STUDI DI ARCHEOLOGIA ITALICA
COLLANA DELL’ISTITUTO DI STUDI ABRUZZESI
DIRETTA DA RAFFAELLA PAPI

Direttore
Raffaella P
Università degli Studi “Gabriele d’Annunzio” di Chieti–Pescara
Comitato scientifico
Gilda B
Sapienza Università di Roma
Larissa B
New York University
Marijke G
University of Amsterdam
Adriano L R
INASA Roma
Mario P
Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Umbria
Annette R
University of Copenhagen
Comitato redazionale
Marida D M
Patrizia S
Vienna T
STUDI DI ARCHEOLOGIA ITALICA
COLLANA DELL’ISTITUTO DI STUDI ABRUZZESI
DIRETTA DA RAFFAELLA PAPI
La collana “Studi di Archeologia Italica” nasce con l’intento di riprendere l’attività scientifica ed editoriale di «Abruzzo», rivista dell’Istituto
di Studi Abruzzesi, rimasta interrotta nel  per la prematura scomparsa del direttore Marcello de Giovanni. L’Istituto fu fondato nel 
da Ettore Paratore, contestualmente alla Facoltà di Lettere e Filosofia
della Libera Università di Chieti, della quale l’illustre latinista abruzzese fu il primo preside. Nella collana è prevista la pubblicazione di
monografie, studi collettanei non generalisti, atti di convegno e report
di scavi. Particolare attenzione è dedicata anche alle tematiche e alla
storia del territorio abruzzese con il recupero di collezioni e materiali
sparsi in musei italiani e stranieri.
Opera stampata con il contributo della Fondazione Pescarabruzzo
Ricerche d’archivio a cura di Marida De Menna
Ricerca iconografica e trattamento delle immagini a cura di Vienna Tordone
Impaginazione e revisione editoriale a cura di Patrizia Staffilani
In copertina
Busto della Dama di Capestrano, Chieti, Museo Archeologico Nazionale Villa Frigerj
In quarta di copertina
Statua di terracotta di divinità matronale in trono, Luco dei Marsi (AQ), località “Il Tesoro”,
edificio C, ambiente δ (da C )
Raffaella Papi
La donna italica
Ruolo e prestigio delle dominae dell’antico Abruzzo
Copyright © MMXIV
Raffaella Papi
Aracne editrice int.le S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Quarto Negroni, 
 Ariccia (RM)
() 
 ----
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: gennaio 
Alle mie figlie, Francesca, Chiara, Eugenia, Agnese e alle straordinarie donne della mia famiglia
che non ci sono più: mia nonna Teresa, mia madre
Maria, mia zia Elena, mia figlia Teresa.
Ringrazio tutti gli amici e i colleghi che nella stesura di questo lavoro sono stati prodighi di
indicazioni e consigli preziosi, in particolare Chiara Cretella, Agnese Massi, Anna Maria
Reggiani, Adele Campanelli, Gabriele Iaculli, Carmine Catenacci, Patrizio Domenicucci,
Maria Grazia Del Fuoco, Vasco La Salvia.
Un ringraziamento speciale va a Patrizia Staffilani, a Vienna Tordone e a Marida De Menna
che hanno condiviso in prima persona, con intelligenza e affetto, i problemi e le scelte di
un progetto scaturito da una lunga esperienza didattica.
Ringrazio infine la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Abruzzo–Chieti per la
cortese e sollecita collaborazione prestata nel corso della ricerca.
Indice
Premessa
9
Introduzione
27
Il rituale funerario
35
Il popolamento italico e la produzione metallurgica
49
1. La donna italica
55
2. Celano
61
3. Dischi-corazza e dischi di stola
71
4. Avezzano
87
5. Fossa
121
6. Capestrano
151
7. Castelvecchio Subequo
165
8. Scurcola Marsicana
171
9. Guardiagrele
183
10. Loreto Aprutino
189
11. Campovalano
213
12. La necropoli villanoviana del Salino
283
13. La necropoli picena di Tortoreto
303
14. Le principesse picene
319
15. Continuità e trasformazione
349
Tavole a colori
399
Indice dei luoghi citati
417
Bibliografia
421
Premessa
Nato nell’alveo della Post-processual Archaeology, il filone di ricerca
dell’Archeologia di Genere ha avuto uno sviluppo esponenziale
nell’ultimo trentennio (GERO-CONKEY 1991; TERRENATO 2000; CUOZZO, GUIDI 2013). Campo di applicazione privilegiato è stata
l’archeologia funeraria, soprattutto di ambito protostorico nel quale
l’ampiezza della documentazione materiale, per sua natura dinamica, è
inversamente proporzionale all’esiguità delle fonti scritte, per forza di
cose statica. L’approccio post-processuale sottolinea la polivalenza del
rituale funerario “la cui performance coinvolge molteplici rapporti tra
il defunto, il suo gruppo, la comunità e il mondo soprannaturale”
(CUOZZO 1996).
I modi e le forme del trattamento dei defunti variano nel tempo
all’interno di una stessa necropoli nella misura in cui evolve e si trasforma la comunità dei vivi. I rituali funerari costituiscono uno dei
momenti focali di comunicazione sociale nella quale entrano in gioco
nella definizione dell’identità dell’individuo, non solo gli aspetti materiali ma anche quelli ideologici e simbolici, attraverso la scelta del tipo
del seppellimento, della composizione del corredo, dell’architettura
funeraria, dell’organizzazione spaziale. Dall’analisi e dallo studio di
tutti gli elementi spazio-temporali emerge la fisionomia della comunità di appartenenza. La cultura materiale assume quindi un ruolo prioritario nella ricostruzione degli aspetti identitari delle comunità antiche
e i cambiamenti delle mode e dei rituali attraverso il tempo segnalano
la trasformazione e l’evoluzione della società in riferimento a contatti
e scambi con altre comunità.
In questo quadro, tra i vari aspetti indagati nello studio delle necropoli
italiane, molta attenzione ha ricevuto negli ultimi tempi quella del genere, cioè dei meccanismi di regolamentazione del rapporto tra i sessi,
nella misura in cui la varietà dei dati materiali deposti nelle tombe di
uomini, donne, bambini all’atto del seppellimento possono essere letti
e interpretati oltre che per se stessi per il messaggio ideologico, simbolico e comunicativo della società dei vivi che in esso si riconosce e
dichiara la propria identità.
10
Premessa
Nel quadro dell’Italia Preromana l’organizzazione sistemica dei dati
provenienti dalle necropoli costituiscono un campo di riflessione fondamentale, basandosi su complessi “chiusi” come le tombe, anche se il
passaggio società dei vivi-comunità dei morti non sempre è automatico (d’AGOSTINO 1987).
Il dibattito sesso-genere, introdotto negli anni Sessanta del secolo appena trascorso inizialmente in campo clinico (STOLLER 1968), si è poi
allargato a moltissime discipline, divenendo un approccio privilegiato
per l’analisi di molteplici oggetti di studio, nel quadro amplissimo delle teorie e degli studi messi in moto dal femminismo. Nati nell’alveo
dei Cultural Studies, i Gender Studies partono dalle premesse della
corrente filosofica del poststrutturalismo e del decostruzionismo francese. Per la Gender Theory vi è differenza tra sesso e genere: mentre il
sesso può esser dato come fatto anatomico, il genere è frutto di una
sovrastruttura culturale, e come tale deve essere analizzato (RUBIN
1975). Il genere sessuale è una categoria di analisi antropologica e storica da indagare non isolatamente, ma nel reciproco rapporto uomodonna di negoziazione e di potere che è alla base dell’organizzazione
sociale. Il filone dei Women’s Studies, iniziato negli Stati Uniti a partire dagli anni Sessanta dai movimenti femministi e con l’accesso non
più eccezionale delle donne all’insegnamento universitario, vanta ormai una letteratura di riferimento ricchissima con approcci ad ampio
spettro, filosofici, antropologici, storici, storico-artistici, ecc..
Nel quadro specifico dell’antichistica, a metà degli anni Settanta Sarah
B. Pomeroy pubblica la prima monografia sulle donne in Grecia e a
Roma utilizzando fonti letterarie a partire da Omero, storiche ed archeologiche, con l’obiettivo di scrivere una storia sociale delle donne
attraverso i secoli nel mondo greco e romano perché:
La storia delle donne dell’antichità… è un aspetto della storia sociale… poiché il passato illumina problemi contemporanei nei rapporti tra uomini e
donne… è estremamente importante notare la persistenza con cui alcuni atteggiamenti verso le donne e il ruolo di queste nella società occidentale si sono protratti attraverso i secoli… (POMEROY 1997).
In Italia, dove nel corso degli anni Settanta vennero introdotte alcune
fondamentali conquiste, come il divorzio, l’aborto, la riforma del co-
Premessa
11
dice di famiglia, l’abolizione del “matrimonio riparatore” e del “delitto d’onore”, analoghe motivazioni sono alla base degli studi di Eva
Cantarella, coinvolta nel dibattito di quegli anni, sia come studiosa di
storia del diritto sia come donna partecipe di una nuova mentalità, sulla storia della condizione femminile nell’antichità, intesa come storia
delle discriminazioni, per aiutare a capire il presente.
Nel 1981, proprio in coincidenza con l’abrogazione del “delitto
d’onore”, appare la prima edizione del saggio L’ambiguo malanno.
Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana, in
cui l’autrice amaramente osserva che
uno degli aspetti molto istruttivi di questa storia è il fatto che essa mostra
come il cammino verso l’emancipazione sia tutt’altro che irreversibile. In
concomitanza con una serie di fatti politici, economici e culturali particolarmente favorevoli, le donne che vissero nel periodo della massima espansione
di Roma ottennero il riconoscimento formale di una quasi totale parità… Ma
con la crisi dell’Impero, che non a caso coincise con il riemergere di una misoginia al cui recupero contribuì in modo tutt’altro che indifferente la predicazione dei Padri della Chiesa [RANKE HEINEMANN 1990], il terreno
guadagnato venne perduto e le donne furono sospinte di nuovo nei confini di
un mondo “femminile”, caratterizzato come sempre dalla subalternità… Oggi
molti riconoscimenti, molte conquiste fatte dalle donne sono messe in discussione, e una mentalità che sembrava finalmente e definitivamente superata
sembra riemergere dal passato… (CANTARELLA 2011, pp. 9-10).
La studiosa individua nei poemi omerici, il documento più antico della
letteratura europea, le radici della misoginia occidentale.
Su questa specifica chiave di lettura si sono confrontati nel volume
miscellaneo Misoginia e maschilismo in Grecia e a Roma vari autori
tra i quali Marta Sordi con un fondamentale saggio sulla donna etrusca, pienamente valido ancora oggi (SORDI 1981).
La scuola antropologica di matrice francese ha elaborato la categoria
di analisi definita “antropologia storica dei sessi” basata sul fondamento speculativo che applica alla ricerca storiografica la chiave di
lettura della differenza tra i sessi (GERNET 1983; VERNANT 1970;
Idem 1981; SCHMITT PANTEL 1984).
Esemplificativo di questo indirizzo è il manifesto iniziale del primo
dei cinque volumi, curato da Pauline Schmitt Pantel, della monumen-
12
Premessa
tale opera dall’antichità ai nostri giorni sulla Storia delle donne in Occidente curata da Georges Duby e Michelle Perrot:
Per molto tempo le donne sono state lasciate nell’ombra della storia. Poi hanno cominciato a uscirne, grazie anche allo sviluppo dell’antropologia,
all’attenzione dedicata al tema della famiglia, all’affermarsi della storia della
mentalità, che punta sul quotidiano, il privato, l’individuale. Soprattutto, è
stato il movimento delle donne a portarle sul proscenio della storia, ponendo
alcuni interrogativi sul loro passato e il loro futuro. E le donne hanno avviato,
dentro e fuori l’università, la ricerca sulle loro antenate, per comprendere le
radici del dominio subito e il significato dei rapporti tra i sessi attraverso il
tempo e lo spazio. …Ma occorre guardarsi bene dal credere che le donne siano oggetto di storia in quanto tali. È il loro posto nella società, la loro ‘condizione’, i loro ruoli e il loro potere, il loro silenzio e la loro parola che intendiamo comprendere. È la varietà delle rappresentazioni della donna, di volta
in volta Dea, Madonna, Strega… che vogliamo cogliere nella permanenza e
nelle trasformazioni. Una storia di relazioni, che chiama in causa tutta la società, che è storia dei rapporti tra i sessi, e dunque anche storia degli uomini.
Una storia di lunga durata – dall’antichità ai giorni nostri – che riproduce nei
cinque volumi le scansioni della storia dell’Occidente. Bilancio provvisorio,
strumento di lavoro, piacere della storia, luogo di memoria: questo ci auguriamo sia la Storia delle donne (SCHMITT PANTEL 1984).
Su questa scia Françoise Frontisi-Ducroux analizza il rapporto simbolico donna-specchio, come rappresentazione di sé nella Grecia antica e
la metafora dell’intessere come forma di comunicazione delle eroine
del mito (FRONTISI-DUCROUX, VERNANT 1998).
In Omero (Odissea, XXI, 350-353) la parola e la guerra spettano agli
uomini. L’acheo Telemaco e il troiano Ettore ricompongono l’ordine
naturale con le stesse parole rivolte rispettivamente alla madre Penelope e alla moglie Andromaca: “Torna nelle tue stanze, accudisci ai
tuoi lavori: il telaio e la conocchia. Comanda alle ancelle di badare al
lavoro” (figg. 1a-b).
Un filo sottile unisce le figure di Elena e Arianna, Penelope e Progne,
Filomela e Aracne. Un filo che, cardato e attorcigliato, ritorto su se
stesso, aggomitolato e all’occorrenza svolto, non potrebbe creare legami più saldi, tenaci e concreti. Intessuto e intrecciato da mani abili
ed esperte, cucito e ricamato su “testi” e tele, non potrebbe allacciare
vincoli più stringenti e intriganti. Le donne parlano per mezzo della
techne, dono divino di Atena, abilità tutta manuale di tessere erga pe-
Premessa
13
rikalléa, opere bellissime. Elena tesse e ricama sulla tela il testo senza
parole delle imprese eroiche che Omero canta. Filomela, stuprata dal
cognato, che le ha mozzato la lingua per impedirle di parlare, invia alla sorella Progne come dono di nozze un lenzuolo ricamato con la
scena del delitto. Arianna sulla soglia del labirinto srotola il filo che
conduce alla salvezza (FRONTISI-DUCROUX 2010).
Nel mito greco, le Moire, Cloto, Lachesi e Atropo, stabilivano filando
il destino degli uomini (Esiodo, Teogonia, 211-222).
Partendo dalla psicanalisi di Lacan e dalla filosofia di Heidegger e
Derrida, Luce Irigaray (IRIGARAY 1990), a partire dagli anni Ottanta,
sviluppa in Francia il pensiero della differenza sessuale, ripreso in Italia dalla comunità filosofica Diotima, che rivaluta il femminile come
istanza positiva e civilizzatrice e non unicamente dal punto di vista
della separazione e dell’oppressione.
In particolare il ruolo della madre è centrale nella linea di trasmissione
di saperi e poteri definita “matrilineare”. Su questa linea d’onda si pone l’opera di Valeria Andò che, attraverso un’attenta e rigorosa analisi
filologica delle fonti letterarie, mette a fuoco la complessità degli
aspetti del mondo femminile nell’antica Grecia. Perchè il pensiero della differenza
… ha consentito alle donne, attraverso l’iscrizione in una linea genealogica
materna, di riconoscersi in un nuovo ordine simbolico, quello appunto femminile e materno, riattualizzato nella pratica politica di relazioni tra donne,
produttrice di spazi autonomi di libertà… (ANDÒ 2005, p. 24).
Nell’introduzione al volume miscellaneo Il femminile tra Oriente e
Occidente Anna Maria Pezzella indica le linee programmatiche della
ricerca già percorsa da Eva Cantarella:
… per le donne è necessario, ed ancor più oggi, in un momento in cui sembra
che certe conquiste siano assodate e definitive, capire quali ne siano le origini, per poter maturare una chiara consapevolezza di se stesse. Una coscienza
che cresce attraverso il confronto con l’altro genere, con le altre culture, con
le altre donne, confronto che le metterà in grado di capire gli ambiti più consoni alla loro modalità di sentire, di pensare, di essere. La differenza sessuale… è anche indice di una diversa modalità di sentire, di relazionarsi agli altri, al mondo, alla stessa natura. In fondo ogni donna è potenzialmente madre,
ha un rapporto con la natura più profondo rispetto all’uomo e ciò le consente
14
Premessa
di essere più vicina al vivente… ed è ciò che segna la differenza… (ALES
BELLO, PEZZELLA 2005, pp. 6-7).
Nello stesso volume Giulia Sfameni Gasparri, attraverso un’ampia e
articolata disamina delle fonti greche e latine, indaga gli spazi della
comunicazione femminile nell’antichità, evocando alcune figure di
letterate e filosofe, capaci di autonomia di pensiero e libertà in un
mondo dominato dagli uomini (ALES BELLO, PEZZELLA 2005, pp. 1376). Si tratta di una lettura del tutto nuova delle mute donne del passato delle quali parlano le fonti storiche e letterarie scritte da uomini,
che può essere applicata altrettanto efficacemente alle donne silenziose per sempre portate alla luce dall’archeologia funeraria. Esse ci parlano con gli ornamenti che indossarono per l’ultimo viaggio e con gli
oggetti del corredo personale deposti dalla pietà dei sopravvissuti.
Nell’ottica della contrapposizione uomo-donna la lettura tutta al femminile del Neolitico europeo di Marija Gimbutas ha indagato
l’immaginario simbolico dei segni ricorrenti nella cultura materiale
che celano nel loro apparente astrattismo riferimenti alla natura, costituendo “… la grammatica e la sintassi di una sorta di metalinguaggio
attraverso il quale è stata trasmessa tutta una costellazione di significati e rivela la visione del mondo diffusa nella cultura dell’Europa Antica (ossia pre-indoeuropea)”. I modelli iconografici dell’Europa Antica, letti e interpretati come sistema religioso coerente e organizzato,
attraversano i confini del tempo e dello spazio, dal Medio-Oriente al
Sud-est europeo, dal Mediterraneo all’Europa centrale, occidentale e
settentrionale.
Il principale tema del simbolismo della Dea è il mistero di nascita, morte e
rigenerazione, non soltanto della vita umana ma di tutta la vita sulla terra e
anzi nell’intero cosmo. Simboli e immagini si coagulano intorno alla Dea
partenogenetica (autogenerantesi) e alle sue funzioni di Datrice della Vita,
Reggitrice della Morte, e – non meno importante – Rigeneratrice e intorno alla Madre Terra, la Dea di Fertilità che è giovane e vecchia ad un tempo, sorgendo e morendo insieme alla vita delle piante… L’arte incentrata sulla Dea
riflette un ordine sociale in cui le donne, come vertici di clan o sacerdotesseregine giocavano un ruolo centrale… È un sistema sociale equilibrato, né patriarcale, né matriarcale quello che emerge dalla religione, dalle mitologie,
dal folklore e dagli studi sulla struttura sociale delle culture antico-europea e
minoica, avallato dalla continuità di elementi di un sistema matrilineare
Premessa
15
nell’antica Grecia, in Etruria, a Roma, nei paesi baschi e in altri paesi europei… Nel V millennio a.C., una cultura neolitica assai diversa, con cavalli
addomesticati e armi letali, emerse nel bacino del Volga… Questa nuova forza cambiò inevitabilmente il corso della preistoria europea. Io la chiamo cultura Kurgan (in russo Kurgan significa tumulo), perché i morti venivano sepolti in tumuli circolari che coprivano le dimore funebri dei maschi importanti… Le incursioni delle genti Kurgan – che considero protoindoeuropee – misero fine alla cultura dell’Europa antica tra il 4300 e il 2800 a.C., trasformandola da gilanica [EISLER 1987] in androcratica e da matrilineare in patrilineare… Stiamo ancora vivendo sotto il dominio di quella aggressiva invasione maschile e solo appena iniziando a riscoprire la prolungata alienazione
dalla nostra autentica Eredità Europea… (GIMBUTAS 1989, pp. 20-21).
L’idea evoluzionista di una priorità temporale del “diritto materno”
come stadio necessariamente precedente del “diritto paterno” è alla
base della teoria del matriarcato, elaborata da Bachofen nella seconda
metà dell’ottocento, alla quale si richiamano diversi studiosi agli inizi
del XX secolo. Tra questi Jane Harrison, esponente di spicco della
“scuola di Cambridge”, che ha esplorato la sopravvivenza della condizione matriarcale nel mito greco.
Secondo la studiosa la forma primitiva di società non è matriarcale ma
matrilineare, essendo la donna non la forza dominatrice, successivamente imposta dagli uomini, ma il centro sociale, essendo madre, colei che alleva i figli, che si identifica nella dea curotrofa, colei che alleva i koùroi (HARRISON 1912).
In questo quadro generale di riferimento, dietro la spinta dell’aumento
esponenziale della documentazione materiale dovuta a scavi estensivi
e a scoperte eccezionali, notevole impulso negli ultimi anni ha avuto
un indirizzo di ricerca focalizzato sulla componente femminile delle
società protostoriche, soprattutto da parte di archeologhe.
Esemplari a questo proposito sono gli studi per l’area etrusca e laziale
di Gilda Bartoloni e della sua scuola (BARTOLONI 2000; Eadem 2003;
Eadem 2007; Eadem 2008; BARTOLONI, TALONI 2009; PITZALIS 2011)
e di altre studiose come Larissa Bonfante, Annette Rathje, Anna Maria
Bietti Sestieri (RATHJE 2000; BONFANTE 2009; BIETTI SESTIERI 2009).
Antonia Rallo aveva già curato un volume di saggi di vari autori sulla
donna etrusca (RALLO 1989), tornando sull’argomento con una breve
sintesi nelle mostre di Venezia e di Roma (RALLO 2000; Eadem 2008).
16
Premessa
Patrizia Von Eles ha curato nel 2007 una mostra a Verucchio efficacemente intitolata: Le ore e i giorni delle donne, con contributi importanti di studiosi di diverse aree dell’Italia Preromana (Verucchio
2007). Considerazioni generali sulla donna etrusca sono state espresse
da Bruno d’Agostino (BETTINI 1993), mentre uno studio fondamentale
è quello che Torelli costruisce partendo dal trono di Verucchio (TORELLI 1997). In polemica con l’impostazione degli studi italiani si pone Rebecca Whitehouse (WHITEHOUSE 1998). Una rassegna di studi di
genere nell’ambito della preistoria è stata curata recentemente da Bolger (BOLGER 2013). Per quanto riguarda l’area centro-appenninica e
medio-adriatica, intensamente scavata negli ultimi decenni, va registrato il tentativo di applicazione del modello di gender di C. L. Luttikhuizen alle necropoli arcaiche della zona medio-adriatica abruzzese
(LUTTIKHUIZEN 2000).
Sul tema specifico della condizione femminile nel mondo italico, dietro la spinta delle ultime scoperte di Fossa e di Avezzano (Fossa I;
Fossa II; CAMPANELLI 2006), ho focalizzato alcune osservazioni preliminari sulla cultura materiale, a lungo fraintesa dagli studi di settore
e punto di partenza obbligato per la ricostruzione di un quadro culturale d’insieme dello sviluppo della civiltà locale (PAPI 2004; Eadem
2006; Eadem 2006a; Eadem 2007).
Nelle tombe femminili venivano deposte quelle categorie di materiali
relative alla sfera tradizionale di azione dell’universo femminile antico, contraddistinto da due fattori principali: la tendenza naturale alla
bellezza e all’eleganza da un lato e la cura costante dedicata alle attività connesse al ruolo di regina del focolare domestico dall’altro.
Si tratta di due aspetti apparentemente in contraddizione tra loro ma
che nella mentalità antica concorrevano insieme a delineare quelle caratteristiche e quelle qualità appannaggio di donne di elevato rango
sociale, come le regine evocate da Omero, quali Elena e Penelope,
donne agli antipodi secondo l’immaginario moderno.
Stereotipi entrambe, confinate l’una nel ruolo di “bella e dannata”, la
classica “sciupauomini-rovinafamiglie” che provoca qualcosa come
una guerra mondiale dell’antichità, abbandonando il tetto coniugale
per fuggire con l’amante a Troia, mentre l’altra rappresenta la quintessenza della moglie casta e devota, della donna per bene, l’angelo del
Premessa
17
focolare “al di sopra di ogni sospetto” che ogni uomo vorrebbe per
moglie (CANTARELLA 2004).
Le divinità tutelari di questi due aspetti imprescindibili per gli antichi
del fascino femminile erano da un lato Afrodite, preposta alla sfera
della seduzione e del piacere sessuale, gli erga gámoio (Omero, Iliade
V, 348-349; 428-430), dall’altro Atena, nata in armi dalla testa di
Zeus, che oltre a presiedere con Ares alle attività belliche eminentemente maschili, i poleméia erga, per prima insegnò agli uomini a “costruire carri adorni di bronzo e poi alle vergini dalla pelle delicata, nelle loro stanze, insegnò opere splendide, ponendole nella mente di ciascuna” (Inno omerico V, 9-15). Gli erga perikalléa sono i prodotti
della tessitura, che mette a frutto la metis, l’intelligenza. Il sapere
femminile come quello dei tektones, degli artigiani del bronzo e del
legno è messo sullo stesso piano delle opere di Ares (ANDÒ 2005, p.
41). Elena non manca di sedurre con la sua bellezza i vecchi Troiani
sugli spalti delle mura, passando in rassegna il formidabile schieramento acheo, fino a giustificare la propria sventura e quella dei nemici
“Non è vergogna che i Teucri e gli Achei schinieri robusti / per una
donna simile soffrano a lungo dolori: / terribilmente, a vederla, somiglia alle dee immortali!” (Omero, Iliade III, 156-158).
Ma Omero dice che anche Elena dalle bianche braccia attendeva
all’interno della casa a tessere attorniata dalle ancelle. L’epiteto omerico “dalle bianche braccia”, testimoniato dagli affreschi dell’età del
bronzo e dalla ceramica attica che mostrano donne dalla pelle bianca e
uomini abbronzati è indicativo della dimensione casalinga del lavoro
femminile. Nell’Iliade la prima apparizione di Elena è al telaio: “… la
trovò nella sala: tesseva una tela grande, / doppia, di porpora, e ricamava le molte prove / che Teucri domatori di cavalli e Achei chitoni
di bronzo / subivan per lei, sotto la forza di Ares” (Omero, Iliade III,
125-129). Nell’Odissea appare, bellissima, nella sala del banchetto
dove Menelao intrattiene gli ospiti, accompagnata dalle ancelle che
portano l’occorrente per filare seduta in trono (Omero, Odissea IV,
121-135). Su troni dalla spalliera ricurva siedono le dame etrusche
rappresentate sul tintinnabulo di Bologna intente al lavoro di tessitura,
mentre le ancelle si affannano attorno a loro (MORIGI GOVI 1971).
Penelope che sembra insensibile alle lusinghe dei corteggiatori e intenta solo a tessere una splendida e interminabile tela per tenere a bada
18
Premessa
i pretendenti, una volta scoperto l’inganno, accetta sia pure con ritrosia, i complimenti di Eurimaco e dichiara che sposerà quello dei Proci
che le offrirà i doni più belli. Ulisse è presente in incognito alla scena:
“…e l’eroe gioì ch’ella in tal modo/ de’ Proci i doni procurasse, e loro/ molcesse il petto con parole blande,/ mentre in fondo al core altro
volgea” (Omero, Odissea XVIII, 348-351). All’invito della regina, che
aveva fatto il suo ingresso nel mègaron sfoderando il suo fascino:
“come tra i pretendenti fu la donna bellissima, / si fermò in piedi accanto ad un pilastro del solido tetto, / davanti alle guance tirando i veli
lucenti”, i Proci ammaliati e sedotti, fanno a gara per conquistarla e
spediscono a casa i servi a prelevare dal patrimonio personale i gioielli
più preziosi:
… l’araldo un grande / recò ad Antinoo e vario e assai bel peplo, che avea
dodici d’or fibbie lampanti, / con ardiglioni ben ricurvi attate / Eurimaco un
monile addur si fece / d’oro, e intrecciato d’ambra, opra da insigne / mastro
sudata, che splendea qual sole. / Due serventi portarono a Euridamante / finissimi orecchini atre pupille, / donde grazia infinita uscìa di raggi. / Fregio
non fu men prezioso il vezzo, / che re Pisandro, di Polittor figlio, / dalle mani
d’un servo ebbe; e non meno / belli d’ogni altro Acheo parvero i doni. / La
divina Penelope, seguita / dall’ancelle, coi doni alle superne / stanze saliva; e
i Proci al ballo e al canto… (Omero, Odissea XVIII, 359-375).
Mentre Penelope si ritira nel gineceo scortata dalle ancelle, a valutare
e a soppesare con esse i doni estorti ai corteggiatori con false lusinghe,
gli uomini si abbandonano ai piaceri del banchetto. La scena è emblematica della rigorosa separazione nel mondo greco tra uomini e
donne. La descrizione degli splendidi gioielli recati in dono evoca
quelli reali trovati nelle tombe principesche dell’Orientalizzante, mentre l’accenno all’insigne maestro realizzatore del monile d’oro intarsiato d’ambra materializza quelle maestranze genericamente orientali,
e in particolare fenicie, alle quali dobbiamo la straordinaria fioritura
dell’artigianato artistico nel Mediterraneo a partire dall’VIII secolo
a.C., che trova in Etruria le manifestazioni più spettacolari proprio
nell’ambito dell’ornatus delle dame di elevato rango sociale.
In Abruzzo oggetti funzionali al mundus muliebris compaiono alla fine del II millennio a.C.. Il corredo della tomba 4 della necropoli di Celano (datazione assoluta 919 a.C.) con una fibula da parata con arco a
Premessa
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gomito, lunga 23 cm, accompagnata da una seconda fibula a due pezzi
di 14 cm, entrambe riccamente decorate (cfr. PERONI 1989, figg. 27,
30, tipi del Bronzo Finale), da un pettine di legno e da un ago di bronzo rappresenta, allo stato attuale, la più antica codificazione simbolica
di quegli aspetti essenziali del mondo femminile che si volevano sottolineare come fattori di identità sociale: gli ornamenti personali come
indicatori di ricchezza e di status, gli strumenti delle attività tipicamente femminili come cucire, filare, tessere, come tratto distintivo di
eccellenza personale.
Nel corso dell’VIII secolo a.C. appaiono evidenti segni di articolazione sociale nella necropoli di Fossa con i primi corredi femminili
emergenti. A partire dall’Orientalizzante Recente, dalla seconda metà
del VII secolo a.C. fino ai primi decenni del V, la necropoli di Campovalano costituisce la documentazione più ampia della fase di massima fioritura delle comunità del territorio, quando ai vertici della società si stabilizzano aristocrazie locali profondamente etruschizzate e
le dominae sfoggiano corredi principeschi con oggetti di lusso di provenienza esotica. Verso la fine del VI secolo a.C. un monumento eccezionale, senza confronti nell’Italia preromana, la statua femminile di
Capestrano, ci restituisce il ritratto purtroppo mutilo di una principessa. Nella stessa necropoli una tomba maschile e una femminile dei
primi decenni del secolo successivo esibiscono ancora servizi da banchetto di bronzo di provenienza etrusca, in parallelo con le attestazioni
di Campovalano. Gli scavi intensivi dell’ultimo ventennio hanno portato in luce, soprattutto nel territorio della provincia de L’Aquila, occupato in età storica dai Vestini Cismontani (cioè quelli al di qua del
Gran Sasso, Mons Fiscellus, secondo il punto di vista di Roma) con i
centri di Aveia (Fossa) e Peltuinum (Camporosso-San Pio delle Camere), necropoli estese composte da centinaia di sepolture. Alcune adeguatamente pubblicate come quella di Fossa (Fossa I; Fossa II) con
cinquecentosettantacinque tombe, altre in corso di edizione come
quella di Bazzano con milleseicentosessantadue sepolture, quella di
Varranone-Poggio Picenze con oltre duecento tombe, quella di Cinturelli a Caporciano con duecentoventotto sepolture (REGGIANI 2008).
L’evidenza archeologica della prima età del Ferro nell’area teramana,
limitatamente alla documentazione riferibile a contesti femminili di alto profilo, offre un quadro assolutamente anomalo nel contesto regio-
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nale. Se i costumi funerari hanno valore di identità etnica, sembra
chiaro che nella zona di frontiera storicamente abitata dai Pretuzi convivevano tra il IX e l’VIII secolo a.C. comunità diverse per origine,
etnia e cultura. Sulla base delle scoperte di fine Ottocento, accuratamente documentate all’epoca da Edoardo Brizio con le relazioni apparse sulle Notizie degli Scavi di Antichità (1886, 1901, 1902), sappiamo che il corredo femminile di Basciano, depositato all’epoca nel
museo di Teramo, con una gigantesca fibula a foglia da parata lunga
33 cm era riferibile ad una deposizione distesa in fossa, priva di ceramiche, con copertura di pietre, secondo il rituale funerario consueto
nel territorio.
Se l’enclave villanoviana di Fermo nel Piceno, con le oltre trecento
tombe scoperte finora (DRAGO TROCCOLI 2003), ha restituito in tutto
quattro o cinque cinturoni femminili di bronzo a losanga, un vero e
proprio fossile-guida del Villanoviano tirrenico, i sette cinturoni dello
stesso tipo, recuperati da Giulio Gabrielli alla fine dell’Ottocento in
una necropoli non localizzata con precisione nel territorio di Civitella
del Tronto (necropoli di Salino) e depositati nel museo di Ascoli Piceno, devono essere riferiti a dame etrusche di alto profilo sociale. È
ipotizzabile che nuclei sepolcrali di dimensioni ragguardevoli dovevano essere pertinenti a uno o più insediamenti di gruppi consistenti,
provenienti con tutta probabilità dall’Etruria Meridionale, a giudicare
dalla tipologia dei materiali. Come a Fermo, questi gruppi hanno conservato per qualche secolo, tra IX e VIII, le caratteristiche della cultura materiale d’origine per poi essere assorbiti dalla cultura locale (PAPI
2004).
Con tutta probabilità a questa colonia villanoviana, forse più consistente di quella marchigiana di Fermo, va riferita la presenza nel resto
del territorio di elementi sparsi, come ad esempio i vasi di bronzo della tomba di guerriero n. 551 di Fossa (fig. 5.12), il biconico di bronzo
dalla necropoli Le Castagne di Castel di Ieri e di Castelvecchio Subequo (fig. 7.4a), la fibula da Loreto Aprutino con arco a sanguisuga di
dischetti digradanti di bronzo (fig. 12.13a).
Negli stessi anni furono esplorate con scavi più o meno regolari alcune tombe in località Badetta di Tortoreto, contraddistinte dal tipico rituale piceno della deposizione rannicchiata su letto di ghiaia. In particolare un ricco corredo femminile di IX secolo a.C. comprendeva di-
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verse collane di ambra e pasta vitrea, un pettorale a piastrina triangolare con protomi di anatrelle stilizzate, fibule ad arco di violino, nuclei
d’ambra per fibule di grandi dimensioni, una coppia di armille a fettuccia costolata a giri multipli, nonché le tipiche ceramiche della fase
Piceno II (LOLLINI 1976). L’appartenenza di Tortoreto, sulla costa
adriatica immediatamente a sud del Tronto, all’ambito culturale propriamente “Piceno”, in piena coerenza con le attestazioni marchigiane
e in totale anomalia nel contesto abruzzese, impone di riconsiderare
l’annosa quaestio della dicotomia Piceno/Medioadriatico, posta da
Delia Lollini e Valerio Cianfarani a metà degli anni Settanta (P.C.I.A.
1976). Alla luce di questa testimonianza e di altre considerazioni che
saranno esposte nelle pagine che seguono, la soluzione del problema
non può essere semplicemente l’omologazione culturale tra Marche e
Abruzzo, defininendola tout-court picena, ribadita nella sintesi di
Maurizio Landolfi (LANDOLFI 1988) e riproposta da ultimo da Giovanni Colonna con la mostra sui Piceni di Francoforte del 1999, intitolata Piceni, popolo d’Europa (Piceni 1999). L’immagine del Guerriero di Capestrano (fig. 3) che campeggia sulla copertina del Catalogo
sembra un “messaggio subliminale” per qualificarlo etnicamente e
culturalmente “piceno”. In considerazione delle fondamentali attestazioni di Penna Sant’Andrea (LA REGINA 2010) e in attesa che le future
scoperte chiariscano meglio la questione della definizione e
dell’assestamento dei popoli della Regio IV prima della conquista romana, estendendo l’affermazione di Strabone a Sabinis orti sunt riferita ai Sanniti, ultimamente è invalso nell’uso il termine safino.
I Sanniti, parte integrante e imprescindibile della grande unità paleosabellica, tagliati fuori ingiustamente dalla mostra sui Piceni, hanno
avuto a cura di Adriano La Regina, in contemporanea, una mostra a
Roma intitolata L’Italia dei Sanniti (LA REGINA 2000).
Le fonti scritte di cui disponiamo sui Sabini sono essenzialmente quelle riferite da Livio e Plutarco relative alla tradizione delle origini di
Roma. L’onore e il rispetto di cui godevano le donne italiche sono testimoniati da Plutarco nella Vita di Romolo, il quale dopo il ratto, concesse alle donne Sabine, ormai integrate nel contesto sociale della città, privilegi evidentemente consueti nella comunità di origine, e cioè
l'esenzione da ogni lavoro e da ogni fatica, tranne la filatura della lana.
L’episodio, momento essenziale della fondazione di Roma, è assurto a
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paradigma dell’esaltazione della virtù femminile e dell’istituto matrimoniale (BERNARDINI 2009).
Il racconto di Plutarco è denso di implicazioni, nel senso di alcune
forme tradizionali di galanteria ottocentesca:
Le donne dunque erano oggetto di molte altre forme di rispetto, tra le quali ci
sono anche le seguenti: si cedeva loro il passo quando camminavano per la
via; nessuno poteva dire in presenza di una donna nulla di sconveniente, né
mostrarsi nudo, altrimenti subiva un procedimento penale nei tribunali competenti per gli omicidi, i loro figli potevano portare la bulla, chiamata così per
la forma, un oggetto intorno al collo simile ad una bolla, e la veste bordata di
porpora (Plutarco, Vita di Romolo 20, 4).
Il passo
Si è poi mantenuto fino ad oggi l’uso che la sposa non varchi da sé la soglia
della camera, ma la si porti dentro sollevandola, perché anche allora le Sabine
furono portate con la forza, e non entrarono spontaneamente (Plutarco, Vi-
ta di Romolo 15, 6)
evoca la scena finale dei cosiddetti film “d’amore” in bianco e nero
degli anni Cinquanta, soprattutto americani, con i protagonisti che coronano con il matrimonio il loro sogno d’amore, dopo lunghe traversie. Le tracce archeologiche dell’eredità del mondo ideologicoreligioso delle Sabine di Romolo che riuscirono a fermare la guerra e a
costruire la pace con la fusione tra i due popoli, sono state ravvisate
nei sarcofagi in terracotta della necropoli romana del Quirinale, in
forma di nodoso tronco di quercia. Esplicito e significativo collegamento alla tradizione originaria del seppellimento all’interno di un
tronco d’albero scavato, codificato nelle tombe femminili della necropoli di Celano, che allo stato attuale delle nostre conoscenze costituiscono l’archetipo di un rituale funerario assolutamente peculiare delle
popolazioni che potremmo definire complessivamente safine nei primi
secoli del I millennio a.C. e italiche in età storica.
Le fonti letterarie attribuiscono anche alle donne sabine come alle
donne etrusche e latine il privilegio dell’uso del carro.
Nel sesto canto dell’Odissea Nausicaa guida personalmente il cocchio
per recarsi alla fonte con le ancelle: “Lei prese la frusta e le lucide bri-
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glie / e frustò per andare; e fu un trottare di mule, / che si tendevano
senza riposo…” (Omero, Odissea, VI, 81-83).
L’importanza del carro come status symbol delle donne di rango di età
orientalizzante e arcaica (VII-VI secolo a.C.) trova ampia conferma
nelle testimonianze archeologiche con deposizioni femminili principesche (BARTOLONI, GROTTANELLI 1984) e in una lunga serie di monumenti figurati. Nei rilievi della Basilica Emilia, tra gli episodi delle
origini di Roma, è rappresentata la scena che raffigura il momento del
ratto, in cui compare un carro trainato da mule, di cui le Sabine si sarebbero servite per recarsi ad assistere alla festa delle Consualia e che
le attendeva dopo lo spettacolo per ricondurle ai loro villaggi (ARYA
2000). Nella deposizione della Regina di Sirolo della fine del VI secolo a.C., insieme al ricchissimo corredo con due carri, erano seppellite
anche due mule, evidentemente sacrificate per l’ultimo viaggio della
padrona (LANDOLFI 2001). Uno dei rilievi della regia di Murlo mostra
un corteo nuziale, con la sposa seduta sul carro accanto alla madre, riparate da un grande ombrello (fig. 2b). Il calesse è trainato da una
coppia di mule, condotte per la cavezza da due inservienti, seguono
due ancelle che portano la dote in bilico sulla testa: gli arredi della casa maritale, uno sgabello e un grande cesto con coperchio probabilmente di vimini, contenente il corredo, in mano altri oggetti e il flabellum. La scena di matrimonium, poiché è la madre che conduce la figlia
verso la nuova condizione di donna sposata, è paradigmatica del viaggio nell’oltretomba. Nel rilievo frontale della cassa di un’urnetta volterrana (MARTELLI, CRISTOFANI 1977) la defunta spunta dal carpentum, trainato da una coppia di mule, in posizione analoga a quella della defunta, rappresentata sul coperchio semisdraiata come fosse a banchetto (fig. 2a). Su uno dei lati brevi del sarcofago dei Tetnies da Vulci, conservato a Boston, la defunta è seduta sul calesse, abbracciata alla madre che l’accompagna nell’ultimo viaggio, come l’aveva accompagnata alla casa maritale. Sul coperchio i due sposi si stringono
nell’ultimo abbraccio (TORELLI 1997). Il tema ricorre anche nella pittura funeraria di Paestum. Su una lastra della tomba 89 della necropoli
di Andriuolo è dipinto un carro trainato da una coppia di mule (PONTRANDOLFO, ROUVERET 1992, p. 172).