Università degli Studi di Genova
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Cogne, 8-10 Giugno 2000
Qualche numero speciale
P.Oliva
I numeri
‘Qualche numero speciale’ è il titolo di questa breve esposizione, ma prima di parlare di quelli
speciali occupiamoci un momento di quelli ‘normali’.
I numeri sono stati introdotti dall’uomo per l’esigenza di contare: le conchiglie da scambiare per
una selce appuntita, il passare del tempo (giorni, mesi), le pecore possedute dal pastore, in modo da
controllare alla sera che qualcuno non ne abbia rubato, ecc.
È perciò naturale pensare ai numeri naturali, N
1
,
2
,
3 ,
4
,
5 ,
6
......
ovvero io possiedo una pecora, due pecore, tre pecore, ecc.
Si può facilmente immaginare come si sia poi introdotto il concetto di addizione
- se io ho dieci pecore e tu me ne dai quattro, io ne ho quattordici (10 + 4 = 14)
e di conseguenza quello di sottrazione:
- se io ho otto pecore e ne do cinque a lui, me ne rimangono tre (8 − 5 = 3).
A questo proposito si noti come non sia naturale pensare al numero zero:
- se io possiedo cinque pecore e ne do cinque a te, non mi rimane niente (5 − 5 =?).
Provate a chiedere al primo passante che incontrate: “scusi, quante autovetture possiede” e
quello vi risponderà “una” o “due’ o altro a seconda dei casi; provate poi a chiedere: “e quante
pecore possiede?” e nella migliore delle ipotesi (se non avete incontrato l’unico pastore dei dintorni)
vi sentirete rispondere “io non ho pecore”; probabilmente se non vi insulterà, vi dirà semplicemente
“che razza di domanda è ?”; solo nel caso in cui troviate un matematico, è molto probabile che egli vi
risponda “io possiedo zero pecore” (indicando una certa deviazione mentale).
Analogamente, se ci chiedessero di elencare gli oggetti presenti in una stanza potremmo dire: un
lampadario, due finestre, un tavolo, quattro sedie, zero mucche, zero tirannosauri rex, ecc. !!!
D’altra parte l’utilizzo di un simbolo per indicare il numero zero è piuttosto recente; al tempo dei
Romani ad esempio ciò non esisteva ancora.
Per la verità i Romani avevano un modo di rappresentare i numeri che non faceva uso come noi
del sistema posizionale, dove lo stesso simbolo assume un valore diverso a seconda del posto in cui
viene messo: ad esempio nel numero 333 lo stesso simbolo 3 è utilizzato per indicare nel primo caso a
sinistra tre centinaia (=300), poi tre decine (=30) e poi tre unità (=3).
Questo ci permette di scrivere qualunque numero ci capiti, comunque esso sia grande; i Romani
invece, come tutti sappiamo, avevano un simbolo per le unità (I) che ripetevano un po’ di volte (al
2
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massimo tre); quando poi diventavano troppe utilizzavano un nuovo simbolo (V = 5) e cosı̀ via: X=10,
L=50, C=100, D=500, M=1000 (con la convenzione che i simboli a destra di quelli più importanti
andavano sommati, quelli a sinistra sottratti).
In tal modo se uno aveva bisogno di scrivere un numero molto grande doveva inventare altri
simboli.
Notiamo tra l’altro che con tali notazioni diventa molto difficile fare i conti, non si possono mettere
in colonna i numeri per sommarli, non parliamo poi delle moltiplicazioni; fra l’altro, si è mai visto un
numero romano con la virgola? o una frazione?
È pur vero che i Romani non sono da prendere come esempio per la cultura matematica, eppure
sempre gli stessi Romani costruivano opere ingegneristiche che hanno sfidato i secoli; per citare cose
meno eclatanti dei palazzi imperiali o del colosseo, ad esempio, nella zona del finalese vi sono cinque
ponti romani (sperduti nei boschi e nella macchia mediterranea) della via Julia Augusta, risalenti ai
primi anni d.C. in quasi perfette condizioni (tre perfettamente agibili, e su uno di essi passa una strada
carrozzabile) che hanno resistito ad infinite intemperie ed a più di una violenta alluvione, senza alcuna
manutenzione da secoli; a differenza dei ponti recenti che crollano alla prima piena, o che necessitano
di perenne manutenzione, come ben sa chi percorre ad esempio le autostrade della Liguria.
Ma torniamo ai numeri naturali ed alle operazioni tra di essi: abbiamo parlato della sottrazione
- se io ho cinque pecore e tu me ne prendi sei .....(5 − 6 =?) , non è possibile ! Non ho abbastanza
pecore.
Non è però difficile pensare a differenti problemi in cui 5 − 6 abbia senso: per esempio
- ieri la temperatura era di 5 gradi centrigradi, oggi è scesa di 6 gradi e quindi è di 1 grado sotto
lo zero (5 − 6 = −1)
e abbiamo con ciò introdotto i numeri interi,
......
−4
,
−3
,
−2
,
−1
,
0
Z
,
1
,
2
,
3 ,
4
......
Un altro problema che certamente si è presentato al solito uomo del passato è
- devo dare ai miei cinque figli otto pecore per uno ..... (8 + 8 + 8 + 8 + 8 = 40)
introducendo cosı̀ la moltiplicazione (8 × 5 = 40), per semplificare ripetute addizioni, e di fatto
la sua inversa
- ho quaranta pecore da dividere tra cinque figli (40 : 5 = 8).
Si noti che un problema del tipo: ho quarantatre pecore da dividere tra cinque figli, non ha la
naturale soluzione: ad ogni figlio spettano 43 : 5 = 8.6 pecore (è difficile pensare a 0.6 pecore, la
pecora è indivisibile, o meglio se divisa non è più una pecora).
In tal caso la soluzione è: ogni figlio prende otto pecore ed a me ne rimangono tre; morale: tenere
sempre ben presente l’ambito in cui si vuole risolvere il problema.
Anche nel caso della divisione è però facile pensare a situazioni in cui si possa parlare di parti di
un oggetto, senza distruggere l’entità dell’oggetto stesso: ad esempio è accettabile parlare di un terzo
di torta e cosı̀ via.
Ecco allora arrivare il concetto di frazione, o di numero razionale, Q , cioè di
quei numeri che si possono scrivere come rapporti di numeri interi: m
n rappresenta quel numero x tale che m = n × x.
È evidente che il denominatore n dovrà essere diverso da 0, perché tutti
noi sappiamo che 0 × x = 0 e quindi quanto detto sopra avrebbe senso solo
per m = 0; d’altra parte in tal caso, qualunque x soddisferebbe la relazione
0 = 0 × x e quindi non sarebbe determinato il risultato della divisione.
A questo punto sembrerebbe di aver definito tutti i numeri che ci servono per affrontare i tipici
problemi dell’uomo comune e non (dal conto della spesa, alla divisione di una torta di compleanno,
ecc.).
Facciamo passare rapidamente il tempo della storia e arriviamo dall’uomo primitivo agli Egiziani.
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3
In quel tempo fu riscontrata una certa necessità della matematica ed in particolare della geometria;
come è noto ad esempio dopo le annuali piene del Nilo c’era il bisogno di ritracciare i confini dei terreni
dei vari proprietari, ed ecco quindi assumere grande importanza la figura dell’agrimensore, ovvero di
colui che misura la terra, attuale geometra (da non confondere con il matematico geometra che studia
la geometria, anche se le affinità sono evidenti).
Presso i Babilonesi, lo studio della matematica era legato a quello dell’astronomia; è chiaro come
la casta sacerdotale potesse tenere a bada il popolo ad esempio predicendo eventi spettacolari che
risvegliano ancestrali paure come le eclissi di sole.
Cosı̀ al tempo dei Greci lo studio della geometria proseguı̀ intenso; Pitagora, la sua scuola, il
suo ben noto teorema di cui qui di seguito vediamo una semplice dimostrazione (sottraendo da due
quadrati uguali di lato a + b quattro triangoli rettangoli uguali restano aree uguali; a sinistra c2 , a
destra a2 + b2 )
Proprio con il suo teorema si potevano calcolare le misure dei lati
di un triangolo rettangolo, e conoscendo ad esempio alcune semplici
terne pitagoriche, utilizzando corde di lunghezza 3, 4 e 5, si potevano
facilmente tracciare angoli retti.
Tra tutte queste considerazioni si inserisce il concetto di grandezze commensurabili (in un certo senso confrontabili) ovvero aventi
sottomultipli comuni; per esempio le lunghezze di due bastoni sembravano essere commensurabili: ogni bastone era pensato formato da
un numero molto grande, ma finito, di atomi indivisibili e quindi la sua lunghezza si poteva esprimere
con un numero intero, e l’atomo era il sottomultiplo comune (non è poi molto lontano dal pensiero
attuale: l’atomo è un’altra cosa, ma sempre in un certo modo indivisibile è).
È chiaro quindi che non potendo usare, per le misure delle lunghezze, numeri eccessivamente
grandi, si poteva definire una unità di lunghezza (che contenesse n atomi) e poi dire che se l’altra
lunghezza è pari ad m atomi, allora ha una misura di m
n unità.
Ma sempre di numeri razionali, rappresentabili mediante numeri interi, si tratta.
E tutti vivevano felici e contenti.
Finché arrivò il solito guastafeste, che è sempre presente in ogni famiglia (e a volte, come vedremo,
anche necessario per smuovere un po’ le cose).
Il problema sollevato è: “dato il quadrato di lato 1 a fianco disegnato,
quanta è lunga la sua diagonale?”
La risposta è immediata e discende dal teorema di Pitagora, che
era noto, essendo Pitagora già esistito; la diagonale vale
p
√
12 + 12 = 2
.
Ma il solito guastafeste non si accontenta (altrimenti che guastafeste sarebbe) e chiede di più: “sı̀, ma che frazione è la radice
quadrata di 2 ?”
.....
??????
!!!!!!
.....
4
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A questo punto
le certezze del matematico del tempo cominciarono a vacillare: si può provare in
√
vari modi che 2 non è un numero razionale.
per un momento che sia un numero razionale, ovvero che esistano m, n ∈ N tali che
√ Supponiamo
2
m
2 = n , allora elevando al quadrato entrambi i membri si ha 2 = m
n2 o
m2 = 2n2
Utilizzando ad esempio un noto teorema dell’algebra (noto fin dalle scuole medie) che dice che ogni
numero naturale si può scomporre in un sol modo in fattori primi, sia
m = 2α 3β 5γ ....
0
0
0
n = 2α 3β 5γ ....
e
dove i vari esponenti possono anche essere nulli, nel caso in cui il fattore corrispondente non compaia.
Sostituendo allora nella precedente relazione (e ricordando le elementari regole delle potenze) si ottiene
22α 32β 52γ .... = 22α
0
+1 2β 0 2γ 0
3
5
....
e mentre al primo membro il fattore 2 compare con esponente pari (=2α), nel secondo membro compare
con esponente dispari (=2α0 + 1) e questo è impossibile.
√
Se ne deduce che 2 non può essere scritto come una frazione e quindi
non è razionale.
Ciò significa che la diagonale del quadrato ed il lato non sono commensurabili; conseguenze di ciò: da un lato la credibilità della teoria
atomica ....., dall’altro la necessità di introdurre altri numeri (i reali, R )
per risolvere problemi pratici anche molto semplici.
Non è questa la sede per dare una esauriente spiegazione di cosa sono i numeri reali, ma faremo
finta di ritenere che tutti sappiano cosa essi sono; anche se qualche sospetto su ciò rimane: per esempio
tutti sanno che 7.1 e 3.25 sono due numeri reali distinti (alla richiesta del perché si potrebbe rispondere
“perché hanno tutte, ne basterebbe una, cifre distinte” oppure che “la loro differenza è 3.85 e non 0”);
analogamente 1 e 0.9̄ (zero virgola nove periodico, 0.99999....) hanno tutte le cifre distinte e per
quanto detto sopra sembrerebbero diversi, ma se per maggiore sicurezza calcoliamo la loro differenza
essa è 0.00000... = 0.0̄ cioè 0 ; e allora sono uguali !!! ( 0.9̄ può essere pensato come un’altro modo di
scrivere 1, ovvero 1 = 3 31 = 3 · 0.3̄ = 0.9̄ ).
Per fare un’altro esempio, tutti sanno √cosa vuol dire fare 23 , ovvero moltiplicare il numero 2 per
se stesso tre volte; e allora cosa vuol dire 2 2 ? Non certo moltiplicare 2 per se stesso 1.4142.. volte !
Però lo facciamo senza alcuna trepidazione premendo alcuni tasti di una calcolatrice.
E si potrebbe continuare all’infinito con esempi che dovrebbero farci dubitare della nostra conoscenza dei reali.
A questo punto possiamo fare un altro passo nel tempo per arrivare al Medio Evo.
Durante il decimo secolo dell’era cristiana il centro della cultura araba si spostò dalla città di Baghdad alle istituzioni spagnole per gli studi superiori, in particolare a Cordova, con grosse conseguenze
per un’Europa in quel periodo intellettualmente addormentata.
In questa situazione i centri di cultura erano vicini ad una frontiera attraverso la quale i frutti
del pensiero indiano e cinese potevano passare al mondo cristiano occidentale e rendere disponibili per
la prima volta all’Europa occidentale i maggiori contributi dell’antica Grecia attraverso le traduzioni
arabe.
Nel dodicesimo secolo cominciò un lungo lavoro di traduzione dei testi arabi in latino, portato
avanti dai monaci, dai medici ebrei e dai mercanti che avevano studiato nelle università arabe della
Spagna, e tutto ciò continuò nel secolo successivo quando la conoscenza della fabbricazione della carta,
della litografia (procedimento di stampa che utilizza una particolare pietra calcarea) e della polvere
da sparo valicò i Pirenei.
Nel 1200 le traduzioni latine delle opere di Euclide, Tolomeo e di altri autori arabi erano già
molto diffuse, per quanto fosse possibile prima dell’introduzione della stampa a caratteri mobili.
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Qualche numero speciale
Particolarmente importante era il trattato di algebra di al-Kwarismi, che si sviluppò a Baghdad
durante il settimo califfato abbside (813-833); la parola algoritmo è una corruzione del suo nome, e la
parola algebra deriva da al jabr, titolo di uno dei suoi libri.
In tale trattato vi è una dimostrazione geometrica della ben nota formula per la risoluzione delle
equazioni di secondo grado.
È intanto ovvio che se manca il termine di primo
grado è facile trovare le soluzioni dell’equazione:
√
ad esempio x2 − 1 = 0 ha come soluzioni x = ± 1 = ±1.
Data ora l’equazione di secondo grado
x2 − 6x + 8 = 0
il procedimento illustrato da al-Kwarismi consiste proprio nel ricondurla ad una equazione più semplice; nella moderna simbologia può essere illustrato come segue:
si trasporta a secondo membro il termine noto e si aggiunge ad entrambi i membri il valore 9, in
modo da ottenere a sinistra il quadrato di x − 3, e poi si risolve:
x2 − 6x = −8
,
x2 − 6x + 9 = 9 − 8
,
(x − 3)2 = 1
,
x − 3 = ±1
,
x=3±1
trovando le due soluzioni x = 2 ed x = 4.
È chiaro che dopo aver utilizzato questo procedimento per alcune volte conviene formalizzarlo
in modo da ottenere una formula applicabile direttamente, senza ogni volta dover pensare a cosa
aggiungere per ottenere quadrati perfetti, ecc.
Più precisamente, data l’equazione
ax2 + bx + c = 0
con a 6= 0 (altrimenti non è di secondo grado) si ha, dividendo per a,
b
c
x2 + x + = 0
a
a
,
b
c
x2 + x = −
a
a
,
2
b2 − 4ac
b
=
x+
2a
4a2
da cui, completando il quadrato a primo membro.
b
b2
c
b2
x2 + x + 2 = 2 −
a
4a
4a
a
e quindi
b
x+
=±
2a
r
b2 − 4ac
4a2
ovvero la ben nota
x=
−b ±
√
b2 − 4ac
2a
È buona norma, oltre a ricordare la formula, tenere anche presente il modo in cui vi si è arrivati,
onde evitare di fronte ad una equazione del tipo
(6x + w + 2)2 − 4 = 0
di sviluppare i quadrati e poi applicare la formula risolutiva, aumentando a dismisura i calcoli e quindi
anche la probabilità di commettere errori.
È un po’ come se, una volta studiate e codificate le operazioni per fare una pastasciutta:
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P.Oliva
- prendere una pentola e riempirla per tre quarti d’acqua, aggiungere il sale, accendere il fuoco
sotto la pentola, aspettare che l’acqua bolla, gettare la pasta, attendere i minuti necessari per la
cottura, scolarla, condirla,
di fronte alla situazione: “lı̀ c’è una pentola con l’acqua bollente, butta la pasta”, voi prendeste
la pentola, la svuotaste del suo contenuto e ricominciaste dall’inizio tutta la procedura studiata.
Il che non è molto astuto e conveniente.
Tornando brevemente alla storia, la rinascita dell’astronomia nautica, necessaria per le grandi
traversate durante i secoli successivi, fu fertile terreno per gli individui dotati di talento matematico.
I mori occupavano ancora gran parte della penisola spagnola quando Enrico di Portogallo fondò
intorno al 1420 un osservatorio ed una scuola per addestrare i piloti a Sagre, su uno dei promontori
di Capo S.Vincenzo.
È quindi naturale assistere ad un fiorire di studi sulla trigonometria piana e sferica, sulla topografia, sulla cartografia in genere, favorita dall’invenzione della stampa (1455); ricordiamo quindi gli studi
sulla geometria proiettiva di Durer (geometra ed incisore 1471-1528), Leonardo da Vinci (1452-1519),
Mercatore (1512-1594) e la sua proiezione conforme.
Poiché la terra non è piatta non è possibile rappresentare su di una carta geografica una grossa
parte della superficie senza alterarne le proporzioni: ognuno di noi ha ben presente la mappa del
planisfero in cui la Groenlandia appare più grande degli Stati Uniti; ma per la navigazione (per
tracciare le rotte) è essenziale che la mappa sia conforme, ovvero ogni angolo che due linee formano
sulla carta deve essere uguale a quello che le linee formano nella realtà.
Tale è la proiezione di Mercatore, e tali proiezioni sono ottenibili facilmente con lo studio delle
funzioni complesse (con i numeri complessi che introdurremo tra poco).
E poi l’introduzione della polvere da sparo e quindi il problema di calcolare le traiettorie delle
palle di cannone; si ricordi Galileo (1564-1642) che con i suoi studi sul pendolo permise la costruzione
di orologi più precisi, fondamentali per poter determinare la posizione di una nave: si tenga presente
che la latitudine è facilmente determinata dall’altezza della stella polare sull’orizzonte, ma per la
longitudine è necessario conoscere l’ora di un meridiano di riferimento, e per far ciò bisogna avere un
orologio (anche se per la verità è chiaro che un orologio a pendolo non funziona poi sulle navi).
L’uso della stampa permise una grossa diffusione degli scritti ed una standardizzazione della
simbologia, fino ad allora molto variegata, in quanto, come vedremo tra poco, ognuno scriveva la
matematica a modo suo.
La standardizzazione si verificò principalmente per la grande influenza esercitata da Cartesio
(1596-1650), Wallis (1616-1703), Newton (1642-1727).
Ad esempio, la nozione di logaritmo era già nota nel 1500 (Simone Stevino) ed anche prima, ma
poté essere utilizzata appieno solo dopo la citata standardizzazione: Napier e Briggs e le loro tavole
di logaritmi (1620).
Ma torniamo alle nostre equazioni di secondo grado e ad un semplice problema:
Determinare, tra tutti i rettangoli di perimetro 12 m, quelli aventi area uguale a 10 m2 .
Dette x ed y la base e l’altezza del rettangolo si ha
2x + 2y = 12
xy = 10
Ricavando ad esempio y dalla prima equazione e sostituendo nella seconda si ha
n
y =6−x
x2 − 6x + 10 = 0
ed utilizzando il completamento dei quadrati, l’equazione diventa
x2 − 6x + 9 = −1
ovvero
(x − 3)2 = −1
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Qualche numero speciale
che non fornisce alcuna soluzione reale (non vi è nessun numero reale il cui quadrato è -1).
In parole povere il problema dato non ha soluzioni.
Il numero i
Prima che l’opera di tre francesi, il già citato Cartesio, Fermat (1601-1665) e Pascal (1623-1662)
promuovessero un’esplosione di attività nuove, il francese Vieta (1540-1603) e i due italiani Tartaglia
(1500-1557) e Cardano (1501-1576) aprirono nuove vie con le loro trattazioni.
Intanto Cardano ebbe l’idea un po’ balzana di dare un significato alla radice quadrata di -1,
chiamandola i ; introducendo cioè un numero il cui quadrato è -1
i2 = −1
È evidente che tale numero non fa parte dei numeri reali (come
già osservato nessun numero reale al quadrato fornisce valori negativi); inizia in questo modo l’avventura dei numeri complessi, C .
L’equazione precedente (x − 3)2 = −1 si evolve quindi in x − 3 = ±i
e quindi
x=3±i
Non è difficile vedere che un numero complesso è un oggetto della forma z = x + iy dove x ed y
(entrambi reali) sono rispettivamente i coefficienti della parte reale e della parte immaginaria di z.
Le operazioni sui numeri reali si effettuano trattando i come una comune parte letterale, con la
sola condizione che ogni volta che compare i2 questo viene sostituito con -1, per cui
i2 = −1
,
i3 = i2 i = −i
,
i 4 = i2 i2 = 1
,
....
È chiaro che tutto ciò appare essere un puro gioco matematico, per il divertimento degli addetti
ai lavori, e per la disperazione degli studenti.
L’introduzione dei numeri complessi non sembra affatto motivata da esigenze pratiche, come
invece lo è stata l’introduzione
dei numeri reali, al tempo dei Greci; in altre parole la diagonale del
√
quadrato di lato 1 è lunga 2 (e ciò sembra ora naturale), mentre è difficile affermare che il rettangolo
cercato nel problema succitato ha la base e l’altezza lunghe 3 ± i.
E i numeri complessi forse sarebbero veramente rimasti un puro trastullo dei matematici, se non
fosse successo qualcosa d’altro.
Lo stesso Cardano (e Tartaglia) si dedicò alla soluzione delle equazioni di terzo e di quarto grado,
che come vedremo hanno anch’esse una loro formula risolutiva (che non viene insegnata nelle scuole
superiori per due banali motivi che vedremo tra poco).
Si ricordi che, sempre nelle scuole superiori, si affrontano alcuni tipi di equazioni di terzo grado
e superiore, ad esempio quelle reciproche, cioè della forma
ax3 + bx2 + bx + a = 0
che hanno come soluzione nota x = −1 (si verifichi ciò sostituendo nell’equazione); in tal modo
l’equazione è riducibile di grado e diventa poi risolubile come una comune equazione di secondo grado.
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P.Oliva
Ma Cardano trovò un algoritmo atto a risolvere qualunque equazione di terzo grado: illustriamo
ciò con un esempio; si consideri l’equazione
x3 + 3x2 − 3x − 14 = 0
Incominciamo con una sostituzione del tipo x = y + a ed otteniamo
(y + a)3 + 3(y + a)2 − 3(y + a) − 14 = 0
da cui sviluppando le potenze
y 3 + 3ay 2 + 3a2 y + a3 + 3y 2 + 6ay + 3a3 − 3y − 3a − 14 = 0
ed ordinando secondo la variabile y si ottiene
y 3 + (3a + 3)y 2 + (3a2 + 6a − 3)y + (a3 + 3a2 − 3a − 14) = 0
Scegliamo ora a in modo da eliminare il coefficiente di y 2 , poniamo cioè
3a + 3 = 0
ovvero
a = −1
e sostituendo nell’equazione otteniamo
y 3 − 6y − 9 = 0
e
x=y+a=y−1
Si noti che si poteva anche pensare di annullare il coefficiente di y, ma ciò era più complicato perché di
secondo grado in a; molto utile sarebbe stato annullare il termine noto, perché in tal caso l’equazione
in y sarebbe stata facilmente abbassabile di grado (y = 0 sarebbe stata una soluzione), ma ciò non è
possibile in quanto annullare il termine noto equivale a risolvere in a la stessa equazione data di terzo
grado.
Torniamo ora alla nostra equazione: dalla relazione (u + v)3 = u3 + 3u2 v + 3uv 2 + v 3 si deduce
facilmente l’identità
(u + v)3 − 3uv(u + v) − (u3 + v 3 ) = 0
Se ora noi confrontiamo tale relazione con la nostra equazione
y 3 − 6y − 9 = 0
pensando y = u + v, possiamo identificare le due scritture, ponendo
n
3uv = 6
u3 + v 3 = 9
da cui
n
uv = 2
u3 + v 3 = 9
Tale sistema, elevando al cubo la prima equazione, diventa un sistema (simmetrico) di secondo grado
nelle incognite u3 e v 3 , cioè
u3 v 3 = 8
u3 + v 3 = 9
e ricavando ad esempio v 3 dalla seconda, e sostituendo nella prima, si ha u3 (9 − u3 ) = 8 ovvero
(u3 )2 − 9u3 + 8 = 0
e risolvendo
u3 =
9±
√
81 − 32
9±7
=
2
2
9
Qualche numero speciale
Ne segue u3 = 1 e u3 = 8, da cui
u=1
,
v=2
(e viceversa)
di conseguenza
y =u+v =3
e
x=y−1=2
Abbiamo con ciò determinato una soluzione x = 2 dell’equazione di terzo grado; è ora semplice ridurla
di grado e trovare le altre soluzioni.
Anche questo procedimento si può formalizzare una volta per tutte per ottenere una formula
risolutiva per le equazioni di terzo grado del tipo
ax3 + bx2 + cx + d = 0
Ripetendo tutti i passaggi si ottiene che, posto
p=
3ac − b2
9a2
,
q=
9abc − 2b3 − 27a2 d
54a3
allora una soluzione è
b
x=− +
3a
q
q
p
p
3
3
2
3
q − q + p + q + q 2 + p3
Forse è già chiaro il primo motivo per cui tale formula non viene insegnata nelle scuole superiori,
e forse si intuisce che è più facile ricordarsi il procedimento piuttosto che la formula finale.
Ma c’è un altro motivo, più nascosto.
Proviamo a risolvere l’equazione
(x − 1)(x + 1)(x − 2) = x3 − 2x2 − x + 2 = 0
che ha evidentemente come soluzioni
x=1
x = −1
,
,
x=2
Applicando la formula, posto
p=−
si ottiene
2
x= +
3
s
3
7
9
10
− −
27
,
r
q=−
1
− +
3
s
3
10
27
10
− +
27
r
−
1
3
Il valore sotto la radice quadrata risulta negativo e dovremo perciò calcolare la radice cubica di
un numero complesso; si noti che l’equazione data aveva tre soluzioni tutte reali, eppure per poterle
determinare è necessario passare attraverso calcoli che coinvolgono numeri complessi (e questo accade
ogni volta che l’equazione di terzo grado ha tutte e tre le soluzioni reali).
Questo è il secondo motivo per cui la formula non viene insegnata nelle scuole superiori (non si ha
ancora molta dimestichezza con i numeri complessi); ma questo è anche il motivo principale per cui i
numeri complessi non restano un puro gioco matematico, e diventano invece essenziali per affrontare
problemi la cui soluzione è comunque nell’ambito reale.
Prima di procedere osserviamo che un dubbio, più che lecito, che potrebbe nascere è
10
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- per risolvere l’equazione x2 = 2 abbiamo dovuto introdurre i numeri reali; per risolvere l’equazione
x2 = −1 abbiamo dovuto introdurre i complessi; non sarà che domani arriva qualcuno con un
altra equazione irrisolubile nel contesto dei complessi e dovremo introdurre altri numeri?
Per fortuna la risposta sta nel teorema fondamentale dell’algebra, che ci dice che un’equazione di
grado n, a coefficienti complessi, ha sempre n soluzioni, tutte nei complessi.
In parole povere, finché tratteremo con equazioni algebriche, non ci serviranno altri numeri.
Un’altra osservazione da fare è che noi abbiamo visto come Cardano risolse le equazioni di terzo
grado, e lo abbiamo fatto utilizzando le semplici notazioni dell’algebra, che ci permettono di spostare
da un membro all’altro di un’equazione parti numeriche o letterali, con grande semplicità, e di eseguire
altrettanto semplicemente sulle varie parti funzioni quali le radici quadrate o cubiche.
È però interessante tenere presente che all’epoca di Cardano le notazioni algebriche non erano
standardizzate: quello che noi scriviamo oggi come x + 3 = 5, e quindi risolviamo banalmente con
x = 5 − 3 = 2, era scritto in forma molto più complicata, e quindi molto più difficile da maneggiare.
A titolo di esempio, onde capire le difficoltà che dovevano superare i matematici del tempo, la
seguente tabella illustra le notazioni di allora e di oggi:
Data Matematico Simbolismo usato
1494 Pacioli
1521 Ghaligai
1545 Cardano
1556 Tartaglia
1559
1577
1586
1631
1693
Buteo
Gosselin
Ramus
Harriot
Wallis
Forma attuale
o
Trouame .ı.n , che giōto al suo
q̄drato facia .12.
e 32 co – 320 numeri
1
9
cub p: 6 reb9 aeq̂lis 20
Trouame uno numero che azontoli
la sua radice cuba uenghi ste, cioe .6.
1 ♦ P3ρP24
1 ♦ P6ρP9
12LM1QP48 aequalia 144M24LP2Q
1q −+− 8l aequatus sit 65
aaa − 3 · bba === + 2 · ccc
x4 + bx3 + cxx + dx + e = 0
x + x2 = 12
x2 + 32x = 320
x3 + 6x = 20
√
x+ 3 x=6
x2 + 6x + 9 = x2 + 3x + 24
12x − x2 + 48 = 144 − 24x + 2x2
x2 + 8x = 65
a3 − 3b2 a = 2c3
x4 + bx3 + cx2 + dx + e = 0
In modo simile, che qui non stiamo ad illustrare, si possono risolvere le equazioni di quarto grado
e la speranza dei matematici era quella di poter fornire una simile trattazione anche per le equazioni
di grado superiore.
Nei primi anni del 1800 fu però possibile dimostrare che non esiste un metodo generale esatto di
soluzione per qualsiasi equazione algebrica di grado superiore al quarto.
Va però notato, prima di farsi prendere dallo sconforto, che quando noi diciamo di aver risolto
un’equazione, sia essa pure di secondo grado, affermiamo di aver trovato una formula che ci permette
di arrivare alla soluzione; tale formula però contiene ad esempio delle radici quadrate ed il calcolo di
tali radici non viene poi fatto in maniera esatta, ma mediante algoritmi che forniscono il valore cercato
con precisione arbitraria. In altre parole dopo aver eseguito i calcoli io conoscerò la soluzione con il
numero di cifre decimali che mi interessano, e non
√ di più; ma tutti noi non ci scandalizziamo dicendo
per esempio che la soluzione di x2 = 2 è x = ± 2 ≈ ±1.4142 coscenti del fatto che se vogliamo una
soluzione più precisa, sappiamo come fare.
A questo proposito notiamo che allora non è necessario scervellarsi per cercare una formula
risolutiva; abbiamo molti metodi per approssimare quanto si vuole una soluzione di un’equazione, e
non molto complicati.
Supponiamo ad esempio di dover risolvere l’equazione
x4 + x − 1 = 0
e di conoscere una soluzione approssimata, sia essa y; indichiamo allora con a l’errore commesso
approssimando la soluzione corretta x con y; in altre parole sia x = y + a ; sostituendo nell’equazione
si ottiene (y + a)4 + (y + a) − 1 = 0 e sviluppando i calcoli
y 4 + 4ay 3 + 6a2 y 2 + 4a3 y + a4 + y + a − 1 = 0
Qualche numero speciale
11
Ora, se y è una buona approssimazione di x, il valore di a risulterà essere piccolo, e pertanto ancora
più piccoli risulteranno a2 , a3 , a4 . Trascurando i termini che contengono tali valori, l’equazione
diventa
1 − y4 − y
y 4 + 4ay 3 + y + a − 1 = 0
ovvero
a=
4y 3 + 1
e quindi una nuova stima, più precisa, della soluzione x sarà
x≈y+a=y+
1 − y4 − y
3y 4 + 1
=
4y 3 + 1
4y 3 + 1
A titolo di esempio prendiamo y = 1 come soluzione approssimata, ne segue una nuova stima della
soluzione pari a 45 = .8; è evidente che tale stima può essere riutilizzata per trovare una nuova
approssimazione, riapplicando la formula, ottenendo (utilizzando una semplice calcolatrice con 10
cifre), la sequenza
1 , 0.8 , 0.731233595 , 0.72454848 , 0.724491963 , 0.724491959 , 0.724491959 , ...
che a questo punto non cambia più.
Abbiamo cioè determinato la soluzione dell’equazione, non esatta, ma precisa quanto ci interessa.
Compito dell’Analisi Matematica sarà poi quello di determinare sotto quali ipotesi tale procedimento conduce alla effettiva determinazione di una soluzione: in parole povere quando funziona.
Il numero π.
Il secondo numero speciale che incontriamo ora, in questo breve viaggio è π
(Pi greco): quel numero reale che indica il rapporto tra la lunghezza di una
circonferenza e quella del suo diametro: cioè π = C/D.
Ogni studente sa bene che tale valore vale circa 3.14 (alcuni per la verità
pensano che sia esattamente quel valore).
Oggi noi sappiamo che π non è un numero razionale (Lambert, 1761) e
quindi né decimale finito, né scrivibile in termini di frazione; sappiamo pure
che è trascendente (Lindemann,1882), ovvero non è soluzione di√ nessuna
equazione algebrica a coefficienti razionali (come era ad esempio 2).
Tutto ciò chiude il famoso problema della quadratura del cerchio, ovvero dichiara impossibile poter disegnare con un numero finito di operazioni
con riga e compasso il lato di un quadrato la cui area sia equivalente a quella di un dato cerchio;
problema che aveva a lungo assillato gli antichi Greci e molti dopo di loro in epoche più recenti, nonostante già nel 1544 Stifel dicesse “Frustra laborant quotquot se calcolationibus fatigant pro inventione
quadrature circuli”.
Il valore di π con le prime cinquanta cifre decimali esatte è
3. 14159 26535 89793 23846 26433 83279 50288 41971 69399 37510
12
P.Oliva
Notiamo quindi che se utilizziamo il solito valore 3.14 e calcoliamo la circonferenza di una ruota di
raggio 1 metro commettiamo un errore di circa 3mm, trascurabile, anche se non proprio piccolissimo.
Indubbiamente π è uno dei più famosi ed importanti numeri con cui uno studente abbia avuto ed
avrà a che fare.
In origine Oughtred (1647) e Gregory (1697) utilizzarono questo simbolo per la lunghezza di una
circonferenza: più precisamente π/r indicava il rapporto fra le misure di circonferenza e raggio.
Il primo uso di π con l’attuale significato risale al matematico William Jones (1706) e nel 1737
Eulero adottò questo simbolo che divenne rapidamente una notazione standard.
Il problema di determinare la lunghezza di una circonferenza, noto il
suo diametro, è un problema antichissimo: 2000 anni prima dell’era cristiana
i Babilonesi√utilizzavano come approssimazione di π il valore 25/8 = 3.125,
gli Indiani 10 ≈ 3.16227766, mentre dal papiro di Rhind (a destra), datato intorno al 1650 a.C., si deduce che gli Egiziani utilizzavano il valore
(16/9)2 = 256/81 ≈ 3.16049383.
Un altro riferimento al valore in oggetto si trova nella Bibbia: nel primo
Libro dei Re (7,23) mentre si descrive la costruzione del Tempio da parte
di re Salomone, e più precisamente di un grande bacino di bronzo (mare),
sorretto da dodici buoi, si legge
“Fece poi il mare in metallo fuso, a forma circolare, di dieci cubiti da un orlo all’altro. Era alto
cinque cubiti, mentre una cordicella di trenta cubiti ne misurava la circonferenza”.
Da tale verso si deduce che il rapporto tra la lunghezza della circonferenza ed il suo diametro si
deve considerare uguale a 3.
Tale valore appare molto approssimato, date le precedenti e ben documentate stime di Egiziani
e Babilonesi, ma, anche se non ci si trova certamente di fronte ad un testo di matematica, vi sono su
ciò numerose interpretazioni.
Per citarne una (Britannica 1985), viene fatto notare che nella versione originale della Bibbia una
parola del verso viene scritta “QVH ”, mentre la corretta lettura dovrebbe essere “QV ”; in effetti la
stessa frase si può ritrovare nella Cronache (4,2), di successiva stesura, con lo stesso identico testo e
la versione “QV ”.
Ora va considerato che, ben prima della costruzione del Tempio, le lettere dell’alfabeto Ebraico
erano anche usate a scopi numerici; si possono quindi calcolare i valori delle parole (sommando i
contributi delle singole lettere, anche se questo non è l’unico modo documentato) ed essendo i valori
standard dati da Q = 100 , V = 6 , H = 5 si deduce che la parola “QVH ” assume il valore di
100 + 6 + 5 = 111, mentre il valore di “QV ” risulta 100 + 6 = 106.
Se ne dedurrebbe da ciò una correzione del valore 3, secondo la frazione 111/106, ottenendo il
valore di 3 × 111/106 = 333/106 ≈ 3.14150943.
Il primo calcolo teorico del valore di π sembra comunque essere quello di Archimede di Siracusa
(282-212 a.C.); egli ottenne l’approssimazione
3.14084507 ≈ 3 +
223
22
10
10
=
< π <
=3+
≈ 3.14285714
71
71
7
70
che, per la prima volta fornisce una stima sia per eccesso che per difetto del valore corretto, con un
errore di circa 0.00026 sul valore medio.
Archimede sapeva quindi di non conoscere il valore esatto di π, ma forniva comunque un piccolo
intervallo di valori entro cui esso doveva sicuramente stare.
L’idea è naturalmente quella di approssimare la lunghezza della circonferenza mediante i perimetri
di poligoni (regolari) inscritti e circoscritti; più il numero dei lati è grande, più la stima sarà precisa.
Non è difficile vedere che, se L indica il lato di un poligono regolare inscritto di k lati, la misura
l del lato del poligono inscritto di 2k lati è data da (utilizzando il teorema di Pitagora sui triangoli
¯ e l = AC
¯ )
rettangoli OHA e AHC, ove L = AB
Qualche numero speciale
13


s
r
2 2
2
2
2
p
L2
L
L
L
L
2
 =
+ 1 − 1 −
+1+1−
−2 1−
= 2 − 4 − L2
l =
2
2
4
4
4
Dato il lato del poligono inscritto li è poi facile trovare il lato del poligono circoscritto lc ,
sfruttando la similitudine dei due triangoli OAB e OA0 B 0 , ottenendo
li
lc = q
1−
l i2
4
2li
=p
4 − li2
Partendo quindi dal lato dell’esagono inscritto in un cerchio di raggio 1, che vale 1, è quindi
possibile determinare i lati dei poligoni di 12, 24, 48, 96 ... lati inscritti ed ottenere una stima per
difetto di π; determinando poi il lato del poligono circoscritto si potrà avere una stima di π per eccesso.
Utilizzando la formula succitata, si ottiene, con otto cifre decimali
numero lati
lunghezza lato
6
1
12
0.51763809
24
0.26105238
48
0.13080626
96
0.06543817
Il semiperimetro del poligono inscritto di 96 lati vale quindi 48 × 0.06543817 ≈ 3.14103195
Il lato del poligono circoscritto di 96 lati risulta invece 0.06547322 da cui il semiperimetro vale
circa 3.1427146
Pertanto
3.14103195 < π < 3.1427146
che risulta una stima di poco più precisa di quella di Archimede, la quale ha però il grosso pregio di
fornire come valori approssimanti due frazioni molto semplici.
Per la verità l’algoritmo usato da Archimede era differente: se indichiamo con bn il semiperimetro
del poligono regolare inscritto di 3 · 2n − 1 lati, e con an il semiperimetro del poligono circoscritto, si
ha, indicando con k = 3 · 2n − 1 il numero dei lati
an = k tan(π/k)
e
1
1
1
+
=
an
bn
k
1
cos(π/k)
+
sin(π/k)
sin(π/k)
,
=
1 1 + cos(π/k)
1
1
2
=
=
k
sin(π/k)
k tan(π/(2k))
an +1
an +1 bn = 2k tan(π/(2k))k sin(π/k) = 2k 2
= 4k 2 sin2 (π/(2k)) = b2n +1
bn = k sin(π/k)
sin(π/(2k))
(2sin(π/(2k))cos(π/(2k))) =
cos(π/(2k))
14
Riassumendo
P.Oliva


 1 + 1 = 2
an
bn
an +1

a
2
b =b
n +1 n
n +1
√
√
Partendo da a1 = 3 3 e b1 = 3 3/2 si può quindi calcolare a2 dalla prima formula, e quindi b2 , con
la seconda, e cosı̀ via.
Si tenga ben presente che Archimede non aveva le notazioni algebriche e trigonometriche oggi in
nostro possesso; le formule da noi scritte e dimostrate in due righe furono da lui dedotte con pure
considerazioni geometriche e con chissà quanta fatica.
Il fatto che quindi Archimede si sia fermato ad un poligono di 96 lati è stupefacente, non perché
siano solo 96, ma nel senso che sia riuscito ad arrivare cosı̀ lontano, con i mezzi a sua disposizione.
355
fornita da Tsu Ch’ung Chi (430-501 d.C.) che
Un’altra interessante approssimazione di π è 113
vale, con otto cifre decimali, 3.14159292 con un errore di 0.00000027, ovvero esatta fino alla sesta cifra
decimale (una precisione superiore a qualunque necessità pratica).
Si noti come tale approssimazione sia facilmente memorizzabile, essendo formata dai numeri 113
e 355 (in sequenza 113355).
Per chiarirci un po’ la situazione in mezzo a tutte queste frazioni approssimanti π possiamo oggi
utilizzare gli elaboratori elettronici per calcolare l’errore che si commette utilizzando frazioni con vari
denominatori.
Nel sottostante grafico sono state calcolate le migliori approssimazioni di π che si possono ottenere
utilizzando denominatori da 1 a 639 (nel grafico di destra è ingrandita la zona da 1 a 150); in pratica
se b è il denominatore, si è scelto come numeratore a l’intero più vicino a bπ e si è quindi fatto un
grafico dell’errore |π − ab | (più precisamente il suo logaritmo).
Le linee tratteggiate indicano un errore, partendo dall’alto, rispettivamente di 10− 7 , 10− 6 e cosı̀
via; pertanto più è alto il picco, più è precisa la frazione. La curva sottostante indica un errore di
.5b ovvero l’errore medio ottenibile con un denominatore b (in altre parole, è ovvio che se si usa un
denominatore di 100, si otterrà sicuramente un errore inferiore ad 1/200, per difetto o per eccesso).
Si noti come si distinguano nettamente due picchi più alti degli altri, un primo, in corrispondenza
del denominatore 7, (e quindi poi di 14, 21, 28, ecc.) ed un’altro in corrispondenza di 113 (e poi 226,
339, ecc.) che danno origine alle due buone approssimazioni
22
7
e
335
113
Dopo Tsu Ch’ung Chi non vi sono stati grossi passi avanti per la determinazione del valore di π,
per tutto un millennio.
Verso il 1430 Al-Kashi calcolò 14 cifre decimali di π, Van Ceulen (1600) ne trovò 35, ma bisogna
arrivare fino alla metà del 1600, con la sistemazione delle notazioni algebriche, per un rifiorire di
formule atte al calcolo di π.
Una delle prime fu quella di Wallis (1616-1703)
2 · 2 · 4 · 4 · 6 · 6 ....
π
=
2
1 · 3 · 3 · 5 · 5 · 7 ....
Qualche numero speciale
15
mentre quella forse più nota è dovuta a Gregory (1638-1675)
π
1 1 1
= 1 − + − + ....
4
3 5 7
Tale formula, estremamente semplice, ci permette di calcolare π con arbitraria precisione, pur
di avere la pazienza di sommare molti termini; la convergenza di tale sviluppo risulta però molto
1
, ovvero al più 3 cifre decimali esatte, bisogna sommare 500
lenta; per avere cioè una precisione di 1000
termini di quella serie.
È chiaro che tutto ciò non risulta conveniente. Utilizzando un po’ di Analisi matematica, si
possono provare formule che permettono un più rapido calcolo; utilizzando, se |x| < 1
arctan x = x −
x5
x7
x3
+
−
+ ....
3
5
7
citiamo ad esempio
π
1
1
= arctan + arctan
4
2
3
e (Machin, 1706)
1
1
π
= 4 arctan − arctan
4
5
239
Rimandiamo all’appendice per la dimostrazione di queste e di altre formule per il calcolo di π.
Con le formule date iniziò una gara a chi riusciva a calcolare più cifre decimali esatte di π:
1699: Sharp, 71 cifre con la formula di Gregory;
1706: Machin, 100 cifre con il suo metodo;
dopo di lui, sempre utilizzando la sua formula
1719:
1789:
1841:
1873:
de Lagny, 112 cifre;
Vega, 126 cifre, e poi 136 cinque anni dopo;
Rutheford, 152 cifre, e poi 440 dodici anni dopo;
Shanks, 707 cifre, (di cui 527 esatte).
Poco dopo il calcolo di Shanks, esaminando la distribuzione delle cifre nello sviluppo decimale di
π, De Morgan notò una sospetta eccessiva presenza di 7 verso la fine dello sviluppo stesso e pubblicò
tale osservazione nel suo Budget of Paradoxes.
Soltanto molti anni più tardi, nel 1945, Ferguson scoprı̀ che Shanks aveva commesso un errore
nella 528 cifra, e quindi tutte le successive erano sbagliate.
Attualmente lo sviluppo decimale di π è noto con oltre 6 miliardi di cifre, e tale sequenza ha
superato ogni test statistico di casualità.
Per tornare al significato di π, esso non compare solo nel problema della quadratura del cerchio;
come diceva De Morgan “questo misterioso 3.14159... che entra da ogni porta e da ogni finestra e che
si trova sotto ogni tetto”.
Per esempio, la probabilità che presi due numeri interi a caso, essi non risultino avere divisori
comuni, è data sorprendentemente da 6/π 2 .
Ma forse il più noto caso in cui π entra nella teoria della probabilità è il problema dell’ago di
Buffon (1777):
lanciando a caso un ago di lunghezza 1 su di un foglio su cui sono tracciate delle linee parallele
distanti 1, qual è la probabilità che l’ago cada toccando una linea ?
16
P.Oliva
Dalla figura di sinistra si vede che, detta x la distanza del centro dell’ago dalla linea più vicina,
e detto θ l’angolo con cui si è posato l’ago stesso, misurato a partire da una linea parallela alle altre,
quest’ultimo intersecherà la linea se
1
sin θ ≥ x
2
Poiché dovrà essere x ∈ [0, 1/2] e θ ∈ [0, π], nella figura di destra il rettangolo rappresenta tutti
gli eventi possibili, mentre la parte ombreggiata rappresenta i casi in cui l’ago interseca la linea.
Ritenendo tutti gli eventi equiprobabili, la probabilità cercata sarà il rapporto fra l’area ombreggiata
e quella totale del rettangolo.
Rπ
Con un semplice calcolo, l’area sotto la funzione sin2 θ risulta 0 sin2 t dt = 1 e quindi la probabiltà
richiesta è
2
1
=
.
π/2
π
Tornando alla storia di π, i sostenitori della quadrabilità del cerchio, convinti di averne scoperto
l’esatto valore, sono stati moltissimi, ma nessuno forse ha mai superato il filosofo inglese Thomas
Hobbes, nel 1600. Costui incominciò ad interessarsi di matematica dopo i 40 anni, leggendo Euclide;
fu una fulminazione: per il resto della sua vita si dedicò alla geometria con passione smisurata (scrisse
“la geometria possiede un qualcosa che inebria, come il vino”).
Se si fosse accontentato di restare un dilettante della matematica, i suoi ultimi anni sarebbero
trascorsi più serenamente, ma egli si convinse di poter fare grandi scoperte matematiche. Nel 1655, a
67 anni, pubblicò un volume in lingua latina intitolato ‘De corpore’, in cui presentava un ingegnoso
metodo per ottenere la quadratura del cerchio, iniziando una disputa che durò quasi un quarto di
secolo con i matematici del tempo, ed in particolare con il già citato Wallis, che di lui diceva avere
una ‘curiosa incapacità di apprendere cose che non aveva capito’.
Il metodo usato per quadrare il cerchio è illustrato nella figura a
fianco: in un quadrato di lato 1 si tracciano i due quadranti di
cerchio con raggio 1 centrati in A e D, che di incontrano in F ;
si biseca l’arco BF in Q; si traccia un segmento passante per Q
parallelo al lato BC e si determina il punto S in modo che Q
sia punto medio di RS; si prolunga infine il segmento F S fino ad
incontrare in T il lato BC.
Hobbes asseriva che il segmento BT è uguale all’arco BF , ed
1
della circonferenza di raggio 1, si aveva
essendo quest’ultimo 12
che π risultava uguale a sei volte la lunghezza di BT .
Determinando BT si deduce per π un valore di
√
√
√
12 6 + 9 3 − 21 2 − 9
≈ 3.14192469
2
abbastanza buono, ma ovviamente non esatto.
Qualche numero speciale
17
Illustriamo qui a destra una costruzione basata sulla frazione dell’astronomo cinese Tsu Ch’ung Chi.
¯ = 1 e sia
Dato un quadrante di cerchio di raggio 1, sia AB
8
1
F¯D = 2 . Si tracci quindi il segmento F S parallelo ad AC e poi il
segmento F T parallelo a BS.
È facile provare, dalla similitudine dei triangoli F T D e BSD,
¯ = F¯D/BD
¯
che
T¯D/SD
e dai triangoli F SD e BCD che
¯ CD
¯ = F¯D/BD
¯ da cui T¯D = (F¯D/BD)
¯ 2 = 16 .
SD/
113
Aggiungendo al segmento T D un segmento di lunghezza 3, si
16
= 355
otterrà quindi un segmento lungo 3 + 113
113 .
π è stato anche motivo di grosse dispute nel passato, anche se sarebbe meglio dire che in alcuni
casi ne è stato solo la scusa per motivare il contendere.
Ad esempio, nel 1934, il noto matematico Landau dovette dimettersi dalla sua cattedra di
Göttingen, perché in un suo testo aveva definito π/2 come quel valore tra 1 e 2 in cui il coseno
si annulla; tale definizione fu ritenuta da Bieberbach (eminente studioso di teoria dei numeri) non
gradita allo spirito germanico.
Negli Stati Uniti invece il nostro numero fu motivo di grosse discussioni politiche; nel 1897, nello
stato dell’Indiana, la Camera dei Rappresentanti unanime propose:
- l’Assemblea Generale dello Stato dell’Indiana decreta: l’area del cerchio sta al quadrato costruito
su una linea pari ad un quarto di circonferenza, come l’area del rettangolo equilatero (quadrato)
sta al quadrato di un suo lato
ovvero π = 4. !!!
Il Senato dell’Indiana, con un po’ più di buon senso rinviò indefinitamente l’approvazione della
legge.
Per concludere la nostra breve storia di π va fatto notare che l’avvento di Internet ha reso
disponibile una smisurata quantità di informazioni su ciò che viene fatto attorno a π. La grande
quantità di siti ad esso dedicati ne conferma la popolarità.
Ci vorrebbero ore per citare tutte le cose strane che si sono sviluppate sull’argomento; trascurando
tutte le fantasiose considerazioni sui misteri del nostro numero, dalla sua derivazione dalla Grande
Piramide di Cheope, al presunto significato di certe sue cifre, in un certa posizione del suo sviluppo
decimale, alla moltitudine di formule coinvolgenti certi numeri magici che lo approssimano, a titolo di
esempio di cose curiose citiamo
- l’esistenza del Pi Day, ovvero il giorno in cui si celebra la festa di π, naturalmente il 14 di Marzo
(che tra l’altro, come viene spesso fatto notare, è anche la data di nascita di Albert Einstein)
- le due immagini seguenti, di Lisa Hakesley, giudicate degne di menzione all’Internet Raytracing
Competition (concorso di immagini e animazioni): a sinistra Pihenge, a destra cow Pi, ovvero
la “mucca π”.
18
P.Oliva
Il numero e.
L’ultimo numero che incontriamo in questa breve storia è un po’ più giovane degli altri; è stato
infatti usato per la prima volta da Nepero (1614).
Scegliendo una forma semplice per introdurlo possiamo fare riferimento ad un esempio finanziario:
- supponiamo di affidare la folle cifra di 1 lira ad una altrettanto folle banca che ci fornisce un
interesse annuo del 100%;
trascorso un anno il nostro capitale sarà diventato di 2 lire (=1 di capitale +1 di interessi).
È però chiaro che il capitale è rimasto fermo per tutto l’anno e solo alla fine si è aggiunto l’interesse
corrispondente all’intero anno.
Cosa sarebbe successo se la banca ci avesse invece corrisposto un interesse del 50%, però semestrale?
Dopo sei mesi avremmo già aggiunto al nostro capitale di 1 lira l’interesse pari a 0.5 lire ottenendo
un capitale di 1.5 lire; dopo altri sei mesi il capitale di 1.5 lire avrebbe fruttato 0.75 lire (=1.5/2)
ottenendo pertanto alla fine dell’anno un capitale di
2
1
1
1
1
= 2.25 lire
+
1+
= 1+
1+
2
2
2
2
che è maggiore di quello precedentemente ottenuto.
In tal caso è chiaro che noi andremo a chiedere alla banca di darci un interesse del 33.3̄% ogni
quattro mesi e, se la banca lo facesse, noi avremmo
1
1+
dopo quattro mesi
3
2
1
1
1
1
dopo otto mesi
+
1+
= 1+
1+
3
3
3
3
2
2 3
1
1
1
1
1+
+
= 1+
alla fine dell0 anno
1+
3
3
3
3
pari a 2.37.. lire; sempre di più!
Trascinati dalla febbre dell’oro, intravvedendo guadagni infiniti, andremo ad implorare la conces100
100
sione di interessi del 100
12 % al mese, o meglio del 365 % al giorno, o ancora meglio del 8760 % all’ora,
ecc., forti del fatto che gli interessi vanno immediatamente versati sul conto, e non lasciati inerti per
tutto l’anno; non sono forse disponibili alla banca per investimenti in ogni momento? e allora devono
esserli anche per noi!
È inopportuno (per motivi di decenza) riportare qui quella che sarebbe la risposta della banca
in tale situazione. A magra consolazione ci può servire l’osservazione che la nostra lira non sarebbe
comunque diventata infinita, alla fine dell’anno; infatti, se osserviamo i calcoli prima fatti notiamo
che il capitale finale diventa (1 + 11 )1 se l’interesse è dato in un’unica soluzione, (1 + 21 )2 se è dato in
due tempi, (1 + 31 )3 se è dato in tre tempi, e quindi è facile predire che sarà (1 + n1 )n se fornito in n
tempi.
Bene, si può provare che tale valore, pur essendo crescente al crescere di n, rimane sempre inferiore
a 3; se quindi la banca ci concedesse un interesse continuo, ogni secondo diciamo, o anche meno, la
nostra lira iniziale non diventerà mai più di 3 lire; più precisamente mai più di
n
1
= 2.718...
e = lim
1+
n→ +∞
n
Questa è la definizione del numero e, cosı̀ chiamato in onore di Eulero; anch’esso è irrazionale
(Eulero), anzi trascendente (Hermite, 1873).
Qualche numero speciale
19
Il suo valore, con 50 cifre decimali esatte è:
e = 2. 71828 18284 59045 23536 02874 71352 66249 77572 47093 69995
Ricollegandoci a quanto detto sopra, tracciamo in un grafico
dapprima il segmento che congiunge il punto (0,1) al punto
(1,2), ovvero l’ammontare del capitale più gli interessi maturati nel corso dell’anno; tracciamo poi una spezzata da (0,1) a
(0.5,1.5) e poi a (1,2.25), per evidenziare il capitale raggiunto
fino a sei mesi e poi nel seguito, nel caso in cui gli interessi
vengano versati sul conto ogni sei mesi; tracciamo poi le altre spezzate nel caso di interessi versati quadrimestralmente,
trimestralmente, ecc.
Come si nota, il valore dell’ordinata, nel punto di ascissa
1, tende verso il valore di e; non solo, ma tutte le spezzate
tendono a confondersi con una curva: la curva esponenziale
ex .
Ovviamente tale curva può essere estesa a destra (e anche
a sinistra), ma ciò che forse è più interessante è che risulta
facilmente definibile anche per valori di x non interi, per esempio per x uguale ad 21 , 13 , ecc. (dovrebbe essere noto agli
√
p
studenti che e q = q ep , meno noto dovrebbe essere il caso in
cui l’esponente è irrazionale ), e più in generale
x n
ex = lim 1 +
n
Naturalmente la curva esponenziale si può definire per qualunque base positiva, ma e è quell’unica
base per cui la tangente in (0,1) è inclinata di 45o .
L’esame del grafico della funzione ex ci permette, dato x, di determinare y = ex ; non è difficile
immaginare come sarà fatto il grafico della funzione inversa, ovvero dato y come trovare x in modo
che ex = y ; sarà sufficiente invertire gli assi (e tutta la figura) ovvero disegnare una linea simmetrica
rispetto alla bisettrice del primo e terzo quadrante (tale simmetria inverte l’asse x con l’asse y).
Tale funzione, grafico di centro, è il ‘logaritmo naturale’ di x, usualmente indicato con ln x, o
anche log x, senza specificare la base, perché ovviamente nessuno ci impedisce di utilizzare basi diverse
da e, ma se per esempio calcoliamo l’area sottesa dall’iperbole y = x1 tra i punti 1 ed x, tale area
risulterà uguale a ln x (cioè al logaritmo in base e , e non in basi differenti).
Torniamo ora al problema del conto corrente con un altro punto di vista; prima di fare ciò osserviamo che, se il grafico sottostante rappresenta l’andamento del capitale in un conto, con variazioni
dovute a prelievi o versamenti, per determinare l’interesse maturato in un certo tempo (al 100%) è
sufficiente calcolare l’area della zona sottesa dal grafico, per il tempo in esame. Infatti, un capitale
c, in un tempo ∆t, genererà un interesse pari a c · ∆t (sempre se l’interesse è pari al 100%), e questo
vale anche se il capitale varia nel tempo.
20
P.Oliva
Con la figura di destra notiamo pure (ci servirà in seguito, ed una semplice dimostrazione si trova
1
dell’area del rettangolo
in appendice) che l’area sottesa dalle potenze cxn tra 0 ed x è data da n +1
che la contiene (ciò risulta immediato con gli integrali).
Mettiamoci allora in questa situazione: depositiamo in un conto la nostra solita 1 lira, e gli
interessi da essa maturati, pari a x dopo un tempo x, li versiamo continuamente in un secondo conto.
Tale conto maturerà esso stesso degli interessi, pari a x2 /2, che versiamo continuamente in un
terzo conto, che maturerà interessi pari a x3 /6, che versiamo in un altro conto, e cosı̀ via.
Il capitale totale dopo un tempo x (che sappiamo valere ex ) sarà dato dalla somma dei capitali
presenti in tutti i conti, ovvero (indicando con k! = k(k − 1)(k − 2)...3 · 2 · 1 ):
x3
x4
xk
x2
+
+
+ ··· +
+ ···
2
3!
4!
k!
Tale formula (sviluppo di Taylor o di Mc Laurin) permette anche di calcolare e con una certa facilità;
infatti
1
1
1
1
+ ···
e = 1 + 1 + + + + ··· +
2 3! 4!
k!
ed è facile provare (sempre con un po’ di Analisi) che, se nella somma ci si arresta al termine k, l’errore
3
.
che si commette è minore di (k +1)!
3
Ad esempio calcolando i primi dieci addendi si commette un errore inferiore a 11!
≈ 7 · 10− 8 .
Si noti che nulla ci vieta di utilizzare lo sviluppo sopra citato per definire la funzione ex anche
per numeri complessi; più precisamente, se x ∈ R, possiamo considerare
ex = 1 + x +
(ix)2
(ix)3
(ix)4
(ix)k
+
+
+ ··· +
+ ··· =
2
3!
4!
k!
x2
x3
x4
x5
x6
x7
= 1 + ix −
−i +
+i −
− i + ···
2
3!
4!
5!
6!
7!
eix = 1 + ix +
Formula analoghe a quelle trovate per la funzione ex valgono per qualunque altra funzione (derivabile n volte); per esempio per il seno ed il coseno si ha (si ricordi che x deve essere misurato in
radianti):
x3
x5
x7
sin x = x −
+
−
+ ···
3!
5!
7!
cos x = 1 −
x2
x4
x6
+
−
+ ···
2!
4!
6!
Qualche numero speciale
21
Per inciso notiamo che i primi tre termini di tali sviluppi approssimano nell’intervallo da 0 a π/2
le relative funzioni con errori inferiori a 0.005 per il seno ed a 0.02 per il coseno; se ci accontentiamo di
utilizzarle solo tra 0 e π/4 (da 0 a 45o ), scambiando le funzioni per gli angoli complementari, i primi
due termini bastano per precisioni di 0.003 per il seno e di 0.02 per il coseno.
Osservando i tre sviluppi sopra citati si nota immediatamente una grossa rassomiglianza esistente
tra di loro; più precisamente, se raccogliamo le parti contenenti i, si ha
ix
e
x4
x6
x3
x5
x7
x2
+
−
+ ··· + i x −
+
−
+ · · · = cos x + i sin x
= 1−
2!
4!
6!
3!
5!
7!
ottenendo in tal modo la formula di Eulero
eix = cos x + i sin x
Questa formula rivela un inaspettato legame tra i personaggi del nostro viaggio, che abbiamo
introdotto con motivazioni totalmente differenti, dall’esigenza di risolvere equazioni algebriche particolari, alla quadratura del cerchio, ecc.: se scegliamo x = π si ottiene eiπ = cos π + i sin π = −1
ovvero
eiπ + 1 = 0
che Eulero definı̀ la più bella formula della matematica; in essa sono raccolti ed intimamente legati
assieme i numeri più importanti: e, i, π, 1, 0.
Nel disegno a fianco è illustrata graficamente questa
formula, nel piano complesso, dove sull’asse delle ascisse
sta la parte reale, mentre sulle ordinate quella immaginaria
del numero complesso.
3
4
2
Poichè eiπ = 1 + iπ − π2 − i π3! + π4! + · · · la spezzata
poligonale rappresenta la somma dei singoli addendi, e come
si vede tale somma si avvolge attorno al punto -1.
Tra le molteplici altre importanti formule coinvolgenti e e π citiamo la formula di Stirling
lim
n!
√
=1
nn e− n 2πn
Prima di concludere notiamo che la letteratura di cose strane sul numero e non è cosı̀ vasta
come quella su π; troppo giovane è il nostro numero e troppo fascino ha avuto invece π.
Citiamo tra le altre, ad esempio due buone approssimazioni frazionarie di e, 193
71 con un errore di
−6
2.8 · 10− 5 , e 1457
con
un
errore
di
1.8
·
10
;
difficile
è
invece
trovare
una
buona
frazione
con solo tre
536
878
, corretta a quattro decimali.
cifre sia al numeratore che al denominatore: 323
Fatto curioso sia 878 che 323 sono palindromi (uguali se letti da destra a sinistra) e la loro
differenza è 555.
Oppure misteriose combinazioni di π che forniscono numeri quasi uguali ad e: per esempio
p
6
π 4 + π 5 ≈ 2.71828181
E per finire:
22
P.Oliva
non è difficile immaginarsi qualche altra cosa di particolare; nel
passato anche persone di un certo rilievo hanno dedicato il loro
tempo a cose curiose.
Ricordiamo per esempio Keplero, che pubblicò nel 1596 il
suo modello del sistema solare, basato sui cinque solidi perfetti
(ottaedro, icosaedro, dodecaedro, tetraedro e cubo) ciascuno
incluso nel successivo in quest’ordine: ogni orbita planetaria
era circoscritta ad uno di essi ed inscritta nel successivo (forse
il più bell’esempio di intuizione matematica aberrante) e trasse
dai parametri delle orbite particolari melodie musicali per una
grande sinfonia dell’universo.
Proprio osservando che una melodia non è altro che una sequenza di coppie (nota, durata),
possiamo, presi due numeri a caso, o anche uno solo, associare ad ogni cifra del primo una nota e ad
ogni cifra del secondo una durata.
È chiaro che se utilizziamo numeri razionali (e quindi periodici) il risultato sarà troppo ripetitivo e
monotono; con numeri irrazionali è possibile che la musica venga troppo casuale e noiosa, (almeno per
la durata sarebbe forse meglio usare razionali, per avere un tempo regolare). È comunque probabile
che nella totalità dell’esecuzione qualche piccola parte orecchiabile ci sia.
A titolo di esempio quello sotto è il risultato ottenuto utilizzando le prime 142 cifre di e a coppie,
una per le note (0:Mi, 1:Fa, 2:Sol ...), l’altra per le rispettive durate (0,1,5,6:un quarto; 2,7:un ottavo;
3,4,8,9:un sedicesimo), con un qualche fattore correttivo su quest’ultime, onde rispettare le cadenze
dei tempi (quattro quarti).
Tale melodia si può ascoltare utilizzando il pulsante Esegui (per interrompere prima della fine
utilizzare x) e dura circa 45 sec.; nella prima metà è eseguita con un solo strumento (armonica), e
viene poi ripetuta con una chitarra elettrica, accompagnata da una semplice percussione e da un
triangolo.
23
Qualche numero speciale
Appendice
• Risoluzione delle equazioni di quarto grado
Data l’equazione
ax4 + bx3 + cx2 + dx + e = 0
si cercano soluzioni del tipo x = y −
b
4a ;
allora y sarà soluzione di un’equazione del tipo
y 4 + py 2 + qy + r = 0
ove
p=
c
3b2
− 2
a 8a
,
q=
b3
bc
d
− 2 +
3
8a
2a
a
,
r=
3b4
bd
e
b2 c
−
− 2 +
3
4
16a
256a
4a
a
Osservato che
(u+v +w)4 −2(u2 +v 2 +w2 )(u+v +w)2 −8uvw(u+v +w)−4(u2 v 2 +u2 w2 +v 2 w2 )+(u2 +v 2 +w2 )2 = 0
l’equazione, posto y = u + v + w è equivalente a

 u2 + v 2 + w2 = − p2
uvw = − 8q
 2
(u + v 2 + w2 )2 − 4(u2 v 2 + u2 w2 + v 2 w2 ) = r
ovvero
 2
p
2
2

 u + v + w2 = − 2
q
u2 v 2 w2 = 64

 2 2
u v + u2 w 2 + v 2 w 2 =
p2
16
−
r
4
Pertanto u2 , v 2 , w2 saranno soluzioni dell’equazione di terzo grado
p
z + z2 +
2
3
p2
r
−
16 4
z−
q2
=0
64
• La formula di Wallis
Se
wn =
((2n)!!)2
((2n − 1)!!)2 (2n + 1)
si ha
lim wn =
Dimostrazione. Sia
sn =
Z
0
si ha s0 =
π
2
e s1 = 1; inoltre, se n ≥ 2,
π
2
π/ 2
(sin x)n dx
;
.
24
P.Oliva
sn =
Z
π/ 2
n−1
(sin x)
n−1
sin x dx = −(sin x)
0
= (n − 1)
Z
π/ 2
π/ 2
cos x0 +
Z
π/ 2
(n − 1)(sin x)n − 2 (cos x)2 dx =
0
( (sin x)n − 2 − (sin x)n ) dx = (n − 1)(sn − 2 − sn )
0
da cui
sn =
n−1
sn − 2
n
, n≥2.
Pertanto
s2n =
2n − 1
2n − 1 2n − 3
2n − 1 2n − 3
1
(2n − 1)!! π
s2n − 2 =
s2n − 4 =
· · · s0 =
2n
2n 2n − 2
2n 2n − 2
2
(2n)!! 2
Analogamente
s2n +1 =
2
(2n)!!
2n 2n − 2
· · · s1 =
2n + 1 2n − 1
3
(2n + 1)!!
Dal fatto che
0 ≤ sn =
Z
π/ 2
(sin x)n ds ≤
0
e
sn +1 =
Z
π/ 2
(sin x)n +1 dx ≤
Z
π
2
π/ 2
(sin x)n dx = sn
0
0
si ha che esiste lim sn = s ∈ R. Ma wn =
s 2 n +1 π
s2 n 2
lim wn =
e quindi
sπ
π
=
s2
2
• Alcune formule per il calcolo di π
Dalla relazione
arctan a = arctan b + arctan c
ovvero arctan c = arctan a − arctan b si ha, applicando la tangente ad entrambi i membri
c = tan(arctan c) = tan(arctan a − arctan b) =
a−b
1 + ab
Dovendo pertanto calcolare π si potrà utilizzare la relazione π4 = arctan 1 ed ottenere, sfruttando
le precedenti uguaglianze
π
1
1
= arctan 1 = arctan + arctan
4
2
3
π
1
3
= arctan 1 = arctan + arctan
4
4
5
π
1
2
= arctan 1 = arctan + arctan
4
5
3
π
1
5
= arctan 1 = arctan + arctan
4
6
7
Qualche numero speciale
25
ecc.
Ovviamente si possono poi riutilizzare le relazioni per ottenere ad esempio
arctan
1
1
1
= arctan + arctan
2
3
7
e quindi
1
1
1
1
π
= arctan + arctan = 2 arctan + arctan
4
2
3
3
7
e cosı̀ via.
Di particolare interesse è il caso che utilizza arctan 51 : applicando ripetutamente le precedenti
relazioni si ottiene
1
2
1
7
1
9
π
= arctan 1 = arctan + arctan = 2 arctan + arctan
= 3 arctan + arctan
=
4
5
3
5
17
5
46
1
1
= 4 arctan − arctan
5
239
che è la già citata formula di Machin.
Un’altra interessante situazione si presenta se si utilizza la successione di Fibonacci (definita
mediante le f0 = f1 = 1 e fn +1 = fn + fn − 1 ); risulta infatti, se n è dispari,
fn +2 =
da cui
arctan
fn +1 fn + 1
fn +1 − fn
1
1
1
= arctan
+ arctan
fn
fn +1
fn +2
e quindi
1
1
1
1
1
1
1
π
+ arctan
= arctan
+ arctan
+ arctan
=
= arctan + arctan = arctan
4
2
3
f2
f3
f2
f4
f5
1
1
1
1
= arctan
+ arctan
+ arctan
+ arctan
= .......... =
f2
f4
f6
f7
+∞
X
1
=
arctan
f
2i
i=1
• e non è razionale
Se e fosse razionale, si avrebbe e = pq , con q ≥ 2 in quanto è noto che e non é intero.
Dalla formula di Taylor con il resto di Lagrange esiste c ∈ (0, 1) tale che
e=1+1+
1
1
1
1
+ + · · · + + ec
2 3!
q!
(q + 1)!
da cui, moltiplicando per q!,
eq! − q! − q! −
q! q!
ec
− − ··· − 1 =
2
3!
q+1
Ma il primo membro è un numero intero, in quanto somma di numeri tutti interi, mentre il
secondo membro ha un numeratore ec ∈ (1, 3), essendo c ∈ (0, 1), mentre il denominatore è q + 1 ≥ 3,
e questo è impossibile.
Ne segue che e 6∈ Q.
26
P.Oliva
• Calcolo dell’area sottesa da cxn
Dalla figura di destra si nota che l’area A, se b − a è piccolo, è
approssimabile con can (b−a), mentre l’area B con a(cbn −can ).
Il rapporto delle aree vale quindi
ca(bn − an )
bn − 1 + abn − 2 + a2 bn − 3 + · · · an − 1
=
can (b − a)
an − 1
che per b ≈ a, essendo il denominatore approssimabile con nan − 1 , vale n.
• La formula di Stirling
Intanto, dalla formula di Wallis, essendo
wn =
((2n)!!)2
(2n n!)4
=
((2n − 1)!!)2 (2n + 1)
((2n)!)2 (2n + 1)
si ha che
r
(n!)2 22n
√ =
(2n)! n
wn
√
2n + 1
→ π
n
Per la convessità della funzione 1/x si ha
1
≤
n + 1/2
da cui
n +1
Z
n
dx
1
= ln 1 +
x
n
n + 12
1
e ≤ 1+
n
.
Per la concavità del logaritmo si ha poi
1 + (ln 2 + ln 3 + · · · + ln(n − 1)) +
1
ln n ≥
2
Z
n
ln x dx = n ln n − n + 1 = ln(nn e− n ) + 1
1
e quindi
ln
n!
√
n
0 ≤ un =
≥ ln(nn e− n )
√
nn e− n n
≤ 1
n!
Pertanto un è limitata; inoltre è crescente in quanto
√
n + 12
(n + 1)n +1 e− n − 1 n + 1
1
un +1
n!
1
√ =
≥ 1
=
1+
un
(n + 1)!
e
n
nn e− n n
Possiamo pertanto affermare che un → u ∈ R, e quindi
u2n
→u
u2n
.
27
Qualche numero speciale
Ma
√
u2n
n2n e− 2n n
(2n)!
(2n)! n 1
√
√
=
=
u2n
(n!)2
(n!)2 22n
(2n)2n e− 2n 2n
2
e quindi, per quanto visto sopra
u = lim
e
u2n
1
= √
u2n
2π
√
nn e− n n
1
→√
n!
2π
.
Si noti che, per ogni n ∈ N
0.367879 ≈
1
1
= u1 ≤ un ≤ lim un = √
≈ 0.398943
e
2π
Indice.
I numeri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1
Il numero i . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 7
Il numero π . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 11
Il numero e . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 18
Appendice . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 23
PlainTex - DviPdf 1.1 op - 4 Giugno 2000
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