensivo di rivalutazione ed interessi - costituiva una riparazione sufficiente, rilevando però che l’estrema difficoltà patita dal proprietario per ottenere il dovuto ristoro aveva comunque integrato una violazione del diritto fondamentale di proprietà. (15) Per l’ammissibilità del danno morale in favore delle persone giuridiche v. per l’esperienza italiana da ultimo Cass. 3 marzo 2000 n. 2367, in Danno e resp. 2000, 490 con nota di Carbone. (16) Corte dir. uomo 6 settembre 2000, Comingersoll s.a., in www.ecdh.com . (17) Cass. 23 settembre 2002 n. 15233, inedita. CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 737 GIURISPRUDENZA•ESPROPRIAZIONE È tuttavia l’analisi sincronica delle due decisioni ora commentate a mostrare, ancora una volta, il netto disfavore del giudice di Strasburgo rispetto alle condotte di spossessamento illecito rese possibili in Italia - ed anzi idonee a produrre l’effetto estintivo-acquisitivo - se solo si consideri una certa genericità della motivazione a proposito del senso di frustrazione subito dal proprietario persona fisica. Non è allora peregrino ipotizzare che il riconoscimento del pregiudizio non patrimoniale correlato alla perdita della proprietà conseguente alla violazione dell’art. 1 prot .n. 1 alla C.E.D.U. possa aprire un nuovo fronte nella tutela risarcitoria del diritto dominicale vulnerato da un’ingerenza illecita della pubblica amministrazione. Ed infatti, non può revocarsi in dubbio che la posizione della Corte si muove in un’ottica protesa ad elidere completamente gli effetti pregiudizievoli prodotti dalla violazione di un diritto fondamentale. Apparendo allora indiscutibile che l’art. 1 prot. n. 1 alla C.E.D.U. ha piena efficacia precettiva nell’ordinamento interno e risultando in modo altrettanto evidente che l’ordinamento nazionale ha previsto dei rimedi interni per ottenere il risarcimento del danno correlato alla violazione del diritto anzidetto alla stregua dell’art. 13 della CEDU, non pare potersi revocare in dubbio che spetterà al giudice nazionale valutare l’esistenza del danno morale e di quantificarne l’ammontare. Le decisioni appena ricordate rese in punto di danno non patrimoniale non rappresentano, del resto, una novità nella giurisprudenza della Corte dei diritti umani. Già nel caso Zubani quel giudice, decidendo separatamente la domanda di equa soddisfazione avanzata ex art. 41 C.E.D.U. (18), aveva riconosciuto ai proprietari la complessiva somma di £. 1.000.000.000 per i danni, patrimoniali e non patrimoniali, subiti per effetto della violazione dell’art. 1 prot. n. 1 alla C.E.D.U., ritenendo in quell’occasione meritevole di ristoro la frustrazione e l’ansia provocate per effetto della perdita del dominio che aveva costretto i proprietari a defatiganti giudizi protratti per circa 18 anni e definiti con il riconoscimento di un risarcimento del danno ancora non integralmente corrisposto dall’occupante abusivo doveva essere risarcita. Potrebbero allora riproporsi al giudice nazionale le questioni relative alla necessità di riconoscere il danno non patrimoniale come danno-evento, per il solo fatto della riconosciuta violazione dell’art. 1 Prot. n. 1 alla C.E.D.U. (19). È noto che la tematica è stata recentemente sviluppata dalle Sezioni Unite a proposito della c.d. legge Pinto - n. 89/2001 - giungendo alla conclusione che la prova del danno non patrimoniale, diversamente da quella piena necessaria per la liquidazione del pregiudizio patrimoniale, deve ritenersi in re ipsa, tanto che alla dimostrazione del diritto alla ragionevole durata del 738 CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 processo conseguirà normalmente la liquidazione del danno (20). Orbene, tale percorso argomentativo potrebbe spiegare validità anche per l’ipotesi di danno non patrimoniale correlato alla lesione del diritto di proprietà tutelato dall’art. 1 Prot. n. 1 alla CEDU. Il problema, d’altra parte, si inserisce nella attuale tendenza ad implementare le forme di tutela risarcitoria non patrimoniale correlate alla lesione di valori costituzionali. Se infatti con la formula del c.d. danno esistenziale si è dato voce a tutte quelle lesioni inerenti alla persona di rilievo costituzionale, anche se non connotate da rilevanza economica e non costituenti reato (21), non pare potersi revocare in dubbio che anche la lesione del diritto dominicale, ripercuotendosi negativamente sulla persona umana, impone un risarcimento. Né va sottaciuto che su diverso versante, Cass. pen. 25 novembre 2003-22 gennaio 2004, n. 2050 Ministero dell’economia (22) ha recentemente confermato l’interpretazione evolutiva dell’art. 2059 c.c. offerta dalla terza sezione civile della Cassazione (23), ritenendo che una lettura costituzionalmente orientata di tale disposizione imponga di ritenere inoperante il limite ivi posto se la lesione ha riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti ed in particolare «i diritti inviolabili dell’uomo riconosciuti e garantiti dall’art. 2 della Costituzione.» (24). L’ultima parola torna a Strasburgo: Corte dir. uomo 1° aprile 2004 - Maselli c. Italia A fugare i dubbi circa la soluzione adottata dal giudice di nomofilachia nelle tre sentenze che hanno sanNote: (18) Corte dir. uomo 7 agosto 1996, Zubani, cit. in www.dirittiuomo.it. (19) Il problema, dopo l’entrata in vigore del nuovo Testo Unico espropriazione, potrebbe porsi concretamente per le ipotesi di occupazione acquisitiva tuttora sottoposta, anche in forza dell’art. 55 T.U. espropriazione, al regime risarcitorio già previsto dal comma 7 bis dell’art. 5 bis della legge n. 359/1992. (20) V. Cass. sez. un., 26 gennaio 2004 nn. 1338, 1339, 1340, 1341, in questa Rivista, 2004, 5, 600, con nota di Conti, CEDU e diritto interno:le sezioni Unite si avvicinano a Strasburgo sull’irragionevole durata dei processi. (21) Da ultimo v.Cass. 31 maggio 2003 nn. 8827 e 8828, in questa Rivista, 2003, 8, 1017, con nota di Franzoni il cui diritto vivente è stato avallato da Corte cost. 11 luglio 2003 n. 233, ibidem, 2003, 8, 1028. (22) www.infoleges.it (23) Nella motivazione si legge che «con due sentenze depositate il medesimo giorno (31 maggio 2003 nn. 8828, che indica le soluzioni proposte, e 8827 che, su questi temi, richiama e fa proprie le argomentazioni dell’altra sentenza) la terza sezione civile di questa Corte ha ribadito innanzitutto come non possa più essere ricondotto, il concetto di danno non patrimoniale, al mero danno morale soggettivo e ha interpretato l’articolo 2059 in esame nel senso che «il danno non patrimoniale deve essere inteso come che categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona». (24) V. altresì Cass., sez. un., 11 marzo 2004 n. 5044, Osservatorio, in questa Rivista, 2004, 4, 433. GIURISPRUDENZA•ESPROPRIAZIONE cito la compatibilità dell’occupazione appropriativa con il sistema della Convenzione sarà, ancora una volta, la Corte dei diritti umani. Infatti, con una recente decisione resa l’1 aprile 2004 (25) la Corte dei diritti umani ha dichiarato ricevibile un’azione proposta da un proprietario nei confronti dell’Italia per violazione dell’art. 1 Prot. n. 1 alla CEDU. Il ricorrente ha in particolare lamentato la circostanza per cui, a più di quindici anni dalla privazione del suo terreno in forza di un decreto d’occupazione d’urgenza per pubblica utilità non seguito da un tempestivo decreto di esproprio formale, non era stato interamente indennizzato, precisando che il procedimento interno instaurato era tuttora pendente in primo grado e che era verosimile la sua conclusione con una statuizione che lo avrebbe fortemente penalizzato dal punto di vista economico per effetto delle disposizioni legislative applicabili - l. n. 662/1996-. In quella vicenda il decreto di esproprio formale era intervenuto ben oltre il termine di occupazione legittima e l’opera pubblica cui era finalizzata l’espropriazione era stata ultimata. La vicenda appare dunque chiaramente inquadrarsi nel principio dell’accessione invertita. Orbene, la Corte ha dichiarato la ricevibilità dell’azione malgrado l’opposizione del Governo italiano. Nella parte motiva del provvedimento il giudice di Strasburgo ripercorre velocemente le tappe che hanno condotto al riconoscimento del principio della c.d. accessione invertita evidenziando peraltro che le Sezioni Unite nel maggio 2003 avevano ritenuto la piena compatibilità dell’istituto con l’art. 1 del Protocollo 1^ alla CEDU e che però, l’art. 43 del T.U. espropriazione entrato in vigore il 30 giugno 2003 - d. P.R. n. 327/2001 modificato con il d.P.R. n. 302/2002 - era destinato a sostituire il precedente sistema ma solo a partire dall’epoca della sua entrata in vigore. E poiché la Corte ha dichiarato ricevibile il ricorso in pendenza del procedimento italiano volto ad ottenere il risarcimento del danno che secondo i criteri legali non può superare il 55 per cento del valore venale del fondo, sarà proprio Strasburgo a dire l’ultima parola sulla compatibilità dell’istituto pretorio con la CEDU. La decisione appena ricordata sembra in grado di produrre gli stessi effetti - dirompenti - che il caso Scordino ha avuto per le vicende nazionali relative alla durata irragionevole dei processi. Anche in questo caso, infatti, il giudice di Strasburgo, benché fosse pendente un giudizio interno nel quale la parte aveva reclamato il risarcimento del danno da occupazione appropriativa e che dunque doveva essere in grado di riparare le conseguenze interne del torto, non ha avuto esitazioni nel dichiarare ricevibile il ricorso. Ciò è stato fatto, probabilmente, sul presupposto che le istanze giudiziarie nazionali non presentano, in spregio all’art. 35 della CEDU, quei requisiti di effettività idonei alla tutela del diritto leso. Sarà dunque la Corte dei diritti umani a prendere posizione sul tema della quantificazione del risarcimento ridotto che, secondo le Sezioni Unite - 5902/2003 “non si pone in contrasto con la normativa della Convenzione in quanto …. l’articolo primo del primo protocollo addizionale alla Convenzione non garantisce sempre il diritto ad un risarcimento integrale, ben potendo una riforma del sistema economico ed obiettivi di giustizia sociale militare per un rimborso inferiore al valore corrente di mercato”. Affermazione quest’ultima, che stride con quanto la Corte dei diritti dell’uomo ha affermato a chiusura della vicenda Carbonara e Ventura. Sin d’ora, peraltro, può dirsi che tra la regolamentazione del nuovo Testo Unico sull’espropriazione e il vecchio istituto pretorio corrono differenze ontologiche e di sostanza particolarmente rilevanti che non è possibile sottacere, proprio per fugare l’idea, che pure sembra accarezzare la Corte dei diritti dell’uomo nella decisione Maselli, che la disciplina normativa si sia posta in linea di continuità con la giurisprudenza in tema di occupazione appropriativa. Ed invero, l’esclusione dell’effetto estintivo-acquisitivo per effetto dell’irreversibile trasformazione, la necessità di un atto amministrativo discrezionale che valuti l’opportunità di acquisire il bene al patrimonio indisponibile dello Stato, il riconoscimento automatico - in caso di acquisizione c.d. sanante - del diritto al risarcimento del danno - attribuito questa volta in via integrale - dimostrano indiscutibilmente, unitamente alla Relazione allo Schema di testo unico predisposta dal Consiglio di Stato (26), quanto l’art. 43 T.U. abbia rappresentato un Note: (25) Corte dir. uomo 1 aprile 2004, Maselli c. Italia in www.giustit.it (26) V. infatti il Parere di accompagnamento allo Schema di testo Unico sull’espropriazione per pubblica utilità - Cons Stato, 29 marzo 2001 n. 4/21001, in www.lexitalia.it - che nel descrivere la genesi dell’art. 43 del Testo Unico così si esprime: «… Tale istituto ha dato luogo a notevoli discussioni circa i suoi presupposti applicativi e circa la sua compatibilità col principio di legalità, sancito dagli articoli 42 e 97 della Costituzione. Sul punto, va segnalata la sentenza della Sez. II della Corte Europea dei diritti dell’uomo (30 maggio 2000, ric. 31524/96), da cui si evince che l’istituto in quanto tale si pone in contrasto con l’articolo 1 del protocollo n. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il riordino della materia, pertanto, deve tenere conto anche dell’esigenza di evitare che permanga tale contrasto» - p. 7-. Il Consiglio di Stato, ancora più esplicitamente, dà contezza del significato della disposizione che, inserita in un contesto inizialmente rivolto ad elidere la possibilità di occupare il bene prima dell’esproprio, intendeva parimenti eliminare le ipotesi di occupazione illegittima introducendo un procedimento rivolto all’acquisizione del bene: «...L’art. 43 mira ad eliminare la figura, sorta nella prassi giurisprudenziale, della occupazione appropriativa o espropriazione sostanziale (c.d. accessione invertita), nonché quella della occupazione usurpativa (alla quale, per la più recente giurisprudenza, non si applicano le vigenti disposizioni dell’art. 5 bis della legge n. 359 del 1992, sulla riduzione del quantum dovuto a titolo di risarcimento del danno).Come già sopra osservato, la riforma sembra essenziale, perché l’ordinamento deve adeguarsi ai principi costituzionali ed a quelli generali del diritto internazionale sulla tutela della proprietà. La Corte europea dei diritti dell’uomo (con la sentenza della Sez. II, 30 maggio 2000, ric. 31524/96) ha affermato che l’istituto, come affermatosi nell’ordina(segue) CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 739 GIURISPRUDENZA•ESPROPRIAZIONE momento di rottura verso un sistema che, per effetto della giurisprudenza costituzionale e di legittimità era andato forgiando un modo di acquisto della proprietà non previsto dalla legge e fondato su un illecito dell’amministrazione (27). Note: (segue nota 26) mento italiano, è contrario con l’articolo 1 del prot. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. L’art. 43 attribuisce all’Amministrazio- LIBRI ne il potere di emanare un atto di acquisizione dell’area al suo patrimonio indisponibile (con la peculiarità che non viene meno il diritto al risarcimento del danno), in base ad una valutazione discrezionale, sindacabile in sede giurisdizionale. Considerato che in materia di espropriazione, in presenza di un illecito della pubblica amministrazione (o di un soggetto per legge equiparato), sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, si prevede una particolare disciplina sostanziale e processuale, per il caso in cui il proprietario chieda la tutela del diritto di proprietà, con una azione petitoria o d’urgenza. Il giudice amministrativo può così complessivamente valutare la fondatezza della pretesa dell’Amministrazione»-p. 29.4(27) Sia consentito il rinvio a Conti, Commento all’art. 43, in L’espropriazione per pubblica utilità nel nuovo Testo unico, a cura di Caringella e De Marzo, Milano, 2002, 507 ss. Il procedimento di ingiunzione Giovanna Di Rosa Aggiornato con il d.lgs 9 ottobre 2002, n. 231 di attuazione della direttiva CE in materia di lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. Il volume fornisce un panorama completo delle tematiche della tutela monitoria nel processo civile e amministrativo e si propone di individuare e risolvere i problemi emersi in sede di attuazione della disciplina in materia. Si articola in due parti: la prima, sul procedimento monitorio in senso stretto, esamina le varie fattispecie di diritti azionabili, secondo una casistica assolutamente nuova e originale; la seconda, analizza la fase dell’opposizione, sino ai 740 CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 rimedi straordinari di impugnazione ed ai problemi dell’esecuzione. Il testo si caratterizza per il suo taglio pratico e per la presentazione di fattispecie inconsuete, alla luce della giurisprudenza di legittimità e di merito più recente, della dottrina e della legislazione extracodicistica. 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Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Genova Libertà di stabilimento - Iscrizione nel registro dei praticanti avvocati - Riconoscimento dei diplomi - Accesso alle attività regolamentate (Artt. 43 e 39 Trattato CE) Il diritto comunitario si oppone al rifiuto da parte delle autorità di uno Stato membro di iscrivere, nel registro di coloro che effettuano il periodo di pratica necessario per essere ammessi alla professione di avvocato, il titolare di una laurea in giurisprudenza conseguita in un altro Stato membro per il solo motivo che non si tratta di una laurea in giurisprudenza conferita, confermata o riconosciuta come equivalente da un’università del primo Stato. Sentenza 1. Con ordinanza 19 aprile 2001, pervenuta alla Corte l’8 agosto seguente, la Corte suprema di cassazione ha sottoposto, ai sensi dell’art. 234 CE, una questione pregiudiziale relativa all’interpretazione degli artt. 10 CE, 12 CE, 14 CE, 39 CE, 43 CE e 149 CE 2. Tale questione è stata sollevata nell’ambito di un ricorso per cassazione presentato dalla sig.ra Morgenbesser contro la decisione del Consiglio Nazionale Forense che ha confermato la decisione del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Genova di rifiutare la sua iscrizione nel registro dei praticanti. …Omissis… Osservazioni presentate alla Corte 35. La sig.ra Morgenbesser ritiene che l’attività di praticante e più specificamente quella di praticante-patrocinante rientrino nella nozione di «professione regolamentata» ai sensi della direttiva 89/48 dato che, da un lato, queste attività comprenderebbero la gestione autonoma delle cause pendenti, la consulenza ai clienti e, in taluni casi, la rappresentanza e difesa di questi ultimi e, dall’altro, sarebbero applicabili le norme professionali sull’avvocatura. 36. Il requisito di un previo riconoscimento della laurea da parte di un’università italiana previsto all’art. 17, comma 1, p. 4, del decreto legge n. 1578/33 violerebbe la direttiva 89/48. Quest’ultima consentirebbe di avvalersi di un diploma conseguito in uno Stato membro per l’esercizio di una professione in un altro Stato membro, poiché i diplomi che soddisfano le condizioni poste da questa direttiva sarebbero automaticamente equivalenti. 37. Per il caso di non applicabilità della direttiva 89/48, la sig.ra Morgenbesser ritiene, richiamando a tale riguardo la sentenza 8 luglio 1999, n. C-234/97, Fernández de Bobadilla (in Racc. I-4773), che l’art. 43 CE ri- chieda che l’autorità competente a trattare domande relative all’accesso alla professione, nella fattispecie il Consiglio dell’Ordine di Genova, proceda alla valutazione e all’esame comparativo delle conoscenze del richiedente basandosi esclusivamente sul suo diploma di «maîtrise en droit». 38. Il Consiglio dell’Ordine di Genova sostiene che i praticanti non esercitano né una «professione regolamentata» ai sensi della direttiva 89/48 né un’«attività» ai sensi dell’art. 43 CE e seguenti, ma si trovano in un semplice rapporto di formazione. 39. Il governo danese ritiene che la direttiva 89/48 non si applichi alla fattispecie di cui alla causa principale, poiché la formazione necessaria per l’accesso alla professione non sarebbe stata completata. I principi sanciti dalla Corte nella sentenza 7 maggio 1991, n. C-340/89, Vlassopoulou (in Racc. I-2357), richiederebbero non un riconoscimento automatico del diploma estero, ma solo un esame comparativo delle conoscenze e delle qualifiche attestate dal diploma ottenuto in un altro Stato membro. Tuttavia, un periodo di tirocinio compiuto in un altro Stato membro potrebbe essere riconosciuto in forza dell’art. 5 della direttiva 89/48. 40. Il governo italiano fa valere che la causa principale riguarda il riconoscimento di titoli accademici, che dovrebbe essere distinto dal riconoscimento di titoli professionali. 41. Secondo la Commissione, solo le attività che sono abitualmente svolte in maniera duratura e definitiva possono essere considerate come una «professione regolamentata» ai sensi della direttiva 89/48. La Commissione dubita che l’attività di praticante di cui trattasi nella causa principale possa rientrare in questa nozione. 42. Non trovando applicazione la direttiva 89/48, i principi generali d’interpretazione dell’art. 43 CE, elaborati nelle sentenze Vlassopoulou, cit., e 30 novembre 1995, n. C-55/94, Gebhard (in Racc. I-4165), potrebbe- CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 741 GIURISPRUDENZA•DIRITTO COMUNITARIO ro opporsi a una normativa nazionale che subordina l’iscrizione nel registro dei praticanti al riconoscimento, da parte di un’università dello Stato membro in cui il richiedente intende effettuare questo periodo di pratica, della laurea in giurisprudenza rilasciata in un altro Stato membro, allorché questo riconoscimento richiede la frequenza di un corso abbreviato, il superamento di tredici esami e la redazione di una tesi finale di laurea. Per il resto, la sig.ra Morgenbesser non avrebbe avuto la possibilità di far valere che, nel momento in cui ha presentato la sua domanda d’iscrizione nel registro dei praticanti, aveva già lavorato a tempo pieno in studi legali italiani. Giudizio della Corte 43. Per risolvere la questione pregiudiziale occorre innanzi tutto esaminare se un soggetto quale la ricorrente nella causa principale possa beneficiare delle disposizioni della direttiva 98/5 relativa alla professione di avvocato o di quelle della direttiva 89/48 relativa al reciproco riconoscimento di diplomi. Se queste direttive non sono applicabili, occorrerà poi esaminare se gli artt. 39 CE o 43 CE, come interpretati dalla Corte, in particolare nella citata sentenza Vlassopoulou, possano essere fatti valere in una situazione quale quella di cui alla causa principale. 44. Occorre precisare, in via preliminare, in considerazione della formulazione della questione posta, che né la direttiva 98/5, né la direttiva 89/48, né gli artt. 39 CE e 43 CE richiedono che il riconoscimento di un diploma sia puramente «automatico». 45. La direttiva 98/5 riguarda solo l’avvocato completamente qualificato come tale nel suo Stato membro di origine di modo che essa non si applica a coloro che non hanno ancora acquisito la qualificazione professionale necessaria per esercitare la professione di avvocato. Essa quindi non si applica in un caso quale quello di cui alla fattispecie della causa principale. 46. Per quanto riguarda la direttiva 89/48, essa si applica, ai sensi dell’art. 2, a qualunque cittadino di uno Stato membro che intenda esercitare come lavoratore autonomo o subordinato una «professione regolamentata» in uno Stato membro ospitante. 47. La sig.ra Morgenbesser sostiene ch’essa non rivendica l’accesso alla professione di avvocato, in quanto tale, ma, in questa fase, l’accesso a quella di praticante. A suo parere, l’attività del praticante rientra nella nozione di «professione regolamentata» ai sensi della direttiva 89/48. Poiché la sola condizione preliminare per accedere a questa professione è la laurea in giurisprudenza, essa potrebbe far valere la sua «maîtrise en droit» per ottenere tale accesso. Un numero non trascurabile di praticanti e di praticanti-patrocinanti che non hanno superato l’esame finale continuerebbero ad esercitare la loro attività legale senza tuttavia essere cancellati dal registro dei praticanti. 48. Secondo la definizione che risulta all’art. 1, lett. c), 742 CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 della direttiva 89/48, una professione regolamentata è «l’attività o l’insieme delle attività professionali regolamentate che costituiscono questa professione in uno Stato membro» e, secondo la definizione che figura in tale articolo, lett. d), l’attività professionale regolamentata è «un’attività professionale per la quale l’accesso alla medesima o l’esercizio o una delle modalità di esercizio dell’attività in uno Stato membro siano subordinati, direttamente o indirettamente mediante disposizioni legislative regolamentari o amministrative al possesso di un diploma». 49. Una professione deve quindi essere considerata regolamentata, ai sensi della direttiva 89/48, allorché l’accesso all’attività professionale di cui trattasi o l’esercizio della medesima è disciplinato da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative che istituiscono un regime che produce l’effetto di riservare espressamente tale attività professionale alle persone che soddisfano talune condizioni e di vietarne l’accesso a quelle che non le soddisfano (v. sentenze 1° febbraio 1996, n. C164/94, Aranitis, in Racc. I-135, p. 19, e Fernández de Bobadilla, cit., p. 17). 50. L’accesso alle attività di praticante e di praticantepatrocinante di cui trattasi nella causa principale, nonché l’esercizio delle medesime sono disciplinati da disposizioni legislative che istituiscono un regime che riserva tali attività a coloro che soddisfano talune condizioni e ne vieta l’accesso a coloro che non le soddisfano. 51. Tuttavia, dalle dette disposizioni deriva che l’esercizio di queste attività è concepito nel senso che costituisce la parte pratica della formazione necessaria per accedere alla professione di avvocato. Dopo sei anni, il praticante-patrocinante che non supera l’esame previsto all’art. 17, comma 1, p. 6, del decreto legge n. 1578/33 non sarà più autorizzato, secondo i termini di queste disposizioni, a continuare l’attività che esercitava in tale qualità. 52. In tale contesto, l’attività di praticante-patrocinante non può essere qualificata come «professione regolamentata» ai sensi della direttiva 89/48, separabile da quella della professione di avvocato. 53. Il fatto che un numero non trascurabile di praticanti-patrocinanti, che non hanno superato l’esame finale, continui ad esercitare attività legali e non sia cancellato dal registro dei praticanti, non può avere la conseguenza di qualificare le attività di praticante o di patrocinante, considerate isolatamente, come professione regolamentata ai sensi della direttiva 89/48. 54. Risulta inoltre che la sig.ra Morgenbesser, non avendo ottenuto in Francia il «certificat d’aptitude à la profession d’avocat» (CAPA) (certificato d’idoneità alla professione di avvocato), non possiede i titoli professionali per accedere allo status di «stagiaire» (praticante) nell’ambito della professione di avvocato in questo Stato membro. In tale contesto, la «maîtrise en droit» di cui dispone non costituisce, di per sé sola, un «diplo- GIURISPRUDENZA•DIRITTO COMUNITARIO ma, certificato o altro titolo» ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva 89/48. 55. Ne deriva che la sig.ra Morgenbesser non può avvalersi della direttiva 89/48. 56. In considerazione di quanto precede, occorre esaminare se gli artt. 39 CE e 43 CE trovino applicazione nella fattispecie di cui alla causa principale. Solo nel caso in cui queste disposizioni non fossero applicabili sarebbe necessario esaminare le altre disposizioni del Trattato menzionate dal giudice del rinvio nella sua questione. 57. Secondo la giurisprudenza, i cui principi sono stati enunciati nella citata sentenza Vlassopoulou, le autorità di uno Stato membro, quando esaminano la domanda di un cittadino di un altro Stato membro diretta a ottenere l’autorizzazione all’esercizio di una professione regolamentata, debbono prendere in considerazione la qualificazione professionale dell’interessato procedendo ad un raffronto tra, da un lato, la qualificazione attestata dai suoi diplomi, certificati e altri titoli nonché dalla sua esperienza professionale nel settore e, dall’altro, la qualificazione professionale richiesta dalla normativa nazionale per l’esercizio della professione corrispondente (v., da ultimo, sentenza 16 maggio 2002, n. C232/99, Commissione c. Spagna, in Racc. I-4235, p. 21). 58. Tale obbligo si estende a tutti i diplomi, certificati ed altri titoli, nonché all’esperienza acquisita dall’interessato nel settore, indipendentemente dal fatto che siano stati conseguiti in uno Stato membro o in un paese terzo, e non cessa di esistere in conseguenza dell’adozione di direttive relative al reciproco riconoscimento dei diplomi (v. sentenze 14 settembre 2000, n. C238/98, Hocsman, in Racc. I-6623, pp. 23 e 31, e Commissione c. Spagna, cit., p.22). 59. Secondo il Consiglio dell’Ordine di Genova, l’attività di praticante costituisce un’attività di formazione, alla quale non si applicano le disposizioni degli artt. 39 CE e 43 CE. 60. Tuttavia, il periodo di pratica di cui trattasi nella causa principale comporta l’esercizio di attività, normalmente retribuite o dal cliente o dallo studio dove il praticante lavora, al fine di accedere a una professione regolamentata alla quale si applica l’art. 43 CE. Nella misura in cui la retribuzione del praticante assume la forma di un salario, può trovare applicazione anche l’art. 39 CE. 61. Sia l’art. 39 CE sia l’art. 43 CE possono quindi trovare applicazione a una situazione quale quella di cui alla causa principale. Tuttavia, l’analisi non differisce a seconda che venga fatta valere la libera circolazione dei lavoratori o la libertà di stabilimento per opporsi al rifiuto, da parte del Consiglio dell’Ordine di Genova che opera in qualità di autorità competente per l’iscrizione nel registro dei praticanti, di prendere in considerazione, ai fini dell’iscrizione, la laurea in giurisprudenza ottenuta in un altro Stato membro e l’esperienza professionale acquisita. 62. Come la Corte ha già precisato, l’esercizio del diritto di stabilimento viene ostacolato se le norme nazionali fanno astrazione dalle conoscenze e dalle qualifiche già acquisite dall’interessato in un altro Stato membro, di modo che le autorità nazionali competenti devono valutare se tali conoscenze siano valide ai fini dell’accertamento del possesso delle conoscenze mancanti (v. citt. sentenze Vlassopoulou, pp. 15 e 20, e Fernández de Bobadilla, p. 33). 63. In tale contesto, contrariamente a quanto sostiene il governo italiano, non si tratta, in un caso quale quello di cui alla fattispecie della causa principale, di una semplice questione di riconoscimento di titoli accademici. 64. È vero che il riconoscimento, per fini accademici e civili, dell’equivalenza di un diploma ottenuto in un primo Stato membro può essere pertinente, e persino determinante, per l’iscrizione all’albo degli avvocati di un secondo Stato membro (v., a tale riguardo, sentenza 28 aprile 1977, n. C - 71/76, Thieffry, in Racc., 765). 65. Non ne deriva tuttavia che, ai fini dei controlli che l’autorità competente dello Stato membro ospitante deve effettuare in circostanze quali quelle della fattispecie di cui alla causa principale, è necessario verificare l’equivalenza accademica del diploma di cui si avvale l’interessato rispetto al diploma normalmente richiesto dai cittadini di tale Stato. 66. La presa in considerazione del diploma dell’interessato, quale la «maîtrise en droit» rilasciata da un’università francese, deve quindi essere effettuata nell’ambito della valutazione dell’insieme della formazione, accademica e professionale, che quest’ultimo può far valere. 67. Ne deriva che spetta all’autorità competente verificare, conformemente ai principi sanciti dalla Corte nelle citate sentenze Vlassopoulou e Fernández de Bobadilla, se, e in quale misura, si debba ritenere che le conoscenze attestate dal diploma rilasciato in un altro Stato membro e le qualifiche o l’esperienza professionale ottenute in quest’ultimo, nonché l’esperienza ottenuta nello Stato membro in cui il candidato chiede di essere iscritto, soddisfino, anche parzialmente, le condizioni richieste per accedere all’attività di cui trattasi. 68. Questa procedura di valutazione deve consentire alle autorità dello Stato membro ospitante di assicurarsi obiettivamente che il diploma straniero attesti, da parte del suo titolare, il possesso di conoscenze e di qualifiche, se non identiche, quanto meno equivalenti a quelle attestate dal diploma nazionale. Tale valutazione dell’equivalenza del diploma straniero deve effettuarsi esclusivamente in considerazione del livello delle conoscenze e delle qualifiche che questo diploma, tenuto conto della natura e della durata degli studi e della formazione pratica di cui attesta il compimento, consente di presumere in possesso del titolare (v. sentenze 15 ottobre 1987, n. C-222/86, Heylens e a., in Racc. 4097, p. 13, e Vlassopoulou, cit., p.17). CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 743 GIURISPRUDENZA•DIRITTO COMUNITARIO 69. Nel contesto di questo esame uno Stato membro può tuttavia prendere in considerazione differenze obiettive relative tanto al contesto giuridico della professione considerata nello Stato membro di provenienza quanto al suo campo di attività. Nel caso della professione di avvocato, lo Stato membro ha pertanto il diritto di procedere ad un esame comparativo dei diplomi tenendo conto delle differenze rilevate tra gli ordinamenti giudiziari nazionali interessati (sentenza Vlassopoulou, cit., p.18). 70. Se a seguito di questo esame comparativo dei diplomi si arriva alla constatazione che le conoscenze e le qualifiche attestate dal diploma straniero corrispondono a quelle richieste dalle disposizioni nazionali, lo Stato membro è tenuto ad ammettere che questo diploma soddisfa le condizioni fissate da dette disposizioni. Se, invece, a seguito di tale confronto emerge una corrispondenza solo parziale tra dette conoscenze e qualifiche, lo Stato membro ospitante ha il diritto di pretendere che l’interessato dimostri di aver maturato le co- noscenze e le qualifiche mancanti (sentenza Vlassopoulou, cit., p. 19). 71. A questo proposito, spetta alle autorità nazionali competenti valutare se le conoscenze acquisite nello Stato membro ospitante nel contesto di un ciclo di studi ovvero anche di un’esperienza pratica siano valide ai fini dell’accertamento del possesso delle conoscenze mancanti (sentenza Vlassopoulou, cit., p. 20). 72. In considerazione di quanto precede, occorre risolvere la questione posta dal giudice nazionale nel senso che il diritto comunitario si oppone al rifiuto da parte delle autorità di uno Stato membro di iscrivere, nel registro di coloro che effettuano il periodo di pratica necessario per essere ammessi alla professione di avvocato, il titolare di una laurea in giurisprudenza conseguita in un altro Stato membro per il solo motivo che non si tratta di una laurea in giurisprudenza conferita, confermata o riconosciuta come equivalente da un’università del primo Stato. …Omissis… II CORTE DI GIUSTIZIA 13 novembre 2003, n. C-153/02 Pres. Edward - Avv. gen. Jacobs - Neri c. European School of Economics (ESE Insight World Education System Ltd) Libertà di stabilimento - Riconoscimento dei diplomi - Diploma rilasciato da un’università avente sede in uno Stato membro - Istruzione propedeutica al diploma impartita in un altro Stato membro e da un altro istituto di istruzione (Artt. 39 e 43 Trattato CE) L’art. 43 Trattato CE osta a una prassi amministrativa in forza della quale i diplomi universitari rilasciati da un’università di uno Stato membro non possono essere riconosciuti in un altro Stato membro quando i corsi propedeutici a tali diplomi sono stati tenuti in quest’ultimo Stato membro ad opera di un diverso istituto di istruzione in conformità ad un accordo concluso fra tali due istituti. Sentenza …Omissis… Domande pregiudiziali 32. Con ordinanza 18 aprile 2002, il Giudice di pace di Genova ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte le seguenti tre questioni pregiudiziali: «1) Se i principi del Trattato CE relativi alla libera circolazione delle persone (artt. 39 ss.), al diritto di stabilimento (artt. 43 ss.), alla libera circolazione dei servizi (art. 49 ss.) così come interpretati nella giurisprudenza elaborata dalla Corte di giustizia siano compatibili con norme o prassi amministrative dell’ordinamento nazionale quali quelle descritte ai punti III e IV della presente ordinanza. Ed in particolare con norme e/o prassi amministrative nazionali le quali: – ostacolino lo stabilimento italiano di una società di capitali, il cui centro di attività principale è nel Regno 744 CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 Unito, all’esercizio nello Stato ospitante di una attività consistente nell’organizzazione e nella gestione di corsi di studio per la preparazione ad esami universitari, attività per il cui esercizio la società è regolarmente abilitata e accreditata da parte delle istituzioni statali britanniche; – comportino effetti discriminatori rispetto ai soggetti nazionali che svolgono analoghe attività; – vietino e/o gravemente ostacolino lo stabilimento italiano della società stessa nell’acquisto, in altro Stato membro e a titolo oneroso, dei servizi propedeutici all’esercizio dell’attività sopra indicata; – disincentivino gli studenti a iscriversi a questi corsi di studio; – ostacolino la formazione professionale degli studenti iscritti, nonché il conseguimento di un titolo che può attribuire al suo titolare sia vantaggi per accedere ad una attività professionale, sia vantaggi per esercitarla con maggior profitto anche in altri Stati membri. GIURISPRUDENZA•DIRITTO COMUNITARIO 2) Se la direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/48/CEE, nell’interpretazione del suo art. 2, che qui viene richiesta alla Corte di giustizia, attribuisca diritti che possono essere invocati anche anteriormente al conseguimento del diploma di cui all’art. 1 della direttiva stessa. E, in caso di risposta positiva al presente quesito, se la direttiva stessa, anche alla luce di quanto già statuito dalla Corte con sentenza 7 marzo 2002, n. C145/99 - Commissione contro Repubblica italiana - sia compatibile con norme o prassi amministrative dell’ordinamento nazionale le quali: - demandino il riconoscimento dei diplomi d’istruzione superiore che sanzionano formazioni professionali di una durata minima di tre anni alla mera discrezionalità della Pubblica amministrazione; - ammettano al riconoscimento i titoli rilasciati da Università riconosciute in Gran Bretagna solo se conseguiti dopo regolare frequenza dell’intero corso di studi in territorio estero, con l’esclusione quindi dei titoli rilasciati sulla base dei periodi di studio svolti presso istituzioni estere operanti in Italia, ancorché autorizzate ed accreditate dalle Pubbliche Autorità a ciò deputate dello Stato membro di appartenenza; - impongano la presentazione di una attestazione della rappresentanza diplomatico-consolare italiana nel Paese estero in cui è stato rilasciato il titolo che comprovi l’effettivo soggiorno in loco dell’interessato per tutto il periodo degli studi universitari; - limitino il riconoscimento dei diplomi esclusivamente allo svolgimento di una professione già svolta nel Paese di provenienza, escludendo quindi qualsiasi riconoscimento ai fini dell’accesso ad una professione regolamentata ancorché non in precedenza esercitata. 3) Quale sia il significato e la portata di pregiudizievole interruzione della formazione professionale nell’interpretazione della decisione del Consiglio 2 aprile 1963, 63/266, e se in tale accezione possa rientrare l’istituzione, sul piano nazionale, da parte della Pubblica Amministrazione di un sistema permanente d’informazione il quale evidenzia che i titoli di studio rilasciati da una Università, ancorché legalmente riconosciuta in Gran Bretagna, non possono essere riconosciuti dall’ordinamento nazionale se conseguiti sulla base di periodi di studi svolti sul territorio nazionale». …Omissis… Sulle questioni pregiudiziali 37. Con la sua prima questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se gli artt. 39 CE, 43 CE e 49 CE ostino a una prassi amministrativa, quale quella di cui alla causa principale, in forza della quale i diplomi universitari del secondo ciclo rilasciati da un’università di uno Stato membro non sono riconosciuti in un altro Stato membro quando i corsi propedeutici a tali diplomi sono stati tenuti in quest’ultimo Stato membro ad opera di un diverso istituto di istruzione, in conformità ad un accordo concluso fra tali due istituti. 38. Si deve rilevare che la sig.ra Neri fa valere tale prassi amministrativa dinanzi al giudice del rinvio per chiedere la restituzione delle spese d’iscrizione versate all’ESE, mentre l’ESE si oppone alla detta prassi amministrativa sulla base del diritto comunitario. Per dare alle questioni pregiudiziali una soluzione che possa essere utile ai fini della definizione della controversia dinanzi al giudice del rinvio è quindi necessario interpretare il diritto comunitario con riferimento all’attività dell’ESE. 39. Si deve precisare a tale proposito che l’organizzazione, dietro corrispettivo, dei corsi di formazione superiore è un’attività economica che rientra nel capitolo del Trattato relativo al diritto di stabilimento quando è svolta da un cittadino di uno Stato membro in un altro Stato membro, in maniera stabile e continuativa, a partire da un centro di attività principale o secondario in quest’ultimo Stato membro (v., in tal senso, sentenza 15 gennaio 2002, n. C-439/99, Commissione c. Italia, in Racc. I-305, p. 21). 40. Posto che l’ESE, che ha la sua sede principale nel Regno Unito, organizza corsi di formazione superiore a partire dalle sedi secondarie in Italia, e, nella fattispecie, a partire dalla sua sede di Genova, è necessario esaminare le questioni pregiudiziali, nei limiti in cui esse attengono alle libertà fondamentali tutelate dal Trattato, sotto il profilo della libertà di stabilimento dell’ESE. 41. L’art. 43 CE impone l’abolizione delle restrizioni alla libertà di stabilimento. Devono essere considerate come tali tutte le misure che vietano, ostacolano o rendono meno attraente l’esercizio di tale libertà (v. sentenza 7 marzo 2002, n. C-145/99, Commissione c. Italia, in Racc. I-2235, p. 22). 42. Per un istituto di istruzione, quale l’ESE, che organizza corsi di formazione intesi a permettere agli studenti di ottenere diplomi che possano facilitare il loro accesso al mercato del lavoro, il riconoscimento di tali diplomi da parte delle autorità di uno Stato membro presenta un’importanza rilevante. 43. È evidente che una prassi amministrativa, quale quella controversa nella causa principale, in forza della quale taluni diplomi rilasciati a conclusione dei corsi di formazione universitaria tenuti dall’ESE non sono riconosciuti in Italia, può dissuadere gli studenti dal seguire tali corsi e in tal modo ostacolare gravemente l’esercizio da parte dell’ESE della sua attività economica in tale Stato membro. 44. Occorre quindi constatare che una prassi amministrativa quale quella di cui trattasi nella causa principale rappresenta una restrizione alla libertà di stabilimento dell’ESE ai sensi dell’art. 43 CE. 45. Il governo italiano sembra voler giustificare tale restrizione con la necessità di garantire un livello elevato dell’istruzione universitaria. Esso sostiene che l’ordinamento giuridico italiano non accetta accordi quale quello di cui trattasi nella causa principale in materia di formazione universitaria, in quanto rimane legato a una visione di tale formazione quale «bene pubblico» in cui CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 745 GIURISPRUDENZA•DIRITTO COMUNITARIO si esprimono i valori culturali e storici di uno Stato. Secondo tale governo, un simile accordo in materia di formazione universitaria impedisce il controllo diretto della qualità degli istituti privati da parte delle autorità competenti sia nello Stato d’origine sia nello Stato ospitante. 46. Occorre tuttavia rilevare che, se l’obiettivo di garantire un livello elevato delle formazioni universitarie sembra legittimo per giustificare restrizioni alle libertà fondamentali, tali restrizioni devono essere idonee a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e non devono andare oltre quanto necessario per il raggiungimento di questo (v. sentenza 15 gennaio 2002, Commissione c. Italia, cit., p. 23). 47. Posto che l’ordinamento giuridico italiano sembra ammettere, ai sensi dell’art. 8, n. 1, della legge n. 341/90, accordi fra università italiane e altri istituti italiani di studi superiori che sono simili alla convenzione stipulata tra la NTU e l’ESE, e che dalla nota citata al punto 13 della presente sentenza sembra emergere che il mancato riconoscimento dei diplomi rilasciati in circostanze analoghe a quelle di cui alla causa principale riguarda solamente il titoli rilasciati a cittadini italiani, la prassi amministrativa esposta nell’ordinanza di rinvio non risulta idonea a realizzare l’obiettivo, fatto valere dal Governo italiano, di garantire un elevato livello delle formazioni universitarie. 48. In ogni caso, la prassi amministrativa di cui trattasi non sembra rispondere alle esigenze di proporzionalità rispetto all’obiettivo perseguito. 49. Infatti, come sottolineato dall’avvocato generale al paragrafo 49 delle sue conclusioni, la prassi amministrativa descritta nell’ordinanza di rinvio sembra escludere qualsiasi esame da parte delle autorità nazionali e, pertanto, qualsiasi possibilità di riconoscimento dei diplomi rilasciati in circostanze quali quelle di cui alla causa principale. 50. È giocoforza rilevare che una tale prassi amministrativa va oltre quanto necessario per garantire l’obiettivo perseguito. 51. Di conseguenza, occorre risolvere la prima questione pregiudiziale nel senso che l’art. 43 CE osta a una prassi amministrativa, quale quella controversa nella causa principale, in forza della quale i diplomi universitari rilasciati da un’università di uno Stato membro non possono essere riconosciuti in un altro Stato membro quando i corsi propedeutici a tali diplomi sono stati tenuti in quest’ultimo Stato membro ad opera di un diverso istituto di istruzione in conformità ad un accordo concluso fra tali due istituti. 52. Considerata la soluzione data alla prima questione, non è necessario risolvere la seconda e la terza questione. ….Omissis… LA CORTE DI GIUSTIZIA E IL RICONOSCIMENTO DEI DIPLOMI: RECENTI SVILUPPI di Stefano Bastianon Premessa Con le due pronunce in rassegna, entrambe rese il 13 novembre 2003, la Corte di giustizia è intervenuta nuovamente su un tema - il riconoscimento dei diplomi - particolarmente importante sotto il profilo della libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione europea (1), ancora oggi, ad oltre dieci anni dalla fatidica data del 1992, oggetto di dubbi interpretativi tutt’altro che marginali, come confermano i due rinvii pregiudiziali, rispettivamente della Cassazione (n. C-313/01, Morgenbesser) e del Giudice di pace di Genova (n. C153/02, Neri), che hanno dato luogo ai responsi in esame. Giova subito rilevare, peraltro, che le fattispecie portate al vaglio del giudice comunitario nelle vicende Morgenbesser e Neri si presentano alquanto distinte, e risultano accomunate unicamente dal fatto che, in entrambi i casi, la Corte di giustizia è stata chiamata a fornire la propria interpretazione in ordine al significato e alla portata che deve essere attribuito al principio del riconoscimento dei diplomi sotto il profilo della libertà di stabilimento. Ciononostante, la coevità delle due 746 CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 sentenze unitamente al tema, comune ad entrambe, affrontato dalla Corte suggeriscono in questa sede un esame congiunto delle stesse. Inoltre, con specifico riferimento alla pronuncia Morgenbesser merita di essere sottolineato che si tratta del primo caso portato davanti al giudice comunitario relativo alla posizione di un praNota: (1) In generale, sulla libera circolazione dei lavoratori autonomi v., tra i molti, A. Tizzano, La libera circolazione dei servizi nella CEE: profili generali, in A Tizzano (a cura di), Professioni e servizi nella CEE, 1985, 2 ss.; Id., Circolazione dei servizi nei Paesi della CEE, in Noviss. dig. it., Appendice. I, 1980, 1209; Id., Stabilimento e prestazione di servizi nella giurisprudenza comunitaria, in Foro it., 1977, V, 345; U. Leanza, Il diritto di stabilimento, in Pennacchini, Monaco, Ferrari Bravo e Puglisi (a cura di), Manuale di diritto comunitario, II, 1984, 111; Capotosti, voce Prestazione di servizi. I) Diritto della Comunità Europea, in Enc. giur., XXIV, 1991; Adobati, Lauree ed accesso alla libera professione nell’Unione Europea, in Dir. com. scambi internaz., 1995, 93; L. Daniele, Il diritto materiale della Comunità europea. Introduzione allo studio del mercato interno e delle politiche comunitarie, 1995, 51 e ss. Più di recente, v. M. Condinanzi, A. Lang, B. Nascimbene, Cittadinanza dell’Unione e libera circolazione delle persone, Milano, 2003. GIURISPRUDENZA•DIRITTO COMUNITARIO ticante avvocato, posto che sino alla sentenza in esame la Corte aveva avuto modi di pronunciarsi soltanto con riferimento a soggetti in possesso della qualifica di avvocato (2). La vicenda Morgenbesser La causa C-313/01 trae spunto dalla vicenda di una cittadina francese (Morgenbesser) residente in Italia, la quale, in forza di un diploma di maîtrise en droit conseguito presso un’università francese e di un periodo di pratica svolta, dapprima, presso uno studio legale di Parigi e, in seguito, presso uno studio legale di Genova, aveva chiesto l’iscrizione al registro speciale dei praticanti previsto dall’art. 8 del R.d.l. n. 1578/33 (3). Sia il Consiglio dell’Ordine di Genova sia il Consiglio Nazionale Forense, adito in sede di ricorso avverso la decisione del Consiglio dell’Ordine di Genova, respingevano tale richiesta: il primo, in quanto l’art. 17, primo comma, n. 4, R.d.l. n. 1578/33 subordina l’iscrizione al registro dei praticanti al possesso della laurea in giurisprudenza conferita o confermata in un’università italiana; il secondo, invece, in quanto la sig. ra Morgenbesser non era abilitata in Francia all’esercizio della professione di avvocato e non era in possesso del titolo professionale necessario per conseguire l’iscrizione nel registro dei praticanti in Italia. Per tale motivo, la sig. ra Morgenbesser (la cui domanda di riconoscimento del diploma conseguito nello Stato di origine nel frattempo inoltrata all’Università di Genova era stata subordinata alla frequenza di un corso abbreviato di due anni, al superamento di tredici esami e alla redazione di una tesi di laurea) decideva di proporre ricorso in Cassazione contro la decisione del C.N.F.; nell’ambito di tale giudizio, la Suprema Corte ha deciso di sospendere il procedimento e di domandare alla Corte di giustizia se, indipendentemente dal riconoscimento e dalla convalida, un titolo di studio conseguito da un cittadino comunitario in uno Stato della Comunità (nella specie, la Francia) possa essere automaticamente fatto valere in un altro paese (nella specie, l’Italia) ai fini dell’iscrizione nel registro di coloro che svolgono il periodo di pratica richiesto per essere ammessi alla professione di avvocato. In altre parole, e più semplicemente come rileva la stessa Corte di giustizia, «la questione posta dalla Corte suprema di cassazione mira essenzialmente ad accertare se il diritto comunitario si opponga al rifiuto delle autorità di uno Stato membro d’iscrivere nel registro di coloro che effettuano il periodo di pratica necessaria per essere ammessi alla professione di avvocato il titolare di una laurea in giurisprudenza ottenuta in un altro Stato membro per il solo motivo che non si tratta di una laurea in giurisprudenza conferita o confermata in un’università del primo Stato» (4). La decisione della Corte Nel rispondere a tale quesito il giudice comunitario parte dalla preliminare constatazione che nel caso di specie non possono trovare applicazione né le disposizioni della direttiva 98/5 né quelle della direttiva 89/48. La prima, infatti, si riferisce unicamente al diritto di stabilimento dell’avvocato completamente qualificato come tale nel proprio Stato di origine e, pertanto, non può essere invocata da un soggetto che, lungi dall’aver conseguito la qualifica di avvocato nel proprio Stato di origine, si limita a chiedere di essere iscritto nel registro dei praticanti (5). Più delicato, per contro, si rivela l’esame della possibilità di invocare nel caso di specie le disposizioni di cui alla direttiva 89/48 (6). Come noto, ai sensi della direttiva da ultimo ricordata una professione deve essere considerata regolamentata allorché l’accesso all’attività professionale di cui trattasi, o l’eserNote: (2) Corte di giustizia 21 giugno 1974, n. C-2/74, Reyners, in Racc., 631; 3 dicembre 1974, n. C - 33/74, Van Bisbergen, ivi, 1299; 29 aprile 1977, n. C - 71/76, Thieffry, ivi, 765; 12 luglio 1984, n. C-107/83, Klopp, ivi, 2971; 25 febbraio 1988, n. C-427/84, Commissione c. Repubblica Federale di Germania, ivi, 1123; 7 maggio 1991, n. C-340/89, Vlassopoulou, ivi, I2379; 30 novembre 1995, n. C-55/94, Gebhard, ivi, I-4168 nonché in questa Rivista, 1996, 11, 1216, con nota di M. Condinanzi, L’avvocato comunitario tra … Corte di giustizia e Corte costituzionale. Su quest’ultima pronuncia, v. anche Cass, 18 marzo 1999, n. 146, ivi, 1999, 12, 1522, con nota di S. Bastianon, Il diritto di stabilimento per l’avvocato comunitario tra legge interna e direttiva europea, R. Danovi, La professione forense in Europa: prospettive e limiti, in La toga e l’avvocato, Milano, 1993, 237, nonché E. Adobati, Differenza tra libera prestazioni di servizi e libertà di stabilimento per l’esercizio della professione forense secondo la sentenza della Corte di giustizia nel caso Gebhard, in Dir. com. e scambi int., 1996, 293. (3) R.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, Ordinamento della professione di avvocato, in G.U.R.I. n. 281 del 5 dicembre 1933, convertito nella l. 22 gennaio 1934, n. 36, in G.U.R.I. n. 23 del 30 gennaio 1934. (4) Punto 33. Con sentenza 19 aprile 2004, n. 7373, inedita la Cassazione ha accolto il ricorso presentato dalla Morgenbesser alla stregua del principio di diritto enunciato dalla Corte di giustizia e ha rinviato al Consiglio nazionale forense. (5) Direttiva 98/5/CE del 16 febbraio 1998 del Parlamento europeo e del Consiglio volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquisita la qualifica, in G.U.C.E., L. 077 del 14 marzo 1998. Per una precisa ricostruzione delle tappe che hanno condotto all’approvazione della direttiva 98/5/CE v. G.A. Dal-L. Defalque, La direttiva stabilimento, in Rass. forense, 1999, 903. Per un primo commento alla normativa di recepimento contenuta nel d. lgs. n. 96/2001, v. R. Danovi, Senza soci di capitale e con la consulenza alle “stp” il passo giusto verso l’integrazione dei mercati, in Guida al diritto, 2001, n. 15, 59; G. Colavitti, La libertà di stabilimento. Analisi del decreto legislativo di attuazione della Direttiva 98/5/CE, in Diritto e giustizia, 2001, 49; S. Bastianon, D. lgs. n. 96/2001: avvocati stabiliti, avvocati integrati e società tra professionisti, in questa Rivista, 2001, 5, 602. V. altresì, R. Danovi, S. Bastianon, G. Colavitti, La libertà di stabilimento e la società tra avvocati, Milano, 2001. (6) Numerosi sono gli Autori che, in Italia e all’estero, si sono occupati, sotto diversi profili, della direttiva 89/48. Senza alcuna pretesa di completezza, limitandosi all’Italia, v., a mo’ d’esempio, V. Scordamaglia, La direttiva CEE sul riconoscimento dei diplomi, in Foro it., 1990, IV, 392; R. Baldi, La liberalizzazione della professione forense nel quadro della direttiva comunitaria 21 dicembre 1988 (89/48/CEE), in Riv. dir. int. priv. proc., 1991, 345; C. Zilioli, L’apertura delle frontiere intracomunitarie ai professionisti: la direttiva CEE n. 89/48, in Dir. com. scambi int., 1989, 421. Per quanto riguarda la normativa interna di recepimento della direttiva 89/48 v., per tutti, R. Danovi, L’attuazione della direttiva sul riconoscimento dei diplomi (d. lgs. 27 gennaio 1992, n. 115), in La toga e l’avvocato, Milano, 1993. CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 747 GIURISPRUDENZA•DIRITTO COMUNITARIO cizio della medesima, risulta disciplinato da disposizioni legialstive, regolamentari o amministrative che istituiscono un regime che ha l’effetto di riservare espressamente tale attività professionale alle persone che soddisfano talune condizioni e di vietarne l’accesso a quelle che non le soddisfano (7). Sotto tale profilo, peraltro, muovendo dall’assunto secondo cui l’attività di praticante risulta «concepit[a] nel senso che costituisce la parte pratica della formazione necessaria per accedere alla professione di avvocato» (8), la Corte ha ritenuto di escludere che l’attività, certamente regolamentata, del praticante possa essere qualificata come professione regolamentata ai sensi della direttiva 89/48, distinta e separabile dalla professione di avvocato (9). A tale riguardo, interessanti si rivelano le osservazioni svolte dall’Avv. gen. Stix-Hackl nelle Conclusioni presentate il 20 marzo 2003, nelle quali si sottolinea la rilevanza, ai fini dell’applicabilità della direttiva 89/48, della professione di avvocato intesa come un prodotto finale. Ad avviso dell’Avvocato generale, infatti, se in uno Stato membro l’accesso alla professione di avvocato è subordinato allo svolgimento, in epoca successiva a quella del conseguimento del diploma, di un’attività di tirocinio sotto la guida di una persona che sia a tutti gli effetti in possesso della qualifica professionale di avvocato, ciò avviene soltanto quando il praticante/tirocinante ottiene un attestato relativo alla conclusione di tale attività che certifichi, si sensi della direttiva 89/48, che la formazione professionale richiesta oltre al ciclo di studi post-secondari è stata seguita con successo. Ciò premesso, l’Avvocato generale ritiene che l’attività del praticante avvocato in Italia non possa essere qualificata come professione regolamentata in considerazione del fatto che tali attività risultano limitate nel tempo. In particolare, si sottolinea che «un praticante avvocato svolge le sue attività esclusivamente durante il suo periodo di formazione. Le attività sono soltanto espressione del fatto che la formazione alla professione di avvocato comporta appunto anche attività pratiche. Distinguere concettualmente tali attività dalla formazione e qualificarle come vera e propria professione significherebbe tuttavia trascurare che l’attività di un praticante avvocato - almeno di un “patrocinatore” - costituisce solo una tappa intermedia verso la professione di avvocato». Ad avviso dell’Avvocato generale, inoltre, significativo risulta il fatto che il d.lgs. n. 115/92 di recepimento della direttiva 89/48 non contempli, nell’ambito delle professioni giuridiche elencate all’art. 6, quella del praticante avvocato (10). In ogni caso, ad avviso della Corte un altro motivo per cui le disposizioni di cui alla direttiva 89/48 non potrebbero essere utilmente fatte valere dalla Sig. ra Morgenbesser deriva dal fatto che quest’ultima non ha ottenuto in Francia il certificat d’aptitude à la profession d’avocat, indispensabile per accedere allo status di stagiaire nell’ambito della professione di avvocato nello Stato membro di origine. Pertanto, poiché ai sensi dell’art. 1 748 CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 della direttiva 89/48 per diploma deve intendersi qualsiasi diploma, certificato o altro titolo dal quale risulti, tra l’altro, che il titolare possiede le qualifiche professionali richieste per accedere ad una professione regolamentata nello Stato membro in cui il diploma è stato conseguito, ne consegue che la sola maîtrise en droit conseguita in Francia dalla sig. ra Morgenbesser non può essere considerata un diploma ai sensi della disposizione in esame proprio perché non l’abilita all’accesso della professione di avvocato in Francia. (segue): La vicenda Morgenbesser alla luce del diritto comunitario primario I punti da 56 a 72 della sentenza Morgenbesser costituiscono il cuore della decisione in esame e forniscono all’interprete un’importante occasione per rimeditare talune conclusioni cui è pervenuta negli anni la Corte di giustizia. Il primo problema postosi al giudice comunitario era quello di stabilire se l’attività di praticante, in quanto attività di formazione, fosse soggetta alle norme in materia di diritto di stabilimento (art. 43) e di libera circolazione dei lavoratori (art. 39) oppure no. A tale riguardo, secondo la Corte l’art. 43 deve ritenersi applicabile in quanto il periodo di pratica professionale comporta l’esercizio di un’attività, normalmente retribuita o dal cliente o dallo studio dove il praticante lavora, finalizzata ad accedere ad una professione regolamentata alla quale si applica l’art. 43; inoltre, laddove la retribuzione del praticante assume i contorni di un salario vero e proprio non vi è motivo per escludere l’applicabilità anche dell’art. 39. Ciò premesso, la Corte si dà carico di precisare i principi-chiave che costituiscono lo stato dell’arte dell’elaborazione giurisprudenziale comunitaria in subiecta materia. E così, nell’ordine, si afferma che: a) le autorità di uno Stato membro, quando esaminano la domanda Note: (7) Corte di giustizia 1 febbraio 1996, n. C-164/94, Aranitis, in Racc., I135, p. 19; 8 luglio 1999, n. C-234/97, Fernandez de Bobadilla, ivi, I-4773. (8) Tanto è vero che, come rileva la Corte al punto 51 della sentenza, «dopo sei anni, il praticante-patrocinante che non supera l’esame previsto all’art. 17, primo comma, punto 6, del decreto legge n. 1578/33 non sarà più autorizzato, secondo i termini di queste disposizioni, a continuare l’attività che esercitava in tale qualità». (9) Ai fini che qui interessano è solo il caso di ricordare che a mente dell’art. 1, lett. c), della direttiva 89/48 s’intende per professione regolamentata «l’attività o l’insieme delle attività professionali regolamentate che costituiscono questa professione in uno Stato membro»; mentre a mente della successiva lett. d) della medesima norma si intende per attività professionale regolamentata «un’attività professionale per la quale l’accesso alla medesima o l’esercizio o una delle modalità di esercizio dell’attività in uno Stato membro siano subordinati, direttamente o indirettamente mediante disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, al possesso di un diploma». (10) D. lgs. 27 gennaio 1992, n. 115, Attuazione della direttiva (CEE) n. 48/89 relativa ad un sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione superiore che sanzionano formazioni professionali di una durata minima di tre anni, in G.U.R.I., n. 40 del 18 febbraio 1992. GIURISPRUDENZA•DIRITTO COMUNITARIO di un cittadino di un altro Stato membro diretta ad ottenere l’autorizzazione all’esercizio di una professione regolamentata, devono prendere in considerazione la qualificazione professionale dell’interessato procedendo ad un raffronto tra la qualificazione attestata dai suoi diplomi nonché dalla sua esperienza professionale e la qualificazione professionale richiesta dalla normativa nazionale per l’esercizio della professione corrispondente (11); b) tale obbligo persiste indipendentemente dall’adozione di direttive relative al reciproco riconoscimento dei diplomi (12); c) sussiste il concreto rischio di un ostacolo all’esercizio del diritto di stabilimento se le norme di uno Stato membro relative all’accesso ad una professione regolamentata non tengono nella giusta considerazione le conoscenze e le qualifiche già acquisite dall’interessato in un altro Stato membro (13). Sulla scorta di tali principi, la Corte sottolinea che, nel caso di specie, non si tratta soltanto di verificare l’equivalenza accademica della maîtrise en droit rilasciata da un’università francese alla laurea in giurisprudenza rilasciata da un’università italiana, ma occorre valutare il diploma straniero alla luce dell’insieme della formazione, accademica e professionale, della sig. ra Morgenbesser. Come rilevato dall’Avv. gen., infatti, anche se il diploma francese in questione non garantisce l’accesso immediato alla professione di avvocato in Francia, resta il fatto che si tratta pur sempre di un diploma che attesta determinate conoscenze e qualifiche. Ciò significa che spetta alle autorità nazionali competenti il compito di verificare «se e in quale misura si debba ritenere che le conoscenze attestate dal diploma rilasciato in un altro Stato membro e le qualifiche o l’esperienza professionale ottenute in quest’ultimo, nonché l’esperienza ottenuta nello Stato membro in cui il candidato chiede di essere iscritto, soddisfino, anche parzialmente, le condizioni richieste per accedere all’attività di cui trattasi» (14). In altre parole, la finalità di tale procedura di valutazione comparativa consiste nel consentire alle autorità dello Stato membro ospitante di accertare in modo obiettivo se al diploma straniero possa essere attribuita l’idoneità ad attestare, in capo al suo titolare, il possesso di conoscenze e qualifiche, se non identiche, quantomeno equivalenti a quelle attestate dal corrispondente diploma nazionale. Peraltro, in considerazione dell’accertata esistenza di differenze, talora anche rilevanti, relative all’esercizio dell’attività di avvocato all’interno dei singoli Stati membri, al punto 69 viene espressamente ribadito il diritto dello Stato membro ospitante «di procedere ad un esame comparativo dei diplomi tenendo conto delle differenze rilevate tra gli ordinamenti giudiziari nazionali interessati». In ogni caso, all’esito di tale esame comparativo due sono le possibili soluzioni: se si accerta che le conoscenze e le qualifiche attestate dal diploma straniero corrispondono esattamente a quelle richieste dal diritto interno, lo Stato membro deve accettare il diploma straniero come se fosse un diploma nazionale; in caso contrario, anche in presenza di una corrispondenza solo parziale tra dette conoscenze e qualifiche, lo Stato membro ospitante ha il diritto di pretendere che l’interessato dimostri di aver maturato le conoscenze e le qualifiche mancanti. Alla luce di quanto sopra, corretta appare la decisione della Corte secondo cui il diritto comunitario si oppone al rifiuto da parte delle autorità di uno Stato membro di iscrivere, nel registro di coloro che effettuano il periodo di pratica necessario per essere ammessi alla professione di avvocato, il titolare di una laurea in giurisprudenza conseguita in un altro Stato membro per il solo motivo che non si tratta di una laurea in giurisprudenza conferita, confermata o riconosciuta come equivalente da un’università del primo Stato. La vicenda Neri Dopo essersi iscritta alla Notthingam Trent University al fine di conseguire la laurea in scienze politiche ad indirizzo internazionale (Bachelor of Arts with honours in International Political Studies), la sig. ra Neri, al fine di evitare i rilevanti costi connessi al soggiorno nel Regno Unito per tutta la durata (quattro anni) degli studi, decise di seguire i corsi universitari in Italia, presso la sede di Genova della European School of Economics (ESE), società di diritto inglese che, pur non rilasciando titoli di studi propri, è autorizzata ad organizzare corsi per gli studenti della Notthingam Trent University in conformità ai piani di studio convalidati dalla stessa Notthingam Trent University. Ai sensi dell’art. 216 dell’Education Reform Act del 1998, infatti, il Ministro dell’educazione britannico approva un elenco di organismi, tra cui figura l’ESE, che possono impartire insegnamenti finalizzati al conseguimento di una laurea rilasciata da un’istituzione riconosciuta ed approvata da, o nell’interesse di, detta istituzione. Successivamente, la sig. ra Neri veniva a conoscenza del fatto che, con nota del Ministero dell’Università e della Ricerca scientifica e tecnologica dell’8 gennaio 2001, si stabiliva che i titoli di studio rilasciati da Università riconosciute in Gran Bretagna potevano essere riconosciuti in Italia soltanto se conseguiti dopo regolare frequenza dell’intero corso di studi presso le stesse università o altro istituto estero dello stesso livello di formazione; per contro, tale riconoscimento non operava nel caso di titoli rilasciati, a cittadini italiani, sulla base di periodi di studi svolti presso filiali o istituzioni private operanti in Italia e con le quali le università britanniche avevano stipulato convenzioni di diritto privato. Note: (11) Corte di giustizia 16 maggio 2002, n. C-232/99, Commissione c. Spagna, in Racc., I-4235, p. 21. (12) Corte di giustizia 14 settembre 2000, n. C-238/98, Hocsman, in Racc., I-6623, pp. 23 e 31. (13) Corte di giustizia 7 maggio 1991, n. C-340/89, Vlassopoulou, cit., pp. 15 e 20. (14) P. 67. CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 749 GIURISPRUDENZA•DIRITTO COMUNITARIO Ritenendo che tale nota del Ministero dell’Università e della Ricerca scientifica e tecnologica potesse dissuadere gli studenti dal seguire corsi quali quelli organizzati dall’ESE, ostacolando la libera circolazione delle persone (art. 39), il diritto di stabilimento (art. 43) e la libera prestazioni di servizi (art. 49), il Giudice di pace di Genova - adito dalla Sig. ra Neri per ottenere la restituzione della somma versata all’ESE a titolo di iscrizione al primo anno di studi -, ha deciso di sospendere il giudizio e di interpellare la Corte di giustizia ai sensi dell’art. 234 del Trattato. La decisione della Corte Il punto di partenza della decisione della Corte è rappresentato dalla constatazione che l’attività di organizzazione, dietro corrispettivo, di corsi di formazione superiore costituisce senz’altro un’attività economica ai sensi delle disposizioni del trattato in materia di diritto di stabilimento allorché sia svolta da un cittadino di uno Stato membro in un altro Stato membro, in maniera stabile e continuativa, a partire da un centro di attività principale o secondario in quest’ultimo Stato membro (15). Ne consegue, pertanto, che l’attività dell’ESE, così come in precedenza illustrata, rientra a pieno titolo nel novero delle attività cui si applica l’art. 43. Ciò premesso la Corte non incontra particolari difficoltà nell’evidenziare che una prassi che impedisce il riconoscimento in Italia di diplomi accademici conseguiti a seguito di corsi organizzati dall’ESE, da un lato, può dissuadere gli studenti dal seguire tali corsi e, dall’altro, ostacolare gravemente l’attività economica dell’ESE in Italia, posto che per quest’ultima il riconoscimento dei diplomi dalla stessa rilasciati assume un’importanza fondamentale, determinando un’illegittima restrizione della libertà di stabilimento dell’ESE. Ancor più esplicite, al riguardo, si rivelano le considerazioni svolte dall’Avv. gen.: «poiché la prassi amministrativa controversa rende meno attraenti per gli studenti italiani i corsi forniti dalla ESE in Italia e finalizzati a un diploma di laurea della Nottingham Trent, essa rende inevitabilmente meno attraente per la ESE lo stabilimento in Italia al fine di fornire tali corsi. Non vedo dunque alcuna difficoltà nel concludere che la prassi amministrativa italiana descritta rappresenta una restrizione alla libertà di una società, quale la ESE, di stabilirsi e di esercitarvi l’attività economica di fornire corsi di studio finalizzati all’ottenimento di un diploma di laurea presso un’università, quale la Nottingham Trent» (16). A sostegno della propria prassi regolamentare, peraltro, in corso di causa il governo italiano aveva posto in luce la necessità di assicurare un corretto e puntuale controllo della qualità degli istituti privati di istruzione da parte delle competenti autorità dello Stato membro ospitante (nel caso di specie, l’Italia). Nel disattendere tale argomento, sia la Corte sia l’Avv. gen. Jacobs hanno escluso tanto l’idoneità della 750 CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 misura in questione a realizzare l’obiettivo perseguito, quanto il carattere proporzionale della misura rispetto all’obiettivo, così come richiesto dalla giurisprudenza comunitaria. Sotto il primo profilo, il giudice comunitario ha correttamente sottolineato che alla disposizione contenuta nella nota del Ministero dell’Università dell’8 gennaio 2001 non può riconoscersi l’idoneità a tutelare l’interesse a sottoporre la qualità della formazione universitaria ad una verifica e ad un controllo di carattere pubblicistico, giacché detta nota sembra applicarsi unicamente allorché si tratti di diplomi rilasciati a cittadini italiani, mentre non opera in presenza di diplomi rilasciati a cittadini stranieri. Sotto il secondo profilo, invece, viene evidenziato che il mancato riconoscimento dei diplomi conseguiti a seguito della frequenza ai corsi organizzati dall’ESE prescinde completamente da qualsiasi esame e/o verifica da parte delle autorità italiane circa il contenuto e la qualità degli insegnamenti impartiti e, pertanto, appare sproporzionata rispetto all’obiettivo perseguito. Premesso, infatti, che nulla dell’accordo intercorso tra la Notthingam Trent University e l’ESE sembra impedire alle autorità italiane di esercitare un controllo sulla qualità dei diplomi ottenuti tramite l’ESE, non si comprende per quale motivo il Ministero dell’Università, anziché prevedere un controllo caso per caso, abbia optato per una soluzione che, di fatto, esclude automaticamente il riconoscimento di tutti i diplomi conseguiti tramite l’ESE da parte di cittadini italiani. A conclusioni di quanto sin qui illustrato non appare superfluo svolgere alcuni brevi considerazioni sull’esito che il responso della Corte di giustizia potrà avere sul giudizio pendente davanti al Giudice di Pace di Genova, sulla falsariga di quanto illustrato dall’Avv. gen. Jacobs. A tale riguardo, infatti, giova precisare che nel giudizio davanti al giudice a quo la Sig. ra Neri aveva chiesto la restituzione delle somme versate a titolo di iscrizione al primo anno di corsi sul presupposto che la prassi amministrativa italiana giustificava una domanda di restituzione dell’indebito; per contro, l’ESE aveva reNote: (15) Corte di giustizia 15 gennaio 2002, n. C-439/99, Commissione c. Italia, in Racc., I-305, p. 21. (16) Conclusioni dell’Avv. gen. Jacobs presentate il 10 aprile 2003, non ancora pubblicate in Racc., pp. 41 e 42. A tale riguardo è interessante notare che mentre la Corte, una volta accertata la violazione dell’art. 43 (libertà di stabilimento), non ha ritenuto necessario esaminare anche la questione dell’eventuale violazione dell’art. 49 (libera prestazione dei servi), l’Avv. gen. Jacobs, in conformità al proprio diverso ruolo, ha esaminato la vicenda anche sotto quest’altro profilo, osservando che «la Nottingham Trent, università avente sede in uno Stato membro, garantisce il controllo e la convalida dei servizi prestati dall’ESE in un altro Stato membro. Allo stesso modo in cui la prassi amministrativa controversa pregiudica la prestazione, da parte della ESE, di corsi finalizzati al conseguimento di diplomi di laurea della Nottingham Trent, essa pregiudica anche la prestazione di servizi da parte della Nottingham Trent stessa» (p. 45). GIURISPRUDENZA•DIRITTO COMUNITARIO sistito a tale domanda eccependo il contrasto di tale prassi amministrativa con il diritto comunitario. Ciò premesso, l’Avv. gen. riconosce espressamente che ove si affermasse il contrasto della prassi italiana con le norme comunitarie molto probabilmente la sig. ra Neri vedrebbe respinta la propria domanda ancorché essa stessa abbia chiaramente subito restrizioni illegittime per le quali nessuna parte è responsabile e di cui nessuna parte auspica il mantenimento. E proprio per questo, l’Avv. LIBRI gen. non esita a lanciare il proprio, duro monito, solo parzialmente temperato dall’uso del condizionale: «spetta alle autorità italiane conformare quanto prima la loro normativa al diritto comunitario (…) al fine di evitare un ulteriore danno alle scuole, quali l’ESE, ovvero agli studenti che intendono effettuare i loro studi presso di queste. Se è già stato subito un danno o se si continua a subirlo, dovrebbe potersi intentare un’azione di risarcimento contro lo Stato italiano». COMMENTARI Codice commentato delle nuove società Società di capitali – Cooperative – Consorzi – Reati societari A cura di G. Bonfante, D. Corapi, G. Marziale, R. Rordorf, V. Salafia Il Codice commenta le norme codicistiche in materia societaria novellate dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 di riforma del diritto societario (nel testo definitivo aggiornato al D.Lgs. n. 37/2004) proponendo una lettura sistematica e al tempo stesso approfondita degli ar ticoli compresi tra il 2325 e il 2642 del Codice civile relativi a: società di capitali, cooperative, consorzi, reati societari. L’opera nella sua trattazione ripercorre l’ordine del Libro V del Codice civile, in conformità alla divisione in Titoli, Capi e Sezioni. I principali gruppi di istituti sono presentati da Introduzioni che forniscono il quadro generale della disciplina relativa. Per ogni singola norma viene illustrato l’aspetto civilistico e penale collegato al nuovo articolato del Codice civile, senza dimenticare i rinvii alla disciplina delle società quotate (che tiene conto del coordinamento con la riforma societaria apportato dal D.Lgs. n. 37/2004 e del disegno di legge per la riforma del risparmio) ed a quella comunitaria (con particolare riferimento alla società europea ed alla cooperativa europea). Il volume è completato da una Appendice documentale che comprende il testo previgente del Libro V del Codice civile e la normativa complementare collegata, italiana e comunitaria: D. Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 (procedimenti in materia societaria, bancaria, finanziaria), D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo Unico finanziario), Regolamento U.E. 22 luglio 2003, n. 1435 (Società cooperativa europea), Regolamento U.E. 8 ottobre 2001, n. 2157 (Società europea) Regolamento CEE 25 luglio 1985, n. 2137 (GEIE). Il Codice commentato delle nuove società fornisce una panoramica esaustiva delle novità introdotte dalla riforma grazie all’attenta connessione tra vecchia e nuova disciplina; rappresenta l’ideale ausilio per l’analisi delle principali “questioni” sollevate dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Si tratta di un’opera che, come è nella migliore tradizione dei Commentari Ipsoa, coniuga il rigore scientifico con le esigenze della pratica professionale. Consapevoli di offrire uno strumento completo, i Curatori e gli Autori sono certi di ottenere l’approvazione che è già stata accordata per le altre opere della collana Commentari. Ipsoa 2004, pagg. 2.400, € 130,00 Per informazioni • Servizio Informazioni Commerciali (tel. 02.82476794 – fax 02.82476403) • Agente Ipsoa di zona (www.ipsoa.it/agenzie) • www.ipsoa.it CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 751 GIURISPRUDENZA•PROCESSO CIVILE Appello civile e nullità della citazione CASSAZIONE CIVILE, sez. III, 25 febbraio 2004, n. 3809 Pres. Nicastro - Rel. Durante, P.M. Carestia (diff.) - Associazione Goldfinger Racing Team (avv. Pagliano) c. Sait s.p.a. (avv. Lagani) Procedimento civile - Citazione d’appello - Nullità - Mancata indicazione della data d’udienza - Vizio della vocatio in ius - Sanatoria - Regime introdotto dall’art. 164 c.p.c. novellato - Inapplicabilità - Disciplina delle nullità dell’atto d’appello - Autonomia (Art. 164 c.p.c.) L’art. 164 c.p.c. novellato non si applica al procedimento di appello in quanto non è specificamente richiamato e d’altra parte non supera il giudizio di compatibilità con le disposizioni del capo II del libro II del c.p.c. richiesto ai fini dell’operatività del rinvio contenuto nell’art. 359 c.p.c.; ne discende che la nullità dell’atto d’appello per omessa indicazione della data d’udienza non è sanabile dall’appellato con la sua costituzione ed, essendo rilevabile d’ufficio per il suo collegamento alla formazione del giudicato, va sanzionata con la pronuncia di inammissibilità del gravame perché il relativo giudizio non può giungere alla sua naturale conclusione. (Massima non ufficiale) …Omissis… Motivi della decisione I ricorsi sono proposti contro la medesima sentenza e vanno riuniti (art. 335 c.p.c.). Con il primo motivo del ricorso principale si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 164, 324, 325 c.p.c., 2909 c.c.; si sostiene che la corte di merito non ha considerato che allorquando è stato notificato il secondo atto di appello con l’indicazione del giorno di comparizione si era già formato il giudicato sulla sentenza impugnata. Con il secondo motivo dello stesso ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 164 c.p.c., deducendosi che la costituzione dell’appellata è avvenuta esclusivamente per fare valere il vizio dell’atto di appello, sicché in nessun caso la corte di merito avrebbe dovuto ritenere sanato il vizio, potendo tutt’al più fissare altra udienza. I motivi sono connessi e vanno esaminati congiuntamente. Questa Corte ha affermato che la nullità dell’appello dipendente da vizi della vocatio in ius, come la mancata indicazione della data della prima udienza, rimane sanata dalla costituzione dell’appellato con effetto ex nunc e non ex tunc, con la conseguenza che, se la costituzione avviene dopo la scadenza del termine per proporre il gravame, non è impedito il passaggio in giudicato della sentenza impugnata e non vi sono ostacoli alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione (Cass. 9 luglio 1998, n. 6684; Cass. 9 luglio 1997, n. 6213; Cass. 4 febbraio 1987, n. 1114). La prospettiva è mutata a seguito dell’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 164 c.p.c., che riporta gli effetti della sanatoria dipendenti dalla rinnovazione della citazione o dalla costituzione della parte alla data della notifica della citazione nulla, cosicché sulla base di tale norma autorevole dottrina ritiene che la sanatoria dell’atto di appello ha efficacia retroattiva. Sennonché le sezioni unite di questa Corte con sentenza 29 gennaio 2000, n. 16, affrontando la questione della specificità dei motivi di appello, hanno affermato che l’art. 164 non si applica al procedimento di appello in quanto non è specificamente richiamato e d’altra parte non supera il giudizio di compatibilità con le disposizioni del capo II del libro II del codice di rito richiesto ai fini dell’operatività del richiamo contenuto nell’art. 359; scopo dell’atto di citazione è, difatti, quello di costituire il rapporto giuridico processuale, mentre scopo dell’atto di appello è, oltre quello di costituire il rapporto giuridico processuale di impugnazione, quello di evitare il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado e, se la costituzione dell’appellato è idonea a raggiungere il primo scopo, altrettanto non può dirsi per il secondo; dall’inapplicabilità dell’art. 164 le sezioni unite hanno desunto che la nullità, non sanabile dall’appellato con la costituzione e rilevabile di ufficio per il suo collegamento alla formazione del giudicato, va sanzionata con la pronuncia di inammissibilità dell’appello perché il relativo giudizio non può giungere alla sua naturale conclusione. Pur consapevole delle critiche della dottrina il Collegio aderisce all’orientamento delle sezioni unite, ritenendo che l’art. 164 non è applicabile al giudizio di appello e conseguentemente la rinnovazione della citazione e la costituzione dell’appellato non valgono a sanare la nullità della prima citazione né con effetto ex nunc né con effetto ex tunc. CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 753 GIURISPRUDENZA•PROCESSO CIVILE I motivi vanno, pertanto, accolti nei limiti che risultano da quanto sopra; la sentenza impugnata va cassata senza rinvio, non potendo il giudizio proseguire a causa dell’inammissibilità dell’appello; occorre pronunciare non soltanto sulle spese di questo giudizio, ma pure su quelle del giudizio di appello; si ravvisano giusti motivi per compensarle. Rimangono assorbiti gli altri motivi del ricorso principale ed il ricorso incidentale. …Omissis… SANATORIA (E GIUSTIZIA) NEGATA: DELL’OSTINAZIONE CONTRA LEGEM DELLA SUPREMA CORTE A CONSIDERARE INSANABILI I VIZI DELL’ATTO D’APPELLO CONCERNENTI LA VOCATIO IN IUS di Marco De Cristofaro Le ascendenze dottrinali della riforma dell’art. 164 c.p.c. La “ingessata” formulazione della previgente disciplina della nullità della citazione era stata all’origine di autorevolissimi e risolutivi sforzi dottrinali di esegesi correttiva del suo indifferenziato tenore normativo, che ricollegava a tutti i vizi di invalidità la possibilità di sanatoria per effetto unicamente della costituzione del convenuto e prevedeva che detta sanatoria potesse in ogni caso prodursi solo ex nunc. Valorizzando suggestioni già maturate anteriormente all’entrata in vigore del codice del 1940, per primo Cerino Canova era riuscito per un verso a dimostrare che la costituzione del convenuto era in grado di sanare il difetto di quei soli requisiti che erano dettati al fine della instaurazione del contraddittorio, nulla potendo rispetto al difetto di indicazioni relative alla editio actionis, ossia alla individuazione della domanda e del diritto fatti valere, che richiedono necessariamente una attività integrativa dell’attore (1). Per altro verso, aveva individuato nella norma generale sulla rinnovazione degli atti, l’art. 162 c.p.c., una adeguata via alternativa, rispetto alla costituzione del convenuto, per conseguire la sanatoria dei vizi (tanto della vocatio in ius, quanto - postulandosi un’attività integrativa dell’attore - dell’editio actionis), così valorizzando la finalità dell’istituto di riparare l’invalidità degli atti processuali e conservare attività altrimenti destinate all’inefficacia (2). Per altro verso ancora, la stessa regola della generale irretroattività della sanatoria per vizi della vocatio in ius, scolpita nel cpv. dell’art. 164 c.p.c. previgente, era stata limata nel senso della sua inapplicabilità alla gran parte degli effetti sostanziali della domanda, segnatamente a quelli correlati alla sua mera proposizione, a quelli condizionati alla pendenza del processo ed altresì a quelli propri della fattispecie complessa domanda-sentenza (3). Probabilmente per la ritrosia ad avallare una lettura sostanzialmente abrogante dell’art. 164 cpv. (di cui si sarebbe infatti alfine postulata l’inconferenza alle ipotesi di vizi dell’editio actionis e l’inapplicabilità a quelle di vizi della vocatio in ius) (4), Cerino Canova aveva tuttavia mantenuto un limitato settore di effetti della do- 754 CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 manda soggetti alla regola della sanatoria ex nunc: in tale categoria erano stati annoverati gli effetti per i quali la domanda giudiziale è assunta come elemento di una fattispecie sostanziale che deve essere applicata dal giudice nel relativo processo (diritto alla restituzione dei frutti, anatocismo, ecc.) (5), ed altresì alcuni effetti processuali, la cui produzione non poteva che postulare la validità e perfezione dell’atto introduttivo. Segnatamente per l’impedimento alla formazione del giudicato e per l’efficacia della misura cautelare concessa ante causam Cerino Canova (6) non aveva ritenuto possibile de lege lata sottrarre il vizio anche solo della vocatio in ius al categorico dettato normativo in merito alla salvezza dei «diritti anteriormente quesiti»: la conseguenza pratica era la negazione dell’effetto conservativo delNote: (1) V. le vigorose riflessioni - che riprendono spunti già di Chiovenda, di Betti e di Allorio - di Augusto Cerino Canova, in Commentario del c.p.c. diretto da Allorio, II, 1, Torino, 1980, 323 ss.: «l’art. 164 regola in intima sintonia la rilevazione della nullità e la sanatoria, nel senso che sopprime il controllo officioso in presenza dell’evento - la costituzione del convenuto - che sana il vizio. La norma non ha, tuttavia, la capacità di imporre la sanatoria al di là dei limiti che sistematicamente le appartengono e dunque non disciplina ogni sanatoria, ma solo quella che nel caso specifica il raggiungimento dello scopo. Nell’ambito eccedente la previsione legislativa non si realizzano né la sanatoria ex art. 164 cpv., né la caducazione del rilievo officioso della nullità dopo la costituzione del convenuto» (333 s.). L’A. rileva come analoga intuizione fosse sottesa - ma ivi troppo tiepidamente sviluppata - alle riflessioni, svolte dopo l’entrata in vigore del codice, di Carnelutti, Convalidazione della citazione nulla per vizio di notificazione, in Riv. dir. proc., 1948, I, 116 ss., ed Oriani, Processo di cognizione e interruzione della prescrizione, Napoli, 1977, 257 s. (2) Cerino Canova, in Commentario, cit., 337 ss.; in senso convergente, nel medesimo torno di anni, Ciaccia Cavallari, La rinnovazione nel processo di cognizione, Milano, 1982, 258 ss. (3) Per tale distinzione v. sempre Cerino Canova, La domanda giudiziale ed il suo contenuto, in Commentario, cit., 282 ss.; più di recente Oriani, Citazione nulla e «diritti quesiti», in Riv. dir. civ., 1988, I, 834 ss., e Consolo, voce «Domanda giudiziale», in Digesto-IV ed., Discipline privatistiche, Sez. civile, IV, Torino, 1991, 87 ss. (4) V. Consolo, voce «Domanda giudiziale», cit., 104, che - nel condividere tale riluttanza - manifesta però pieno consenso alla scelta che orientava i vari progetti di riforma dell’art. 164. (5) Cerino Canova, in Commentario, cit., 342 ss. (6) V. Commentario, cit., 348 e 350. GIURISPRUDENZA•PROCESSO CIVILE l’appello (o dell’opposizione a decreto ingiuntivo) nel caso in cui la citazione non contenesse l’indicazione della data d’udienza o avesse assegnato un termine a comparire inferiore a quello dilatorio minimo prescritto dall’art. 163-bis. La riflessione successiva - liberandosi della cautela di Cerino Canova e valorizzando l’art. 159 c.p.c. (7) quale espressione di un principio di relatività delle nullità, che non preclude all’atto nullo sul piano processuale di produrre tuttavia i propri effetti sostanziali portò alle estreme e coerenti conseguenze la “scomposizione” analitica dei vari elementi riscontrabili nell’atto di citazione e pervenne così alla conclusione che la citazione nulla per difetto di requisiti relativi alla vocatio in ius, ma valida come atto di esercizio dell’azione, è idonea a produrre tutti gli effetti sostanziali e processuali ricollegati alla proposizione della domanda. E se dapprima Ciaccia Cavallari continuò a ritenere che la sanatoria conseguente a costituzione o rinnovazione dovesse arrestarsi di fronte a quelle situazioni processuali la cui rilevabilità officiosa preclude ogni virtù convalidatrice - quali il passaggio in giudicato della sentenza impugnata (8) -, successivamente Balena negò in radice la possibilità di distinguere tra ragione del prodursi degli effetti processuali e di quelli sostanziali. E ciò sia su di un piano meramente logico, sia ancor più sul piano sistematico (9), poiché solo in tal modo si evita, con riguardo alle nullità della citazione inerenti alla vocatio in ius, un regime più rigoroso e penalizzante rispetto a quello positivamente dettato con riguardo alle nullità della notifica, nonostante che queste ultime (spesso parimenti addebitabili a negligenze dell’attore) siano rispetto alle prime molto più gravide di conseguenze per il convenuto e le prospettive di sua conoscenza del processo (10). Il dibattito dottrinale sviluppatosi nel corso degli anni 1980 dà fondamento sistematico alle proposte di riforma dell’art. 164, che sin dal 1960 si erano mostrate sensibili alla necessità pratica di scindere la produzione degli effetti conservativi della domanda dalla perfezione dell’atto introduttivo sotto il profilo della vocatio in ius (11). Così il cd. Progetto Verde-Fabbrini-Proto Pisani (12) contemplava una riscrittura del comma 2 dell’art. 164 che confinava la salvezza dei diritti quesiti all’ipotesi in cui «la nullità deriv[asse] da omessa indicazione o assoluta incertezza» nell’indicazione di petitum e causa petendi: l’intento era specificamente di «sopprimere la irrazionale salvezza dei diritti anteriormente quesiti in ipotesi di nullità ex art. 163 n. 1 e 7 o ex art. 163-bis», ossia in quelle ipotesi di vizi della vocatio in ius che del resto nel processo del lavoro da poco innovato risultavano sicuramente irrilevanti ai fini della regolare instaurazione del rapporto processuale anche nelle fasi impugnatorie o para-impugnatorie, in grazia del diverso modulo introduttivo del processo che impone una netta distinzione tra atto di esercizio dell’azione ed atto di vocatio in ius (13), nonché di una lettura degli artt. 415 e 435 c.p.c. che non correla alcuna sanzione in caso di mancato rispetto del termine minimo a difesa (14). Identica ratio è sottesa anche agli ulteriori progetti legislativi presentati in quel decennio, dalla cd. “Bozza Fabbrini-Proto Pisani” (15), al “Testo provvisorio di una proposta di riforme urgenti del c.p.c.” presentato da Magistratura Democratica (16), alla “Risoluzione cd. Borré” (17). Infine il d.d.l. 1288/S/X, cd. “Vassalli”, preNote: (7) Nel solco di un acuto studio di La China, L’art. 159 c.p.c.: a proposito di norme meritevoli di miglior fortuna, in Giur. it., 1976, I, 2, 151 ss. (8) Ciaccia Cavallari, La rinnovazione, cit., 271 ss. (9) Oltre che su quello equitativo, giacché evita di far ricadere sull’attore le conseguenze dannose di vizi relativi alla meccanica interna del processo: v. anche Proto Pisani, Note in tema di nullità dell’atto di citazione e di effetti sostanziali e processuali della domanda giudiziale, in Riv. dir. civ., 1988, I, 672. (10) Balena, La rimessione della causa al primo giudice, Napoli, 1984, 139 ss.; Id., Nullità della citazione e diritti quesiti (per una più incisiva sanatoria della citazione nulla), in Riv. dir. civ., 1985, II, 563 ss. (11) In ordine al Progetto Gonella del 1960 ed al Progetto Reale del 1975, v. Oriani, Citazione nulla e «diritti quesiti», cit., 838 s. (12) Elaborato su invito dell’Associazione Italiana fra gli Studiosi del Processo Civile e presentato all’incontro di Modena del 14 giugno 1986: vedilo in Doc. giust., 1988, fasc. 10, 243 ss. (13) Cfr. sul punto Proto Pisani, La nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991, 61 ss.; e già Id., Note in tema di nullità dell’atto di citazione, cit., 663 s., ed Oriani, Citazione nulla e «diritti quesiti», cit., 833. (14) Nel senso che né la nullità del decreto di fissazione dell’udienza né la mancata osservanza dei termini di comparizione determinano l’invalidità dell’atto introduttivo, ancorché questo secondo sia vizio sicuramente ascrivibile alla negligenza della parte, cfr. per tutte, rispettivamente, con riguardo alla proposizione della domanda di primo grado, Cass., 27 gennaio 1999, n. 729 (in un caso di omessa indicazione della data d’udienza nel decreto ex art. 415 c.p.c.), e Cass., 5 marzo 2003, n. 3251 (in un caso di notifica radicalmente omessa); con riguardo alla proposizione del gravame, Cass., 24 marzo 2001, in Giur. it., 2001, 2258 (sulla nullità del decreto di fissazione dell’udienza), e Cass., 21 luglio 2000, n. 9635 (inesistenza della notifica), nonché già Cass., 11 aprile 1996, n. 3373, in Foro it., 1996, I, 2411. Conf. anche Besso, Processo del lavoro e vizi della vocatio in ius, in Giur. it., 1995, IV, 109 ss. (15) Preparata per la Conferenza nazionale della giustizia tenutasi a Bologna tra il 28 ed il 30 novembre 1986 (vedila in Foro it., 1986, V, 511 ss.). Il più incisivo intervento sull’art. 164 ivi prospettato confermava l’intento di limitare l’efficacia ex nunc della sanatoria delle invalidità dell’atto introduttivo ai soli vizi attinenti all’individuazione della domanda; nella Relazione accompagnatoria si legge: «extravagante, lo confessiamo, rispetto alla linea portante unitaria dell’intervento “novellatore” è il ritocco dell’art. 164 c.p.c.: ma non abbiamo saputo resistere alla tentazione di razionalizzare (anche alla luce delle esperienze giurisprudenziali in tema di ricorso introduttivo del processo del lavoro) una norma tanto importante - e tanto facilmente modificabile - per segnare gli effetti della domanda giudiziale sul diritto oggetto di causa». (16) Nella medesima occasione della Conferenza nazionale della giustizia (vedilo in Foro it., 1987, V, 77 ss.); ivi si prevedeva una sanatoria che «impedi[va] ogni decadenza» in caso di costituzione del convenuto o di rinnovazione della citazione. (17) Opera di un gruppo di esperti, insediato dalla Commissione Riforma del C.S.M. al fine di rendere il richiesto dal Ministero in merito al d.d.l. 2214/S/IX, cd. “Rognoni”, presentato al Senato il 16 febbraio 1987, e presentata il 18 maggio 1988 (vedila in Doc. giust., 1988, fasc. 10, 391 ss., spec. 401); ivi si indicava come nel quadro di un intervento (segue) CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 755 GIURISPRUDENZA•PROCESSO CIVILE sentato il 18 agosto 1988 (18) - cui va fatto risalire l’iter parlamentare sfociato nella l. n. 353/1990 - accoglieva la soluzione del Progetto Verde-Fabbrini-Proto Pisani, a propria volta perseguendo il fine di modificare la «sorte dei diritti quesiti in caso di rinnovazione della citazione nulla per violazione dei termini a comparire» (19). Fu poi l’esame del Senato a condurre all’attuale testo dell’art. 164 c.p.c. La conclusione del processo di riforma è stata accolta con approvazione pressoché unanime in dottrina, ove si è rilevato il notevolissimo significato pratico della nuova disciplina che - ponendo fine alle iniquità frutto del testo previgente - risultava idonea a consentire anche all’atto di appello nullo per assegnazione di termini a comparire minori di quelli stabiliti dalla legge o per mancata indicazione della data della prima udienza di impedire il giudicato (20), sì da evitare, «d’ora in avanti, che siffatti banali difetti di forma conducano ad una pronuncia d’inammissibilità del gravame per scadenza dei termini d’impugnazione» (21). Le poche voci dissenzienti - imperniate sull’eccessivo favor per l’attore, insipiente o sinanco malizioso, che sarebbe sotteso alla norma novellata (22) - hanno comunque svolto le proprie riflessioni critiche sul piano dell’opportunità dell’intervento riformatore, senza mai arrivare a dubitare dell’idoneità della scelta legislativa, accolta quanto all’introduzione del primo grado di giudizio, a risultare riferibile, in conformità del resto allo specifico intento sotteso alla novellazione, anche all’atto di gravame. La ratio della sanatoria ex tunc dei vizi afferenti alla vocatio in ius L’opzione accolta nell’art. 164 novellato, volta a conferire generalizzata efficacia ex tunc alla sanatoria delle nullità afferenti alla vocatio in ius, non è peraltro frutto di una scelta discrezionale del legislatore per la retrodatazione degli effetti prodotti dall’evento sanante. Essa riflette l’elaborazione teorica che “scompone” l’atto introduttivo del giudizio in una serie di sotto-atti funzionalmente e strutturalmente autonomi, aventi rispettivamente la finalità di evocare in giudizio il convenuto, proporre ed identificare la domanda che costituirà l’oggetto della lite e preparare la (udienza di) trattazione della causa (23). In forza di tale distinzione, gli effetti sostanziali e processuali della proposizione della domanda - in quell’arco che va dall’interruzione della prescrizione all’impedimento del giudicato - non possono subire ostacolo nel loro prodursi a causa di eventuali vizi inficianti la vocatio in ius, proprio perché ricollegati ad un atto da considerarsi pienamente valido, ex art. 159 commi 2 e 3 c.p.c., nella parte attinente alla editio actionis. Appare di conseguenza persino improprio ragionare in termini di sanatoria ex tunc degli effetti sostanziali e processuali della domanda in caso di atto introduttivo nullo per vizi afferenti alla vocatio in ius: in realtà la citazione, contenendo gli elementi sostanziali indispensa- 756 CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 bili alla proposizione della domanda (anche, se del caso, della domanda di impugnazione), è idonea a dispiegare tutti i propri effetti sostanziali e processuali a prescindere dalla sussistenza di un vizio della vocatio in ius: che è sotto-atto volto ad attivare regolarmente il contraddittorio provocando la tempestiva conoscenza del processo in capo al convenuto; che nulla pertanto ha a che vedere con l’idoneità della domanda a produrre gli effetti conservativi suoi propri (24); che al più richieNote: (segue nota 17) urgente non sarebbe stata punto fuori posto «l’esplicita previsione della rinnovabilità (con effetto ex tunc) della citazione nulla per insufficienza del termine per comparire: se non altro perché tale ipotesi è piuttosto frequente statisticamente e tuttavia rappresenta … la più banale tra le cause di possibile fallimento del processo». (18) Relaz. min. e testo in Quad. C.S.M. n. 34, 1990, 421 ss. (19) Così la Rel. dei senatori Acone e Lipari al d.d.l. governativo: in Foro it., 1990, V, 416. (20) Proto Pisani, La nuova disciplina, cit., 70. (21) Balena, La riforma del processo di cognizione, Napoli, 1994, 414. (22) Tra tali voci si annovera quella di Chiarloni, Prime riflessioni sui valori sottesi alla novella del processo civile, in Riv. dir. proc., 1991, 676 s., il quale - in casu manifestamente trascinato da un impeto iconoclasta di intensità pari al furore analitico che intendeva censurare nell’intervento riformatore - disconosce la bontà delle «ragioni che hanno portato il legislatore a porre una distinzione che lascia praticamente sempre esente da punizione l’attore che abbia confezionato una citazione nulla per vizi afferenti alla vocatio in ius», censurando la riflessione dottrinale che della riforma è stata matrice (semplicisticamente ricondotta al solo Proto Pisani) quale «attività ricostruttiva-creativa di una dottrina che, basandosi su una modellistica astratta dai testi, e risalente ad una tradizione culturale illustre, anche se vittima frequente delle petizioni di principio in cui si involve il dogmatismo concettualista, è capace di proporre qualsiasi soluzione estranea alla disciplina positiva, ma confacente alle proprie, per lo più rispettabilissime, opzioni di valore». Un cenno altresì in Monteleone, Spigolature e dubbi sulla l. 26 novembre 1990 n. 353 (provvedimenti urgenti sul processo civile), in Riv. dir. proc., 1992, 30 s., la cui critica peraltro si impernia sull’improbabile e comunque infrequente figura dell’attore di mala fede, che miri - scientemente predisponendo una citazione viziata sul versante della vocatio in ius - a ritardare il progredire del processo e ad ostacolare la richiesta di tutela giurisdizionale ad opera della controparte; ed infine ampiamente Colesanti, Il processo di cognizione nella riforma del 1990, in Riv. dir. proc., 1993, 34 ss., che ravvisa nel novellato art. 164 una delle molteplici testimonianze dell’approccio squilibrato della riforma, segnata da un evidente favor per l’attore, premiato da una «sorta di istituzionalizzata Rechtshilfe» (ivi, 36) e «posto in condizione di rimediare per e con il tramite del giudice ai propri errori e con effetto retroattivo» (ivi, 41 s.), e dubita che la disciplina introdotta possa giovare all’intento, in thesi perseguito dalla l. n. 353/1990, dell’accelerazione del procedimento, proprio poiché consente una “salvezza” di gravami nel regime previgente condannati ad una perentoria inammissibilità per effetto dell’operatività meramente ex nunc delle sanatorie conseguenti a vizi di nullità dell’atto introduttivo (ivi, 42 s.; su questo profilo, parimenti rilevando, nel contesto di un intervento legislativo animato da finalità acceleratorie, la “stranezza” della previsione di una sanatoria retroattiva che impedisce l’immediato “consolidamento” della sentenza impugnata, v. anche Sassani, in Consolo-Luiso-Sassani, Commentario alla riforma del processo civile, Milano, 1996, 375 s.). (23) V. Proto Pisani, Note in tema di nullità dell’atto di citazione, cit., 656 ss., nel solco tracciato da Cerino Canova, in Commentario, cit., 250 ss. e 275 ss. (24) V. Balena, in Provvedimenti urgenti per il processo civile. Commentario a cura di Tarzia e Cipriani, in Nuove leggi civ. comm., 1991, 32 s. GIURISPRUDENZA•PROCESSO CIVILE derà una integrazione del termine minimo a difesa previsto dalla legge, ex art. 164, comma 3, ult. parte (o eventualmente ex art. 294 o 184 bis c.p.c.). Essendo del tutto indifferenti l’indicazione della data dell’udienza ed il rispetto del termine minimo a comparire quanto al profilo della valida proposizione della domanda (per non parlare dell’avvertimento ex art. 163 n. 7, in appello di per sé addirittura privo di senso se non riferito all’onere di appello incidentale (25) ex art. 343 c.p.c. !), è chiaro che le conseguenze rifluenti dall’atto introduttivo sul piano sostanziale e processuale possono prodursi appieno pur se sia riscontrabile un vizio della vocatio in ius, e ciò ovviamente sin dalla notifica della citazione invalida e salvo il necessario impulso al completamento della fattispecie sanante ai meri fini della prosecuzione del giudizio nel pieno rispetto del diritto alla difesa e dei tempi del contraddittorio. Certo, del completamento della fattispecie sanante si dovrà necessariamente far carico l’attore, in caso di mancata costituzione del convenuto, tramite la rinnovazione dell’atto a pena di estinzione del processo (26); e quest’ultima, eventualmente, potrà anche travolgere gli effetti della domanda, in un arco che va da quello interruttivo permanente della prescrizione ex art. 2945 c.c. allo stesso impedimento del giudicato, ma ciò non a causa dell’inidoneità dell’atto d’appello o di opposizione a decreto ingiuntivo a prevenire il passaggio in giudicato formale del provvedimento aggredito, bensì per effetto della differente fattispecie “sanzionatoria” risultante, rispettivamente, dagli artt. 338 e 653 c.p.c. La sentenza in epigrafe e la fallace invocazione di Sezioni unite n. 16/2000 In modo del tutto inopinato dunque - e con sorprendente oblio dell’elaborazione dottrinale sinora descritta e della ratio sottesa alla stessa l. n. 353/1990, che in detta elaborazione trovava le proprie ascendenze - la pronuncia in rassegna arriva a negare l’idoneità dell’atto d’appello, viziato nella parte concernente la regolare attivazione del contraddittorio (nella specie per omessa indicazione della data d’udienza), ad impedire il passaggio in giudicato della sentenza impugnata. Ad avviso della S.C., nella transizione dal previgente al nuovo dettato dell’art. 164 c.p.c., la prospettiva è senz’altro mutata: tuttavia, a ritenere che la sanatoria dell’atto di appello ha efficacia retroattiva, sarebbe piuttosto «autorevole dottrina» e tanto non il testo di legge, pur inequivocamente formulato nel senso che la rinnovazione dell’atto «sana i vizi e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono sin dal momento della prima notificazione» (comma 2) e che «la costituzione del convenuto sana i vizi della citazione e restano salvi gli effetti sostanziali e processuali di cui al comma 2» (comma 3 dell’art. 164 novellato). Ridotta a mera opinione dottrinale, la valenza ex tunc della sanatoria (rectius: la stessa impossibilità di ragionare in termini di sanatoria, essendo l’atto privo di data d’udienza o lesivo del termine a comparire di per sé idoneo a produrre comunque sin da subito i suddetti effetti sostanziali e processuali) diviene suscettibile di essere negata, risultandone però meramente celato e non certo eliso il carattere contra legem di tale risultato esegetico. A proprio sostegno, la sentenza in epigrafe richiama l’intervento delle Sez. un. in materia di limiti oggettivi dell’appello civile e di qualificazione in termini d’inammissibilità del vizio dell’atto di gravame discendente dal difetto di motivi specifici ex art. 342 c.p.c. (27): pronuncia nella quale si sarebbe negata in toto e senza residui, con statuizione avente valenza generale, l’applicabilità dell’art. 164 (previgente !) al giudizio di secondo grado. L’invocazione di detto precedente avviene però del tutto a sproposito. E ciò non solo perché la sentenza delle Sez. un. - pur con affermazioni imprudentemente generalizzabili (28) - ha avuto appunto riguardo alla problematica del difetto di motivi specifici di gravame: problematica se del caso avvicinabile a quella dei vizi dell’atto introduttivo afferenti alla editio actionis, benché solamente sul piano funzionale, ed in merito alla quale le soluzioni offerte presentano comunque dei tratti del tutto peculiari, per i nessi che la legano alla più ampia questione dei limiti dell’effetto devolutivo delNote: (25) Per tale pronto rilievo v. Colesanti, Impugnazioni in generale e appello nella riforma processuale, in Riv. dir. proc., 1992, 1062 s.; riassuntivamente sulla problematica, con ampi richiami, Balena, La riforma, cit., 414 s. (26) La prospettiva accolta, pertanto, non dimentica affatto che la funzione essenziale della citazione è quella di costituire il contraddittorio e di porre il convenuto in condizione di difendersi, nel contesto di un atto normativamente configurato come atto unitario (così Monteleone, Spigolature e dubbi, cit., 31; Colesanti, Il processo di cognizione nella riforma del 1990, cit., 35 s.); solo muove dal dato - a mio avviso - incontestabile che un’eventuale lesione e/o compressione delle modalità e dei tempi garantiti per l’esplicarsi del diritto di difesa ben può trovare rimedio sul piano endo-processuale a garanzia del convenuto, senza costringere a considerare integralmente nulla ed improduttiva di effetti una domanda che pure è fuor d’ogni dubbio idonea a rendere il convenuto medesimo perfettamente edotto della situazione giuridica in ordine alla quale l’attore invoca l’erogazione di tutela giurisdizionale; così come è idonea, trattandosi di citazione d’appello, a rendere l’appellato edotto (della parte) della sentenza in ordine alla quale l’appellante invoca l’esercizio del potere di riesame da parte del giudice dell’impugnazione. Proprio nella riforma dell’art. 164, per vero, sembra trovare smentita la premessa della configurazione normativa della citazione come atto ineluttabilmente unitario. (27) Cfr. Cass., sez. un., 30 gennaio 2000, n. 16/SU, in questa Rivista, 2000, 6, 750, con ns. nota, Inammissibilità, appello senza motivi ed ampiezza dell’effetto devolutivo, nonché in Foro it., 2000, I, 1606, con note di Balena, Nuova pronuncia delle sez. un. sulla specificità dei motivi di appello: punti fermi e dubbi residui, di Barone, Omessa specificazione dei motivi e inammissibilità dell’appello: intervento chiarificatore delle sez. un., e di Proto Pisani, In tema di motivi specifici di impugnazione; cfr. anche Sassani, Le Sez. Un. della Cassazione e l’inammissibilità dell’atto di appello carente di motivi specifici, in Riv. dir. proc., 2000, 511. (28) Generalizzazione cui sembra indulgere - nel non fare nemmeno cenno alla peculiarità che presentano i vizi dell’atto d’appello afferenti al sotto-elemento vocatio in ius - già Barone, Omessa specificazione dei motivi, cit., 1613 e 1615. CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 757 GIURISPRUDENZA•PROCESSO CIVILE l’appello (29). Va in aggiunta semplicemente rilevato che Cass. n. 16/SU/2000 si iscrive anch’essa - ad un attento esame - nel solco della sopra ricordata tradizione dottrinale. Per concludere nel senso dell’inammissibilità dell’atto di appello privo di motivi specifici, la ridetta pronuncia muove infatti da una delimitazione ristretta dell’effetto devolutivo del gravame alle sole questioni oggetto delle censure sollevate dall’appellante: in mancanza dell’individuazione dei punti della sentenza devoluti alla cognizione del giudice superiore (30), l’impugnazione sarebbe inidonea ad impedire il passaggio in giudicato della decisione impugnata poiché incapace di determinare qualsivoglia devoluzione della controversia all’esame ed alla decisione del giudice superiore. Dovendo allora individuare la sanzione per l’atto di gravame, da ritenersi nullo per difetto di un requisito di contenuto-forma incidente però sulla incapacità di dar luogo a devoluzione, la scelta è caduta ex necesse sull’inammissibilità, onde escludere l’operare di quella sanatoria ex nunc per costituzione del convenuto prevista dall’art. 164 c.p.c. previgente, cui la fattispecie era soggetta ratione temporis. Ammettere una sanatoria sarebbe stato invero palesemente inaccettabile, non potendo certo il mero fatto della costituzione dell’appellato contribuire di per sé (tutt’altro !) ad enucleare i punti della sentenza oggetto di aggressione ad opera dell’appellante, come tali idonei ad impedire il passaggio in giudicato della sentenza gravata (31). Se infatti la necessità dei motivi d’appello è collegata alla latitudine del suo effetto devolutivo - nel senso che questo non si produce, e la sentenza passa così in giudicato, se non viene individuato un passaggio ricostruttivo o logico, o altrimenti se non viene ammissibilmente dedotto un fatto nuovo, idoneo a “far crollare l’impalcatura” su cui si regge la decisione di primo grado - è evidente che unicamente l’iniziativa dell’appellante può risultare funzionale all’uopo. In questa prospettiva, nell’ottica delle Sez. un., la sanatoria di questo difetto dell’atto di appello, quale sancita dall’art. 164 previgente, manifestamente non poteva superare il vaglio di compatibilità previsto dall’art. 359 c.p.c. per selezionare le norme dettate in ordine al procedimento di primo grado suscettibili di disciplinare anche il grado superiore. Potrà anche dirsi allora che, inavvertitamente, nel dichiarare inapplicabile l’art. 164 al giudizio d’appello, le Sez. un. abbiano posto le premesse per un possibile fraintendimento del proprio dictum, ma ciò solo per chi in modo poco accorto e sorvegliato ne pretermetta, all’un tempo, la storicità contingente ed il radicamento sistematico. Dal primo punto di vista, è infatti chiaro che, di fronte ad una sì incisiva modifica dell’art. 164, la valutazione di compatibilità richiesta dall’art. 359 c.p.c. doveva essere svolta ex novo, senza che fosse possibile né intellettualmente corretto adagiarsi su esiti maturati in ordine ad un diverso tenore testuale, ancora imperniato 758 CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 su una irrealistica (v. supra, sub 1) previsione di sanatoria generalizzata. Tanto che, sia pure con conclusioni non condivisibili alla luce della mera omogeneità funzionale tra le fattispecie (v. già supra), della novellata disciplina della nullità della citazione si è ben prospettata in dottrina la piana applicabilità dei commi 4 e 5 dell’art. 164 al vizio del difetto di motivi specifici - concernente quella parte dell’atto che svolge una funzione analoga alla «determinazione della cosa oggetto della domanda» (art. 163 n. 3) (32) o alla «esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda» (art. 163 n. 4) (33) -: precetti, quelli dei Note: (29) Su cui non pare punto necessario intrattenersi ai fini del commento alla sentenza in epigrafe. (30) Al qual fine pare in effetti impropria, se non in funzione “moralizzatrice” e maieutica di impugnazioni seriamente motivate, la necessità postulata dalle Sez. un. che il motivo si articoli in accurate argomentazioni quasi al modo di un nuovo “progetto di decisione”: in tal senso Sassani, Le Sez. Un. della Cassazione, cit., 514; ed altresì i ns. Motivi d’appello ed effetto devolutivo, in questa Rivista, 1997, 2, 199 s., ed Inammissibilità, appello senza motivi, cit., 763; per una diversa propensione, che ravvisa nella postulata necessità per l’appellante di contrapporre alla sentenza impugnata argomentazioni volte ad incrinarne il fondamento logico-giuridico il metro per verificare se «il motivo consente l’individuazione precisa della violazione denunciata», e quindi se è idoneo ad assolvere la propria funzione, v. Poli, I limiti oggettivi delle impugnazioni ordinarie, Padova, 2002, 470 ss. (31) V. il seguente passo della sentenza: «l’alternativa non è priva di rilievo pratico, poiché … la citazione in appello alla quale si applicano le disposizioni sulla nullità resta automaticamente sanata, sulla base del testo originario dell’art. 164 c.p.c., in seguito alla costituzione del convenuto, salvi i diritti anteriormente quesiti». Cfr. già quanto dimostrato in modo risolutivo da parte di Cerino Canova, in Commentario, cit., 323 ss., circa l’inconcepibilità che la costituzione del convenuto dispieghi efficacia sanante rispetto ad una citazione viziata per omessa o assolutamente incerta indicazione del petitum o della causa petendi, tali da non permettere l’identificazione della domanda; v. altresì Proto Pisani, In tema di motivi specifici di impugnazione, cit., 1616: «come la costituzione del convenuto sotto il nuovo come sotto il vecchio testo dell’art. 164 non è mai in grado di sanare (o convalidare) con effetti ex nunc o ex tunc la nullità dell’atto di citazione per mancata o assolutamente incerta indicazione del diritto fatto valere in giudizio (il petitum di cui all’art. 163, n. 3), così la costituzione dell’appellato non sarà mai in grado di sanare (o convalidare) con effetti ex nunc o ex tunc la nullità dell’atto d’appello per mancata indicazione dei motivi specifici di impugnazione». (32) V. Proto Pisani, In tema di motivi specifici di impugnazione, cit., 1616: «non vedo ragione alcuna per non applicare - in via diretta ex art. 359 o in via analogica - l’art. 164 laddove nel vecchio come nel nuovo testo sanziona con la nullità l’atto di citazione mancante o assolutamente incerto riguardo al requisito del n. 3 dell’art. 163 …, nullità sanabile solo a seguito di integrazione dell’atto di appello che determini le questioni censurate e di cui si richiede il riesame: evidentemente in questa ipotesi l’integrazione dell’atto d’appello sarà possibile, ma con effetto ex nunc, non idoneo ad impedire il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado ove ciò sia avvenuto prima della integrazione (così, esplicitamente, il nuovo testo dell’art. 164, co. 4 e 5, ma nello stesso senso era già da interpretare il vecchio testo dell’art. 164 …)». (33) Inquadramento alternativo suggerito da Balena, Nuova pronuncia delle sez. un. sulla specificità dei motivi di appello, cit., 1608 s.; Id., La riforma, cit., 416. Esaurendosi l’analogia sul piano funzionale, la sanatoria ad impulso giudiziale contemplata dai co. 4-6 del novellato art. 164 non è invece estensibile a nostro avviso all’ipotesi di atto d’appello privo di motivi (segue) GIURISPRUDENZA•PROCESSO CIVILE commi 4 e 5, che appunto escludono qualunque sanatoria del vizio che operi ex tunc e per effetto della mera costituzione del convenuto. Dal secondo punto di vista, è altresì evidente che la statuizione delle Sez. un. aveva specificamente riguardo alla inapplicabilità dell’art. 164 c.p.c. con riguardo a carenze dell’atto d’appello correlate alla mancata formulazione di censure idonee a determinare la devoluzione della controversia al giudice superiore, restando però in teoria intatta la capacità del gravame a conseguire l’altro scopo dell’atto (34), ossia quello di costituire il rapporto giuridico processuale d’impugnazione (35). Pure nell’ottica di Cass. n. 16/SU/2000 (36), dunque, là dove l’invalidità non concerna l’impossibilità oggettiva del prodursi di un effetto devolutivo (che postula la formulazione dei motivi di gravame), la citazione d’appello affetta da vizi della vocatio in ius è pienamente suscettibile di costituire validamente il rapporto processuale e di produrre i suoi effetti conservativi (37), prevenendo il passaggio in giudicato, salva restando la sola necessità (ma altresì la possibilità, con efficacia ex tunc) di una sanatoria dei vizi afferenti alla mera regolare attivazione del contraddittorio, secondo l’alternativa tra costituzione dell’appellato o rinnovazione dell’atto introduttivo aperta alfine dai nuovi co. 1-3 dell’art. 164 c.p.c. (e con l’eventuale strascico della fissazione di una nuova prima udienza o della richiesta di rimessione in termini ex art. 294 o 184 bis c.p.c.). La funzione del processo quale strumento di tutela dei diritti ed il mandato nomofilattico della Corte di cassazione Nel misurarsi con la problematica de qua - delicata al pari di tutte quelle attinenti all’ammissibilità delle impugnazioni, sospese nel difficile equilibrio tra le esigenze di certezza e l’aspirazione ad una decisione più giusta e corretta - la sentenza in epigrafe è dunque andata dimentica di un dibattito dottrinale di profondo spessore dogmatico e di rara fecondità nell’influire sulle scelte legislative: dibattito dottrinale la cui totale rimozione non risulta certo attenuata da un superficiale ossequio di facciata dal chiaro sapore liquidatorio. Soprattutto però - nel cancellare l’esito di un giudizio d’appello regolarmente instaurato, restituendo l’appellante ad una soccombenza già risultata ingiusta, e ciò solamente per un radicamento imperfetto del contraddittorio, sanabile con piena salvaguardia delle ragioni dell’appellato - la S.C. ha de plano pretermesso quel principio fondamentale secondo cui «il processo deve concludersi con una pronuncia di merito poiché serve per stabilire chi ha ragione e chi ha torto e non per celebrare burocratici procedimenti astrattamente validi» (38), né può essere destinato ad esaurirsi in una «cerimonia volta a celebrare decadenze e a rivolgersi su sé stesso per sentirne dichiarare l’impotenza a condurre alla (giusta) decisione di merito» (39). La sopravvalutazione della necessità che la Note: (segue nota 33) specifici: v. già quanto rilevammo in Inammissibilità, appello senza motivi, cit., 756 s. (con riferimenti consonanti in nota 16, tra i quali merita nuovamente richiamare Rascio, L’oggetto dell’appello civile, Napoli, 1996, 238, cui adde Poli, I limiti oggettivi, cit., 480). D’altronde la mancanza dei motivi è vizio dell’atto che non si ripercuote sulla sua nullità formale, ma nell’inidoneità sostanziale del medesimo a determinare la devoluzione della controversia al giudice superiore: a tal punto, l’eventuale integrazione si concreterebbe in realtà in un rinnovato esercizio del potere d’impugnazione, che non sembra punto poter costituire “materia” idonea per un ordine giudiziale (e ciò anche a prescindere dal fatto che tale rinnovato esercizio sarebbe destinato a risultare sempre irrimediabilmente tardivo, alla luce della giurisprudenza per cui, ove chi abbia già notificato un gravame voglia a rinnovarne la proposizione, deve a ciò provvedere nel rispetto del termine breve decorrente dalla notifica del primo atto d’impugnazione: per tale rilievo v. lo stesso Balena, Nuova pronuncia delle sez. un. sulla specificità dei motivi di appello, cit., 1608 s.). (34) Così Sez. un. n. 16/SU/2000: «Scopi dell’atto di appello sono, oltre a quello della costituzione del rapporto giuridico processuale di impugnazione, quello di evitare il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, attraverso la denuncia della sua pretesa ingiustizia». (35) Conveniamo certo con la critica di Sassani, Le Sez. Un. della Cassazione, cit., 517, sull’artificiosità della distinzione introdotta dalla sentenza n. 16/00/SU tra costituzione del rapporto processuale d’impugnazione ed impedimento del giudicato: distinzione che - nell’ottica della validità formale dell’atto - postula artificiosamente che la pendenza dell’appello non sia già di per sé idonea ad esprimere la realtà effettuale del non intervenuto passaggio in giudicato formale della sentenza impugnata. La distinzione stessa tuttavia, come rilevato anche dall’A. (ivi, 519 ss.), diviene legittima nella misura in cui l’impedimento del giudicato venga ricondotto ad un atto d’appello non solo formalmente valido, ma idoneo - per la presenza dei motivi - a devolvere la controversia alla cognizione e decisione del giudice del gravame, tramite appunto la censura di un passaggio ricostruttivo o logico o la deduzione di un fatto nuovo idoneo a demolire le fondamenta della sentenza di primo grado. Nel contesto di una ricostruzione dell’appello come gravame ad efficacia devolutiva limitata (v. già, si licet, il ns. Inammissibilità, appello senza motivi, cit., 756, con riferimenti, cui adde Poli, I limiti oggettivi, cit., 449 ss. e 482 ss., nota 124), una cosa è allora il tempestivo radicamento del rapporto processuale, possibile effetto di un atto d’appello pur inficiato da vizi della vocatio in ius, altra cosa la verifica che l’atto di appello sia idoneo a determinare la devoluzione al giudice del gravame quanto meno di una porzione della controversia decisa in primo grado, in rapporto causale con l’esito della sentenza, solo così impedendo il passaggio in giudicato formale della decisione gravata. (36) Che riconoscono esplicitamente che «la costituzione dell’appellato, nel giudizio di appello, idonea a raggiungere uno dei suoi scopi (costituzione del rapporto giuridico processuale), è inidonea a raggiungere l’altro (impedimento del passaggio in giudicato della sentenza impugnata), che si consegue solo con il comportamento dell’appellante conforme alle previsioni di cui all’art. 342 c.p.c., senza alcuna possibilità per l’appellato di rimuovere gli effetti che derivano dall’inosservanza di quest’ultima norma». (37) Rileva Proto Pisani, In tema di motivi specifici di impugnazione, cit., 1616, che «è stato sempre pacifico che nell’ipotesi di vizi dell’atto d’appello che attengano alla vocatio in ius … trova applicazione l’art. 164 nel testo anteriore come successivo alla l. 353/90». (38) Proto Pisani, Note in tema di nullità dell’atto di citazione, cit., 662. (39) Colesanti, Impugnazioni in generale e appello, cit., 1063, le cui perplessità sul rafforzamento degli oneri previsti in capo all’appellante a pena d’improcedibilità (novellati artt. 347-348 c.p.c.) risultano - quanto meno su di un piano funzionale - contraddittorie rispetto alla critica (inversa) di eccessiva generosità per l’appellante formulata nei confronti della generalizzata efficacia sanante prevista dal riformato art. 164 dinanzi a vizi della vocatio in ius. Né appare decisiva l’obiezione per cui, all’argomento che muove dal non dovere il processo esaurirsi nella celebrazione di nullità processuali, potrebbe replicarsi che il processo deve (segue) CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 759 GIURISPRUDENZA•PROCESSO CIVILE vocatio in ius proveniente dall’attore sia irreprensibile, a pena di nullità (sostanzialmente) non sanabile nelle fasi impugnatorie-oppositorie, è infatti conclusione che (40) si pone in contrasto con la netta tendenza dell’ordinamento a far sì che, proposta una domanda giudiziale, il processo possa venire “depurato” da eventuali vizi formali o anche extraformali allo scopo di consentirne la conclusione con una pronuncia di merito sul diritto dedotto dall’attore, che è ciò che ne costituisce l’esito fisiologico, «senza che a ciò siano di ostacolo o di intralcio vizi processuali pur anche se addebitabili a colpa dell’attore» (41). Ed è perciò conclusione, quella raggiunta dalla pronuncia in commento, oltre che iniqua, sorretta da un rigore e formalismo che - nel precludere per ragioni futili (42) un riesame, da parte del giudice d’appello, volto a garantire risultati sostanziali migliori e più giusti - estraniano l’amministrazione della giustizia dal sentire dei cittadini. Ed infine, nel perpetuare una regola sulla cui sopravvivenza nel regime novellato pochi o nessuno avrebbe scommesso (43), in pieno dispregio degli intenti liberali del legislatore della novella (che considerava a tal segno impellente la questione da inserire la modifica dell’art. 164 nel contesto di una serie di “provvedimenti urgenti” per il processo civile), la S.C. viene ad avallare quella diagnosi impietosa ma lucida di chi ha rilevato come la giurisprudenza della Cassazione «assomigli ad un supermercato nei cui scaffali i clienti - i litiganti - riescono facilmente a trovare il prodotto che cercano» (44). Pessimo servigio alla nomofilachia si rende non solo con il fiorire di contrasti sincronici (45) nell’interpretazione di una stessa norma di legge, ma altresì consentendo ai difensori delle parti di coltivare la speranza che qualunque tesi - per quanto contraria ad un’esegesi letterale e storica del testo normativo, quando non addirittura singolare od estrosa - possa trovare ascolto ed usbergo presso i giudici di legittimità: lo stimolo improprio che ne consegue all’esercizio del potere d’impugnazione contribuirà infatti a frustrare ogni tentativo legislativo de iure condendo (46) di ricreare le condizioni per un adeguato assolvimento, da parte della S.C., del proprio compito di guida coerente e coerenziatrice dell’evoluzione giurisprudenziale. Note: (segue nota 39) mirare a sentenze “giuste”: proprio la necessità di un’attività sanante infatti (per cui si contempla un impulso giudiziale officioso di pregnanza pari a quella prescritta per le ipotesi di nullità della notifica) esclude a priori l’ingiustizia processuale della sentenza, nel mentre - in caso di nullità dell’atto d’appello - impedisce che la possibilità di pervenire ad una sentenza sostanzialmente più corretta venga sacrificata sull’altare di avventate ed improprie istanze di accelerazione (su cui invece si fondano, in parte, i rilievi critici di Colesanti e Sassani, ricordati supra in nota 20). (40) Oltre a contrastare sul piano sistematico con la progressiva perdita di importanza del requisito, essendo il relativo incombente in parte affi- 760 CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 dato al giudice nel processo del lavoro (ferma restando una piena ed esclusiva responsabilità dell’attore, quanto meno in ordine al rispetto dei termini di comparizione - v. supra, nota 14 -, per modo che non dirimente appare il rilievo di Colesanti, Il processo di cognizione nella riforma del 1990, cit., 36 e 38, per cui la diversità del modulo introduttivo impedirebbe di ricavare qualsivoglia conforto sistematico, a sostegno della realizzata riforma dell’art. 164, dalla disciplina del rito laburistico); ed essendone stata altresì prevista la sostanziale soppressione nel nuovo rito “societario”, con riguardo al quale l’art. 2, lett. a), d.lgs. n. 5/2003 espunge dai requisiti dell’atto di citazione il n. 7 dell’art. 163 e preclude la stessa applicabilità dell’art. 163-bis in ordine ai termini di comparizione, essendo stabilito ex lege il termine (di almeno 60 giorni) per la notifica della comparsa di risposta ad opera del convenuto (con previsione che subentra in difetto di fissazione del relativo termine da parte dell’attore ed altresì «in caso di insufficienza»: art. 2, lett. c), ult. parte, d.lgs. n. 5/2003). (41) Proto Pisani, Note in tema di nullità dell’atto di citazione, cit., 674. (42) La futilità del vizio risulta sottolineata - anziché sminuita - da quanti, pur in critica all’intervento del legislatore del ‘90, si chiedono la ragione per cui si dovrebbe «usare tanto riguardo e cautela nei confronti di un attore o di mala fede, o così inetto o sprovveduto da non riuscire neppure a copiare l’art. 163 c.p.c.» (Monteleone, Spigolature e dubbi, cit., 32; v. anche Colesanti, Il processo di cognizione nella riforma del 1990, cit., 36): quale infatti la pregnanza sostanziale del requisito dalla cui mancanza od omissione si vorrebbe trarre l’inettitudine della citazione a produrre qualsivoglia effetto (quanto meno prima del sopravvenire di una fattispecie sanante comunque operante ex nunc), se si tratta solo di “copiare” il testo di legge ? (43) Neppure le voci dottrinali perplesse sulla novellazione ricordate in nota 22, che anzi proprio dall’inevitabile estensione della novella disciplina all’appello traevano ulteriore ragione di critica nei confronti del riformato art. 164 c.p.c.: v. Monteleone, Spigolature e dubbi, cit., 31, nt. 2; Colesanti, Il processo di cognizione nella riforma del 1990, cit., 36, 38 e 42 s. Nel senso della piana applicabilità del novello art. 164, co. 1-3, c.p.c. alla citazione d’appello v. anche Attardi, Le nuove disposizioni sul processo civile, Padova, 1991, 145; Tarzia, Lineamenti del nuovo processo di cognizione, Milano, 1991, 233; Luiso, in Consolo-Luiso-Sassani, Commentario, cit., 96; Sassani, ivi, 375. (44) Chiarloni, Ruolo della giurisprudenza e attività creative di nuovo diritto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2002, 6, che si richiama alla consonante presa d’atto di Taruffo, La corte di cassazione tra legittimità e merito, in Foro it., 1988, V, 237 ss., per cui la giurisprudenza di legittimità appare ridotta ad una sorta di repertorio bon à tout faire. (45) Sulla distinzione tra contrasti sincronici - sintomo di patologica confusione - e contrasti diacronici, testimonianza invece di una evoluzione consapevole della giurisprudenza, v. Chiarloni, Efficacia del precedente giudiziario e tipologia dei contrasti di giurisprudenza, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1989, 119 ss. (46) V. da ult. le proposte contenute nel disegno di legge delega opera della cd. Commissione Vaccarella, su cui l’ampio dibattito polifonico sviluppatosi sulle pagine della Giurisprudenza italiana del 2003, 817 ss., per voce di Chiarloni, Prime riflessioni su recenti proposte di riforma del giudizio di cassazione, di Luiso, Il vincolo delle Sez. semplici al precedente delle Sez. un., di Sassani, Corte Suprema e jus dicere, e di Tommaseo, La riforma del ricorso per cassazione: quali i costi della nuova nomofilachia ? GIURISPRUDENZA•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI Azione di simulazione CASSAZIONE CIVILE, sez. II, 26 novembre 2003, n. 18025 Pres. Vella - Rel. Scherillo - P.M. Fedeli - P. (avv. Grasso Polizzi) c. Curatela Fallimento P. & S. Contratti - Simulazione - Azione di simulazione relativa - Oggetto - Imprescrittibilità - fattispecie (Art. 1422 c.c.) In tema di prescrizione, mentre non assume rilievo la natura - assoluta o relativa - dell’azione di simulazione, che, essendo comunque diretta ad accertare la nullità del negozio apparente, è ai sensi dell’art. 1422 c.c. imprescrittibile, il decorso del tempo può eventualmente colpire i diritti che presuppongono l’esistenza del negozio dissimulato, facendo così venir meno l’interesse all’accertamento della simulazione del negozio apparente. …Omissis… Motivi della decisione …Omissis… II - Vanno ora esaminati, congiuntamente perché connessi, il primo e il secondo motivo. Con il primo motivo si denuncia violazione di legge in relazione agli artt. 1414, 1415 e 1422 c.c. per avere la sentenza erroneamente ritenuto prescritta l’azione di simulazione proposta dalla ricorrente, senza considerare che, mirando la detta azione a far dichiarare l’assoluta mancanza della volontà negoziale, e cioè che nessun contratto era stato realmente voluto dai contraenti degli atti del 1969, non si versava in ipotesi di simulazione relativa, come erroneamente ritenuto dalla sentenza, ma in ipotesi di simulazione assoluta, che è imprescrittibile. In ogni caso, anche nell’ipotesi di simulazione relativa il decorso del tempo può incidere sui diritti particolari che presuppongono il negozio dissimulato e a tutela dei quali viene proposta l’azione di simulazione, ma non sul diritto a vedere accertata la simulazione del negozio apparente. Nel caso di specie, poiché si discuteva di proprietà immobiliare, non poteva ritenersi prescritto neppure il diritto particolare a tutela del quale la ricorrente aveva proposto l’azione di simulazione, trattandosi di diritto imprescrittibile. Col secondo motivo, in parte ripetitivo del primo, si lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c. per avere la sentenza limitato l’esame dell’eccezione di prescrizione sollevata dalla Curatela ai soli aspetti processuali, omettendo di esaminarne gli aspetti sostanziali. In particolare, la sentenza non aveva considerato che, avendo l’azione di simulazione natura di mero accertamento, l’eventuale prescrizione riguardava i diritti particolari nascenti dal negozio dissimulato e che, a tal fine, occorreva stabilirne la decorrenza. Sul punto, invece, la sentenza aveva omesso qualsiasi accertamento. Inoltre, aveva erroneamente fatto riferimento, ai fini della interruzione del termine prescrizionale, alla sentenza n. 268/88, dichiarativa della risoluzione del preliminare di vendita del 1969 stipulato dal F. con il P., non tenendo conto che tale sentenza non era opponibile alla P., che, come definitivamente accertato con la sentenza n. 4275/99 della Cassazione, in quel giudizio non era stata parte e che contro la sentenza aveva proposto opposizione di terzo. III - Le due censure meritano, sia pure in parte, accoglimento. L’accertamento rimesso al giudice d’appello in ordine alla fondatezza della domanda di simulazione proposta dalla P. era circoscritto alla simulazione relativa, tale essendo la tesi sempre prospettata dalla P. e dalla stessa riproposta in appello. Va, perciò, disattesa la prima parte del primo motivo, non potendo la ricorrente dolersi di una qualificazione da lei stessa dedotta in causa. Nel resto, il motivo è fondato e lo è anche il secondo motivo. Ai fini della prescrizione non rileva, infatti, la natura assoluta o relativa della simulazione, in quanto l’azione di simulazione, essendo volta ad accertare la nullità del negozio apparente, è di per sé imprescrittibile ai sensi dell’art. 1422 c.c. sia nel caso che si tratti di simulazione assoluta sia nel caso che si tratti di simulazione relativa, potendo il decorso del tempo eventualmente colpire i diritti che presuppongono l’esistenza del negozio dissimulato. In tal caso la prescrizione può incidere solo indirettamente sulla proponibilità dell’azione di simulazione, nel senso che, se maturata, può far venir meno l’interesse all’accertamento della simulazione del negozio apparente (Cass. n. 4986/91; Cass. n. 11215/91). Nel caso di specie, pertanto, la deduzione, da parte della stessa appellante, di una simulazione relativa posta in essere dal F. e dal P. con gli atti del 1969, in quanto da essi non realmente voluti, e quindi apparenti, era del tutto ininfluente ai fini della prescrizione dell’azione di simulazione, essendo questa comunque imprescrittibile. Occorreva, invece, accertare se e quando si era matura- CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 761 GIURISPRUDENZA•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI ta la prescrizione del diritto a tutela del quale la P. aveva proposto l’azione di simulazione, avuto riguardo alla natura di tale diritto, che la P. fondava sull’atto del 23.8.68 concluso col marito e che affermava venuto in essere nel 1972 (con la realizzazione delle unità immobiliari), e al momento a partire dal quale esso poteva essere fatto valere, che certamente non era quello della stipula dei contratti asseritamente simulati del 1969, a cui la P. era estranea. Tale indagine è stata completamente omessa dalla Corte catanese, che muovendo dall’erroneo presupposto della prescrittibilità dell’azione di simulazione relativa, ha ritenuto l’azione prescritta facendo riferimento agli atti asseritamene simulati del 1969, anziché al diritto a tutela del quale la P. aveva proposto l’azione. Riguardo a tale diritto la Corte territoriale ha omesso ogni esame, limitandosi a richiamare il giudicato relativo alla sentenza n. 268/88 della stessa Corte d’appello, senza considerare se esso era opponibile alla P., che, come accertato definitivamente da questa Suprema Corte con la sentenza 4275/99, non era stata parte del giudizio a cui il giudicato si riferiva. In accoglimento dei due motivi la sentenza va, pertanto, cassata con rinvio per nuovo esame al giudice d’appello, che si indica nella Corte d’appello di Messina. …Omissis… OSSERVAZIONI IN TEMA DI SIMULAZIONE RELATIVA E PRESCRIZIONE di Roberto Michele Triola La giurisprudenza meno recente, pur partendo dal presupposto secondo il quale l’azione di simulazione relativa è un’azione di accertamento, in quanto tende ad individuare il reale contratto voluto dalle parti ed il cui contenuto è divergente da quello del contratto simulato, ha ritenuto tale azione soggetta alla ordinaria prescrizione decennale, non essendo possibile estendere ad essa la prescrizione quinquennale prevista per l’azione di annullamento, che è azione costitutiva (cfr. Cass. 6 aprile 1956, n. 895, in Foro it. 1956, I, 1247; Cass. 11 luglio 1957, n. 2778; Cass. 24 giugno 1969, n. 2267; Cass. 4 febbraio 1970, n. 231). Si precisava, peraltro, che, ai fini della soggezione alla prescrizione ordinaria, è necessario che con l’azione di accertamento della simulazione si tenda ad in concreto a far valere il diritto nascente dal negozio dissimulato, ossia ad ottenere l’adempimento del negozio realmente voluto; qualora, invece, all’infuori da ogni necessario riferimento ai rapporti sorgenti dal negozio dissimulato, si tenda a far dichiarare l’inefficacia del negozio simulato per trarre da tale declaratoria particolari effetti che possono scaturire nelle singole situazioni giuridiche, la corrispondente azione di accertamento non è soggetta a prescrizione (cfr. Cass. 18 febbraio 1959, n. 484, in Giust. civ. 1959, I, 844). Non è, però, coerente con tale premessa l’affermazione che l’azione di simulazione relativa è soggetta alla prescrizione ordinaria decennale quando con essa si tenda a far valere un diritto che discenda immediatamente dal contratto dissimulato e che presupponga necessariamente il riconoscimento dell’esistenza e dell’efficacia del contratto dissimulato medesimo come il diritto ad ottenere che il bene oggetto della donazione dissimulata entri a far parte della massa da dividere e sia imputato ai fini della determinazione della quota di legittima e della sua eventuale integrazione (cfr. Cass. 762 CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 29 gennaio 1971, n. 220, in Riv. dir. comm. 1972, 292; Cass. 17 giugno 1974, n. 1757, in Giust. civ. 1974, I, 1743; Cass. 7 agosto 1979, n. 4569, in Foro it., 1980, I, 751). Quando, infatti, una vendita posta in essere dal de cuius dissimula una donazione, gli eredi non fanno valere un diritto che discenda in loro favore dal contratto dissimulato, ma fanno valere (ai fini della divisione) il diritto alla imputazione di tale donazione da parte del donatario o il diritto alla quota di legittima (calcolata sulla base del relictum sommato al donatum), che presuppongono l’accertamento della esistenza del negozio dissimulato. Solo con riferimento alla seconda ipotesi l’azione di accertamento della simulazione, in astratto imprescrittibile come tutte le azioni di accertamento, potrà in concreto essere considerata inammissibile, in quanto si è prescritta l’azione di riduzione al cui accoglimento è preordinata. In definitiva, quindi, come ha riconosciuto la più recente giurisprudenza in materia, alla quale la sentenza annotata aderisce, (cfr. Cass. 6 maggio 1991, n. 4986, in Giust. civ. 1991, I, 2285, con nota di Triola, Simulazione relativa e prescrizione; Cass. 23 ottobre 1991, n. 11215, in Nuova giur. civ. commentata 1992, I, 750; Cass. 16 gennaio 1997 n. 382) la cosiddetta azione di simulazione relativa, in quanto diretta ad accertare la nullità del negozio simulato, è imprescrittibile (al pari della cosiddetta azione di simulazione assoluta), ai sensi dell’art. 1422 c.c., potendo il decorso del tempo incidere solo indirettamente sulla proponibilità di tale azione, nel senso che la prescrizione dei diritti che presuppongono l’esistenza del negozio dissimulato può far venire meno l’interesse all’accertamento della simulazione del negozio apparente. In dottrina nel senso che la domanda è imprescrittibile, ma la sua ammissibilità è subordi- GIURISPRUDENZA•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI nata alla sussistenza dell’interesse ad agire cfr. Stolfi, Sull’imprescrittibilità dell’azione di simulazione, in Riv. dir. proc. 1972, 565, per il quale l’azione dichiarativa della simulazione, in quanto è di accertamento non è soggetta ad estinguersi per il decorso del tempo; qualora l’esistenza dell’accordo simulatorio si debba invece accertare in linea pregiudiziale ed incidentale in relazione ad un diritto che abbia una sua indole ed una sua disciplina e che, in particolare, sia soggetto ad estinguersi per il decorso del tempo, è superfluo discutere della prescrittibilità o meno dell’azione di simulazione, ma si deve determinare di volta in volta se il diritto in disputa sia stato fatto valere in tempo. Alla stregua di tali principi si è correttamente affermato: a)che l’azione di simulazione relativa si prescrive nel termine ordinario di dieci anni allorché sia diretta ad individuare e far valere la reale volontà delle parti, ossia il negozio dissimulato e, con esso, i diritti che dal medesimo discendono, situazione, questa, che ricorre ogni qual volta si tenda a far dichiarare la sussistenza del contratto vero per trarne un effetto che solo e necessariamente ad esso si riconnette e che, pertanto, ne presuppone il riconoscimento, come quando si faccia valere un diritto o un rapporto che scaturisce unicamente dal contratto dissimulato (Cass. 23 ottobre 1974, n. 3067); b)che non è soggetta a prescrizione l’azione con la quale l’attore chieda di essere dichiarato proprietario di un immobile già venduto ad un terzo, sostenendo che tale vendita dissimulerebbe una donazione nulla per difetto di forma (cfr. Cass. 14 ottobre 1971, n. 329, in Riv. dir. comm. 1972, 329). Con riferimento specifico alla simulazione di donazioni poste in essere dal de cuius, poi, un problema di prescrizione può presentarsi solo per le donazioni dissimulate per le quali sussistano i necessari requisiti di forma, perché, altrimenti, trattandosi di donazioni nulle, non si porrebbero problemi di limiti temporali entro i quali i coeredi possano esperire la relativa azione di accertamento (in senso conforme Cass. 18 agosto 1997, n. 7682, in Giur. it. 1998, 1342). In relazione a tale ultima ipotesi non può, pertanto, condividersi l’affermazione secondo la quale l’erede che agisca non quale legittimario ai fini del recupero o della reintegrazione della quota di riserva, assumendo veste di terzo rispetto al negozio di cessione di beni ereditari compiuto dal de cuius, del quale deduca la simulazione, bensì con azione di simulazione relativa al fine di acquisire alla massa ereditaria i beni ceduti (per la successiva divisione con gli altri eredi), resta vincolato alla posizione del de cuius, nei cui rapporti subentra, non solo sul terreno dell’accertamento probatorio, ma anche ad ogni altro effetto, compreso quello della prescrizione che decorre non dall’apertura della successione ma dal compimento dell’atto simulato (Cass. 6 agosto 1990, n. 7909, in Giur. it. 1991, I, 1, 791). A prescindere da altre considerazioni, infatti, il potenziale erede è carente di interesse ad agire per far di- chiarare la simulazione di negozi di disposizione posti in essere dal de cuius, finché quest’ultimo è in vita, per cui, aderendo a tale orientamento, si verrebbe a far decorrere la prescrizione in relazione ad una azione che non può essere esercitata. CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 763 GIURISPRUDENZA•GIURISDIZIONE Appalti CASSAZIONE CIVILE, sez. un., 20 novembre 2003, n. 17635 Pres. Corona - Rel. Morelli - - P.M. Martone (conf.) - Azienda energetica s.p.a. - Etschwerke Ag già Azienda elettrica consorziale della città di Bolzano e Milano (avv. Manzi, Paltrinieri ) c. Consiglio nazionale dei chimici ed altri Pubblica amministrazione - Appalto di servizi “sottosoglia comunitaria” - Aggiudicazione - Giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo - Non sussiste - Giurisdizione ordinaria - Sussiste (Art. 6 l. 21 luglio 2000, n. 205; art. 33 lett. d d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80; d. lgs. 17 marzo 1995, n. 157) In materia di pubblici servizi, l’art. 33, comma 2, lett. d), del d. lgs. 31 marzo 1998, n. 80 - nel testo sostituito dall’art. 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205 - non attrae nella giurisdizione amministrativa esclusiva anche le controversie relative all’affidamento di appalti di servizi da parte di soggetti che, pur non tenuti all’applicazione del procedimento di evidenza pubblica, abbiano scelto comunque di adottarlo, in tal guisa procedimentalizzando l’individuazione in concreto dell’appaltatore. ...Omissis… Motivi della decisione 1) - Sulla premessa che, ai sensi dell’art. 5 c.p.c., “il giudizio continui davanti al giudice adito non solo quando questi cessi di essere competente per un mutato quadro normativo o di fatto, ma anche nel caso in cui, pur essendo esso inizialmente incompetente, sia divenuto poi competente per sopravvenuta modifica legislativa”, il Consiglio di Stato ha ritenuto, appunto, verificata, nella specie, una siffatta seconda evenienza, in ragione della sopravvenienza dello art. 33 lett. d) del d.lgs. n. 80/98 come novellato dall’art. 7 della legge 205 del 2000, che avrebbe attratto la lite (originariamente di competenza del G.O. in ragione della natura di ente pubblica economico del soggetto appaltante) nella giurisdizione esclusiva, invece, del G.A. relativamente alla materia dei “pubblici servizi”, per il profilo in particolare delle “procedure di affidamento di appalti pubblici di servizi svolte da soggetti comunque tenuti all’applicazione delle norme comunitarie” (art. 33 lett. d) d.lgs. n. 80/98, nel testo ex art. 7 l. 205/00 cit.). A tal fine non rileverebbe in contrario che in ragione del valore dell’appalto (c.d. sotto soglia), l’Azienda non fosse “tenuta” all’applicazione della normativa comunitaria (d.lgs. 157/95 di attuazione della direttiva CEE 92/50), poiché, sempre secondo il Consiglio, dalla formula del precedente art. 6 della stessa l. 205 - che, nell’estendere la giurisdizione esclusiva del G.A., anche fuori della materia dei servizi pubblici, a tutte le procedure di affidamento attivate “da soggetti comunque tenuti all’applicazione della normativa comunitaria”, aggiunge l’espressione “nella scelta del contraente” - l’interprete sarebbe autorizzato a ritenere dirimente l’applicazione delle regole dell’evidenza pubblica, secondo il dettato comunitario, nella “concreta” scelta del contraente, attraendo così nella giurisdizione amministrati- va esclusiva anche le controversie relative ad appalti concessi da soggetti che, pur “non tenuti”, come nel caso in esame, all’applicazione del procedimento di evidenza pubblica, abbiano scelto comunque di adottarlo, in tal guisa procedimentalizzando la scelta in concreto dell’appaltatore. Mentre, ad ulteriore conferma della inerenza della controversia in esame alla competenza esclusiva del giudice amministrativo deporrebbe per il profilo soggettivo, la riconducibilità della Azienda energetica Etschwerke “sia alla figura generale dell’amministrazione aggiudicatrice sia a quella dell’organismo di diritto pubblico”, individuate come destinatarie della normativa comunitaria recepita a livello nazionale, dal d.lgs. n. 157/95. 2) - Con i tre connessi motivi della odierna impugnazione, l’Azienda, nel chiedere la cassazione della decisione del Consiglio di Stato per difetto di giurisdizione, ne censura punto per punto, per tal profilo, la motivazione, contestando sia la ritenuta applicabilità ex art. 5 c.p.c. sia la presupposta interpretazione estensiva dello ius superveniens (sub art. 7 l. 205/00), ed escludendo altresì, comunque, la propria inquadrabilità tra le riferite figure soggettive tenute, come tali, alla applicazione della normativa comunitaria in materia di conferimento di appalti. 3) - Il ricorso è fondato per quanto di ragione, in quanto effettivamente non sussistono in concreto, nella specie, i presupposti, oggettivi e soggettivi, per la devoluzione della controversia alla giurisdizione esclusiva amministrativa in materia di servizi pubblici di cui all’art. 33 lett. d) d.lgs. 80/1998, nel testo sostitutivo dal su citato art. 7 della l. n. 205/2000, ancorché tale sopravvenuta normativa non sia in astratto inapplicabile, ratione temporis, alla fattispecie. 3.1) - Non ha errato, infatti, il Consiglio a quo nell’escludere, in via di principio, l’irrilevanza, ex art. 5 c.p.c., dei mutamenti legislativi successivi alla proposi- CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 765 GIURISPRUDENZA•GIURISDIZIONE zione della domanda, ove questi siano - in tesi - attribuiti al giudice adito della giurisdizione di cui fosse a quel momento carente. E ben vero, per ormai acquisita interpretazione giurisprudenziale, il principio espresso dalla suddetta norma processuale - per cui la giurisdizione si determina con riguardo alla legge vigente ed allo stato di fatto esistente al momento della domanda, senza che abbiano effetto i successivi rispettivi mutamenti essendo diretto a favorire, e non ad impedire la perpetuatio iurisdictionis, trova applicazione solo nel caso di sopravvenuta carenza di giurisdizione del giudice originariamente adito, ma non pure quando il mutamento dello stato di diritto (o di fatto) comporti, invece - come nel caso in esame appunto si prospetta - l’attribuzione della giurisdizione al giudice che ne era privo al momento della instaurazione del giudizio (cfr., per tutte, SS.UU. nn. 15885, 2415/02). Anche perché, diversamente opinando, si perverrebbe alla assurda conclusione che, nell’ipotesi da ultimo considerata, il processo dovrebbe interrompersi presso il giudice adito in carenza (iniziale) di giurisdizione o ne dovrebbe essere caducata la già adottata decisione, per poi riattivarsi il giudizio davanti a giudice del medesimo ordine, divenuto nel frattempo competente: e ciò contro ogni ragione di funzionalità e stabilità del processo, ed in contraddizione quindi con le esigenze sottostanti alla regola della perpetuatio iurisdictionis. 3.2) - Pur individuata nello ius superveniens la normativa di riferimento, questa però non vale nel caso concreto ad attribuire al G.A. quella giurisdizione di cui era ab initio carente per le ragioni esattamente individuate dal TAR. L’art. 7 della l. n. 205 del 2000 - che ha riformulato l’art. 33 del d.lgs. n. 90 del 1998 (dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale per eccesso di delega) - ha devoluto, infatti, tra l’altro, alla giurisdizione amministrativa esclusiva in materia di servizi pubblici “le controversie aventi ad oggetto le procedure di affidamento di appalti pubblici …svolte da soggetti tenuti alla applicazione delle norme comunitarie ….”(lett. d) art. 7 cit.). Ma, nella specie, l’attuale ricorrente - quale “ente pubblico economico” (come espressamente riconosciuto a pag. 4 della stessa sentenza impugnata), che gestiva con logiche di impresa, industriali e commerciali, il servizio di erogazione dell’energia elettrica - non era, come tale, riconducibile ad alcuno delle figure soggettive, id est “amministrazioni aggiudicatrici” ovvero “organismi di diritto pubblico”, tenute alla applicazione della normativa comunitaria, ex art. 1 e 2 del d.lgs. 1995 n. 157, di attuazione della direttiva Ce 92/50 in materia di appalti pubblici. Ciò in quanto, per un verso, “sono amministrazioni aggiudicatrici”, per definizione del citato art. 2 d.l. 157/95 - oltre alle “amministrazioni dello Stato, le Regioni, le Provincie autonome, gli enti territoriali” - gli “alti enti pubblici non economici” e, quindi, non pure gli enti 766 CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 pubblici “economici” come quello ricorrente. E, per altro verso, “requisito indispensabile” per la qualificabilità di un soggetto appaltante come “organismo di diritto pubblico” (in relazione alla previsione dell’art. 1 lett. b della direttiva 92/50 e 2 d.lgs. 157/95) è il carattere “non industriale o commerciale” dei bisogni di interesse generale al cui soddisfacimento quel soggetto opera (cfr. sentenze Corte di giustizia 15 gennaio 1998, n. C 44/96 e 10 novembre 1998, in causa 360/96; Sez. Un. 4 aprile 2000, n. 97): e neppure tale requisito è evidentemente riferibile all’Azienda Energetica delle città di Bolzano e Merano. Per di più, ai sensi dell’art. 1 del citato decreto del 1995, anche le “amministrazioni aggiudicatrici” e gli “organismi di diritto pubblico” non sono comunque tenuti all’applicazione della normativa comunitaria nell’aggiudicazione degli appalti il cui valore di stima sia (come appunto quello dell’appalto per cui è causa) inferiore ai 200.000 ECU (o c.d. “sottosoglia” comunitaria). 3.3) - Né è condivisibile in contrario la tesi, pur finemente argomentata dal Consiglio di Stato, per cui in sostanza rientrino nella giurisdizione esclusiva del G.A. in materia di servizi pubblici le controversie, “ancorché inerenti ad un appalto inferiore alla soglia comunitaria”, ove l’ente appaltante (gestore di un servizio pubblico) abbia di fatto comunque optato per una procedura di evidenza pubblica per la scelta del contraente. La differenza lessicale, enfatizzata in motivazione della sentenza impugnata, tra il testo dell’art. 7 della l. 205/2000 - che ha riformulato con modifiche, l’art. 33 del precedente d.lgs. n. 80/1998 sulla devoluzione al G.A. delle controversie in materia di servizi pubblici, tra cui quelle relative all’affidamento di appalti “da soggetti comunque tenuti all’applicazione della normativa comunitaria, nazionale o regionale “sulla evidenza pubblica - ed il testo del precedente art. 6 della stessa legge - che attrae in quella giurisdizione esclusiva tutte le procedure di affidamento, ancorché non relative ai servizi pubblici, “svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente, all’applicazione della normativa comunitaria - certamente non autorizza la prospettata “interpretazione sistematica estensiva” nel senso dell’equiparazione, ai fini della devoluzione alla giurisdizione amministrativa, delle controversie relative ad appalti comunque affidati con procedura di evidenza pubblica, sia da soggetti e ciò “tenuti” sia da soggetti che l’abbiano di fatto liberamente adottata. In primo luogo, l’inclusione della espressione “nella scelta del contraente” nel testo dell’art. 6 non vale ad ampliare il perimetro della giurisdizione in materia di appalti in genere, rispetto a quello segnato, per gli appalti di servizi pubblici dal decreto del 98, in quanto anche nell’art. 6 si ribadisce che, a quei fini, debba trattarsi di appalti affidati da soggetti “comunque tenuti” all’applicazione delle procedure di evidenza pubbliche, e non (come arbitrariamente si pretende) da soggetti che a siffatte procedure abbiano fatto comunque ricorso. GIURISPRUDENZA•GIURISDIZIONE In secondo luogo, pare evidente che ove il legislatore del 2000 avesse inteso modificare. nel senso estensivo come sopra ipotizzato, la portata devolutiva dell’art. 33 del d.lgs. n. 80 del 1998, lo avrebbe fatto nella sede (propria) dell’art. 7 della l. 205 - che appunto riproduce, con le volute “modificazioni”, quel precedente art. 33 - e non già nella sede dell’art. 6, che estende bensì la giurisdizione amministrativa esclusiva anche a controversie in materia di appalti diversi da quelli relativi a servizi pubblici, ma sempre - si ripete sull’identico presupposto del correlativo affidamento da parte di soggetti “tenuti” alla applicazione delle regole dell’evidenza pubblica. E ciò a prescindere dalla considerazione che il collegamento, auspicato dal Consiglio di Stato, tra l’adozione, ancorché libera e non obbligata, di una procedura di evidenza pubblica da parte della Amministrazione aggiudicatrice, e l’inerenza delle controversie correlative alla giurisdizione amministrativa in luogo che a quella dell’A.G.O., renderebbe di fatto così arbitra la stessa P.A. di scegliere, in prospettiva, il giudice che preferisca. 3.4) - Né può indurre, infine, a diversa conclusione l’argomento, da ultimo svolto in sentenza, per cui solo l’in- terpretazione estensiva prospettata dal Consiglio di Stato consentirebbe di evitare l’incongruenza della devoluzione a diversa giurisdizione di controversie, appartenenti allo stesso blocco di materie, in ragione della mera differenza di valore del correlativo oggetto. Ci si trova, infatti, per tal profilo, di fronte non ad una inspiegabile irrazionalità del sistema normativo, bensì ad una precisa, e non irragionevole, scelta del legislatore (comunque inerente all’esercizio della sua discrezionalità valutativa), per cui solo al di sopra di certi importi le gare d’appalto debbano essere affidate secondo peculiari e inderogabili procedure ed al di sotto di tali importi possa essere consentita, invece, maggiore libertà di azione al soggetto appaltante. E per cui non incoerentemente, quindi, la giurisdizione amministrativa è circoscritta alle controversie che involgano la verifica della osservanza delle norme di diritto speciale sui meccanismi dell’evidenza pubblica. 4) - Il ricorso va, pertanto, accolto, dichiarandosi la giurisdizione dell’A.G.O. in ordine alla presente controversia, con la conseguente cassazione, senza rinvio, della sentenza impugnata, per difetto, appunto, di giurisdizione. …Omissis…. APPALTI “SOTTOSOGLIA”: DECIDE IL GIUDICE ORDINARIO di Antonio Lamorgese Il Consiglio nazionale e l’Ordine dei Chimici di Trento avevano impugnato l’aggiudicazione di una gara di appalto di servizi (a licitazione privata) indetta dall’Azienda elettrica consorziale del Comune di Bolzano. Il Consiglio di Stato (con decisione della IV sezione n. 934 del 15 febbraio 2002), andando di contrario avviso rispetto al tribunale amministrativo regionale, aveva dichiarato la giurisdizione del giudice amministrativo. Nella sentenza in commento le Sezioni Unite della Cassazione, invece, hanno dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario, pur facendo applicazione delle nuove regole sulla giurisdizione che, com’è noto, hanno devoluto alla giurisdizione amministrativa esclusiva le controversie nelle procedure pubbliche di affidamento di lavori, servizi e forniture. La particolarità del caso esaminato era che si trattava di un ente pubblico economico e che la controversia riguardava un appalto di servizi “sottosoglia comunitaria”. Il Consiglio di Stato, sull’onda panamministrativa di questi ultimi anni, aveva ritenuto di aggirare questi ostacoli attingendo al noto orientamento (1) raffinato dal Consiglio di Stato nel 1998 (2) in tema di gare di appalto indette da soggetti solo formalmente di diritto privato ma (ritenuti) sostanzialmente pubblici (3), con ogni conseguenza in punto di natura dei relativi atti Note: (1) Questo orientamento, com’è noto, fu inizialmente contrastato dalla Cassazione. In particolare, prima dell’entrata in vigore dell’art. 33 del d.lgs. 31 marzo del 1998 n. 80, le controversie relative all’aggiudicazione degli appalti stipulati dagli enti pubblici economici, che non agissero quali concessionari di enti pubblici non economici, erano attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario (v. Cass. S.U. 9 luglio 1997, n. 6225 e 28 novembre 1996, n. 10616). Nel 1999 la Cassazione ha recepito il nuovo orientamento. Si vedano Cass. S.U. 5 febbraio 1999, n. 24 (che ha affermato la giurisdizione amministrativa in una gara di appalto di servizi indetta da una società cooperativa a responsabilità limitata Consorzio dei Comuni della provincia di Bolzano); 13 febbraio 1999 n. 64 (in una gara di appalto di fornitura “soprassoglia comunitaria” indetta da un’azienda speciale costituita ai sensi dell’art. 22 della legge n. 142 del 1990); 26 febbraio 1999 n. 101 (in tema di lavori pubblici); 12 giugno 1999 n. 332 (in tema di gara di appalto di fornitura “soprassoglia comunitaria” indetta da un’azienda municipalizzata avente natura di ente pubblico economico); 30 giugno 1999 n. 363 (in un appalto di lavori pubblici affidato da un consorzio di sviluppo industriale); 24 febbraio 2000 n. 40 (in un appalto di lavori pubblici affidato da un ente privato ecclesiastico); 9 maggio 2000 n. 300 (in tema di gara di appalto di servizi “soprassoglia comunitaria” indetta da un’azienda municipalizzata). Sulla giurisdizione amministrativa in tema di gare di appalto indette da enti pubblici economici, si vedano anche Cons. St., sez. IV, 10 maggio 2002 n. 5242; sez. VI, 22 ottobre 2002 (n. 843/2003). (2) Si vedano, in particolare, le note decisioni del Cons. St., sez. VI, 28 ottobre 1998, n. 1478 e V sez., 7 giugno 1999, n. 295. (3) Si pensi alle aziende speciali costituite ai sensi degli artt. 23 della legge n. 142/1992 e, ora, 113 bis e 114 del d.lgs. n. 267/2000; alle società (segue) CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 767 GIURISPRUDENZA•GIURISDIZIONE considerati amministrativi sia soggettivamente (per la derivazione da soggetti considerati ope legis alla stregua di pubbliche amministrazioni) sia oggettivamente (in quanto espressione di potestà pubblica). In particolare, nella decisione n. 934 del 2002, cassata dalla Suprema Corte, il Consiglio di Stato aveva coniugato tale natura amministrativa con l’applicazione della normativa sull’evidenza pubblica e ne aveva desunto automaticamente l’individuazione del giudice competente in quello amministrativo. Il Consiglio, al fine di superare la consolidata interpretazione che ha sempre attratto nell’orbita della giurisdizione ordinaria l’attività degli enti pubblici economici (4) (fatta eccezione per i profili generali di autorganizzazione), aveva posto l’accento sulla qualità anche formale di ente pubblico (seppur economico) dell’azienda ricorrente e, soprattutto, sulla volontà del legislatore di devolvere alla giurisdizione amministrativa esclusiva tutte le controversie attinenti al blocco di materia qui considerato in tema di affidamento degli appalti pubblici (di lavori, servizi o forniture), siano strumentali al servizio pubblico (come nell’art. 33 lett. d) del d. lgs. n. 80 del 1998, nel testo sostituito dall’art. 7 della legge 21 luglio 2000 n. 205) o non lo siano (come nell’art. 6 comma 1 della legge n. 205 del 2000). Il Consiglio, inoltre, aveva desunto un ulteriore argomento dalla differenza delle parole usate nelle due disposizioni appena citate: mentre nella seconda (art. 6 comma 1) si fa riferimento alle «procedure di affidamento di lavori, servizi o forniture svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all’applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale», nella prima (art. 33 lett. d) si fa riferimento solo alle procedure svolte da “soggetti comunque tenuti” all’applicazione di detta normativa. Ciò dimostrerebbe che, quando (come nel caso esaminato) l’appalto è strumentale allo svolgimento del servizio pubblico (art. 33 lett. d), non sarebbe richiesto, ai fini del radicamento della giurisdizione amministrativa, che il soggetto sia tenuto all’applicazione della normativa sull’evidenza pubblica nella concreta scelta di quel contraente (qui si trattava di appalto di servizi “sottosoglia comunitaria” in cui, infatti, un obbligo di applicare quella normativa non era ravvisabile), essendo sufficiente che lo sia astrattamente, in quanto soggetto (formalmente o sostanzialmente) pubblico. La sovrapposizione delle due disposizioni è dovuta alla fretta del legislatore di superare l’incostituzionalità dell’art. 33 del d.lgs. n. 80 (per eccesso di delega (5)) ma l’incertezza interpretativa che ne consegue è superata dalla dottrina, secondo la quale si tratta di un lapsus calami, dovendosi in ogni caso «considerare l’art. 6, comma 1, quale unica disposizione che regola sul piano della giurisdizione il contenzioso relativo alle procedure di affidamento» (6), con ciò intendendosi che tutte le controversie in tema di affidamento di lavori, servizi o forniture (anche non strumentali all’espletamento di 768 CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 un servizio pubblico) apparterrebbero ormai al giudice amministrativo. Anche l’argomento letterale utilizzato dal Consiglio di Stato perde così significato (7). La Cassazione, in ogni caso, seguendo una linea interpretativa diversa, non crede al legame ravvisato invece, direi ontologicamente, dai magistrati di Palazzo Spada tra la natura amministrativa dell’ente che indice la gara, l’applicazione della normativa sull’evidenza pubblica ed il radicamento della giurisdizione amministrativa (8). La motivazione della sentenza in commento è condivisibile e si sviluppa in due direzioni. Da un lato, la Corte nega che l’ente (pubblico economico) ricorrente (9) sia riconducibile, in concreto, Note: (segue nota 3) costituite da enti locali ai sensi degli artt. 22 della legge n. 142/1992 e, ora, 113, 113 bis e 116 del d.lgs. n. 267/2000; alle società per azioni il cui pacchetto di maggioranza è detenuto da consorzi o soggetti pubblici ecc. (4) Nel senso che gli «atti inerenti alla procedura di scelta dell’aggiudicatario di un dato specifico contratto … non attengono all’organizzazione dell’ente, ma all’esercizio puntuale… di una delle attività fondamentali per cui l’ente (pubblico economico) esiste e funziona, che la legge qualifica come attività economica», si veda Cass. S.U. 28 novembre 1996, n. 10616. (5) V. Corte cost. 17 luglio 2000, n. 292. (6) F. Caringella, Corso di diritto amministrativo, I, Milano, 2003, 752. (7) L’argomento, del resto, è bivalente: per un verso, si potrebbe ritenere che è proprio l’applicazione generalizzata (anche in tema di appalti strumentali all’erogazione di servizi pubblici) dell’art. 6 comma 1 della legge n. 205 del 2000, il quale fa riferimento alla “scelta del contraente”, a richiedere che in concreto si faccia comunque applicazione della normativa sull’evidenza pubblica, pur se il soggetto non vi sia astrattamente tenuto (questa sembra l’interpretazione considerata e confutata dalla Cassazione, la quale rileva che “anche nell’art. 6 si ribadisce che, a quei fini, debba trattarsi di appalti affidati da soggetti ‘comunque tenuti’all’applicazione delle procedure di evidenza pubblica, e non (come arbitrariamente si pretende) da soggetti che a siffatte procedure abbiano fatto comunque ricorso”; per altro verso, invece, si potrebbe desumere proprio dalla mancanza del riferimento (nell’art. 33 lett. d) alla “scelta del contraente” l’ampliamento della giurisdizione esclusiva (nelle gare di appalto di forniture e servizi strumentali all’erogazione di servizi pubblici) “a quelle procedure promosse da un soggetto, erogatore di servizi pubblici, che, pur non essendo tenuto a rispettare l’evidenza pubblica per la scelta di quel dato contraente, nondimeno è compreso in linea generale tra i soggetti comunque tenuti ed ha voluto effettivamente osservare l’evidenza pubblica in tale caso specifico, pur senza esservi obbligato” (in tal senso è la motivazione della decisione del Consiglio di Stato n. 934 del 2002). Si può però facilmente replicare che qui si trattava di un ente pubblico economico (non qualificabile come organismo di diritto pubblico) che, in ogni caso, non era compreso in linea generale tra i soggetti comunque tenuti ad osservare l’evidenza pubblica. (8) In linea con la tesi del Consiglio di Stato sembra S. Baccarini, Ambito soggettivo di applicazione dell’evidenza pubblica, in L’appalto di opere pubbliche, a cura di R. Villata, Milano, 2001, 139, secondo il quale «l’inclusione di determinati soggetti nell’ambito di applicazione dell’evidenza pubblica determina non soltanto - sotto il profilo sostanziale - il tipo di procedimento applicabile, ma anche - sotto il profilo processuale - il giudice, quello amministrativo, che ha giurisdizione sulle relative controversie». (9) Nel caso di specie, l’ente ricorrente, che «gestiva con logiche di impresa, industriali e commerciali, il servizio di erogazione dell’energia elettrica”, aveva indetto una gara di appalto di servizi per la “esecuzione di una serie di analisi chimiche sugli oli di raffreddamento dei trasformatori per la produzione di energia elettrica». GIURISPRUDENZA•GIURISDIZIONE «ad alcuna delle figure soggettive, id est “amministrazioni aggiudicatrici” ovvero “organismi di diritto pubblico”, tenute all’applicazione della normativa comunitaria, ex artt. 1 e 2 del d. lgs. 1995 n. 157, di attuazione della direttiva Ce 92/50 in materia di appalti pubblici (di servizi)», così implicitamente negando la possibilità di considerare gli enti pubblici economici (che l’art. 2 citato espressamente esclude dal novero delle “amministrazioni aggiudicatrici” (10)) come organismi di diritto pubblico (quantomeno sulla base di una valutazione astratta e non concretamente volta alla ricerca degli indici rivelatori di quella figura di matrice comunitaria (11)). Da un altro lato, soprattutto, la Corte osserva che «anche le “amministrazioni aggiudicatrici” e gli “organismi di diritto pubblico” non sono comunque tenuti all’applicazione della normativa comunitaria nell’aggiudicazione degli appalti il cui valore di stima sia (come appunto quello dell’appalto per cui è causa) inferiore ai 200.000 ECU (o c.d. “sottosoglia” comunitaria)» (12). In altri termini, l’applicazione (di fatto) della procedura di evidenza pubblica da parte di soggetti privati o anche pubblici (nell’accezione comunitaria di organismo di diritto pubblico (13) ed in quella nazionale di ente o amministrazione pubblica) non è sufficiente a radicare la giurisdizione amministrativa, quando manchi una specifica prescrizione (comunitaria, nazionale o regionale) in tal senso. Pertanto, in tema di affidamento di appalti di servizi e forniture “sottosoglia comunitaria”, la giurisdizione spetta, di regola, al giudice ordinario (14); negli appalti di lavori pubblici, invece, poiché l’applicazione del procedimento di evidenza pubblica è prevista dalla legge per la gran parte di soggetti (compresi gli enti pubblici economici e gli organismi di diritto pubblico) indipendentemente dal limite di valore comunitario (15), sussiste di regola (16) la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 6 della legge n. 205 del 2000. Il fatto che un soggetto (privato o pubblico che sia) faccia applicazione dell’evidenza pubblica, in mancanza di una specifica norma che lo imponga, non è sufficiente a radicare la giurisdizione amministrativa, posto che il seguire una precisa regola procedimentale per l’affidamento dell’appalto non costituisce affatto, di per sé, elemento rilevante ai fini dell’individuazione di interessi legittimi in capo ai partecipanti alla gara (17). Note: (10) Si vedano, negli appalti di forniture, l’art. 1, comma 3, lett. a), del d. lgs. 24 luglio 1992 n. 358, modificato dal d.lgs. 20 ottobre 1998 n. 402 e, nei settori esclusi, l’art. 2, lett. a), del d. lgs. 17 marzo 1995 n. 158. (11) Ad esempio, Cass. S.U. 4 aprile 2000 n. 97 ha escluso la natura di organismo di diritto pubblico dell’Ente Fiera di Milano (ente pubblico economico) dopo un’attenta valutazione in concreto dell’insussistenza dei relativi requisiti. Sulla nozione di organismo di diritto pubblico si veda la prima definizione nell’art. 1 della dir. CE 89/440 in tema di lavori pubblici (e poi dir. 93/36 in tema di forniture, 92/50 in tema di servizi e 90/531 e 93/38 nei settori esclusi); nella giurisprudenza comunitaria si vedano, tra le altre, Corte CE 15 gennaio 1998, in causa 44/96 e 10 novembre 1998, in causa 360/96. Sulla nozione di organismo di diritto pubblico in diritto comunitario si veda, riassuntivamente, Caringella, cit., 735 ss.. (12) Anche per gli appalti pubblici di forniture la soglia comunitaria corrisponde, salvo eccezioni, a 200.000 ECU (v. art. 1 del d.lgs. n. 358 del 1992); nei settori esclusi si veda l’art. 9 del d. lgs. 17 marzo 1995 n. 158 (600.000 euro nel settore delle telecomunicazioni e 400.000 negli altri). (13) Secondo Caringella, cit., 756 ss., «la circostanza che un soggetto privato decida di legarsi a cadenze procedimentali modellate sulla falsariga dell’evidenza pubblica non toglie nulla al carattere privatistico dell’attività svolta» e, quindi, non è sufficiente al radicamento della giurisdizione amministrativa. Lo stesso autore osserva che i «soggetti qualificabili come organismi di diritto pubblico (ma non come enti pubblici secondo il diritto nostrano)» che indicono appalti di servizi e forniture «sono obbligati a seguire l’evidenza solo in caso di superamento della soglia»; «non è al riguardo convincente la tendenza giurisprudenziale a ricavare dalla qualifica di un soggetto come organismo comunitario un effetto più ampio di assoggettamento alle regole di evidenza anche per le procedure sottosoglia, con gli intuibili precipitati in tema di giurisdizione esclusiva del G.A.». Questa opinione, però, non sembra riferita da Caringella anche agli enti pubblici (come quelli economici) che siano tali secondo il diritto nazionale. (14) Hanno affermato, invece, la giurisdizione esclusiva amministrativa, anche in tema di appalti di fornitura e servizi “sottosoglia comunitaria”, Cons. St., sez. VI, 2 marzo 2001, n. 1206 e sez. V, 10 marzo 2003, n. 1295, in entrambi i casi sul presupposto che ad indire la gara erano organismi di diritto pubblico. La giurisdizione amministrativa esclusiva è affermata anche da Cass. S.U. 6 maggio 2002, n. 6487 in un caso, però, di appalto (affidato da un ente pubblico economico) avente ad oggetto lavori pubblici e nella stessa sentenza è confermata, in generale, la necessità che si tratti di soggetti “tenuti ad applicare la normativa comunitaria o le regole dei procedimenti di evidenza pubblica nella scelta del contraente”; e da Cass. S.U. 27 gennaio 2004, n. 1479 che, in un caso di appalto di servizi, non è si posta il problema del superamento o meno della soglia comunitaria e, anzi, ha fatto riferimento agli artt. 1 e 3 del d. lgs. 19 dicembre 1991 n. 406 (ora abrogati dall’art. 231 del d.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554) riguardanti la diversa materia dei lavori pubblici. Ha dichiarato la giurisdizione ordinaria in una gara di appalto “sottosoglia” indetta da un’Azienda sanitaria locale TAR Friuli Venezia Giulia, 28 giugno 2003, n. 483; cfr., in tema di gare di appalto indette dall’Enel s.p.a., TAR Umbria 15 marzo 1999, n. 206 e TAR Liguria 13 aprile 1999, n. 152: entrambe le decisioni escludono la possibilità di attribuire al giudice amministrativo ratione materiae il sindacato su qualsiasi tipo di gara condotta con le regole dell’evidenza pubblica. (15) In attuazione della normativa comunitaria (dir. 89/440/CE), l’art. 1 del d. lgs. 19 dicembre 1991 n. 406 disciplinava l’affidamento di lavori pubblici di importo pari o superiore a cinque milioni di ECU. (16) Un problema di giurisdizione si pone negli appalti affidati da «soggetti privati relativamente a lavori di cui all’allegato A del decreto legislativo 19 dicembre 1991 n. 406, nonché ai lavori civili relativi ad ospedali, impianti sportivi, ricreativi e per il tempo libero, edifici scolastici ed universitari, edifici destinati a funzioni pubbliche amministrative, di importo superiore a 1 milione di euro…» (v. art. 2, comma 2, lett. c, della legge 11 febbraio 1994 n. 109, sostituito dall’art. 7 della legge 1 agosto 2002 n. 166; alla lett. d del citato art. 2, comma 7, tali soggetti sono definiti “realizzatori”) per i quali è prevista l’applicazione della normativa sull’evidenza pubblica. Qui si dovrebbe affermare la giurisdizione ordinaria anche per gli appalti “soprassoglia”, se non si vuole entrare in rotta di collisione con l’art. 103 Cost. che, pur potendo forse, a fatica, accettare la dilatazione della giurisdizione esclusiva sino a comprendere (nel concetto di p.a.) anche gli organismi di diritto pubblico, ben difficilmente si presta ad abbracciare anche soggetti privati a tutti gli effetti. (17) Si veda, in tal senso, tra le altre, Cass. S.U. 28 novembre 1996 n. 10616, secondo cui “si tratta sempre di stabilire se ci si trova di fronte ad un diritto soggettivo o ad un interesse legittimo”. Per una decisa confutazione della tesi secondo cui la procedura di evidenza pubblica connoterebbe come interessi legittimi le posizioni degli aspiranti contraenti, si veda Cass. S.U. 9 luglio 1997 n. 6225, con riferimento agli enti pubblici economici. CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 769 GIURISPRUDENZA•GIURISDIZIONE Men che meno, ai fini dell’individuazione del giudice competente, hanno rilievo considerazioni attinenti al carattere pubblicistico della disciplina inerente al rapporto da giudicare (18), alla sua finalizzazione alla cura di interessi pubblici, all’applicazione inderogabile dei principi comunitari (di parità di trattamento, trasparenza e non discriminazione) a tutela della concorrenza tra i soggetti interessati (19), alle capacità finanziarie o organizzative del soggetto o a vaghe ragioni di opportunità (20). Per poter ravvisare interessi legittimi è necessario esaminare il contenuto delle norme procedimentali, dovendosi accertare se permanga o meno in capo al soggetto (pubblico) che indice la gara una discrezionalità amministrativa (e non meramente tecnica o vincolata al mero riscontro del possesso dei requisiti del bando) nella scelta del soggetto al quale aggiudicare l’appalto (21). Solo in tal caso potrebbe sussistere un interesse legittimo tutelabile dinanzi alla giurisdizione amministrativa (di legittimità). L’affermazione (nella sentenza in commento) della giurisdizione ordinaria in un caso di applicazione effettiva (seppur di fatto) dell’evidenza pubblica, in fondo, lo dimostra. La circostanza che tale applicazione non sia imposta dalla legge (comunitaria o nazionale) non scalfisce e, anzi, conferma l’opinione circa l’impossibilità di desumere automaticamente interessi legittimi dalle regole di evidenza pubblica. Si spiega così perché la giurisdizione amministrativa in tema di procedure di affidamento, se c’è, è esclusiva, in un ambito “protetto” dal legislatore con l’art. 6 comma 1 della legge n. 205/2000 (22), a condizione che sussista un preciso obbligo normativo di applicare la normativa sull’evidenza pubblica, cioè solo quando il soggetto, in concreto, è tenuto ad osservarla. Giudicare se l’irrazionalità del sistema di riparto della giurisdizione che ne risulta sia provocata dalla mancata devoluzione alla giurisdizione esclusiva delle controversie relative anche agli appalti “sottosoglia” ovvero dalla devoluzione alla giurisdizione esclusiva delle controversie relative agli appalti “soprassoglia”, è un altro problema. Note: (18) Infatti, e si tratta di un principio generale, “la normativa applicabile appartiene al merito del rapporto” (Cass. n. 10616/1996 cit.). (19) Sulla necessità di osservare tali principi anche per gli appalti pubblici “sottosoglia” si veda la circolare della Presidenza del consiglio dei ministri in data 6 giugno 2002 n. 8756 (in G.U. del 31 luglio 2002, n. 178). (20) Si veda, in senso contrario, P. Peruggia, Le sezioni unite decidono sulla natura degli enti fieristici, in Foro it., 2001, I, 619. (21) Si pensi ai cosiddetti metodi meccanici di scelta del contraente, rispetto ai quali è difficile negare l’esistenza di un diritto all’aggiudicazione in capo all’impresa concorrente che possegga i requisiti predeterminati nel bando di gara. Ciò, del resto, è coerente con l’autorevole opinione secondo cui la normativa comunitaria sulle procedure concorsuali è rivolta non a consentire alla p.a. di perseguire meglio l’interesse pubblico ma a garantire «gli interessi delle imprese oggettivati nelle regole di funzionamento del mercato: sono questi interessi che ora vengono tutelati in modo primario e diretto» (A. Romano, Sono risarcibili; ma perché devono essere interessi legittimi ?, in Foro it., 1999, I, 3225). Del resto, 770 CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 ad avviso del Cons. St., sez. VI, 5 maggio 2003 n. 2332, «le norme sull’evidenza pubblica, interna e comunitaria, plasmano un complesso rapporto amministrativo in seno al quale l’amministrazione aggiudicatrice è soggetto in certa misura passivo, obbligato all’osservanza di norme poste a tutela di un interesse anche trascendente quello specifico del singolo contraente pubblico in quanto collegato al valore imperativo della concorrenza e, quindi, anche all’interesse particolare delle imprese che sono tutelate dalle prescrizioni volte alla tutela ed alla stimolazione della dinamica competitiva». Ciò sembra confermare l’opinione secondo cui, non essendo gli interessi delle imprese subordinati ma pariordinati rispetto alla p.a., la loro tutela non è offerta dalla categoria dell’interesse legittimo. (22) L’art. 13 della legge 19 febbraio 1992, n. 142 (secondo cui la domanda risarcitoria per danni subiti per la violazione del diritto comunitario in tema di appalti pubblici doveva essere proposta al giudice ordinario “previo annullamento dell’atto lesivo con sentenza del giudice amministrativo”), infatti, è stato abrogato dall’art. 35 del d. lgs. n. 80 del 1998, mod. dalla legge n. 205 del 2000 (è da ritenersi abrogato anche l’art. 11 della legge 1992 n. 489 che, nei settori esclusi, richiamava l’art. 13 della legge n. 142 del 1992). GIURISPRUDENZA•DIRITTO INDUSTRIALE Concorrenza sleale CASSAZIONE CIVILE, sez. I, 11 febbraio 2003, n. 1982 Pres. Grieco - Rel. Morelli - P.M. Palmieri (diff.) - Ford Motor Company Limited (avv.ti Manfredonia, Traverso) c. T.E.S. spa (avv. Valcavi) Concorrenza (diritto civile) - Sleale - Azione per la repressione della concorrenza - Risarcimento del danno - Pubblicazione della sentenza - Presupposti e modalità - Pubblicazione del dispositivo accompagnato da ulteriori informazioni esplicative - Legittimità (Artt. 2598, 2600 c.c.) L’ordine di pubblicazione della sentenza che abbia accertato il compimento di atti concorrenziali contra legem costituisce misura discrezionale del giudice (sia quanto all’an che quanto al quomodo), nonché indipendente dall’effettiva esistenza di un danno a carico dell’attore. Ai fini, tuttavia, dell’adempimento di un tal provvedimento del giudice non si rende di per sé illegittimo il fatto che il condannato accompagni la “pubblicazione” del dispositivo della sentenza con altre informazioni meramente esplicative e pertinenti alla realtà dei fatti, che egli abbia interesse di coevamente portare a conoscenza del pubblico. …Omissis… Motivi della decisione 1. Con l’unico complesso mezzo della impugnazione, rubricato in termini di violazione degli artt. 120 c.p.c., 2660 c.c. e 65 legge marchi, la ricorrente torna sostanzialmente a riproporre la questione, se possa, o non, considerarsi adempitiva dell’ordine giudiziale, di pubblicazione di un dispositivo di condanna (in appello, per fatti di concorrenza sleale), la pubblicazione effettuata, come nel caso in esame, dal soccombente con testuale “aggiunta” di informazioni a lui favorevoli, estranee al dispositivo stesso e non autorizzate dal giudice, quali la precisazione che la sentenza de qua era stata impugnata per cassazione e che la parte soccombente in appello era rimasta viceversa vittoriosa in primo grado. 2. A tal quesito la Corte territoriale ha dato risposta affermativa sul rilievo che - attesa la verità storica delle informazioni aggiuntive, di che si discute, e sussistendo il diritto dell’interessato a portarle a conoscenza del pubblico - “ non fa (rebbe) differenza il fatto che tale informazione non sia stata data separatamente ma nello stesso riquadro contenente il dispositivo della sentenza pubblicata, in forma di prefazione e spiegazione di quest’ultima. Anche in considerazione della “mancanza di qualsiasi regola o direttiva riguardante le modalità della pubblicazione, sia nella legge (artt. 2600 c.c., 120 c.p.c.) sia nella sentenza della Corte di appello”, la cui violazione potesse far ritenere eluse, nella fattispecie, le finalità riparatorie della pubblicazione stessa. E tali argomenti, e la soluzione che ne consegue, vengano ora, appunto, sottoposti a critica da parte della ricorrente. La quale sostiene in contrario che “al di là del silenzio della littera legis, sarebbe la ratio stessa delle norme sul- la pubblicazione della sentenza ad impedire di considerare adempimento dell’ordine del giudice la pubblicazione che contenga notizie favorevoli al condannato e che siano ulteriori rispetto a quelle che il giudice medesimo aveva ordinato di diffondere.” E che “discenda dalla stessa funzione dell’istituto della pubblicazione della sentenza il corollario per cui il pur legittimo esercizio, da parte del soccombente, del suo diritto di informare il pubblico su circostanze processuali a lui favorevoli non possa essere considerato anche un corretto adempimento dal dovere di pubblicare la sentenza”. Poiché, diversamente opinando, si preverrebbe all’«assurdo di ammettere che la determinazione dell’equo risarcimento operata dal giudice (comprensiva dell’effetto discreditante per il condannato che consegue alla pubblicazione) possa essere liberamente ed unilateralmente sovvertita dal condannato, il quale potrebbe così neutralizzare a suo piacimento il dictum del giudice». 3. Ritiene al riguardo il Collegio che vada, viceversa, ribadita la soluzione che, alla questione controversa, ha già dato la Corte di merito. Ed invero, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, la ratio prevalente, sottesa alla pubblicazione della sentenza in materia di concorrenza sleale, non è quella di fornire un risarcimento del danno in forma specifica, ma quella, piuttosto di “portare a conoscenza del pubblico la reintegrazione del diritto offeso” (Cass. 1983 n. 3109), al fine precipuo di ristabilire una corretta informazione del mercato e del pubblico, leso dall’atto di concorrenza sleale. Il che, quindi, spiega perché la pubblicazione della sentenza ex art. 2600 c.c., possa essere disposta anche indipendentemente dall’esistenza di un danno in capo al soggetto che lamenta la concorrenza sleale e che sia suf- CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 771 GIURISPRUDENZA•DIRITTO INDUSTRIALE ficiente la violazione delle regole per il corretto funzionamento del mercato e della concorrenza a determinare il giudice all’esercizio del suo potere discrezionale (e insindacabile) di ordinare siffatta pubblicazione (Cass. 1980 n. 2996; 1982 n. 5462; 1983 n. 3828; 1985 n. 5708; 1996 n. 3276). Pacifico essendo poi che la riferita discrezionalità del giudice del suo potere di disporre la pubblicazione ex comma 2 art. 2600 cit. si manifesti anche nella determinazione delle modalità della stessa che egli ritenga, nel caso concreto, idonee a consentire la corretta informazione del pubblico, è appunto in relazione a tali modalità, per il profilo della loro osservanza o meno, che va individuato l’adempimento, o non, dell’ordine di pubblicazione da parte del condannato (Verifica, questa, che la Corte di merito ha puntualmente compiuto dando atto della avvenuta osservanza da parte della T. di tutte le indicazioni sulle modalità e luogo della pubblicazione ordinate dal giudice - con statuizione non censurata in questa sede, in parte qua). Mentre l’ulteriore condizione negativa, per l’adempimento dell’ordine di pubblicazione, che la ricorrente pretenderebbe implicita nella norma dell’art. 2600 c.c. - nel senso, appunto, che la pubblicazione del dispositivo non possa essere “accompagnata” da alcuna altra informazione pur meramente esplicativa, ed ancorché pertinente e rispondente alla verità dei fatti, che il condannato abbia interesse a portare, contemporaneamente, a conoscenza del pubblico - condurrebbe ad una lettura della richiamata disposizione codicistica di dubbia compatibilità con la garanzia costituzionale (sub art. 21) del diritto inviolabile di libera manifestazione del pensiero. Lettura che il giudice è tenuto, quindi, a respingere in ossequio al canone ermeneutico (espressivo del principio di gerarchia delle fonti normative) che di ogni norma, di rango ordinario, impone, ove (come nella specie) possibile, una interpretazione, invece, costituzionalmente orientata o c.d. adeguatrice. …Omissis… PUBBLICAZIONE DELLA SENTENZA, FORMALISMO GIURIDICO E MODELLO COSTITUZIONALE. ANCORA A PROPOSITO DI NUOVE FRONTIERE DEL DIRITTO CIVILE di Onofrio Fittipaldi 1. La esperienza giurisprudenziale si conduce - nei fatti - a reinterrogarsi, in vario modo, sulle frontiere stesse degli istituti giuridici e del processo civile nella stagione contemporanea. Tanto più - infatti - in epoche segnate dall’accentuarsi della “transizione” culturale, si rendono ricorrenti operazioni tese, più che mai e più o meno programmaticamente, a revocare in dubbio le stesse strutture fondanti del c.d. formalismo giuridico (1), e - per ciò stesso - le sue stesse premesse logico-storiche (2), rappresentate da quel medesimo terreno culturale il quale, con il principio della “divisione del lavoro” e della “divisione dei poteri”, ebbe anche ad esprimere quello della divisione delle competenze”, con tutto il suo pregnante utilizzo del principio logico di identità e non contraddizione (3). Le aree culturali che sorreggono un tale periodicamente riemergente atteggiamento si rivelano quanto mai ampie, e rimandano a quella più generale prospettiva la quale finisce - volta a volta più o meno consapevolmente - per guardare con riserva il clima che ha espresso i principi suddetti, i quali - in una tale prospettiva - finiscono per venire avvertiti quale frutto di un’ingiustificata rassegnazione sulla insuperabilità della stagione della organizzazione dei rapporti intersoggettivi la quale, prendendo le mosse dalle rivoluzioni liberali del ‘700, si affida al postulato secondo il quale gli istituti del diritto civile e del processo civile, sistematicamente 772 CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 interpretati ed organizzati, pur con tutto il loro complesso di limiti e pur non identificando - in quanto tali dei valori fini a loro stessi, identifichino comunque nei paesi di civil law - una risorsa avanzata per la realizzazione delle libertà economiche e dei diritti civili, fondata - appunto - sulla “capacità giuridica” intesa quale attributo riconosciuto a tutti i soggetti, e sulla mediazione dei conflitti di interessi attraverso le strutture “codificate” dell’“ordinamento giuridico” (4). Note: (1) Sulle connessioni intercorrenti fra fenomeno delle codificazioni, positivismo giuridico e formalismo giuridico, vedi??? e, più in generale, Negri, Alle origini del formalismo giuridico, Padova, 1962; Cammarata, Formalismo e sapere giuridico. Studi, Milano, 1963; Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Milano, 1977; Scarpelli, Cos’è il positivismo giuridico, Napoli, 1997. (2) Esemplificativo può ritenersi, in tal senso, il contributo recentemente offerto da Alpa, Il metodo giuridico, in Contratto ed impresa, 2000, 358 ss. (3) Sugli stretti rapporti intessutisi nel tempo fra la concettualizzazione giuridica e le scuole di logica filosofica, nonché sulla strettissima connessione fra l’evoluzione della scienza del diritto e l’affermarsi, in sede filosofica, del “razionalismo” seicentesco e settecentesco, vedi, per tutti Paresce, La dinamica del diritto. Contributo ad una scienza del diritto, Milano, 1975, 12 ss; Kalinowski, voce Logica (lineamenti generali), in Enc. dir., XXV, Milano, 1975, 7 ss.; Giuliani, voce Logica (teoria dell’argomentazione ), ivi, 13 ss. (4) Su tutta una tale cruciale fase storica, vedi, per tutti, Tarello, Cultura (segue) GIURISPRUDENZA•DIRITTO INDUSTRIALE 2. Trattasi - dicevamo - di un atteggiamento il quale data lontano nel tempo, e si accompagna a tutto un lungo e più ampio processo di riflessione teso a definire ruolo e possibili funzioni nuove di uno Stato che, oltre che dei tradizionali obiettivi propri della stagione “liberale”, si faccia anche interprete e gestore dei problemi di trasformazione del “sociale” (5). Tali ultime esigenze sono già state del resto variamente intercettate - nel tempo - dall’evoluzione dei modelli costituzionali, i quali hanno segnato, in Europa, il corso storico degli ultimi due secoli, rendendo le Carte costituzionali (6), proprio in ragione della loro tipica strutturazione (naturalmente estranea agli schemi del formalismo giuridico), lo strumento privilegiato per “riscattare” i singoli sistemi giuridici codificati, dai rischi del formalismo fine a se stesso. Tutto ciò non toglie e non elimina quelli che, pur con tutti i suoi limiti ed i suoi difetti, sono e restano i meriti storici di questo medesimo “formalismo giuridico”, tanto più ove si rifletta sulla sorte conosciuta da modelli del tutto alternativi i quali, nel corso di questo medesimo arco storico, avendo assunto a proprio postulato ideologico proprio il superamento programmatico di ogni sistema fondato sulla liberale divisione del lavoro e delle competenze, e privilegiando, al contempo, una dimensione accentuatamente “metagiuridica” dell’interpretazione del diritto, hanno finito poi per conoscere esiti di gran lunga meno soddisfacenti. 3. I fatti: essendo stata fatta destinataria, in una controversia avente ad oggetto la violazione di un diritto di marchio, di un ordine di pubblicazione del dispositivo della sentenza di condanna (ordine emesso ai sensi dell’art. 2600 c.c.), una società per azioni, nel provvedere con ritardo all’adempimento, faceva precedere la pubblicazione medesima da un commento nel quale specificava che contro la sentenza in questione (resa in sede di appello) era stato da essa società proposto ricorso per cassazione, e che in primo grado l’esito del giudizio era risultato a lei favorevole. Nell’ambito di una successiva controversia promossa dalla medesima società soccombente ed avente ad oggetto la ripetizione di eccedenze di importi indebitamente da essa versati, la controparte chiedeva, in via riconvenzionale, che venisse valutata la irritualità delle forme in cui la pubblicazione era stata eseguita; irritualità tale - a suo dire - da sostanziare, in realtà, un vero e proprio inadempimento dell’ordine. Il giudice dichiarava adeguata la pubblicazione così come eseguita, ed una tale valutazione veniva confermata anche dai giudici di appello, i quali rilevavano come, attesa la verità storica delle informazioni aggiuntive, dovesse riconoscersi la sussistenza di un chiaro diritto dell’interessato a portare a conoscenza del pubblico le circostanze in questione, e come non facesse differenza il fatto che tale informazione non fosse stata offerta separatamente, ma - in forma di prefazione e spiegazione - nello stesso riquadro contenente il dispositivo della sentenza. Da ciò il ricorso per cassazione proposto dalla società beneficiaria dell’ordine di pubblicazione, la quale osservava come: a) al di là del silenzio della lettera legis, sia la ratio stessa delle norme sulla pubblicazione, ad impedire di considerare adempimento dell’ordine del giudice, la pubblicazione che contenga notizie favorevoli al condannato e che si rivelino ulteriori rispetto a quelle che il giudice medesimo aveva ordinato di diffondere; b) discenda dalla stessa funzione dell’istituto della pubblicazione della sentenza il corollario per cui il pur legittimo esercizio, da parte del soccombente, del diritto di informare il pubblico su circostanze processuali a lui favorevoli non possa essere considerato anche un corretto adempimento del dovere di pubblicare la sentenza; c) a diversamente opinare, si perverrebbe all’assurdo di ammettere che la determinazione dell’equo risarcimento operato dal giudice (comprensiva dell’effetto discreditante per il condannato che consegue alla pubblicazione ) possa essere liberamente ed unilateralmente sovvertita dal condannato, il quale potrebbe così neutralizzare a suo piacimento il “dictum” del giudice”. La Cassazione, con la sentenza qui in commento, ha confermato ulteriormente la soluzione offerta dai giudici di merito, ed - allo scopo - ha sviluppato la seguente progressione argomentativa: 1) la ratio prevalente sottesa alla pubblicazione di una sentenza in materia di concorrenza sleale non sarebbe quella di fornire un risarcimento del danno in forma specifica, ma quella - piuttosto - di portare a conoscenza del pubblico la reintegrazione del diritto offeso, al fine di ristabilire una corretta informazione del mercato e del pubblico, leso dall’atto di concorrenza sleale; 2) ciò spiegherebbe Note: (segue nota 4) giuridica e politica del diritto, Bologna, 1988. Sul più generale fenomeno delle “codificazioni” vedi, invece: Mortari, voce Codice (storia ), in Enc. dir., VII, Milano, 1960, 227 ss.; Tarello, Storia della cultura giuridica, I, Assolutismo, cit.; Caroni, Saggi sulla storia della codificazione, Milano, 1998, e - quand’anche in una prospettiva pregiudicata, in parte, dalla sopravvalutazione di spunti storici contingenti - Irti, L’età della decodificazione, IV edizione, Milano, 1989. (5) In tema di varie stagioni nello sviluppo del modello dello Stato moderno, vedi per tutti, Mortati, Le forme di governo, Lezioni, Padova, 1973; Bobbio, Stato, governo, società, Torino, 1985; Schiera, Assolutismo - Cameratismo - Società per ceti - Stato di polizia - Stato moderno, in Dizionario di politica, diretto da Bobbio, Matteucci e Pasquino, Torino, 1983; Lanchester, voce Stato (forme di ), in Enc. dir., XLIII, Milano, 1990, 796 ss.; Fioravanti, voce Stato (storia ), ivi, 708 ss; Portinaro, Stato, Bologna 1999. (6) Sul tema, vedi, per tutti: Ghisalberti, voce Costituzione (premessa storica) in Enc. Dir., XI, Milano, 1962, 132 ss.; Mortati, voce Costituzione, ivi, 139 ss.; Bartole, voce Costituzione (Dottrine Generali e Diritto Costituzionale ), in Digesto delle Discipline Pubblicistiche, Torino, 1989, 288 ss.; Dogliani, Costituente (Potere), ivi, 281 ss.; Onida, voce Costituzione italiana, ivi, 321 ss.; Modugno, voce Costituzione, I, Teoria generale, in Enc. Treccani, X, Roma 1989; Cocozza, voce Costituzione, II, Costituzione Italiana, ivi; Camerlengo, I fatti normativi e la certezza del diritto costituzionali, Milano, 2002; Caretti, I diritti fondamentali, Libertà e Diritti sociali, Torino, 2002. CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 773 GIURISPRUDENZA•DIRITTO INDUSTRIALE quindi - perché la pubblicazione della sentenza ex art. 2600 c.c. possa essere disposta anche indipendentemente dall’esistenza di un danno in capo al soggetto che lamenta la concorrenza sleale, e perché si renda sufficiente invece la sola violazione delle regole per il corretto funzionamento del mercato e della concorrenza, a determinare il giudice all’esercizio del suo potere discrezionale ed insindacabile di ordinare siffatta pubblicazione; 3) tale discrezionalità del giudice si manifesterebbe - del resto - anche nella determinazione delle modalità che egli ritenga, in concreto, idonee ad assicurare la corretta informazione del pubblico; 4) sarebbe rispetto a tali modalità concretamente fissate dal giudice, che andrebbero tratte le conclusioni circa l’avvenuto o meno - adempimento dell’ordine di pubblicazione; 5) conseguentemente si renderebbe del tutto estranea alla tematica l’ulteriore condizione negativa - pretesamene intrinseca nell’istituto di cui all’art. 2600 c.c. - secondo la quale la “pubblicazione” del dispositivo non possa essere accompagnata da alcun’altra informazione pur meramente esplicativa, ed ancorché pertinente e corrispondente alla verità dei fatti, che il condannato abbia interesse a portare a conoscenza del pubblico; 6) una diversa conclusione condurrebbe ad una lettura della richiamata disposizione codicistica di dubbia compatibilità con la garanzia costituzionale del diritto inviolabile di libera manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.); lettura che il giudice sarebbe quindi tenuto a respingere in ossequio al canone ermeneutico (espressione del principio di gerarchia delle fonti normative ) il quale impone di ogni norma di rango ordinario una interpretazione costituzionalmente orientata. 4. Il nucleo duro della soluzione offerta dalla Suprema corte è rappresentato - come è evidente - dalla negazione della natura “risarcitoria” del provvedimento assunto ai sensi del comma secondo dell’art. 2600 c.c. e quindi dallo sganciamento della misura dalle finalità di mera tutela degli interessi di parte, e dalla sua assunzione nell’ambito di un più vasto meccanismo avente un non lontano sfondo pubblicistico). A determinare in tal senso la decisione della Suprema Corte evidente si rende appunto l’incidenza di prospettive attente a sottolineare una tendenziale funzionalizzazione degli istituti civilistici e dello stesso processo civile a finalità eminentemente pubblicistiche. Trattasi di prospettive ulteriormente illuminate dalla finale quadratura della soluzione prescelta, realizzata - pur di fronte alle possibili indicazioni provenienti, in contrario, dal principio logico di identità e non contraddizione (7) - attraverso il richiamo ai principi di libera manifestazione del pensiero costituzionalmente garantiti. Il dibattito specialistico sulla struttura e sulla evoluzione storica delle codificazioni nonché degli stessi strumenti del processo civile in Italia e nei paesi di civil law ha più volte avuto a porre in luce la complessità di tutto questo ambito di tematiche (8), e la problemati- 774 CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 cità di taluni eccessi di letture affidanti agli istituti del diritto e del processo civili finalità rispetto alle quali finiscono naturalmente per impallidire ed affievolirsi gli interessi concreti dei singoli ed i loro conflitti. Va da sé che i temi eccedano del tutto i limiti della fattispecie concreta che ha dato spunto alla decisione qui in esame. Ciò di cui si può dar conto in questa sede sono i termini più propriamente tecnici del problema. Il dibattito dottrinale sull’istituto della “pubblicazione della sentenza ai sensi dell’art. 2600 c.c. risulta piuttosto datato. Ciò che si rende - più in particolare - da segnalare è come in esso non risulta essersi tradotto, con la stessa vivacità, tutto quel più generale sviluppo in ragione del quale tutta la più intera ricostruzione della disciplina codicistica della “concorrenza “sleale” ha conosciuto, dalla metà degli anni ‘60 in poi del secolo trascorso, una significativa mutazione la quale rende più che mai coesistenti due prospettive sistemative essenzialmente opposte ed alternative: una più attenta alla dimensione “privatistica” del fenomeno, ed un’altra prospettiva tesa invece alla ricostruzione della stessa disciplina codicistica della concorrenza sleale nel senso di strumento precipuo per la concreta realizzazione dei principi consacrati nell’art. 41 della costituzione (9). Note: (7) In ragione del quale oggetto della pubblicazione non avrebbe potuto che essere la sentenza e solo la sentenza. (8) Per tutti, vedi: Tarello, cit.; Caroni, Saggi, cit; Allorio, Trent’anni di applicazione del Codice di Procedura civile, in Commentario del Codice di Procedura Civile, diretto da Enrico Allorio, Saggio introduttivo, Torino, 1973, XIII, SS.; Taruffo, La giustizia civile in Italia dal ‘700 ad oggi, Bologna, 1980; Picardi, voce Processo civile (dir. moderno) in Enc. dir., XXXVI, Milano 1987, 101 ss.; Denti, voce Processo, II, Processo civile - Dir. comp. e stran., in Enc. Giur. Treccani, XXIV; Roma, 1991; Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, Milano, 1994. (9) Nella prima prospettiva, la concorrenza sleale si rende essenzialmente un istituto legato all’economia di mercato, e rivolto a coordinare il comportamento degli imprenditori, per il che il bene da esso protetto è volta a volta: “la clientela” (Auletta, Della disciplina della concorrenza e dei consorzi, in Commentario al codice civile scialoja-branca, Libro V, Bologna-Roma 1961, 327 ss.); l’“avviamento” (Carnelutti, Usucapione della proprietà industriale, Milano, 1938, 49 ss.; Rotondi, Le varie forme di lesione dell’avviamento come criterio di classificazione degli atti di concorrenza sleale, in Riv. dir. comm. 1956, I, 337 ss.); l’“azienda” stessa (Ferrara Fr. Jr, Teoria giuridica dell’azienda, II ed., Milano, 1948, 113 ss.); l’“impresa” (Nicolò, Riflessioni sul tema dell’impresa, in Riv. dir. comm., 1956, I, 193 ss.); la figura stessa dell’“imprenditore” inteso come titolare di un diritto personalissimo (Franceschelli, Corso di diritto commerciale, L’imprenditore, I, Milano, 1944; Ascarelli, Corso di diritto commerciale Introduzione e teoria dell’impresa, III ed., Milano, 1962; idem, Teoria della concorrenza e interesse del consumatore, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1954, 873 ss.; Guglielmetti, La concorrenza ed i consorzi, in Tratt.. Vassalli, Torino, 1970, 104 ss.). In una posizione di sostanziale raccordo vedi invece Oppo, Creazione ed esclusiva nel diritto industriale, in Riv. dir. comm., 1964, I, 187 ss. Nella seconda prospettiva, la disciplina della concorrenza sleale si indirizza invece ad assumere, a criterio dell’illiceità dell’atto concorrenziale, essenzialmente la violazione dell’interesse del consumatore e di quelli dello sviluppo economico generale (vedi, in tal senso, a partire (segue) GIURISPRUDENZA•DIRITTO INDUSTRIALE I termini di una tale divaricazione si sono resi, del resto, ancora più attualizzati con la sistemazione legislativa data, cinquant’anni dopo, dalla legge n. 287/90, ad una più ampia disciplina per la tutela della concorrenza e del mercato; disciplina la quale non ha fatto che riproporre, ancora una volta, in sede interpretativa, i termini della unica e medesima alternativa fra una prospettiva maggiormente attenta ai valori ed ai criteri del formalismo giuridico, ed un’altra programmaticamente più aperta alle risorse di un’interpretazione volta a volta eventualmente integrativa e “creativa” (10). 5. Tornando più propriamente al tema dell’ordine di pubblicazione della sentenza reso dal giudice ai sensi dell’art. 2600 c.c. (11), va senz’altro ascritto a merito della Suprema Corte il fatto di essere riuscita, nel corso del tempo, a sottrarre la sistemazione interpretativa dell’istituto ai termini troppo datati ed irrigiditi ai quali era stata consegnata dal dibattito dottrinale, ed a veicolare in essa anche questi filoni nuovi legati ad un prioritario ragguaglio ad istanze di tipo pubblicistico. Così, rispetto ad un dibattito dottrinale bloccato su un’alternativa sviluppatasi in senso sostanziamente asettico ed astratto, fra “natura risarcitoria” (12) o “natura autonoma” (13) dell’istituto, e sull’analisi dei suoi rapporti con lo strumento previsto dall’art. 120 c.p.c., e su tutte le conseguenti articolazioni applicative (14), Note: (segue nota 9) da Schlesinger-Vanzetti, Aspetti privatistici delle cosiddette “vendite a premio”, in Riv. dir. ind., 1966, I, 166 ss.; Trimarchi, voce Illecito (dir. priv.), in Enc. Dir., XX, Milano, 1970, 100 ss.; Jaeger, Valutazione comparativa di interessi e concorrenza sleale, in Riv. dir. ind., 1970, I, 5 ss.; Santagata, Concorrenza sleale e interessi protetti, Napoli, 1974; Id., Concorrenza sleale e trasparenza del mercato, Padova, 1979; Ghidini, Slealtà della concorrenza e costituzione economica, 1978; Id., voce Monopolio e concorrenza, in Enc. dir., XXVI, Milano 1976, 286 ss; Id., Concorrenza sleale, in Tratt. Dir. comm. Galgano, IV, Padova, 1981, 45 ss; Id.. Della concorrenza sleale, Milano, 1991; Libertini, Azioni e sanzioni nella disciplina della concorrenza sleale, ivi, 237 ss.) (10) Sintomatici si rivelano i termini dell’intenso dibattito aperto dalla recente sentenza 9 dicembre 2002, n. 14475, (in questa Rivista, 2003, 3, 339 ss. con nota di Nasti, Tutela risarcitoria del consumatore per condotta anticoncorrenziale: una decisione difficile. Cfr. sul punto anche Negri, Risarcimento del danno da illecito antitrust e foro per la tutela del consumatore (la Cassazione non dilegua i dubbi nella vicenda RC auto, ivi, 2003, 6,747), con la quale la Suprema Corte di cassazione ha, sulla base di un’analisi della disciplina di cui alla legge n. 287/90, ritenuto di negare che fra i legittimati all’azione di danno di cui all’art. 33 (rimessa - in quanto tale - alla cognizione, in unico grado di merito, della Corte di Appello), vi siano anche i “consumatori finali”; tema il quale - al di là di quelli che possano rivelarsi le seduzioni provenienti da più generali modelli “partecipativi” estesi e di “controllo giurisdizionale diffuso” - tuttora non ha trovato soluzione positiva neppure nella pionieristica esperienza Statunitense (sui profili storici del c.d. “diritto antitrust”, vedi, per tutti: Donativi, Concorrenza e mercato nel prisma dell’ordinamento giuridico. Appunti per una ricostruzione storica, in Riv. dir. ind., 1992, 261 ss; Idem, Introduzione storica, in AA.VV, Diritto antitrust italiano, Commento alla legge 10 ottobre 1990, n. 287, Bologna, 1991, 49 ss.; Pera, Concorrenza e antitrust, Bologna, 2001. Per una rassegna di tipo comparativistico, dalla quale esce confermata, al di là degli auspici manifestati, la estrema delicatezza del tema delle azioni c.d. “popolari”, aperte - come tali - tanto più in ipotesi di illeciti collegati al “mercato”, a miriadi indifferenzia- te di soggetti, vedi Nivarra, La tutela civile: profili sostanziali, in op. ult. cit., 1449 ss:.). (11) Per un inquadramento più ampio e diffuso del tema, vedi: Guglielmetti, La pubblicità della sentenza in diritto industriale, in Riv. dir. ind., 1956, I, 214 ss.; Panuccio, La pubblicazione della sentenza in materia di concorrenza sleale, in Annali della Facoltà di ec. e comm. dell’Università di Messina, 1963; Cavallone, La divulgazione della sentenza civile, Milano, 1964; Jaeger, La pubblicazione della sentenza come sanzione della concorrenza sleale, in Riv. dir. ind., 1973, I, 210 cit.; Crugnola, La pubblicazione della sentenza in materia di concorrenza sleale, in Riv. dir. ind., 1988, II, 244 ss.; Colaiacovo, Perfezionamento dell’illecito da concorrenza sleale e pubblicazione della sentenza: condanna generica ed opposizione del convenuto, in Giust. civ., 1996, I, 3001 ss. (12) In tal senso (e quindi anche in quello della rilevanza dei profili classici dell’illecito, quali i requisiti della colpa o del dolo ) vedi, per tutti (con varie sottodistinzioni interne le quali si pongono in ordine alla diversa valorizzazione fatta, volta a volta, del profilo della necessità di una coeva condanna al risarcimento dei danni, o di quello della rilevanza e sufficienza - invece - anche di una mera potenzialità di danno, ritenuta talora intrinseca ad un tal tipo di illecito: Ferrara Fr. Jr, La teoria giuridica dell’azienda, cit, 263 ss.; Salandra, Manuale di diritto commerciale, Bologna, 1948, I, 100 ss.; Greco, Corso di diritto commerciale - Impresa Azienda, Milano, 1054, 489; Scheggi, Concorrenza-Trust-Crisi, Napoli, 1954, 316 ss.; Sordelli, La concorrenza sleale, Milano, 1955, 140; Casanova, Le imprese commerciali, Torino, 1955, 596 ss.; Guglielmetti, La pubblicità della sentenza in diritto industriale, cit., 214 ss.; Ascarelli, Teoria della Concorrenza e dei beni immateriali, Milano, 1960, 262 ss; Auletta, Della disciplina della concorrenza, in Commentario al codice civile Scialoja-Branca, libro V, Bologna Roma, 1961, 359; Panuccio, La pubblicazione della sentenza in materia di concorrenza sleale, cit., 127 ss.; Minervini, Concorrenza e Consorzi, in Trattato di diritto civile italiano diretto da Grosso e Santoro Passarelli, Milano, 1965, 45 ss.; Rovelli, La concorrenza sleale ed i beni immateriali di diritto industriale, Torino, 1967, 33; Ferri, Manuale di diritto commerciale, Torino, 1980, 161 ss.; Franceschelli, voce Concorrenza Sleale, in Enc. Giur. Treccani, VII, Roma 1988, 17; Galgano, Diritto civile e commerciale, III, t. 1, Padova, 1994, 234; Ghidini, Della concorrenza sleale, Milano, 1991, 415 ss. (il quale valorizza particolarmente la componente di fattispecie di risarcimento in forma specifica, nonché la natura “risarcitoria” della misura, escludendo rigorosamente la legittimità dell’ordine di pubblicazione, ove sia mancata la prova del danno, ma sottolineando anche come, per l’appunto, proprio la affermata natura di risarcimento in forma specifica faccia sì - alla luce della disciplina di cui all’art. 2058 c.c. - che la pubblicazione possa esaurire lo stesso ambito del danno risarcito e rendere irrilevante il coevo rigetto della domanda di condanna in danaro). (13) Sul carattere variamente “ autonomo”, vedi: Ghiron, La concorrenza ed i consorzi, in Trattato di diritto civile diretto da Vassalli, Torino, 1949, 73 ss.; Mosco, La concorrenza sleale, Napoli, 1956, 282 ss.; Cavallone, La divulgazione, cit, 42 ss.; Jaeger, La pubblicazione, cit., 210 ss. (il Ghiron ed il Cavallone, con significative anticipazioni della funzione di informazione del pubblico). (14) In generale, per una critica allo stesso ricorso del legislatore alla nozione - in sé - di “pubblicazione”, vedi, per tutti, Cavallone, La divulgazione, cit., 5 ss; Guglielmetti, La concorrenza ed i consorzi, cit, 231, in nota n. 1. Circa, invece, i rapporti ricostruibili con l’istituto di cui all’art. 120 c.p.c., essi vengono individuati in termini di “corrispondenza”, dal Minervini, op. cit., 46 e dal Ghidini, op. cit., 417 ss.; o di “collegamento” (esteso anche all’istituto di cui all’art. 186 c.p), dallo Jaeger, op. cit., 211. Circa la non limitabilità, invece, del mezzo di pubblicazione, alla sola stampa quotidiana, vedi Cavallone, op. cit., 99 (di difforme avviso invece il Ghidini, op. cit., 425), e circa l’applicabilità delle forme di esecuzione forzata in forma specifica di cui agli artt. 2931 e 2933 c.c., si pronuncia espressamente il Mandrioli, L’esecuzione in forma specifica, Milano, 1953, 44. In termini, invece, di necessità della domanda di parte, si pronuncia lo Jaeger, op. cit., 223, il quale, allo scopo, rinvia, in parallelo, sia all’art. 120 c.p.c., che all’art. 166 della legge sul diritto d’autore. L’estensibilità dello strumento anche alla successiva sentenza “assolutoria” del convenuto resa in sede di appello viene affermata esplicitamente dal Cavallone, op. cit. 79, 91, ma messa in dubbio (segue) CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 775 GIURISPRUDENZA•DIRITTO INDUSTRIALE dagli anni “ottanta” ha preso quota, nella giurisprudenza della Suprema Corte (15) - al di là dei problemi posti dai risultati volta a volta concretamente tratti - anche una considerazione più ampia ed articolata del tema (16). Rispetto al già sopra segnalato indirizzo prevalentemente pubblicistico, la Suprema Corte, con la sentenza qui in commento, compie a sua volta un ennesimo passo in avanti, dichiarando - proprio in funzione della prescelta ricostruzione dell’interesse protetto non già in quello della parte vittoriosa al risarcimento del danno, ma in quello del “pubblico” ad essere compiutamente informato - la legittimità di un’eventuale attività di integrazione compiuta dalla parte condannata alla pubblicazione. Il risultato è reso possibile dalla sottrazione ulteriore dell’istituto agli esclusivi termini della dialettica propria alla singola fase processuale intersoggettiva chiusa dalla pubblicanda sentenza, ed al vincolo nascente dagli esiti della stessa, e dalla proiezione della considerazione in direzione di una concezione facentesi “ecumenicamente” carico della più generale complessità e ambiguità di ogni operazione giurisdizionale di accertamento della “verità”, la quale, rendendo ben compatibile il rovesciamento finale degli esiti, renderebbe perciò meno grave, nell’ambito del diritto alla libera manifestazione del pensiero, lo svuotamento che la parte soccombente sia portata a fare del “dictum” della sentenza. Avanzeremmo più di qualche perplessità in proposito, non ultima quella in ordine alla effettiva utilità storica di un processo civile il quale venga troppo gravato di “dubbi metodici” e di presagi di fallacia. Resta, in ogni caso, l’indubbio pregio di una pronuncia che non si tira indietro rispetto ai problemi ed ai retroterra degli stessi e che su di essi riesce a far riflettere. Note: (segue nota 14) dal Guglielmetti, La pubblicità, cit., 226 ss.. Circa, invece, la non preclusività sia della sopravvenuta cessazione degli atti di concorrenza, sia della già avvenuta adozione della misura in sede penale, vedi espressamente il Ghidini, op. cit, 417 ss., mentre il Ghiron, op. cit., 73, sottolinea la piena discrezionalità del magistrato nel fissare il contenuto della pubblicazione (per esteso, per sintesi ed estratto, per solo dispositivo). Circa, infine, la possibilità che la pubblicazione possa avvenire su iniziativa autonoma della parte vittoriosa, vedi: Jaeger, op. cit., 233; Panuccio, La pubblicazione, cit., 136; Franceschelli, Liceità della pubblicazione di una sentenza sui giornali, su iniziativa della parte vittoriosa, in Riv. dir. ind., 1979, II, 69; Casanova, Impresa e azienda, in Trattato dir. civ. Vassalli, X, Torino, 1986, 659. (15) Vedi per tutte: Cass. 6 maggio 1980, n. 2996, in Foro it., 1980, I, 1885 ss., con nota di Pardolesi, In tema di concorrenza sleale per storno di dipendenti; Cass. 6 giugno 1983, n. 3828, in Resp. civ. e prev., 1984, I, 372 ss.; Cass. 19 gennaio 1995, n. 564; Cass. 9 aprile 1996, n. 3276, in La Nuova giur. civ. comm., 1997, I, 784 ss, con nota di Morri, La Corte di cassazione torna ad occuparsi della recettività del marchio. Ben diverso, invece, l’indirizzo che aveva segnato il corso della Cassazione in precedenza, dando corso ad un grande filone centrale, assertivo della concezione “risarcitoria” (in tal senso vedi Cass. 18 maggio 1964, 776 CORRIERE GIURIDICO N. 6/2004 n. 1216 (la quale, tenuti fermi dolo e colpa, trova modo di precisare come la sanzione non sia subordinata necessariamente all’esistenza di una pronuncia di risarcimento del danno in termini monetari), Cass. 15 luglio 1965, n. 1535, in Giur. it., 1966, I, 37 ss (la quale sottolinea aggiuntivamente come la sanzione possa essere disposta anche quando la concorrenza non abbia in concreto prodotto danno); Cass. 26 febbraio 1966, n. 600, in Giur. it., 1966, I, 1502 ( la quale trova modo di sottolineare una natura “riparativa” anche preventiva, e la vede compatibile anche con una condanna “generica”; Cass. 6 aprile 1966, n. 903, in Giur. it. 1967, I, 82 ss., nonché Cass. 30 marzo 1967, n. 688 (le quali, pur ritenendo la vincolatività del requisito soggettivo della colpa e del dolo, afferma l’operatività di una presunzione di colpa); Cass., S.U., 20 dicembre 1967, n. 2979 (la quale trova modo di affermare una natura risarcitoria complementare, rivolta a circoscrivere e prevenire ); Cass. 6 luglio 1971, n. 2106, in Riv. dir. comm., 1972, 108 ss.(la quale genericamente riafferma la necessità di dolo o colpa, quali fattori che giustificano la sanzione ); Cass. 9 luglio 1971, n. 2199, in Giur. it., 1972, I, 1, 1104, nonché Cass. 12 febbraio 1973, n. 413, in Foro pad. 1974, I, 218 (le quali riaffermano anch’esse la necessità del concorso del requisito soggettivo della colpa o del dolo ); Cass. 26 aprile 1974, n. 1200, in Giur. it. 1975, I, 278 ss. (la quale, nel riaffermare la necessità della colpa o del dolo, dichiara sufficiente la mera potenzialità di danno); Cass. 2 aprile 1982, n. 2020 ( la quale perviene a sganciare la sanzione, dal concreto verificarsi di un danno ); nonché Cass. 20 ottobre 1982, n. 5462, in Foro it., 1983, I, 1979, con nota di Troiano, L’uso come marchio della località di produzione del bene (la quale dichiara l’ininfluenza di una eventualmente sopravvenuta cessazione dell’attività concorrenziale). Decisamente minoritario, invece, l’indirizzo che si era in precedenza spinto a sottolineare la natura “autonoma” della sanzione, sganciandola sia dal requisito soggettivo della colpa o del dolo, sia dalla funzione risarcitoria (vedi in tal senso Cass. 8 novembre 1968, n. 3707, in Giust. civ. 1969, I, 198 ss; Cass. 22 giugno 1978, n. 3084, in Giur. it. 1978, I, 2290), laddove altre pronunce si erano limitate a porre in evidenza la natura discrezionale del potere del giudice (vedi in tal senso: Cass. 27 gennaio 1967, n. 229; Cass. 20 dicembre 1967, n. 2979; Cass. 16 ottobre 1969, n. 3343; Cass. 13 ottobre 1970, n. 1985, in Giur. it. 1971, I, 1, 1477 ss.; Cass. 10 settembre 1974, n. 2449, in Giust. Civ. 1975, I, 1566 ss., con nota di Algardi, Tutela concorrenziale di modelli ornamentali non coperti da brevetto (la quale, nel sottolineare aggiuntivamente l’autonomia della sanzione rispetto allo strumento di cui all’art. 120 c.p.c., afferma la possibilità di una pronuncia la quale si limiti ad autorizzare l’attore a provvedere alla pubblicazione a spese del soccombente). (16) Per un autorevole recupero di concezioni più direttamente riconducibili alla prospettiva “risarcitoria”, vedi comunque Cass. S.U. 23 novembre 1995, n. 12103, in Giust civ. 1996, I, 2993 ss, con nota di Colaiacovo, Perfezionamento dell’illecito da concorrenza sleale e pubblicazione della sentenza; condanna generica ai danni e opposizione del convenuto.