1 Strumenti e metodi interpretativi 3 matori (domanda) che dispongono di redditi monetari (salari) ricavati lavorando nelle imprese. Un flusso monetario collega continuamente consumatori e imprese e i comportamenti degli uni e delle altre dipendono dai prezzi dei beni e servizi prodotti combinando i fattori scarsi (terra, capitale e lavoro) nel modo più efficiente possibile. Gli economisti studiano i comportamenti e le attitudini di produttori e consumatori nell’ipotesi che il mercato trovi spontaneamente un punto d’equilibrio fra offerta e domanda dei fattori, dei beni e dei servizi, tendendo all’ottima combinazione e al pieno utilizzo di terra, capitale e lavoro. 1.2 Interazioni e interdipendenze In prospettiva storica, le relazioni economiche fanno parte di un macroinsieme di relazioni sociali e culturali riconducibili ad almeno quattro differenti sottoinsiemi fra loro interdipenenti: 1. l’ambiente; 2. la struttura e la dinamica delle popolazioni; 3. le istituzioni politiche (forme ed esercizio del potere) e giuridiche (norme positive e consuetudini); 4. le gerarchie sociali (l’ordine esistente tra i diversi ceti). L’ambiente è il campo di studio delle scienze naturali e della geografia – la scienza degli uomini nello spazio – che s’interessa degli influssi esercitati dalla natura sulle società umane e delle trasformazioni in vario modo apportate alla natura dagli uomini. Nel considerare l’interazione fra fattori fisici (posizione, clima, vegetazione, acque, suolo, risorse naturali) e fattori antro- Ambiente Istituzioni politiche e giuridiche Popolazione Organizzazione e/o sistema economico Gerarchie sociali 1 Strumenti e metodi interpretativi 5 c) erano luogo d’incontro per lo scambio (fiere e mercati periodici) dei manufatti artigianali e delle derrate agricole eccedenti rispetto al fabbisogno di quanti le producevano principalmente per consumarle. Gli ostacoli naturali e istituzionali (confini di stato, dazi e gabelle) che intralciavano i movimenti di merci a media e lunga distanza favorirono la crescita economica e urbanistica delle città portuali e di quelle interne situate lungo fiumi e/o canali navigabili, giacché le vie d’acqua esigevano meno tempo e bassi costi di trasporto. Grandi città marinare come Venezia, Genova, Napoli, Palermo, Messina, Marsiglia e Barcellona nel Mediterraneo e Lisbona, Bordeaux, Londra, Amsterdam, Amburgo e Brema sulle rive dell’Atlantico e del Mar del Nord, per secoli furono centri densamente popolati nei quali si concentravano funzioni economiche terziarie (commercio all’ingrosso, vettori marittimi, banche e assicurazioni). ☞ Struttura e dinamica della popolazione. La popolazione è un complesso organismo incessantemente soggetto a mutamenti dovuti a processi naturali: nascite-morti e a processi sociali: unioni, matrimoni e migrazioni. La storia della popolazione si distingue in due epoche a partire da un lungo spartiacque cronologico situato tra la metà del XVIII secolo e quella del XIX. Da allora in poi, a cominciare dall’Europa occidentale, iniziò un processo di prolungata crescita che più tardi coinvolse le Americhe e l’Asia e, dal Novecento, interessò anche Africa e Oceania, dando origine a un processo d’incessante aumento della popolazione mondiale. Tabella 1.1 La dinamica di lungo periodo della popolazione mondiale (stime in milioni di persone) Epoche/continenti 1000 1500 1750 1900 1950 2005 Europa Asia Africa Americhe Oceania Totali 39 177 50 13 1 280 68 231 85 41 2 427 130 484 100 15 2 731 394 1007 122 144 6 1.673 544 1.395 219 330 13 2.501 706 3.847 871 943 34 6.401 Fonte: J.D. Durand, «Historical Estimates of World Population: an Evaluation», Population and Development Review, III, 1977, con aggiornamento L’avvio di un processo di crescita sinora ininterrotto coincise con l’avvento di migliorate condizioni di vita e con l’adozione di misure igienicosanitarie pubbliche e private. Tenori di vita cambiati in meglio favorirono un aumento della fecondità mentre l’adozione di precauzioni igieniche attenuarono la mortalità, in generale, e quella infantile in particolare (vedi 2 L’ereditàmedievale (1347-1530) 2.1 La ripresa della popolazione dopo la peste nera 2.1.1 La dinamica di lungo periodo Attorno all’anno Mille, la popolazione europea, che secondo ragionevoli stime ammontava a circa 40 milioni di persone, cominciò a crescere fino ai primi del Trecento, quando oltrepassò i 90 milioni. Fra la fine del Duecento e il primo Trecento, una fase climatica sfavorevole – estati siccitose e inverni particolarmente rigidi – causò frequenti fallimenti dei raccolti (grano, segale e orzo erano la base alimentare delle popolazioni). Un peggioFigura 2.1 Tempi di diffusione della «peste nera» in Europa Fonte: E. Carpentier, Autour de la Peste Noire, Annales E.S.C., XVIII, 1962 2 L’eredità medievale (1347-1530) 13 ramento per molti anni di seguito delle diete della maggior parte degli abitanti fu all’origine di un calo delle nascite. Dal novembre 1347, su una popolazione debilitata, s’abbatté la peste bubbonica (la cosiddetta «peste nera»). Il bacillo della Yersinia pestis si diffuse in Europa occidentale a partire da Messina e Genova dove attraccarono navi provenienti dalla Crimea. Risalendo il continente da sud a nord, il contagio giunse in Francia settentrionale nel settembre del 1348, in Inghilterra nel giugno dello stesso anno e in Norvegia nel dicembre del ’49. Nel 1350, dalla Germania e dalla Polonia, il morbo si diresse a oriente verso le steppe russe dove la bassa densità della popolazione, nel 1353, ebbe ragione della sua forza distruttiva. L’incapacità d’organizzare efficaci difese igieniche e sanitarie ebbe effetti drammatici: da poco meno di 100 milioni, alla vigilia dell’infezione, gli europei scesero a circa 65 milioni attorno all’anno 1400. Oltre alla tragica scomparsa di almeno un terzo degli abitanti, vanno considerati gli effetti di lungo periodo sugli immaginari collettivi e nella vita quotidiana, collegati all’insediarsi del morbo come malattia ricorrente. Figura 2.2 Andamento annuale dei decessi ad Arezzo, 1388-1540 (media del periodo = 100) 900 Arezzo Fonte: N.J.G. Pounds, An Economic History of Medieval Europe, London 1974, p. 154 Nel secondo Trecento e per tutto il Quattrocento, la peste si ripresentò periodicamente. In Italia, per esempio, nell’arco di centocinquant’anni visitò città e campagne almeno una decina di volte. La serie annuale delle sepolture avvenute in Arezzo, dal 1390 al 1540, è un’efficace testimonianza del ritmico ritorno del contagio segnalato da impennate dei decessi. Con il passare del tempo, l’effetto distruttivo del morbo diminuì e, dal 1530 in poi, la dinamica demografica generale d’Europa si orientò decisamente verso la crescita, tanto che, a fine Cinquecento, la popolazione guadagnò livelli (108/111 milioni) superiori a quelli della vigilia della peste nera (92/97 milioni). 1540 1530 1520 1510 1500 1490 1480 1470 1460 1450 1440 1430 1420 1410 1400 200 100 0 1390 500 14 L’Europa verso il mercato globale Figura 2.3 Andamento della popolazione europea dall’anno Mille all’anno 1700 (milioni) 160 120 80 40 0 1100 1200 1300 1400 1500 1600 1700 Fonte: M. Cattini, Introduzione alla storia economica moderna e contemporanea del mondo (secoli XV-XX), Ca’ Sanguinetti, Modena, 2000 2.1.2 L’azione delle variabili demografiche L’andamento della popolazione dell’Europa preindustriale può essere paragonato alla tela di Penelope perché le variabili all’opera, matrimoni, nascite e sepolture, convenzionalmente misurate sull’arco di un anno per ogni mille abitanti (nuzialità, natalità e mortalità), raramente erano stabili e incorrevano in frequenti prolungate fasi di squilibrio. Le indagini condotte per i secoli XV-XVIII hanno permesso di precisare le dinamiche demografiche di breve (un anno), medio (un decennio) e lungo periodo (più di un secolo) distinguendo fasi di crescita duratura, in assenza di guerre, carestie e pestilenze, da periodi di crisi riconoscibili per l’arresto dei matrimoni, il crollo dei concepimenti e l’impennarsi delle sepolture. Presso le società europee tradizionali, l’abilitazione a procreare coincideva con il rito del matrimonio sicché, fino alla metà del Settecento, le nascite illegittime raramente superarono la percentuale del 2-3 per cento. Nell’Europa occidentale, dove dal Cinquecento dominò la famiglia nucleare (marito, moglie e figli) e neolocale (con una residenza autonoma dopo le nozze), la formazione d’ogni nuovo ménage dipendeva dalle possibilità della coppia di metter su casa e di fronteggiare le spese del nascente nucleo familiare. Entrambe le condizioni avevano forti implicazioni economiche, sia per le famiglie d’origine dei nubendi (la sposa portava un corredo di biancheria per la casa, vestiario, gioielli e denaro contante: la dote; lo sposo forniva l’abitazione e il mobilio), sia per gli sposi che, lasciando il tetto paterno, dovevano assicurarsi entrate adeguate. 16 L’Europa verso il mercato globale delle valute, la fusione e fucinatura del ferro e dell’acciaio, la carpenteria lignea e la costruzione d’imbarcazioni e di naviglio. 2.2 Le campagne. Dai campi aperti e comuni alle recinzioni 2.2.1 L’agricoltura tradizionale Le condizioni economiche e sociali degli uomini delle campagne dipendevano anzitutto dal differente titolo giuridico in forza del quale lavoravano i terreni. Sotto questo profilo, l’Europa era praticamente divisa in due da una linea ideale discendente dall’estuario del Reno, nel Mar del Nord, al golfo di Trieste, nell’alto Adriatico. Figura 2.4 Strutture fondiarie in Europa alla fine del XVIII secolo. Contadini liberi (a ovest) e contadini servi (a est) della linea tratteggiata prevalenza di piccole e medie proprietà contadine prevalenza di grandi proprietà (redditiere o capitaliste) grandi proprietà a «seconda servitù» Russia (grandi proprietà e mir) Fonte: M. Cattini, op. cit., 2000 I contadini liberi residenti a ovest sfruttavano i suoli detenendone raramente ☞ la proprietà e, più spesso, il semplice possesso (enfiteusi, livello) contro ☞ prestazioni (onoranze) di valore pressoché simbolico. Molte terre erano date in uso oppure lavorate in forza di contratti parziari (come la mezzadria, 2 L’eredità medievale (1347-1530) 2.3 Le città: il mercato regolato, l’economia di scambio e il capitalismo 2.3.1 Le metropoli e il pulviscolo dei centri minori Alla fine del Quattrocento, mentre la popolazione riprendeva a crescere, nella geografia europea le città erano inegualmente distribuite. Rarissime nelle regioni orientali comprese fra il corso dell’Elba e gli Urali, a nord, e nell’area medio danubiana e in direzione dei Balcani, il maggior numero di città era a ovest, fino ai Pirenei, oltre i quali i centri abitati tornavano a farsi rari. Le città più numerose – sintomo di un’agricoltura più vivace e produttiva – andavano dalle Fiandre e dal Brabante (Olanda, Belgio e Lussemburgo) alle regioni centro italiane (Toscana, Umbria e Marche) passando per la Lorena e la Borgogna, l’Alsazia e i cantoni svizzeri e, oltre la catena alpina, per la pianura del Po. In quella parte d’Europa, i fiumi avevano calamitato gli insediamenti urbani perché i corsi d’acqua, nel medesimo tempo, erano le migliori vie di comunicazione e formidabili fonti energetiche per le più potenti macchine d’allora: i mulini ad acqua. Le attività artigianali tecnicamente più evolute erano tipicamente urbane e sfruttavano i mulini per vari usi come: macinare i cereali, battere e forgiare ferro e rame, filare la seta, cardare la lana e follare i pannilani, miscelare la pasta di legno per fare la carta, sollevare acqua (idrovora), muovere la vite d’Archimede per pressare e torchiare. Figura 2.5 Mulini a vento alla periferia di una città europea Fonte: Giovanni Stradano, Mulini a vento, Civica Raccolta di Stampe Achille Bertarelli, Milano 21 28 L’Europa verso il mercato globale Tabella 2.1 Città dell’Europa occidentale con almeno 50.000 abitanti nell’anno 1500 Parigi Napoli Milano Venezia Granada Praga* Lisbona Tours Genova 225.000 125.000 100.000 100.000 70.000 70.000 65.000 60.000 58.000 Firenze Gand Palermo Roma Bologna Bordeaux Londra Lione Verona * Città centroeuropea Fonte: P. Bairoch, J. Batou e P. Chèvre, La population des villes européennes de 800 à 1850, Genève 1988 Figura 2.6 Città, strade e rotte marittime dal XIII al XVII secolo Fonte: Da R.S. Lopez, Naissance de l’Europe, Ve-XIVe siècle, Paris, 1962, pp. 308-309 55.000 55.000 55.000 55.000 50.000 50.000 50.000 50.000 50.000 Fonte: M. Cattini, op. cit., 2000 Figura 2.7 Viaggi di scoperta, XV e XVI secolo 36 L’Europa verso il mercato globale 38 L’Europa verso il mercato globale Tabella 2.2 Spedizioni d’oro dalle colonie americane a Siviglia (1), produzione mondiale (2) e percentuale di quella americana (3) (medie annue in chilogrammi) Periodi (1) (2) (3) 1503-1510 1511-1520 1521-1530 620 915 489 6.000 7.000 7.000 10,3% 13,1% 7,0% Fonte: M. Cattini, Le rotte del pepe dell’oro e dell’argento, in Storia del commercio europeo, Milano, 1983, p. 84 ☞ I registri tenuti dal 1504 a Siviglia, il porto d’arrivo dei metalli preziosi del Nuovo Mondo spagnolo, danno conto dei quantitativi d’oro sottratti agli indios e spediti in Spagna. La produzione messicana degli anni Venti, per gran parte frutto della rifusione degli oggetti saccheggiati e della coltivazione di giacimenti scadenti, subì un calo anche per i devastanti effetti dei contagi di vaiolo, morbillo e peste diffusi dai bianchi fra gli indios, del tutto privi di difese immunitarie. Nel gennaio 1532, ottenuti privilegi e finanziamenti da Carlo V, alla testa di duecento avventurieri, Francisco Pizarro s’addentrò nell’altipiano andino dell’impero Inca. Con un espediente e un ardito colpo di mano, riuscì a rapire l’imperatore Atahualpa. Per liberarlo, chiese e ottenne in riscatto enorme: quattro tonnellate d’oro e nove e mezzo d’argento, molto di più del metallo pregiato complessivamente giunto a Siviglia negli anni Venti del Cinquecento. Fra la conquista del Messico (1521) e quella del Perù (1533), la colonizzazione spagnola mutò carattere. Ai pionieri, in maggioranza contadini, emigrati in cerca di più umane condizioni di vita, si sostituì un gran numero di secundones: i figli cadetti della piccola e media nobiltà hidalga che, seppur poveri, avevano ben altra cultura e nutrivano speranze di gloria e ricchezza. Dall’infanzia essi avevano assorbito gli ideali feudali. Trapiantati in America, costruirono con fervore relazioni sociali ed economiche coerenti con l’originaria vita nobiliare, oltre a procacciarsi quei benefici da cui la dura regola della primogenitura li escludeva. Il primo rapporto instaurato dagli spagnoli con gli americani fu di asservimento. A tre generazioni di distanza (circa 1560) dal primo sbarco di Colombo, dei 90-100 milioni d’abitanti del Nuovo Mondo ne sopravvivevano da 12 a 18. Le condizioni di lavoro estreme e la mancanza di difese immunitarie nei confronti di vaiolo, morbillo e peste, causarono una catastrofe demografica di proporzioni bibliche. La lontananza dalla patria (sei mesi di viaggio in Atlantico, dall’istmo di Panama a Siviglia) e i connessi proibitivi costi di trasporto impedirono l’avvio di produzioni destinate alla vendita in Europa, sicché l’unica 3 Dal Mediterraneo al Mare del Nord (1530-1720) 41 La crescita demografica non fu uniforme. I dati raccolti dagli studiosi, raggruppati per vaste aree dai comuni caratteri geografici e climatici, sui due secoli XVI e XVII mostrano dinamiche assai diversificate. Tabella 3.1 Popolazione di paesi e di gruppi di paesi europei negli anni 1500, 1600 e 1700 (in milioni di abitanti, valori percentuali e INDICI) ☞ A 1500 Italia, Spagna, Portogallo Francia Germania, Polonia, Svizzera Scandinavia, Gran Bretagna Belgio e Olanda Balcani Est europeo Totale Europa Totale Europa (indici) (%) B 1600 (%) 19,8 (24,3) 16,4 (20,0) 16,3 (19,9) 7,8 (9,5) 24,6 18,5 21,0 12,1 7,0 (8,6) 14,5 (17,7) 81,8 (100) 100 8,0 (7,5) 22,5 (21,1) 106,7 (100) 130,4 (23,0) (17,4) (19,7) (11,3) C 1700 Diff. % C/A % C/ %A (20,3) (17,3) (19,3) (13,4) –4,0 –2,7 –0,6 +3,9 –16,5 –13,5 –3,0 +41,0 8,0 (6,9) 26,3 (22,8) 115,3 (100) 140,9 –1,7 +5,1 0 –20,0 +29,0 0 +40,9 23,3 20,0 22,2 15,5 (%) Fonti: J.C. Russel, La popolazione dal 500 al 1500, in Storia economica d’Europa, diretta da C.M. Cipolla, I secoli XVI e XVII, trad. it., Torino 1979, I; R. Mols, La popolazione europea nei secoli XVI e XVII, ivi, II, elaborazioni dell’Autore Nel corso del Cinquecento (B/A), in valori assoluti, ogni regione crebbe in misura più o meno consistente. Di sopra dalla crescita media globale, pari al +30,4 per cento, si mossero soltanto Scandinavia, Gran Bretagna, Belgio, Olanda ed Est europeo (+55,1 per cento); tutte regioni appartenenti al centro-nord del continente. Il passo decisamente più spedito tenuto da quei paesi comportò cambiamenti a loro favore nella gerarchia del peso demografico (percentuali fra parentesi della tabella). Prese assieme, Scandinavia, Gran Bretagna, Belgio, Olanda ed Est europeo, da poco più di un quarto (27,2 per cento) dell’intera popolazione europea che assommavano attorno all’anno 1500, un secolo dopo rappresentavano quasi la terza parte (32,4 per cento). Nel XVII secolo (C/B), la crescita demografica proseguì, seppure secondo un ritmo assai più blando (+8%), mentre si accentuavano tendenze già profilatesi nel Cinquecento. Il gruppo dei paesi a crescita sostenuta accrebbe il proprio peso relativo dal 34,6 per cento al 36,2 per cento e, soprattutto, la macroregione gravitante attorno al Mare del Nord (Scandinavia, Gran Bretagna, Belgio e Olanda) non cessò di prosperare (dall’11,3 al 13,4 per cento della popolazione europea). Anche l’Est crebbe consistentemente mentre il resto d’Europa ristagnava o addirittura perdeva popolazione, come avvenne per Italia, Spagna, e Portogallo (dal 23 per cento al 20,3). Dappertutto, la risposta alla sfida della conservazione dell’equilibrio dinamico esistente fra uomini e risorse naturali consistette nel rimettere a coltura suoli abbandonati dopo la peste nel secondo Trecento e nel primo Quattrocento. Pertanto, il Cinquecento fu il secolo dei contadini pionieri, impegnati nella riconquista e messa in valore di terre incolte divenute boschi e pascoli, acquitrini e paludi. 42 L’Europa verso il mercato globale Dalla Scandinavia all’Est europeo, dalla Germania alla Polonia, dalla Francia alla Spagna, fino all’Italia, l’ampliamento delle coltivazioni a spese di foreste e zone umide fu la regola, con crescenti problemi di limitazione degli spazi deputati all’allevamento di greggi transumanti e al pascolo semibrado dei bovini e dei suini sui campi comuni (demaniali). Laddove la densità della popolazione era minore, la dinamica della crescita demografica ed economica fu più energica. In particolare, favorevoli condizioni d’insolazione e piovosità, assieme alla natura dei terreni, garantivano alle campagne nordeuropee rendimenti cerealicoli quasi doppi rispetto a quelli delle regioni mediterranee e, soprattutto, oscillazioni dei volumi dei raccolti annuali ± 8 per cento) ben inferiori a quelle del Mezzogiorno (± dal 12 al 16 per cento). In pratica, nel centro-nord dell’occidente europeo, i raccolti erano più copiosi e meno variabili, in volume, da un’annata all’altra. Il che, costringendo ad accantonare una parte minore di scorte per contrastare eventuali deficit produttivi dell’anno a venire, permetteva ai coloni di avviare allo scambio più consistenti quote di raccolto (maggiore offerta) e di incappare più raramente in gravi carestie. Figura 3.1 Variabilità nei raccolti di cereali: media percentuale di scostamento della norma Fonte: M. Cattini, Introduzione alla storia economica moderna e contemporanea del mondo (secoli XV-XX), Ca’ Sanguinetti, Modena, 2000 3 Dal Mediterraneo al Mare del Nord (1530-1720) 43 L’alta produttività cerealicola delle regioni affacciate sulle rive del Mare del Nord è indirettamente attestata dalla sensibile crescita delle popolazioni residenti in centri urbani di quella parte d’Europa. Tabella 3.2 Residenti in città europee di almeno 10.000 abitanti (valori percentuali) Italia Spagna e Portogallo Scandinavia, Gran Bretagna, Belgio e Olanda Francia Germania e Svizzera Est europeo Tutta l’Europa 1500 1600 1650 1700 12,4 5,7 6,6 4,1 3,1 1,1 5,6 15,1 11,7 8,2 5,9 4,0 1,4 7,6 14,0 10,5 10,9 7,2 4,2 1,7 – 13,2 9,5 11,3 9,2 4,6 2,6 9,2 Fonte: J. de Vries, European Urbanisation 1500-1899, Cambridge1984, tavv. 3.2; 3.6; 3.7 Nel Cinque e Seicento, la produttività agricola migliorò abbastanza da permettere alle città nordiche d’aumentare di mole, avendo efficacemente risolto il problema dell’approvvigionamento delle derrate alimentari. Qualcosa del genere non avvenne nell’Europa meridionale, come attesta il declino demografico urbano seguito nel XVII secolo, dopo una sensibile crescita cinquecentesca. Le percentuali di abitanti nelle città mostrano il rallentamento e declino demografico dei paesi mediterranei e, per contro, i guadagni, fino a metà Seicento, del nord-ovest. La crescita francese, invece, denota l’ingente riserva di suoli riducibili a coltivazione nella Francia del Re Sole, allineatasi solamente attorno al 1700 alla media continentale. In Olanda, dove verso il 1620, ben il 40 per cento della popolazione abitava nelle città – un primato europeo – con costose operazioni idrauliche si costruirono terreni coltivabili (i polders) strappandoli alle lagune, dopo aver innalzato dighe e prosciugato le acque con pompe idrovore mosse dai celebri mulini a vento. 3.1.2 La “trappola malthusiana” all’opera Thomas Malthus, pastore ed economista inglese, nel 1798 pubblicò uno studio intitolato Saggio sul principio di popolazione nel quale, osservando il sostenuto sviluppo della popolazione inglese (vedi infra, § 4.1.3) profilatosi da un quarantennio, previde che la crescita demografica avrebbe condotto il paese alla catastrofe. Malthus sostenne che due leggi assai diverse regolano la crescita della popolazione (rapida) e quella dei mezzi di sussistenza (più lenta). Per chiarire il suo pensiero si valse di un semplice modello: la popolazione si muoveva secondo una progressione geometrica (1, 2, 4, 8, 16…), gli 52 L’Europa verso il mercato globale Figura 3.2 Paesi Bassi settentrionali (7 province unite olandesi), Paesi Bassi meridionali, Ducato di Lussemburgo e Regno di Francia nel XVIII secolo Fonte: Atlante e cronologia della storia del mondo, Zanichelli 1966 62 L’Europa verso il mercato globale Figura 4.1 Il miglioramento della rete stradale con strade a pedaggio: il caso del Lancashire Fonte: M. Cattini, La genesi della società contemporanea europea, Ca’ Sanguinetti, Modena, 1998 4 La prima rivoluzione industriale (1720-1870) 63 ca occidentale)-Antille (nell’America centrale), cui s’aggiunsero il porto di New Orleans – l’emporio delle colonie inglesi del Nordamerica – e la costa della nuova Inghilterra, nel secondo Settecento promosse una vistosa crescita delle città di mare affacciate sulla costa occidentale di un paese fino allora mancante di centri urbani di medie dimensioni. Tabella 4.1 Le sei maggiori città inglesi (migliaia di abitanti) 1600 1. Londra 2. Norwich 3. York 4. Bristol 5. Newcastle 6. Exeter Totali Numeri indici Indici di Londra 1750 200.000 15.000 12.000 12.000 10.000 9.000 258.000 100 100 1. Londra 2. Bristol 3. Norwich 4. Newcastle 5. Birmingham 6. Liverpool 1800 675.000 50,000 36.000 29.000 24.000 22.000 836.000 324 337 1. Londra 2. Manchester 3. Liverpool 4. Birmingham 5. Bristol 6. Leeds 960.000 84.000 78.000 74.000 64.000 53.000 1.313.000 509 480 Fonte: M.J. Daunton, Città e sviluppo economico nell’Inghilterra del diciottesimo secolo, in Città, storia, società, a cura di Ph. Abrams e E.A. Wrigley, Bologna, 1983, p. 234 I dati danno conto di due fenomeni: n del gigantismo di Londra fin dal primo Seicento, attorniata da piccolissime città; n della vistosa crescita, nel secondo Settecento, dei porti affacciati sul braccio di mare che separa il Galles dall’Irlanda. La struttura urbana inglese, quasi inesistente fino alla prima metà del Settecento, prese forma grazie ai traffici internazionali e alle attività di servizio e di lavorazione delle materie prime importate. Nel giro di qualche generazione, villaggi di pescatori-contadini si trasformarono in città sempre più popolose. Il fenomeno è tanto più appariscente se si considera che, nella seconda metà del Settecento, la dinamica demografica della capitale (+42 per cento) fu largamente inferiore a quella degli altri cinque centri considerati nella tabella, presi insieme (+119 per cento). In ogni caso, intorno agli inizi del XIX secolo, la percentuale di residenti in città di almeno 10.000 persone era del 24 per cento in Inghilterra e Galles, contro il massimo europeo del 29 per cento dell’Olanda, il 16 per cento circa dell’Italia, il 9,5 per cento della Francia e il 7,2 per cento della Germania a est dell’Elba. 4.1.2 L’ambiente: il mondo rurale Il paesaggio inglese si divideva in terre alte e terre basse. Sui terreni ondulati prevaleva l’allevamento (bovino, ovino ed equino) mentre, nelle pianu- 64 L’Europa verso il mercato globale re, aveva la meglio la cerealicoltura. Pascoli e campi coltivati erano un po’ dappertutto interrotti da boschi, foreste, brughiere e incolti, dai quali si ricavavano legname e frutti spontanei. È possibile distinguere i prevalenti orientamenti colturali separando il territorio in due con un’ideale linea discendente da nord a sud fino a Londra e, poi, orientata a sud ovest verso la punta della Cornovaglia. Nel Settecento, a oriente, la cerealicoltura prevaleva sull’allevamento. Nei terreni leggeri dell’East Anglia (Norfolk, Suffolk, Essex) le condizioni meteo-climatiche e i suoli assicuravano ottime rese, con minime oscillazioni dei raccolti da un’annata all’altra. A occidente della linea, invece, prevaleva l’allevamento bovino, ovino ed equino. Nelle campagne dell’ovest, recintate per gran parte della loro superficie, dominava l’individualismo agrario; in quelle orientali, suddivise in innumerevoli strisce, prevalevano i campi aperti. Le prime recinzioni erano comparse a fine Quattrocento, su iniziativa di grandi proprietari fondiari allevatori d’ovini ed esportatori di lana. Ai primi del Cinquecento, Tommaso Moro, il Lord Cancelliere di Enrico VIII, nel suo trattato Utopia, stigmatizzò l’innovazione notando che le campagne ridotte a pascolo, avrebbero condannato gli inglesi alla fame. L’Inghilterra era però così poco densamente popolata, aveva una cerealicoltura così redditizia e disponeva di una tale riserva di suolo che non rischiò di restare priva di cereali. Tra metà Seicento e metà Settecento, con una popolazione ben più numerosa di quella dei tempi di Enrico VIII (morto nel 1547), l’isola fu addirittura fra i maggiori esportatori europei di grano. Nell’Inghilterra di fine Seicento, le campagne erano sfruttate estensivamente, sia per la bassa densità demografica del paese (meno di 30 abitanti per kmq, dalla metà a un terzo dei valori dell’Italia centro-settentrionale alla stessa epoca), sia perché le terre erano distribuite in maniera assai sperequata tra i proprietari. Poche migliaia di famiglie aristocratiche intestatarie d’enormi tenute, trasmesse intatte di primogenito in primogenito, controllavano la maggior parte del suolo (vedi infra, § 4.6.1). Accanto a loro, una ben più numerosa nobiltà di provincia – la gentry – disponeva di poderi di vaste dimensioni, se paragonati a quelli in genere controllati dalla media aristocrazia europea. Tabella 4.2 Uso del suolo in Inghilterra e Galles nel 1696 (milioni di ettari e percentuali) Arativo 3,64 (42,8%) Arativo: di cui seminativo 2,25 (61,8%) Prato/pascolo Totale 4,86 (57,2%) 8,5 (100%) Maggese Totale 1,39 (38,2%) 3,64 (100%) Fonte: D. Grigg, La dinamica del mutamento in Agricoltura, trad. it., Bologna, 1985, tab. 27, p. 240, elaborazione dell’Autore 4 La prima rivoluzione industriale (1720-1870) 65 Gli 8,5 milioni di ettari utilizzati per l’agricoltura e l’allevamento rispetto ai 15,1 milioni di superficie di Inghilterra e Galles, presi insieme, rappresentavano solo il 56 per cento. Per di più un’abbondante metà dell’ambiente sfruttato – il 57,2 per cento – serviva per l’allevamento (prato e pascolo). Una dimensione sconosciuta nelle regioni europee densamente popolate come Fiandre, Brabante, Olanda e Italia centrale e settentrionale. Alla fine del Seicento, dunque, l’agricoltura inglese e gallese: n disponeva di grandi riserve di terra; n in molte parti del paese produceva per il mercato (prodotti orticoli, carne e latticini, cereali per la panificazione e per la produzione di birra); n la produttività del frumento oscillava tra i 9 e i 10 quintali per ettaro, vicino ai massimi europei del tempo e, soprattutto; n i raccolti erano stabili nel medio periodo (la variabilità essendo compresa tra più e meno l’8 per cento), in virtù di favorevoli condizioni meteoclimatiche. Se, poi, si considera che l’estensione media dei poderi era tra doppia e quadrupla di quella delle più avanzate regioni continentali e che la grande maggioranza delle aziende agricole (tra il 60 e il 70 per cento, secondo i ruoli dell’imposta sul reddito) ai primi del Settecento era in mano a fittavoli che pagavano canoni in denaro, l’assetto strutturale delle campagne inglesi nel secolo dell’avvio della rivoluzione industriale appare straordinariamente avanzato (grande disponibilità di suoli e imprenditori agricoli). 4.1.3 La popolazione: la dinamica generale Dopo una lenta crescita dai primi del Seicento alla metà del Settecento, la popolazione quasi triplicò entro metà Ottocento e la durata della vita si allungò. Tabella 4.3 Dinamica della popolazione in Inghilterra e Galles e Gran Bretagna (milioni e indici, 1600-1850) Anni Inghilterra e Galles Indici Gran Bretagna Indici 1600 1650 1700 1750 1800 1850 4,8 5,7 (18,7) 6,0 (5,2) 6,3 (3,3) 9,2 (48,4) 17,8 (93,4) (100) (119) (125) (131) (192) (371) – – 6,8 7,4 (8,8) 10,7 (44,6) 20,6 (92,5) – – (100) (109) (145) (303) Fonte: B.R. Mitchell e Ph. Deane, Abstract of British Historical Statistics, Cambridge, 1962 I dati aggregati per contee, distinguendo quelle a vocazione agricola da quelle in cui andavano concentrandosi le manifatture e i servizi, mostra- 66 L’Europa verso il mercato globale no differenziazioni demografiche in relazione con i caratteri economici prevalenti. Tabella 4.4 Distribuzione della popolazione inglese secondo le attività economiche prevalenti, 1751-1831 (migliaia di abitanti e indici) Contee agricole e a bassa densità manifatturiera Contee industriali e commerciali 1751 1801 1831 3.890 (100) 2.251 (100) 5.391 (138) 3.765 (167) 7.734 (199) 6.318 (281) Fonte: S. Pollard, La conquista pacifica, l’industrializzazione in Europa dal 1760 al 1970, Bologna, 1989 Nelle aree a prevalenti attività manifatturiere e commerciali, la popolazione crebbe maggiormente. Lo spostamento da attività rurali a impieghi nell’industria e nei servizi fu tuttavia meno rapido di quanto non dicano le percentuali. Nel 1750, poco meno dei due terzi degli inglesi e dei gallesi (63,3 per cento) abitavano in contee a vocazione agricola. Alla fine del secolo, la maggioranza della popolazione (58,8 per cento) viveva ancora nelle contee poste ai margini del processo di crescita industriale. Nel 1831, quando l’industria tessile cotoniera giunse all’apice del suo sviluppo (vedi infra, § 4.3.1), la quota di popolazione residente in contee ad attività tradizionali era ancora il 55 per cento. Ciò significa che, nell’avvio della trasformazione economica del paese, le campagne svolsero un ruolo decisivo, sia perché fornirono un crescente numero di braccia alle aree in cui stavano prendendo slancio le attività industriali, commerciali e di servizio, sia perché proprio nel settore agricolo, nonostante diffuse correnti migratorie, si profilarono quegli aggiustamenti tecnici, economici e delle mentalità che promossero e sostennero l’industrializzazione. Nella storia demografica inglese la grande Londra rappresenta un caso a parte. Sul finire del Seicento, la capitale britannica era la maggiore città europea con circa 575.000 abitanti. A metà Settecento era cresciuta di altre 100.000 anime e, agli inizi dell’Ottocento, ne contava quasi un milione. In nessuna capitale risiedeva una percentuale tanto alta della popolazione del paese: il 7 per cento nel 1650; addirittura l’11 per cento cent’anni dopo. Il costante aumento della popolazione londinese lungo il Seicento e Settecento produsse effetti economici e sociali anticipatori di quelli caratteristici dell’industrializzazione. Anzitutto, la crescita non avrebbe potuto proseguire senza i mutamenti intervenuti nel mondo rurale circostante. L’eliminazione, nel secondo Seicento, di ogni divieto di movimento delle derrate agricole, assieme al miglioramento delle infrastrutture dei trasporti via terra e via acqua, assicurarono l’approvvigionamento di cereali e ortaggi, di pesce, di carne, di cuoio, di carbone, di materiali da costruzione e di materie prime industriali della capitale. Già agli inizi del Settecento, dal 20 al 25 per cento della 70 L’Europa verso il mercato globale Tabella 4.5 Serie storica degli atti parlamentari di recinzione di campi aperti, 1702-post 1840 1702-1729 1730-1749 1750-1759 1760-1769 1770-1779 1780-1789 42 73 156 424 642 287 1790-1799 1800-1809 1810-1819 1820-1829 1830-1839 post 1840 506 906 835 205 146 190 Fonte: P. Mantoux, La rivoluzione industriale, Roma, 1971 ☞ Quasi l’82 per cento degli atti fu emanato nel sessantennio 1760-1819, anni in cui vi fu il massimo della crescita demografica e furono gettate le basi di una solida struttura industriale. Il secondo aspetto istituzionale importante per le implicazioni che ebbe sui rapporti sociali ed economici riguarda la regolamentazione del lavoro artigianale e l’assistenza pubblica ai poveri. Ai primi del Settecento, Daniel Defoe, il celebre autore del Robinson Crusoe, riteneva che la città di Bristol fosse meno prospera di Liverpool e Manchester per la “tenace follia dei suoi abitanti” che non sapevano rinunciare alla “tirannia delle corporazioni”. Di lì a pochi decenni, nel 1751, un’inchiesta parlamentare scoprì che “le fabbriche più utili e prospere sono principalmente gestite, insieme al commercio più fiorente, in quelle città e in quei luoghi che non sono soggetti a leggi locali sulle corporazioni” e la relazione proseguiva affermando: “Le leggi relative al commercio e all’industria dovrebbero essere completamente annullate […] essendo divenute, nelle presenti congiunture, dannose per il commercio”. In realtà, fin dal 1688, il sistema corporativo inglese era in via di smantellamento. Il rapido sviluppo dell’industria cotoniera del Lancashire dipese dalla mancanza dei freni tecnici e organizzativi di carattere corporativo. Là, infatti, diversamente da altre regioni in cui le corporazioni ne impedirono l’adozione, ancor prima della fine del Settecento era stato adottato quel telaio olandese che, una cinquantina d’anni prima, i tessitori londinesi non avevano voluto nei loro laboratori e dichiarato fuori legge fin dal 1638. Dopo il 1688, più volte il Parlamento rifiutò il ripristino delle antiche norme corporative, allineandosi alle sentenze emesse nelle contee dai giudici di pace. Nel 1694 fu abrogata la norma dello Statute of Artificiers (1563) che vietava ai figli dei contadini l’esercizio d’attività artigianali, legalizzandone l’impegno nelle manifatture tessili. Infine, l’eliminazione dalla fine del Seicento dell’apprendistato offrì agli imprenditori l’opportunità di impiegare donne e bambini, prima indisponibili per legge, e permise loro di cambiare attrezzature e macchinari senza doverne rendere conto ad alcuno. Una situazione tanto gravida di conflitti economici e sociali fu efficacemente controllata grazie all’esistenza, fin dai tempi di Elisabetta I, di leggi 4 La prima rivoluzione industriale (1720-1870) 71 Figura 4.2 Geografia amministrativa dell’Inghilterra La linea nera separa le contee in cui prevaleva la cerealicoltura (a est) da quelle dedite all’allevamento e alla produzione casearia (a ovest). La linea tratteggiata trasversale distingue le contee ad alti salari agricoli (nord) da quella a bassi salari (sud) Fonte: M. Cattini, op. cit., 1998 sui poveri (Poor Laws, 1579-1601) secondo le quali ogni parrocchia doveva distribuire sussidi ai bisognosi utilizzando fondi prelevati dai gettiti dell’imposta fondiaria. Il preambolo dell’Act of Settlement, una legge emessa 4 La prima rivoluzione industriale (1720-1870) le loro campagne a fittavoli contro il pagamento di canoni in denaro. I fittavoli si valevano, a loro volta, dell’opera di braccianti ingaggiati stabilmente (servi e famigli) e di altri operai precari. Alla fine del Seicento l’assetto della società rurale inglese era il seguente. Proprietari fondiari: • 200 famiglie di Pari (Lords) che possedevano il 20% dei terreni • 16.000 famiglie della nobiltà di provincia (gentry) con il 50% dei terreni • 180.000 famiglie contadine col 30% dei terreni (40.000 delle quali controllavano in media più di 40 ettari e le rimanenti 140.000 disponevano di appezzamenti più piccoli) Non proprietari: • 150.000 famiglie di farmers (che gestivano terre altrui, prese ad affitto) • 354.000 famiglie di lavoratori e domestici • 400.000 famiglie di braccianti e di poveri La concentrazione del 70 per cento della terra nelle mani di 16.200 casate aristocratiche, che a fine Seicento rappresentavano il 3 per cento circa della popolazione, testimonia un’accentuata sperequazione nella distribuzione della risorsa di base. A questa fascia sociale di vertice bisogna aggiungere le 40.000 famiglie che controllavano poderi di almeno 40 ettari, bastanti ad assicurare un tenore di vita più che decoroso. Per di più, le innovazioni agronomiche adottate sui terreni recintati nel corso del Seicento avevano accresciuto il numero dei fittavoli agiati e dei piccoli proprietari intraprendenti: le figure sociali emergenti dell’Inghilterra preindustriale. Un testo del 1688 offre un’efficace descrizione del paesaggio sociale delle campagne inglesi: “I piccoli proprietari costituiscono uno strato sociale del tutto particolare, tipicamente inglese. La Francia e l’Italia somigliano a un dado privo dei punti segnati tra il sei e l’uno: fra nobiltà e contadini […]. Il piccolo proprietario inglese indossa vesti rozze, ma paga in oro: porta bottoni di rame, ma ha le tasche piene d’argento […], al suo paese è un uomo importante, che fa parte delle giurie (dei tribunali penali). Ben di rado si mette in viaggio e il suo credito va più lontano di lui”. Nel corso del Settecento i pari del regno e la gentry consolidarono il loro predominio sulla terra. Da parte loro, gli “affaristi”, com’erano chiamati mercanti, finanzieri, assicuratori, banchieri e speculatori di borsa, furono indotti a investire in terreni quando, nel 1710, il Parlamento votò una norma che esigeva una rendita fondiaria annua di almeno 600 sterline per poter ottenere il titolo di cavaliere e di 300 per quello di Sir. Un ruolo notevole nell’orientare valori e comportamenti della società di provincia svolsero i giudici di pace e i pastori. In quasi totale indipendenza rispetto a Londra, i giudici di pace mantenevano l’ordine pubblico, collaboravano al reclutamento dell’esercito, fissavano localmente i salari, controllavano l’applicazione delle leggi sui poveri, sui vagabondi e delle norme del Settlement Act. 73 4 La prima rivoluzione industriale (1720-1870) 75 Il perfezionamento delle tecniche allevatorie fece sì che fra il 1710 e il 1795, il peso medio dei bovini adulti venduti per essere macellati passasse da 370 a 800 libbre, quello dei vitelli da 50 a 150 e quello delle pecore da 38 a 80. La prova più persuasiva dei guadagni di produttività realizzati nell’agricoltura inglese tra metà Seicento e metà Settecento è data dalla crescita della produzione cerealicola. Fino a tutti gli anni Sessanta del Settecento, l’Inghilterra fu il maggiore esportatore di grano e di farina dell’Europa occidentale e ciò nonostante il paese contasse almeno mezzo milione di abitanti in più rispetto a cento anni prima. Tabella 4.6 Importazioni ed esportazioni di grano e farina dall’Inghilterra, 1697-1799 (medie annue, migliaia di quarter*) Anni Export Import Saldo 1700-9 1710-9 1720-9 1730-9 1740-9 1750-9 110,6 105,1 114,7 294,5 289,1 328,3 0,2 – 11,5 0,5 0,8 16,3 110,4 105,1 103,2 294,0 288,3 312,0 * Un quarter equivale a 1,17 litri Fonte: P. Bairoch, Rivoluzione industriale e sottosviluppo, Torino, 1967, p. 240, tab. 6 Il paese non dispose solo del grano necessario a una popolazione aumentata, ma ebbe anche tutta l’avena indispensabile a sfamare una forza lavoro animale – i cavalli da tiro – per lo meno triplicata lungo la prima metà del Settecento. Sotto l’aspetto organizzativo, l’agricoltura inglese settecentesca era caratterizzata dalla presenza dominante di fittavoli imprenditori agricoli (farmers). La stipula di contratti d’affitto di lunga durata (da 9 a 15 anni) permetteva loro di fare investimenti migliorativi sulle terre e di poterne raccogliere i frutti. Impegnandosi a pagare ai proprietari canoni annui in moneta, i farmers erano indotti ad annotare costi e ricavi e a compiere calcoli di convenienza riguardo gli investimenti di capitale fisso e circolante. Né meno importante era disporre tempestivamente di informazioni a proposito dei prezzi dei fattori produttivi, come di quelli dei raccolti e animali che avrebbero posto in vendita. Oltre ai fittavoli, anche i rampolli della gentry e della grande nobiltà non disdegnavano di occuparsi direttamente della gestione e dello sfruttamento economico delle loro tenute, senza per questo dover rinunciare allo stile di vita tipico dell’aristocrazia. Pertanto, a differenza di quanto accadeva nel continente, nelle campagne inglesi: 78 L’Europa verso il mercato globale numero di telai accuditi da tessitori impegnati a tempo pieno e pagati a cottimo (un tanto a yarda di prodotto). Egli controllava ogni fase produttiva avendo investito in capitale fisso: l’immobile e i macchinari, e in capitale circolante, vale a dire le scorte di materia prima e i salari. Avrebbe venduto i suoi tessuti a grossisti che li piazzavano sul mercato interno e su quello estero. 4.1.9 Gli inizi del cotonificio L’avvio della lavorazione del cotone in Inghilterra risale al secondo Cinquecento, quando i profughi protestanti fuggiti dalle Fiandre e dalla Francia lo utilizzarono misto con lino o canapa per la produzione di tessuti di scadente qualità e basso prezzo. Quando la compagnia inglese delle Indie Orientali prese il controllo delle coste indiane fu possibile importare direttamente tessuti che, prima d’essere commercializzati, erano stampati a colori. In seguito, la tratta dei neri tra Africa e America permise di piantare cotone nelle Antille e nelle colonie meridionali del Nord America, che accrebbero l’offerta di fiocco di cotone in Inghilterra. L’imitazione delle tele indiane in Inghilterra fu stimolata dal divieto di importare stoffe – calicots e mussole – votata dal Parlamento nel 1701 e rinnovata nel 1721. La proibizione fu sollecitata dai produttori di lana, che si sentivano minacciati dalla fortuna crescente delle tele asiatiche di basso prezzo. Fino agli anni Trenta, il consumo di cotone grezzo crebbe con relativa lentezza (+1,2 per cento annuo). Da allora in poi, per contro, importazioni e consumi conobbero una dinamica sostenuta. Durante il trentennio 1751-80 l’incremento medio annuo fu del 2,6 per cento. Prima che la filatura – la fase tecnicamente più difficile – conoscesse un qualche progresso tecnico, i tessuti misti di cotone ebbero un successo crescente. Tabella 4.7 Importazione e consumo di cotone greggio in Gran Bretagna (medie annue in milioni di libbre) 1698-1710 1711-1720 1721-1730 1731-1740 0,5 0,7 0,7 0,8 1741-1750 1751-1760 1761-1770 1771-1780 0,9 1,3 1,7 2,3 Fonte: P. Bairoch, Rivoluzione industriale e sottosviluppo, Torino, 1967, p. 253, tab. II Solo le trasformazioni tecniche di fine Settecento fecero del cotonificio inglese uno dei settori trainanti dell’economia del paese. 86 L’Europa verso il mercato globale lenta e difficile – furono inventate tra il 1760 e il 1780. Nel 1733, John Kay, un meccanico del Lancashire, con l’invenzione della “navetta volante” per il telaio aveva raddoppiato la produttività dei tessitori e moltiplicato la domanda di filo. Proprio la filatura rappresentava la strozzatura del settore cotoniero, sia perché esigeva tempo e largo impiego di manodopera, sia perché il filo ottenuto manualmente, poco robusto, serviva solo per la trama, mentre per l’ordito si usava filo di lino. Il lavoro quotidiano di cinque-sei filatrici a malapena produceva abbastanza filo per il lavoro giornaliero di un tessitore. Figura 4.3 Filatrici e telaio 4 La prima rivoluzione industriale (1720-1870) 87 Nel Lancashire, dove il cotonificio stava prendendo piede, nel 1769 Richard Arkwright brevettò un filatoio idraulico imponente e costoso detto water frame. Ideata per essere mossa da un cavallo, dappertutto la macchina di Arkwright utilizzò la forza idraulica dei mulini. Nel 1770, James Hargreaves, un tessitore di Stanhill, brevettò un piccolo filatoio, la spinning jenny, che aveva escogitato nel 1764 per riprodurre meccanicamente il lavoro fino allora svolto a mano. La macchina ebbe grande successo anche fuori d’Inghilterra perché costava poco, era facile da usare e, per di più, permetteva a una sola persona di realizzare una grande quantità di filo per ogni giornata di lavoro. La macchina idraulica di Arkwright produceva un filo forte e ben ritorto, adatto per maglieria e per l’ordito dei tessuti di cotone. Il filo della jenny, invece, meno resistente, era utile solo per la trama. Un filatoio capace di produrre filo adatto tanto per la trama quanto per l’ordito fu sviluppato, tra il 1774 e il 1779, da Samuel Crompton, combinando i princìpi della jenny con quelli della water frame. Il macchinario di Crompton, detto mula (mule), permetteva di ottenere diversi tipi di filo: più o meno sottile e ritorto. Nel 1790, William Kelly riuscì a costruire delle mule automatiche, mosse da una ruota ad acqua dotate di circa trecento fusi l’una. La mula di Crompton, modificata da Kelly, si rivelò di grande affidabilità e si diffuse a macchia d’olio, sempre più spesso mossa da macchine a vapore. I nuovi insediamenti, svincolati dall’esigenza di situarsi presso corsi d’acqua, com’era stato per il passato, si concentrarono presso Manchester e Liverpool. I progressi nella tessitura furono più lenti. A parte la spoletta volante di John Kay, che accelerava il lavoro, diffusasi dalla metà del Settecento, fino ai primi dell’Ottocento non vi furono significative innovazioni. Da allora in poi, una serie d’accorgimenti trasformò i telai in macchine semiautomatiche che arrotolavano la tela, apprettavano i fili dell’ordito e variavano la velocità. Tra il 1841 e il 1845, i telai meccanici raggiunsero una tale perfezione tecnica da divenire il sistema di gran lunga più economico giacché un solo sorvegliante accudiva più macchine, con sensibili risparmi dei costi di produzione e minor impiego di manodopera qualificata. La serie Tabella 4.8 Telai semiautomatici e automatici attivi in Gran Bretagna dal 1813 al 1850, con indici Anni Telai Indice 1813 1820 1829 1833 1850 2.400 14.150 55.000 85.000 224.000 100 589 2.291 3.541 9.333 4 La prima rivoluzione industriale (1720-1870) 89 Tabella 4.9 Distribuzione della popolazione tra aree urbane e rurali in Inghilterra e Galles, dal 1801 al 1851 (valori percentuali) Popolazione rurale Popolazione urbana Città > di 100.000 abitanti Città > di 20 e < di 100.000 1801 1841 1851 66,2 33,8 1 (11%) 16 (13%) 51,7 48,3 7 (20,7%) 48 (17,6%) 46,0 54,0 10 (24,8%) 55 (19,3%) Fonte: F. Bedarida in F. Caron, Gli inizi dell’industrializzazione, in Storia economica e sociale del mondo, a cura di P. Leon, vol. III. 2, Le Rivoluzioni 1730-1840, p. 450 Tabella 4.10 Struttura della popolazione attiva inglese (valori percentuali, 1811 e 1841) Settori 1811 1841 I - Agricoltura e pesca II - Manifattura, edilizia, miniere III - Commercio e trasporti III - Burocrazia pubblica e libere professioni III - Servizi domestici Totali 33,1 30,2 11,6 13,3 11,8 100 22,3 40,5 14,2 8,5 14,5 100 Fonte: F. Caron, Gli inizi dell’industrializzazione, in Storia economica e sociale del mondo, a cura di P. Leon, vol. III.2, Le Rivoluzioni 1730-1840 La crescente integrazione del sistema economico inglese è attestata tanto dalla vistosa espansione degli addetti al secondario (manifattura, edilizia, miniere) a spese del primario (agricoltura e pesca) proprio negli anni della massima diffusione delle macchine a vapore, delle strade ferrate e dei telai automatici, quanto dal progresso, all’interno di uno stabile terziario (il cui peso complessivo crebbe dello 0,5 per cento), delle attività di intermediazione, distribuzione, trasporto, credito, assicurazione e di servizio alle persone. Le serie storiche della ricchezza prodotta nei diversi comparti economici, nella prima metà dell’Ottocento, mostrano che le trasformazioni di maggior peso avvennero nel ventennio successivo alla fine delle guerre contro la Francia (1811-31). Entro il 1831, nella formazione della ricchezza nazionale, l’agricoltura cedette il primato all’industria e, da allora fino alla metà del secolo, i due settori subirono oscillazioni trascurabili. Fin dal 1831, dunque, l’Inghilterra era un paese a economia industriale. La caduta del contributo dell’agricoltura alla produzione della ricchezza nazionale fu accentuata dal differenziale (3,5 per cento) esistente tra il tasso annuo medio del reddito agricolo (+1,2 per cento) e di quello dell’industria (+4,7 per cento). 90 L’Europa verso il mercato globale Tabella 4.11 Provenienza, per settori economici, del Prodotto Nazionale Lordo inglese (valori percentuali) Settori 1811 1821 1831 1841 1851 I - Agricoltura II - Industria, miniere, impianti II - Edilizia civile III - Commercio, trasporti, redditi e rimesse dall’estero III - Servizi pubblici e privati Totali 35,7 20,8 5,7 16,6 21,2 100 26,1 32,0 6,2 16,9 18,8 100 23,4 34,4 6,5 18,4 17,3 100 22,1 34,4 8,2 19,8 15,5 100 20,3 34,3 8,1 20,7 16,6 100 Fonte: F. Caron, Gli inizi dell’industrializzazione, in Storia economica e sociale del mondo, a cura di P. Leon, vol. III. 2, Le Rivoluzioni 1730-1840 In effetti, l’agricoltura inglese seppe fronteggiare vittoriosamente l’aumento della domanda interna di cereali derivante dalla grande crescita della popolazione. Le importazioni di grani non superarono mai il 7,5 per cento del fabbisogno globale. L’aumento della domanda stimolò una maggiore produzione di frumento in Inghilterra e Galles del 14 per cento nel quadriennio 1843-46 rispetto alla media del periodo 1829-41. Anche le serie storiche del PIL e di quello pro capite danno conto del ritmo di crescita tenuto dall’economia inglese nel corso della prima metà del XIX secolo (vedi tabella seguente). La crescita settecentesca divenne sviluppo, sicché la ricchezza prodotta nel paese in cinquant’anni crebbe di tre volte e mezzo. Era un processo senza precedenti, favorito dalla massiccia applicazione di macchine – capitale tecnologico – ai processi di fabbricazione su larga scala e prodotto dalla crescita numerica di una manodopera il cui lavoro – più intenso e regolare – diveniva sempre più produttivo proprio grazie alle macchine. Nel ventennio 1811-31 vi fu il massimo sviluppo economico inglese (+3 per cento annuo di incremento del reddito negli anni Dieci e addirittura +4,3 per cento nel decennio seguente), ben prima che facessero la loro comparsa le ferrovie. Dopo un difficile periodo agli inizi del secolo, in Tabella 4.12 Andamento del Prodotto Lordo Nazionale e pro capite inglese in sterline costanti Reddito globale (milioni di sterline) Indici base 1801 = 100 Indici a base mobile Reddito pro capite (sterline) Indici base 1801 = 100 Indice a base mobile 1801 1811 1821 1831 1841 1851 138 100 100 12,9 100 100 168 122 122 13,2 102 102 218 158 130 15,3 119 116 312 226 143 19,1 148 125 394 284 126 21,3 165 111 494 358 126 23,7 184 111 Fonte: F. Caron, Gli inizi dell’industrializzazione, in Storia economica e sociale del mondo, a cura di P. Leon, vol. III. 2, Le Rivoluzioni 1730-1840, p. 451, elaborazioni dell’Autore 4 La prima rivoluzione industriale (1720-1870) 93 Tabella 4.13 Produzione di ghisa in Gran Bretagna, 1796-1852 (migliaia di tonnellate e indici 1796 = 100) 1796 1806 1825 1830 127 (100) 262 (206) 590 (464) 689 (543) 1835 1839 1848 1852 955 (752) 1.269 (999) 2.030 (1.598) 2.744 (2.161) Fonte: D.S. Landes, Prometeo liberato. Trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale nell’Europa occidentale dal 1750 ai giorni nostri, Torino, 1978, p. 127 I progressi della siderurgia e la crescente domanda di manufatti metallici favorirono la nascita del settore metalmeccanico attorno agli anni Venti. Una volta scaduto il brevetto di Boulton e Watt, le fabbriche di macchine a vapore si moltiplicarono nel paese e furono aperte officine per fabbricare telai automatici interamente metallici e parti metalliche di mulini e filatoi. 4.3.4 Gli investimenti in infrastrutture Nella prima metà dell’Ottocento, il capitale fu investito soprattutto in infrastrutture viarie. Nella costruzione e manutenzione dei canali, fino ai primi quarant’anni dell’Ottocento, furono impiegati circa 11 milioni di sterline. Verso il 1830, la rete d’acque artificiali toccò il massimo sviluppo con circa 6400 km. Nonostante limiti e difetti, i canali inglesi svolsero un ruolo decisivo nella formazione del mercato nazionale. Essi favorirono Figura 4.4 Lo sviluppo della rete ferroviaria in Gran Bretagna Fonte: M. Cattini, op. cit., 1998 98 L’Europa verso il mercato globale do i seggi attribuiti alle città e diminuendo quelli delle contee di campagna. Nel medesimo tempo, furono ammessi a votare i maschi che avevano almeno dieci sterline d’entrata annua (suffragio censitario). 4.3.7 Tenore di vita e assistenza ai poveri Se nel periodo delle guerre francesi (1793-1814) prezzi e salari erano cresciuti in parallelo, con la fine delle ostilità, e dopo una grave carestia (1816-17), sopravvenne un periodo (1818-24) contraddistinto da un calo dei prezzi dell’ordine del 25-35 per cento. Solo pochi salari nominali furono diminuiti sicché, in termini reali, il loro potere d’acquisto crebbe di circa il 25 per cento. Nelle case operaie inglesi entrarono più pane, patate, burro, zucchero, sapone, candele e prodotti tessili realizzati a macchina. Tra la metà degli anni Venti e il quinquennio 1846-50, mentre i prezzi continuavano a calare, seppure con ritmo più blando (da –10 a –20 per cento), i salari nominali resistettero o calarono di meno. L’unica eccezione fu costituita dalle paghe dei tessitori, diminuite di quasi il 25 per cento per Figura 4.5 Indice dei prezzi all’ingrosso, 1814-1850 (media degli anni 1865-1885 = 100) Fonte: M. Cattini, op. cit., 1998 4 La prima rivoluzione industriale (1720-1870) 101 cevano le dimensioni del mercato nazionale e di quello estero” perché, mentre deprimevano il potere d’acquisto degli operai inglesi, alzando i prezzi del grano, dello zucchero, del burro ecc., limitavano anche la capacità d’acquisto dei paesi esportatori, desiderosi di vendere in Inghilterra le loro materie prime per poter acquistare manufatti industriali. Alla fine, il successo delle tesi liberoscambiste venne dalla prima mobilitazione dell’opinione pubblica. La Anti-Corn-Law League, fondata a Manchester nel 1836, e il suo apostolo più celebre, Richard Cobden, ottennero lo scopo sei anni più tardi. Nel 1842, il primo ministro conservatore Robert Peel varò quella riforma che i governi liberali degli anni 1824-25 e 1833-34 avevano solo abbozzato. La scala mobile del grano fu attenuata. Tutti i dazi furono abbassati, eliminati i divieti d’entrata di talune merci e fissate al 5 per cento le tariffe sulle materie prime. I dazi su semilavorati e prodotti finiti furono rispettivamente abbassati al 12 e al 20 per cento. Tabella 4.14 Bilancia britannica dei pagamenti, 1816-1850 (in milioni di sterline correnti) Bilancia commerciale Anni 1816-20 1821-25 1826-30 1831-35 1836-40 1841-45 1846-50 Import 49,3 45,4 48,7 53,6 73,6 71,0 87,7 Partite invisibili Export Saldo I/E Servizi (1) Capitali (2) Saldo 40,3 37,3 35,9 40,5 49,6 54,0 60,9 –9,0 –8,1 –12,8 –13,1 –24,0 –17,0 –26,8 14,5 14,2 10,6 14,1 18,6 15,4 22,0 1,74 4,24 4,60 5,38 7,98 7,50 9,48 7,24 10,34 2,40 6,38 2,58 5,90 4,68 (1) Noli marittimi, diritti postali, turismo, rimesse, servizi bancari, assicurazioni (2) Investimenti Fonte: A.H. Imlah, Economic Elements in the Pax Britannica. Studies in British Foreign Trade in the Nineteenth Century, New York, 1969 Un quadro generale e riassuntivo dei rapporti economici intrattenuti dalla Gran Bretagna con l’estero nella prima metà dell’Ottocento permette di soppesare il ruolo dei movimenti di merci (bilancia commerciale), l’importanza dei proventi ottenuti da servizi (soprattutto noli della flotta commerciale e assicurazioni marittime) e il crescente peso dei profitti realizzati investendo capitali all’estero. La dipendenza commerciale dall’estero è talmente evidente da giustificare la preoccupazione di aprire le porte alle merci straniere. A parte i manufatti, la vera forza dell’economia inglese consisteva nei servizi, nella riesportazione di coloniali (tè, cacao, tabacco ecc.) e nell’esportazione di capitali. La prima marineria commerciale del mondo per tonnellaggio produceva un enorme volume d’affari, per non dire dei servizi assicurativi, commerciali e bancari connessi. Se la bilancia dei pagamenti fu costan- ☞ 4 La prima rivoluzione industriale (1720-1870) 103 In America e in Germania gli stessi economisti giustificarono le attitudini protezioniste a vantaggio delle cosiddette “industrie bambine” nazionali. Come, del resto, avevano fatto gli stati settentrionali degli USA fin dal 1816. Le economie in via di sviluppo, anche se di piccole dimensioni, una volta appropriatesi delle conoscenze necessarie all’avvio dell’industrializzazione, abbracciavano il protezionismo per consolidare standard tecnici tanto elevati da permettersi di affrontare e battere sui mercati esteri la concorrenza britannica. In conclusione, solo per il periodo compreso tra l’abolizione delle leggi sui cereali in Inghilterra (1846) e l’avvio della grande depressione (1873), Gran Bretagna, aree in via di sviluppo e regioni sottosviluppate trassero un mutuo vantaggio dal libero commercio internazionale. Prima e dopo quel trentennio scarso, la condizione economica inglese fu assai diversa. Dopo essere cresciuto al ritmo dell’1 per cento annuo fra il 1800 e il 1830, il volume del commercio mondiale crebbe enormemente fra il 1840 e il 1870, aumentando di oltre cinque volte. Fu quello il periodo aureo dell’economia inglese – una prima forma di globalizzazione –, ma anche l’epoca a partire dalla quale il paese cominciò a perdere il suo primato industriale. Ostacolate dalla concorrenza delle industrie locali sui tradizionali mercati di sbocco, le imprese inglesi orientarono le loro esportazioni sempre più in direzione del mondo sottosviluppato che la Gran Bretagna controllava politicamente e commercialmente, anche fuori dei confini del suo immenso impero (Argentina, per esempio). La direzione presa dalle esportazioni di tessuti di cotone, la merce inglese per eccellenza, la dice lunga sulle strategie messe in atto per contrastare la crescente aggressività dei paesi in via d’avanzato sviluppo. ☞ Tabella 4.15 Sbocchi esteri dei tessuti inglesi di cotone (valori percentuali e direzione geografica) Anni Europa e USA Aree sottosviluppate Altri paesi Totale 1820 1840 1860 1880 1900 60,4 29,5 19,4 9,8 7,1 31,8 66,7 73,3 82,0 86,3 7,8 3,8 7,7 8,2 6,6 100 100 100 100 100 Fonte: E.J. Hobsbawm, La rivoIuzione industriale e l’impero, Torino, 1972, p. 162 Le interpretazioni del declino inglese hanno soprattutto insistito sulla “stanchezza” della terza generazione di imprenditori i cui avi avevano profittato di condizioni favorevoli al successo e i cui padri lo avevano consolidato, senza tuttavia innovare in misura significativa né l’organizzazione finanziaria e manageriale delle imprese, né le tecniche produttive. 104 L’Europa verso il mercato globale ☞ ☞ Per lo più, le industrie inglesi rimasero di media dimensione, a base individuale o societaria ristretta, spesso continuando ad appartenere alla famiglia del fondatore e lasciavano molto a desiderare sia sotto il profilo dell’aggiornamento tecnologico, sia sotto quello dell’amministrazione e del marketing. Taluni fattori esterni contribuirono ad aggravare una situazione socioculturale per molti versi statica. Il sistema scolastico britannico non fu all’altezza della sfida posta dal crescente fabbisogno di capitale umano istruito e addestrato a lavorare con strumenti tecnici. La Gran Bretagna fu l’ultimo grande paese occidentale a organizzare l’istruzione elementare su base statale per tutti i cittadini. Né il sistema universitario si adeguò prontamente all’esigenza di trasmettere conoscenze scientifiche e tecniche d’alto profilo. Ai primi del Novecento, in Germania si laureavano ogni anno all’incirca 3000 ingegneri, dalle università inglesi a mala pena ne uscivano 350. L’avvento tardivo di nuovi settori industriali ad alta intensità tecnologica come la chimica organica, l’elettricità – l’illuminazione pubblica e privata delle città inglesi, dalla fine del Settecento, era risolta con il gas illuminante ottenuto dal carbone – e l’alluminio, assieme al ritardo nell’adeguamento tecnologico in settori tradizionalmente forti, come l’acciaio, la chimica di base o la filatura e tessitura del cotone, che non si dotarono dei macchinari escogitati negli USA e nell’Europa continentale, attestano il complesso di superiorità e, insieme, il forte vincolo rappresentato dagli investimenti del passato, tecnologicamente superati, i cui costi d’impianto erano stati interamente ammortizzati (ammortamento). Per di più, stile di vita e valori culturali di riferimento del mondo imprenditoriale, essendo piuttosto ricalcati sui modelli della gentry e dell’aristocrazia fondiaria d’antica estrazione, erano quanto di più lontano potesse esistere dall’ingegneria industriale e dal management. Anche nel mondo del credito e della finanza l’accentuato conservatorismo istituzionale divenne presto un fattore d’arretratezza. Basti pensare all’assenza di banche Tabella 4.16 Reddito prodotto nel settore industriale, investimenti e spesa pubblica in Gran Bretagna e in Europa (1800-1910) Livelli % 1800 1840 1870 1890 1910 Reddito prodotto nel settore industriale in Gran Bretagna In Europa (media) Investimenti in % della spesa nazionale in Gran Bretagna In Europa (media) Spesa dello Stato in % della spesa totale in Gran Bretagna In Europa (media) 19,8 22,0 7,9 12,6 15,3 7,4 31,5 25,2 10,5 14,4 7,9 7,0 33,5 31,3 8,5 17,2 4,8 6,3 33,6 32,8 7,3 18,6 5,9 5,9 31,8 34,4 7,0 19,5 8,2 5,7 Fonte: N.F. Crafts, La recente Storia quantitativa della rivoluzione industriale, in «Rivista di Storia economica», 3, 1989 5 L’Europa industriale (1830-1914) Figura 5.1 Il Belgio Fonte: M. Cattini, La genesi della società contemporanea europea, Ca’ Sanguinetti, Modena, 1998 Fin dal Trecento, la regione di Gand era tra quelle a più alta densità di tessitori in Europa. Dopo quattro secoli di produzione laniera, nel Settecento vi si era sviluppata la fabbricazione di tele di lino con il sistema della manifattura rurale domestica. Dagli anni Settanta del Settecento, i mercanti di tele cominciarono a organizzare anche la stampa a colori sgargianti di cotonate importate dall’India. A Gand si insediarono anche fabbricanti olandesi di tele miste. Il nuovo settore, sviluppatosi rapidamente anche ad Anversa, venne organizzandosi secondo lo schema della grande manifattura accentrata. Il crescente successo sul mercato interno ed estero del coto- 109 110 L’Europa verso il mercato globale ☞ ne stampato portò alla guida degli opifici veri e propri imprenditori industriali. Dopo aver ottenuto il monopolio commerciale del cotone proveniente delle Indie olandesi, dal 1819-20, Gand divenne il maggior centro cotoniero continentale contando, nel 1830, 283.000 fusi e 700 telai meccanici. Lo straordinario sviluppo del cotonificio indusse miglioramenti tecnici anche nel tradizionale settore del linificio. Dopo molti tentativi di filare lino a macchina, furono importati filatoi automatici inglesi e, nel 1838, alcuni industriali cotonieri aprirono due grandi fabbriche di tele di lino al cui finanziamento parteciparono anche alcune banche. Non lontano da Liegi, a Verviers, presso il confine tedesco, dove esisteva una tradizione manifatturiera domiciliare della lana, fin dai primi dell’Ottocento furono introdotte alcune novità tecniche inglesi nella cardatura e nella filatura. Sulla tecnologia aggiornata furono innestate innovazioni locali, così che Verviers divenne il polo laniero più avanzato fuori d’Inghilterra. La rapida meccanizzazione delle operazioni di filatura e tessitura da un lato accelerò l’avvento della fabbrica, dall’altro garantì guadagni di produttività e stimolò concentrazione e integrazione verticale: da 150 nel 1789, le imprese si ridussero a 114 nel 1810 e addirittura a 50 a metà Ottocento, quando il volume dei tessuti risultò triplicato rispetto a mezzo secolo prima. Nell’insieme, l’esperienza storica dell’industrializzazione belga presenta alcuni caratteri peculiari: n la precocità dovuta al facile accesso alla tecnologia innovativa inglese; n l’intraprendenza degli industriali locali, primi organizzatori del sistema di fabbrica, e la disponibilità di capitale finanziario; n i rapporti sempre più serrati stretti, a partire dagli anni Trenta, dal sistema bancario con le industrie; n una politica statale favorevole all’industrializzazione che contribuì ad accelerare l’avvento di un’imprenditoria moderna e proiettò sul mercato internazionale una larga parte della produzione, nonostante un diffuso protezionismo e un tendenziale calo dei prezzi, fino ai primi anni Quaranta. Il volume delle esportazioni belghe non smise di crescere dai primi dell’Ottocento al 1913. Nell’ammontare globale del commercio internazionale europeo, le merci esportate dal Belgio rappresentavano il 2,9 per cento Tabella 5.1 Indice del Prodotto Interno Lordo (PIL) pro capite belga, comparato con quello inglese e dell’Europa continentale (indice base: Gran Bretagna 1830 = 100) Belgio Gran Bretagna Europa continentale 1830 1860 1870 1880 1890 1900 1910 82 100 66 142 161 82 165 182 95 170 197 96 182 227 99 208 255 118 247 261 131 Fonte: P. Bairoch, Commerce extérieur et croissance économique de l’Europe au XIX siècle, Paris, 1976, p. 155, elaborazioni dell’Autore 112 L’Europa verso il mercato globale Figura 5.2 Carta politica della Svizzera Dal 1821, l’adattamento alla tessitura del cotone del telaio realizzato da Joseph-Marie Jacquard nel 1808, permise di intessere pannelli colorati di grande effetto. L’accoglienza sui mercati statunitense, britannico e del vicino Oriente di quel nuovo genere di stoffe pregiate (tessuti operati, nastri, passamanerie, pizzi) favorì un vero e proprio boom dell’export svizzero in un settore oltretutto privo di concorrenti. La posizione di nicchia, ormai consolidata a metà dell’Ottocento, permise di continuare a usare telai a mano e filatoi idraulici dispersi entro un vasto comprensorio attorno a Lucerna, Zurigo, San Gallo e Berna. Nel settore serico, già avviato a Zurigo dalla seconda metà del Settecento (1800 telai), furono applicati principi analoghi: n lavorazioni tecnicamente accurate eseguite in piccoli opifici; n qualità eccellente; n forte orientamento all’esportazione. Nel 1848 attorno a Zurigo operavano 12.400 telai da seta e l’export del settore equivaleva a quello del cotone. 114 L’Europa verso il mercato globale Durante l’Ottocento la crescita economica del paese fu costante ed equilibrata. A partire dal 1892-94, si profilò una fase di sviluppo così intenso da allineare il PIL pro capite svizzero a quelli belga e britannico. Anche gli indici degli standard di vita della popolazione confermano una posizione d’eccellenza in Europa: mortalità infantile, consumi, densità di telefoni e di automobili all’inizio del Novecento posero il paese nelle primissime posizioni. Per di più, da secoli regione di emigranti, a prova delle migliorate condizioni economiche, dal 1890 la Svizzera cominciò a ricevere immigrati da Italia, Francia e Baviera. Tabella 5.2 Indici dei PIL pro capite belga, svizzero, inglese e dell’Europa continentale (indice base: Gran Bretagna 1830 = 100) Svizzera Belgio Gran Bretagna Europa continentale 1830 1860 1870 1880 1890 1900 1910 80 82 100 66 139 142 161 82 159 165 182 95 195 170 197 96 204 182 227 99 227 208 255 118 259 247 261 131 Fonte: P. Bairoch, Commerce extérieur et croissance économique de l’Europe au XIX siècle, Paris, 1976, p. 155, elaborazioni dell’Autore Pur lontana dal mare e quasi priva di un moderno settore siderurgico, tra il 1830 e il 1910 la Svizzera sperimentò una crescita economica – PIL pro capite – di prim’ordine. Fra i fattori che concorsero a un risultato tanto appariscente vi furono anche requisiti di carattere sociale e culturale come: ☞ ☞ n il livello di istruzione e di ingegnosità della popolazione; n un’ampia disponibilità d’energia idraulica che contenne i costi fissi e, alla fine dell’Ottocento, fu utilizzata per produrre elettricità, in pratica “saltando” la fase della macchina a vapore (20 per cento dell’energia disponibile da vapore nel 1890); n l’esportazione di prodotti di pregio e di nicchia; n una secolare abitudine al risparmio, che abbassò costo del denaro e propensione al consumo; n la combinazione di redditi agricoli e da manifattura domestica, che contribuì a comprimere i salari nella fase d’avvio (1810-1850); n un costante protezionismo agricolo, che nell’assicurare redditi adeguati ai contadini li trattenne dal cercare in massa lavoro nell’industria; n alta qualità delle produzioni nel cotonificio, nel setificio, nell’orologeria e, più tardi, nella farmaceutica e nella chimica; settori tutti ad alta intensità di lavoro e a basso consumo d’energia, di materie prime e di semilavorati; 5 L’Europa industriale (1830-1914) Figura 5.3 Lo sviluppo delle ferrovie in Francia, 1846-1856 Fonte: M. Cattini, op. cit., 1998 117 120 L’Europa verso il mercato globale n il cotone aveva parzialmente sostituito il lino e la lana causando una riduzione dei loro tradizionali sbocchi di mercato; n la larga disponibilità di mano d’opera rurale a basso costo ritardò la meccanizzazione e concentrazione della filatura; n le notevoli difficoltà tecniche da superare, tanto che la filatura meccanica della seta e della lana fu inaugurata in Francia solo dopo il 1815 e proseguì stentatamente fino agli anni Cinquanta. L’ultimo comparto tessile a dotarsi di macchine fu quello del lino, una fibra diffusamente coltivata e lavorata nelle campagne francesi su base tradizionale e domestica. I primi tentativi di filatura automatica furono realizzati nel 1837 al nord, a Lilla, non lontano da Gand e da altri centri del Belgio, dove in quegli stessi anni si avviava la modernizzazione del settore. Ancora più lenta fu la diffusione di telai automatici, stante la larga disponibilità d’attrezzi manuali nelle case contadine e il basso costo della manodopera rurale. Dai primi dell’Ottocento si impose il telaio Jacquard: un attrezzo ancora manuale affermatosi nella zona di Lione, impiegato soprattutto per le stoffe operate e nel setificio. Il telaio meccanico idraulico o a vapore, noto in Alsazia fin dai primi anni del XIX secolo, si diffuse lentamente, almeno fino a quando l’esigenza di standardizzare i tessuti e la crescente domanda non lo resero concorrenziale rispetto ai tradizionali modi di fabbricazione. La sostituzione avvenne in tempi diversi nelle varie regioni. Nel decennio del Quaranta in Alsazia, negli anni Sessanta in Normandia e ancor più tardi nel Lionese. Capitale finanziario e credito Attorno al 1815, in Francia, la moneta aveva un ruolo modesto come intermediario degli scambi. Per di più, la circolazione monetaria era intralciata dalla presenza di un’infinità di vecchie monete divisionali, nazionali ed estere, di valore intrinseco largamente inferiore al nominale. L’abitudine a tesaurizzare le specie a contenuto intrinseco (oro e argento) e l’insufficiente produzione di moneta metallica da parte della zecca, assieme alla riluttanza fuori delle grandi città ad accettare in pagamento le banconote, ritardarono sia l’avvento di un mercato monetario moderno, sia la nascita di un sistema creditizio capillarmente diffuso. Tabella 5.3 Struttura della massa monetaria in Francia (1803-1910, valori percentuali) Moneta metallica Banconote Depositi bancari Totali 1803 1845 1885 1910 95 5 – 100 82 8 10 100 52 29 19 100 33 23 44 100 Fonte: R. Cameron, Le banche e lo sviluppo del sistema industriale, Bologna, 1975 122 L’Europa verso il mercato globale Un freno allo sviluppo economico provenne anche dall’attitudine tutta francese a impiegare i risparmi in investimenti sicuri: come i titoli del debito pubblico nazionale e di quei paesi che riscuotevano la fiducia delle grandi banche parigine. Pertanto, durante il XIX secolo, solo un po’ meno della metà del risparmio netto francese fu investito nell’agricoltura e nell’industria del paese. Il commercio internazionale e l’andamento del reddito nazionale Rivoluzione e primo impero intralciarono non poco le relazioni francesi con l’estero, anche perché il conflitto con le potenze europee comportò un embargo commerciale (1806) tendente a isolare l’economia inglese, bloccandone le importazioni e le esportazioni da e nel continente. Dopo la caduta di Napoleone, e per buona parte dell’Ottocento, le importazioni di materie prime (cotone, carbone e lana) crebbero sotto lo stimolo dell’industrializzazione in corso. La forte protezione doganale accordata ai manufatti fino al 1860 ne contenne le importazioni che aumentarono solo dopo la firma dei trattati liberoscambisti. La bilancia commerciale francese, in avanzo fino al 1861, rimase in deficit fino alla vigilia della prima guerra mondiale. Il lungo periodo liberoscambista facilitò le importazioni di materie prime ma causò anche una depressione agricola, superata solo dall’introduzione di dazi protettivi nei primi anni Novanta. Poiché due terzi dei francesi nel 1885 abitavano nelle campagne, un peggioramento dei loro redditi originò un calo della domanda di beni industriali e rallentò la dinamica economica complessiva tra la metà degli anni Cinquanta e la metà degli Ottanta. Per di più, la sconfitta subita nel 1870 a opera dei prussiani portò alla perdita dell’Alsazia, il maggior polo dell’industria cotoniera, e della Lorena, ricca di giacimenti di carbone e ferro. Il trattato di pace (1871) addossò alla Francia il pagamento di un indennizzo di cinque milioni di franchi oro, rastrellati in un anno e mezzo con due prestiti pubblici che, trasferiti di là dal Reno, furono in parte usati dai tedeschi per importare pregiate merci francesi. Un raffronto degli indici della ricchezza media individuale Tabella 5.4 Indici dei Prodotto Interno Lordo pro capite francese, belga, svizzero, inglese e dell’Europa continentale (indice base: Gran Bretagna 1830 = 100) Francia Svizzera Belgio Gran Bretagna Europa continentale 1830 1860 1870 1880 1890 1900 1910 76 80 82 100 66 105 139 142 161 82 126 159 165 182 95 134 195 170 197 96 149 204 182 227 99 175 227 208 255 118 197 259 247 261 131 Fonte: P. Bairoch, Commerce extérieur et croissance économique de l’Europe au XIX siècle, Paris, 1976, p. 155, elaborazioni dell’Autore 5 L’Europa industriale (1830-1914) 123 prodotta in Francia con quelli belgi e svizzeri mette bene in evidenza il lento progresso dell’economia transalpina. La caduta delle protezioni daziarie, dopo il 1860, rivelò la debolezza del sistema economico francese. Nel corso del ventennio 1875-1894, l’invasione tanto di beni industriali esteri quanto di derrate agricole, che entravano spesso a prezzi inferiori rispetto a quelli interni, se favorì i consumatori penalizzò pesantemente i produttori. In conclusione, la miscela di vincoli e limiti dell’economia francese dell’Ottocento può essere così riepilogata: n lo svantaggio derivante dalle dimensioni geografiche e demografiche insolitamente ampie; n un’agricoltura arretrata, generalmente imperniata su coltivazioni volte ad assicurare la sussistenza, almeno fino alla metà del secolo; n la notevole arretratezza del sistema monetario e creditizio; n una persistente mentalità orientata soprattutto all’impiego del risparmio in investimenti a basso rischio; n un ingente debito pubblico che impegnava per il pagamento degli interessi una grossa parte del bilancio statale; n una domanda interna depressa, tanto a causa della stagnante dinamica demografica, quanto per la lenta crescita del reddito pro capite. Un mondo rurale conservatore e tradizionalista ebbe una parte non secondaria nella vicenda del lento sviluppo economico del paese. Nell’Ottocento la Francia divenne il massimo produttore di grano e di vino dell’Europa occidentale. Il raffronto tra le serie storiche delle produzioni di frumento dell’Inghilterra e della Francia mette in risalto la tendenza di quest’ultima a non sacrificare il settore tradizionale per favorire quel- ☞ Tabella 5.5 Produzione di frumento in Gran Bretagna e Francia nel XIX secolo (milioni di quintali) Gran Bretagna Francia 1831 1850 1860 1870 1876 1885 1895 1900 1907 33,7 51,3 25,2 66 24,1 76,2 30,7 74,2 25,6 75,5 21 85,2 10,4 92,4 14 86,6 15,5 103,8 Fonte: Annuaire de la Statistique Generale de la France, Parigi, 1951, pp. 386 e ss. Tabella 5.6 Rendimento del frumento in Gran Bretagna e Francia (quintali per ettaro) Gran Bretagna Francia 1831 1850 1860 1870 1876 1885 1895 1900 1907 19,4 8,2 20,2 11,1 15,4 11,4 21 10,7 17,7 10,9 19,2 10,4 22,9 13,2 20,5 12,9 22 15,8 Fonte: Annuaire de la Statistique Generale de la France, Parigi, 1951, pp. 386 e ss. 5 L’Europa industriale (1830-1914) 125 cesso nella cantieristica (scafi e motori a vapore ad alta pressione) e nella metalmeccanica ferroviaria (locomotive e vagoni, oltre a rotaie sette volte più resistenti di quelle di ferro). Tabella 5.7 Maggiori produttori di acciaio in Europa (1870-1913, in milioni di tonnellate) Gran Bretagna Germania Francia Europa % dei tre paesi 1870 1880 1890 1900 1910 1913 0,25 0,18 0,09 0,61 85 1,76 0,59 0,38 3,3 83 3,36 2,21 0,69 7,8 80 4,9 6,2 1,5 17,2 73 6,2 13,2 3,5 32,8 70 7,9 17,6 4,7 43,3 70 Fonte: P. Bairoch, Commerce extèrieur et développement économique de l’Europe au XIX siècle, Paris, 1976, p. 143 Applicata alla metallurgia, la chimica contribuì alla scoperta e all’utilizzo, in leghe con l’acciaio, di nuovi metalli come cromo, manganese e tungsteno e allo sfruttamento di zinco, nichel, magnesio e alluminio. Dopo che, dalla seconda metà del Settecento, per la lavorazione del cotone la chimica aveva saputo creare artificialmente la soda, l’acido solforico e il cloro, con la sintesi dell’anilina, dal 1856, la chimica industriale aprì la strada al fondamentale settore dei coloranti artificiali. Da allora in poi, soprattutto in Germania e Svizzera, esperimenti e ricerche di chimici di professione, usciti dai politecnici, avviarono quattro nuovi settori produttivi: 1. 2. 3. 4. principi attivi farmaceutici; esplosivi; reagenti fotosensibili; fibre sintetiche. Un sottoprodotto poco costoso della fabbricazione del coke: il catrame minerale, divenne la materia prima di quasi tutti i nuovi processi chimici. La realizzazione di fertilizzanti artificiali, spesso ottenuti come sottoprodotti siderurgici, assieme alla refrigerazione, liofilizzazione e pastorizzazione dei prodotti agricoli e dell’allevamento, stimolarono miglioramenti nelle pratiche agricole saldandole con la mondializzazione del mercato dei cereali e della carne bovina, avvenuta dai tardi anni Settanta grazie ai grandi piroscafi che coprivano lunghissime distanze in tempi assai ridotti, rispetto a quelli delle tradizionali navi a vela. L’elettricità fu il campo della fisica nel quale, fin dal primo Ottocento, si susseguirono scoperte teoriche più tardi tradotte in applicazioni economicamente sfruttabili. Nel 1821, l’inglese Michael Faraday inventò il motore elettrico e, dieci anni dopo, la dinamo. Vi furono però insormontabili problemi di produzione, distribuzione e sfruttamento industriale dell’elettri- 132 L’Europa verso il mercato globale Baviera e Sassonia concordarono un’unione doganale (Zollverein) a cominciare dal gennaio del ’34. Entro il ’67, tutti gli stati tedeschi vi aderirono formando una Germania economica con un’unica frontiera tariffaria esterna. Per di più, industrie svizzere, alsaziane e belghe si trasferirono entro i confini dello Zollverein per operare nel vasto mercato unificato tedesco. La costruzione di strade ferrate rafforzò le relazioni commerciali entro il mercato comune. La prima linea fu inaugurata nel 1835 in Baviera. Nel 1840 in Germania funzionavano già 550 km di ferrovie. Al termine di un decennio di massicci investimenti concentrati tra Reno ed Elba, nel 1850 il paese disponeva di 6000 km di ferrovie a integrazione di una rete di fiumi navigabili e di canali artificiali in costante espansione. Per l’ingegneria ferroviaria, fino agli ultimi anni Trenta, i tedeschi dipesero dalla tecnologia britannica. Dopo che il governo prussiano ebbe inviato in Inghilterra alcuni ingegneri, furono attivate produzioni nazionali di binari, carri e di locomotive (1839). In fatto di regolazione pubblica, i diversi stati si valsero di tutte le possibili soluzioni: linee costruite e gestite dallo stato, secondo lo stile belga, linee in concessione alla francese, altre totalmente private all’inglese. Figura 5.4 Lo Zollverein fra il 1834 e il 1888 Fonte: M. Cattini, op. cit., 1998 134 L’Europa verso il mercato globale ☞ 1852 al 1857, nonostante una crisi commerciale e gli effetti depressivi sul mercato cotoniero della guerra di secessione americana (1861-65), l’economia tedesca continuò a crescere impetuosamente. Fra il 1848 e il 1873, il settore tessile fu investito dai mutamenti più incisivi, con alla testa il comparto cotoniero che adottò le più avanzate tecnologie inglesi. L’industria della lana, molto meno accentrata di quella del cotone, si modernizzò più lentamente perché buona parte della materia prima era esportata. Già con i primi anni Sessanta, tuttavia, la bilancia commerciale del settore laniero divenne ampiamente positiva. Il settore tessile meno dinamico e tecnicamente arretrato continuò a essere il linificio, a causa del permanere di tradizioni produttive domestiche. Mancata la fase d’aggiornamento tecnico e organizzativo, il mercato interno fu perduto a vantaggio dei lini russi, di mediocre qualità, ma dai prezzi imbattibili. Sui mercati esteri i lini tedeschi cedettero alla concorrenza delle tele di Fiandra belghe e di quelle irlandesi e scozzesi. Le leggi minerarie prussiane del 1851 diedero notevole impulso all’estrazione di carbone e ferro. Furono aboliti i controlli statali sulle estrazioni e conferiti a proprietari e direttori dei cantieri libertà analoghe a quelle riconosciute agli industriali. Fu anche dimezzata la tassa gravante sulle materie prime estratte. Al crescere della domanda di minerale, le tecnologie estrattive venivano aggiornate e migliorate con risorse statali. In parte, intervenne anche quell’aristocrazia fondiaria che controllava i giacimenti. Non mancarono apporti di investitori stranieri (inglesi e belgi, in particolare), di banche e di singoli risparmiatori, favoriti dalla creazione di società minerarie anonime. Dalla metà del secolo, la domanda di prodotti siderurgici esplose. Mentre la produzione d’insieme del comparto industriale nel ventennio 18501870 raddoppiava (+98 per cento), quella del carbone e del ferro quintuplicò. Il salto di livello dell’intero sistema economico tedesco è ben testimoniato dagli indici dei volumi dei principali generi esportati. Tabella 5.8 Indici dei volumi d’esportazione dalla Germania (medie annuali su ciascun triennio) Anni 1849-51 1859-61 1869-71 Alimentari Materie prime Semilavorati Prodotti finiti Totale 100 156 300 100 185 506 100 192 515 100 186 310 100 176 338 Fonte: W.G. Hoffmann, Das Wachstum der Deutschen Wirtschaft seit der mitte des I9 jahrhunderts, Berlin-HeidelbergNew York, 1965, tab. 131, pp. 536-537 Le esportazioni di materie prime e semilavorati tennero un ritmo altissimo, quelle di prodotti finiti restarono al di sotto del livello generale delle vendite all’estero e superarono di poco quelle delle derrate agricole. Nel ven- Fonte: M. Cattini, op. cit., 1998 Figura 5.5 La formazione dell’Impero tedesco 1864-1870 136 L’Europa verso il mercato globale 138 L’Europa verso il mercato globale 5.3.7 Verso una posizione di primato Dal 1870 al 1913, ormai avviata a diventare una delle grandi potenze economiche e commerciali del mondo, la Germania esportò sempre meno derrate agricole e sempre più prodotti industriali ad alto valore aggiunto. Se, attorno al 1860, i manufatti tessili rappresentavano circa la metà di tutte le merci esportate, nel 1913 non superavano il 20 per cento. Alla vigilia della grande guerra, nell’export germanico i prodotti metalmeccanici rappresentavano il 40 per cento e quelli chimici il 19 per cento. A partire dal 1880, l’economia tedesca ebbe un equilibrato sviluppo che coinvolse agricoltura, commercio e servizi accanto all’industria, il settore dei massimi investimenti in tecnologia. Tabella 5.9 Indici di sviluppo di alcuni settori economici tedeschi e del Prodotto Interno Lordo nazionale, 1870-1913 (1913 = 100) Anni Carbone Metalli Tessile Trasporti Industria PIL totale 1870 1880 1890 1900 1913 13,9 24,7 36,9 57,5 100 7,5 13,9 23,8 47,5 100 31,9 40,1 65,0 72,8 100 8,9 16,1 27,9 50,1 100 18,8 26,1 39,9 61,4 100 29,2 36,5 48,7 68,4 100 Fonte: W.G. Hoffmann, Das Wachstum der Deutschen Wirtschaft seit der mitte des I9 jahrhunderts, Berlin-HeidelbergNew York, 1965, pp. 390-392 e 451-452 Gli indici mostrano le diverse dinamiche settoriali. Il tessile fece da battistrada nell’industria. Metalli e trasporti, strettamente collegati nella meccanica, elettromeccanica e cantieristica, crebbero lentamente fino al 1890, dopo di che, in un quarto di secolo, quadruplicarono le dimensioni della ricchezza prodotta. Il successo industriale tedesco per gran parte dipese dalle grandi dimensioni aziendali e dai continui investimenti migliorativi in tecnologia, favoriti anche dagli stretti legami intrecciati fra industria, credito e finanza. Un secondo fattore di crescita fu rappresentato dalla rinuncia alla concorrenza antagonistica sui prezzi a vantaggio di accordi e di combinazioni fra imprese. Quando, con i primi anni Settanta, gli imprenditori si accorsero che era cominciato un prolungato calo dei prezzi e di erosione dei profitti, fra loro prevalsero attitudini favorevoli alla stipulazione di Kartell-Bewegung (cartelli industriali), veri e propri patti di non aggressione miranti a mantenere sul mercato un discreto numero di imprese d’analoga dimensione, bandendo la concorrenza. Sorti con l’intento di mitigare le eccessive alterazioni dei prezzi e di mantenerli attorno a livelli comunque superiori ai costi, nelle forme più evolute della fine Ottocento, i cartelli giunsero a regolare prezzi e produzioni, a 5 L’Europa industriale (1830-1914) distribuire le quote di mercato tra imprese e a formare potenti gruppi d’acquisto delle materie prime. Nel 1891 fu costituito il sindacato (cartello) della ghisa e, nel 1904, quello gigantesco dell’acciaio cui aderirono 27 imprese metallurgiche che controllavano l’85 per cento della produzione nazionale. La possibilità di fissare prezzi impegnativi per tutti i produttori di interi settori merceologici spostò la concorrenza dal mercato all’organizzazione aziendale (management) e alla tecnologia produttiva. Le imprese più efficienti, essendo dati i prezzi di vendita dei prodotti e i ricavi, agirono piuttosto sul controllo dei costi e della produttività per spuntare crescenti margini di profitto. L’industria tedesca condusse anche una politica commerciale aggressiva di dumping, vendendo all’estero a prezzi inferiori ai costi per inibire la nascita di competitori entro i paesi più arretrati. Le perdite accumulate esportando sottocosto erano compensate dai maggiori prezzi pagati dai consumatori tedeschi che, in tal modo, assicuravano stabilità produttiva e occupazione alle imprese. Di fatto, piazzando all’estero una consistente quota di produzione, le fabbriche lavoravano a pieno regime minimizzando i costi medi. La pratica del dumping era l’effetto delle sempre più energiche difese daziarie messe in atto dalla maggior parte dei paesi a quell’epoca in via di sviluppo. Prezzi bassi all’esportazione, pur sopportando dazi pesanti, sarebbero stati egualmente competitivi sui mercati esteri di sbocco. Così facendo, le imprese tedesche riuscirono a mantenere solide posizioni sui mercati esteri, nonostante l’ostilità commerciale dei paesi importatori. La realizzazione in molti comparti di integrazioni verticali e orizzontali – alla belga – di aziende appartenenti allo stessa società permise di realizzare consistenti economie di scala. Le grandi imprese erano la regola nell’industria pesante dove, nel 1907, quasi tre quarti degli addetti lavoravano in fabbriche con più di mille lavoratori. Anche negli altri settori, però, la concentrazione era un fenomeno relativamente diffuso, come mostra la seguente tabella. 139 ☞ Tabella 5.10 Occupati in opifici con più di 50 addetti nel 1907 (settori e percentuali) Metalmeccanico Elettromeccanico Chimica di base Filatura Tessitura 84 96,4 90 89 73,5 Fonte: D. Landes, Prometeo liberato. Trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale nell’Europa occidentale dal 1750 ai giorni nostri, Torino, 1978, p. 393 La concentrazione degli operai in stabilimenti di grandi dimensioni favorì una migliore utilizzazione del personale, con sensibili incrementi della produttività. Nelle fonderie, per esempio, la produttività del lavoro crebbe addirittura di sette volte e mezzo tra il 1880 e il 1910. 144 L’Europa verso il mercato globale Figura 5.6 Sistema dell’agricoltura nella Russia europea verso la metà del XIX secolo Fonte: M. Cattini, op. cit., 1998 146 L’Europa verso il mercato globale Tabella 5.11 Fabbriche, operai (in migliaia) e addetti in media per stabilimento in Russia dal 1804 al 1855 (ferriere e distillerie escluse) Anni Fabbriche Operai Addetti 1804 1815 1825 1825 1830 1835 1840 1845 1850 1855 2.399 4.189 4.578 5.261 5.450 6.054 6.863 8.302 9.848 10.943 95,2 172,8 179,6 210,6 253,9 288,1 435,8 507.6 501.7 483.2 40 41 39 40 47 48 63 61 51 44 Fonte: F.X. Coquin, La Russia, in Storia economica e sociale del mondo, a cura di P. Leon, vol. III.2, Le rivoluzioni 17301840, Roma-Bari, 1980, p. 626 La serie storica mette in evidenza soprattutto due aspetti. Il primo: l’alto numero di addetti per opificio, spiegabile con l’assenza di macchinari e con l’utilizzo di servi trasformati in operai. Il secondo: la minima percentuale di manodopera impegnata nelle fabbriche, pari a meno dell’1 per cento dell’intera popolazione nel 1850. Benché, dagli anni Quaranta, la Russia disponesse di tecnologie importate, la nobiltà non riuscì a trasformarsi in un ceto imprenditoriale. Indebitati e privi di credito, ignavi e ignoranti, i pomesciki non seppero organizzare le proprie tradizionali manifatture servili su basi rinnovate e preferirono “affittare” in blocco i loro servi-operai a intraprendenti industriali, nonostante fosse vietato per legge. Accanto alle manifatture servili, vi erano imprese fornitrici di materiale strategico allo stato, come vele e cordami per la flotta e come carta, armi, uniformi ecc. per la burocrazia pubblica, che ricevevano in proprietà un certo numero di servi-operai. A mano a mano che penetrava un’elementare meccanizzazione, gli imprenditori supplicarono il governo di poter fare a meno dei servi per impiegare salariati liberi, da assumere e licenziare secondo le congiunture. L’unico settore industriale all’altezza dei tempi a metà Ottocento era il cotonificio. Sorto nel 1753, quando due imprenditori inglesi avevano ottenuto il privilegio di aprire uno stabilimento di rifinitura e tintura di cotonate indiane alla periferia di San Pietroburgo, a fine Settecento, esistevano quasi 200 manifatture localizzate in prevalenza nella regione di Mosca. Attraverso un sistema misto di servi-imprenditori, attivi per conto dei loro signori e di mercanti che ricorrevano al sistema tradizionale di tessitura a domicilio, i filati importati dall’Inghilterra erano trasformati in tessuti. Attorno al 1830, ormai emancipatasi dall’importazione di filati inglesi, in Russia cominciarono a comparire grandi impianti tecnologicamente all’avanguardia, come quello del barone Stieglitz (1833), dotato di macchine a vapore, di illuminazione a gas e di 25/30.000 fusi. 5 L’Europa industriale (1830-1914) Figura 5.7 La Russia verso il 1860 (Atlas historique de l’URSS, t. II, tav. 15) Fonte: M. Cattini, op. cit., 1998 I dazi protettivi sui filati esteri, assieme all’importazione di macchinari e di tecnici inglesi, tra il 1838 e il 1853 favorirono un boom della filatura. Contemporaneamente, il governo rilanciò l’espansione territoriale in Asia centrale, sia per avviarvi la coltivazione del cotone, sia per smaltirvi le 147 5 L’Europa industriale (1830-1914) 149 raggiunto da una strada ferrata. Il governo concesse il terreno, accordò prestiti, garantì commesse di rotaie e, nel 1887, aumentò le dogane sui prodotti siderurgici impegnandosi a non diminuirli per almeno 12 anni. L’iniziativa della ditta belga fu rapidamente imitata da altri imprenditori d’Europa occidentale (belgi, francesi e inglesi). Tra il 1886 e il 1900, in Ucraina si svilupparono due giganteschi bacini siderurgici con stabilimenti integrati che utilizzavano le tecniche più avanzate allora note. ☞ Tabella 5.12 Indici dei volumi di prodotto dei principali settori industriali russi, anno 1887 = indice 100 Generi 1887 1890 1900 1908 1913 Ghisa Carbone Ferro e acciaio Petrolio Cotone (consumo) Zucchero 100 100 100 100 100 100 152 133 136 146 72 95 490 357 459 407 139 187 474 582 415 341 184 296 784 802 694 362 225 435 Fonte: R. Portal, L’industrializzazione della Russia, in Storia economica Cambridge, vol. 6, Torino, 1974, pp. 903 e 910 Il governo incoraggiò e sostenne anche le attività metalmeccaniche. Specialisti inglesi della fabbricazione di macchine a vapore furono invitati a impiantare fabbriche. Dal 1880, il settore crebbe rapidamente, tanto che alla fine del secolo XIX la metalmeccanica russa produceva telai automatici per le industrie tessili, macchine per mulini a cilindri, per distillerie di vodka e per produrre e raffinare lo zucchero ricavato dalle barbabietole. Nel settore petrolifero – sorto nel Caucaso – e in quello del credito si affermarono dei veri e propri trust, mentre nella metallurgia la combinazione di cartelli, attenuando la concorrenza, permise di espandere le esportazioni. La crescita del ceto borghese, protagonista dell’imprenditoria e della finanza, produsse un mutamento sociale soprattutto nelle città, nelle quali l’artigianato tradizionale cominciò a tramontare. Al finanziamento delle infrastrutture pubbliche e dell’industria privata parteciparono sia i capitali esteri sia quelli nazionali. Fino al 1875, seppur irregolarmente, giunsero in Russia soprattutto risorse finanziarie inglesi e tedesche. A partire dai primi anni Ottanta, gli investimenti esteri crebbero di mole e si orientarono verso il prestito pubblico. Anche l’industria fruì di capitali esteri, tanto che nel 1900 il 40 per cento del capitale delle società per azioni russe apparteneva a investitori stranieri. In alcuni settori la finanza estera addirittura dominava. Nei primi anni del XX secolo l’88 per cento delle risorse investite nella metallurgia, il 72 per cento della meccanica, il 48 per cento degli investimenti immobiliari e il 29 per cento del capitale creditizio appartenevano a stranieri. ☞ 150 L’Europa verso il mercato globale Figura 5.8 La Russia verso il 1913 (Atlas historique de l’URSS, t. III, tav. 9) Fonte: M. Cattini, op. cit., 1998 Nel 1913 la situazione non era molto cambiata. Il 52 per cento di tutto il capitale privato apparteneva a investitori esteri, con interessi soprattutto nell’estrazione mineraria, nella metallurgia, nella chimica, nelle banche e nel tessile. Il primato degli investimenti esteri spettava alla Francia (34,4 152 L’Europa verso il mercato globale Rispetto a quella dei maggiori stati dell’Europa centro-occidentale, l’economia italiana era arretrata e depressa. Il 58 per cento della ricchezza prodotta veniva dall’agricoltura, il 22 per cento da commercio, trasporti, banche, assicurazioni e servizi e solo il 20 per cento da un artigianato tradizionale e da una piccola industria tessile (lanificio e cotonificio). Per di più, come ai giorni nostri, quasi tutte le imprese avevano meno di dieci addetti. Attorno al 1860, il reddito medio pro capite degli italiani era ovviamente di molto inferiore a quello degli abitanti degli altri paesi europei economicamente più evoluti, a parte la Russia. Tabella 5.13 Reddito medio pro capite degli abitanti di alcuni paesi europei nel triennio 1859-61 (in dollari e prezzi statunitensi del 1960, Gran Bretagna indice 100) Gran Bretagna Belgio Svizzera Francia 558 490 480 365 (100) (88) (86) (65) Germania Europa (media) Italia Russia 354 310 301 178 (63) (55) (54) (32) Fonte: P. Bairoch, Commerce extérieur et croissance économique de l’Europe au XIX siècle, Paris, 1976 L’economia italiana, all’epoca divisa in molti mercati particolari, separati gli uni dagli altri dalla diversità delle monete preunitarie che continuavano a circolare, da dazi municipali che funzionavano come dogane interne e da alti costi di trasporto, risentiva di alcune caratteristiche sfavorevoli all’avvio di un processo di crescita industriale. n L’agricoltura era tra le meno produttive d’Europa. Il reddito medio per addetto era un quarto di quello inglese, a un terzo di quello francese, metà di quello tedesco, belga, austriaco e svizzero e, infine, due terzi di quello russo. I pochi suoli adatti alle coltivazioni (circa il 40 per cento del territorio), le condizioni climatiche sfavorevoli, l’arretratezza agronomica e la carenza di macchine e di fertilizzanti chimici (capitale) non garantivano nemmeno l’autosufficienza cerealicola del paese. n Il basso reddito assicurato dal dominante settore primario, nel limitare i consumi, impediva anche l’accantonamento di risparmi. Nel primo quindicennio dopo l’unificazione, la percentuale di ricchezza prodotta e risparmiata dagli italiani non superò in media il 2 per cento annuo. n Il paese era privo delle risorse naturali (ferro e carbone) indispensabili per l’impianto di una siderurgia moderna e per fare massiccio uso della macchina a vapore: il motore universale dell’industria ottocentesca sostitutivo del vecchio mulino ad acqua. Negli anni Sessanta e Settanta, l’azione del governo a favore delle imprese fu relativamente blanda. L’estensione all’intera nazione delle dogane liberoscambiste piemontesi cancellò le protezioni daziarie per quei manufatti 5 L’Europa industriale (1830-1914) 157 Tabella 5.14 Prodotto Interno Lordo pro capite (in dollari USA 1990 e indici) Anni Italia Francia Germania Gran Bretagna Stati Uniti 1871 1891 1911 1.473 (100) 1.615 (110) 2.407 (163) 1.881 (100) 2.409 (128) 3.219 (171) 1.891 (100) 2.508 (133) 3.602 (190) 3.421 (100) 4.065 (119) 4.815 (141) 2.508 (100) 3.471 (138) 5.052 (201) Fonte: A. Maddison, Monitoring the World Economy (1820-1992), Paris, 1995 Gli anni della grande guerra (1914-1918), con la “mobilitazione industriale”, comportarono un’assidua regolazione amministrativa delle oltre mille imprese che partecipavano allo sforzo di produrre rifornimenti adeguati. La pubblica amministrazione avrebbe garantito le scorte di materie prime, le fonti energetiche e la manodopera necessaria, che fu equiparata alle truppe arruolate. Per consegnare nei tempi stretti richiesti dal Ministero della Guerra cartucce, spolette, divise e scarponi molte imprese ricorsero a subappalti a imprese artigiane che impiegavano lavoratori e lavoratrici a domicilio, pagati a cottimo. Nei febbrili anni della guerra, le grandi imprese siderurgiche e meccaniche divennero colossi perché approfittarono di una legislazione che prevedeva facilitazioni fiscali per i profitti reinvestiti in ampliamenti e in nuovi impianti. Numerose aziende industriali attivarono centrali elettriche per non dipendere da altri per i rifornimenti energetici. I settori della chimica, degli esplosivi e della meccanica dei motori per autocarri, aerei e navi ebbero sviluppi repentini. La certezza dei margini di utile e la ristrettezza del mercato nazionale frenarono gli investimenti in tecnologia, la creazione di organizzazioni manageriali complesse e di estese reti commerciali. L’Italia uscì dalla guerra vittoriosa, ma con enormi disavanzi di bilancio statale e debiti esteri ingenti, con prezzi più che quadruplicati, troppa cartamoneta in circolazione e potenziali produttivi industriali largamente superiori alla più ottimistica capacità d’assorbimento della domanda interna. L’agricoltura versava in condizioni anche peggiori. La sua manodopera era stata largamente utilizzata come fanteria al fronte e nelle numerose fabbriche ausiliarie, il patrimonio zootecnico era stato decimato, mancavano i fertilizzanti chimici e le scorte erano state requisite dagli ammassi obbligatori, sicché la domanda di manufatti industriali espressa dal mondo rurale crollò rendendo anche più difficile il ripristino di condizioni produttive di pace. 6 L’industria fuori d’Europa cento nel 1872) che deteneva la terra in semplice uso. Ai daimyo, titolari dei diritti sui suoli, i contadini conferivano la metà del riso raccolto e prestavano periodicamente lavoro. L’appartenenza per nascita a un ceto decideva i destini individuali, essendo vietato cambiare residenza e occupazione o mestiere. Ai daimyo e ai samurai era proibito commerciare, sicché i mercanti prosperavano mettendo in circolazione i raccolti dei nobili e prestando loro denaro. L’esistenza di numerosi centri urbani densamente popolati fu un potente fattore d’evoluzione economica e sociale. Nelle città, infatti, durante il XVIII secolo, i mercanti garantivano l’offerta di derrate agricole e di manufatti e i banchieri prestavano a usura. Nelle campagne, aggirando la legge, i contadini più abili e fortunati accrescevano il loro controllo sui terreni, svolgendo il ruolo di maggiorenti e influenzando l’amministrazione locale. Insomma, nonostante una politica improntata alla conservazione dell’assetto sociale tradizionale, nel lungo andare i Tokugawa non riuscirono a evitare che, nelle città come nelle campagne, prosperasse una borghesia orientata agli scambi e al credito, mantenuta in condizioni di inferiorità sociale e culturale nonostante controllasse una crescente quota di ricchezza fondiaria (case e terreni) e mobiliare (merci, denaro e credito). Figura 6.1 Carta politica del Giappone con la Corea e la costa cinese 159 6 L’industria fuori d’Europa 163 no un forte spirito di disciplina e un alto senso dell’onore, le tensioni sociali si attenuarono. Impossibilitati a fabbricare in proprio o a importare impianti produttivi tecnicamente avanzati, gli industriali giapponesi si adattarono ad acquistare a basso prezzo attrezzature obsolete e dismesse nei paesi più avanzati (capitale), che tuttavia funzionavano ancora. Nel commercio internazionale, dopo una prima fase durante la quale il paese esportò materie prime e prodotti agricoli, soprattutto rame, carbone, tè e seta, superate le prime tappe dell’industrializzazione, vennero venduti all’estero i manufatti tessili. Solo dopo aver costruito una solida base industriale, il Giappone si lanciò nella diversificazione delle attività. Ancora nel 1913 importava acciaio e macchinari industriali. Tabella 6.1 Indici del commercio estero giapponese (1910-14 = 100) Anni 1885-89 1895-99 1905-09 1910-14 1915-19 1920-24 1925-29 1930-34 Importazioni Esportazioni Differenza 16 46 87 100 124 190 242 277 16 31 61 100 168 142 217 327 – –15 –26 – +44 –48 –25 +50 Fonte: W.W. Lockwood, The Scale of The Economic Growth in Japan (1868-1938), in Economic Growth, Brasil, India, Japan, Princeton, 1955 Nel breve arco di un quarantennio, il nazionalismo imperialista giapponese condusse tre guerre vittoriose nello scacchiere asiatico. La prima, del 1894-95, combattuta contro la Cina, rese un’ingente quantità di oro come risarcimento dei danni di guerra; la seconda, contro l’impero russo nel 1904-1905, impose il paese all’attenzione del mondo; la terza, con l’invasione della Manciuria nel 1931, inaugurò il colonialismo del Sol levante. La politica statale degli armamenti concorse allo sviluppo della siderurgia, della meccanica, dell’industria cantieristica e dell’aeronautica. Nel corso del settantennio trascorso fra la fine dello shogunato dei Tokugawa (1868) e la vigilia della seconda guerra mondiale (1938), la crescita economica giapponese ristagnò nel decennio delle guerre con la Cina e con la Russia, ma successivamente fu continuo e sostenuto. Nel corso del cinquantennio 1885-1935 la produzione totale quadruplicò, secondo un ritmo medio annuo di +3,3 per cento, e il reddito pro capite aumentò di sole tre volte a causa della consistente crescita della popolazione, che da 34,8 milioni, nel 1872, giunse a 43,8 nel 1900 e a 69,1 milioni nel 1935. Il prodotto pro capite della popolazione attiva, dopo il 1905, testimonia il sostenuto aumento del fattore capitale applicato alla produzione. 164 L’Europa verso il mercato globale Tabella 6.2 Popolazione e prodotto nazionale netto giapponese, 1885-1935 (indici a prezzi costanti, 1885 = 100) Anni Pop. in milioni Prodotto pro capite Prodotto pro capite della pop. attiva 1885 1895 1905 1915 1925 1935 38,5 (100) 41,9 (109) 46,7 (121) 53,3 (138) 59,9 (155) 69,1 (179) 100 132 132 161 231 292 100 129 132 176 272 360 Fonte: M. Niveau, Storia dei fatti economici contemporanei, Milano, 1972, tab. V, p. 108 In conclusione, l’economia giapponese moderna offre uno dei più riusciti esempi di sviluppo economico diretto dal governo e dalla burocrazia pubblica. La prima e principale ragione del successo consiste nell’avere accettato senza complessi d’inferiorità culturale il ruolo di paese economicamente arretrato. Il Giappone non fece appello al capitale finanziario estero, evitò di imitare le strutture dei consumi europei, non coltivò ambizioni smisurate in fatto di industria, né sognò di far meglio dei migliori paesi industrializzati del tempo. La permanente capacità di apprendere, imitare, adattarsi e perseguire l’ottimo possibile è il segreto del successo giapponese. C’è anche un secondo elemento esplicativo altrettanto notevole. Il processo di rapida modernizzazione – dal feudalesimo al capitalismo – avvenne senza implicazioni ideologiche e su base eminentemente empirica, facilitato dalla proverbiale frugalità dei contadini. Dall’Occidente fu preso a prestito solamente quanto era tecnicamente indispensabile, per il resto le tradizioni culturali, l’organizzazione sociale fondata sulla famiglia, un alto livello medio d’istruzione e l’etica del lavoro ben svolto svolsero un ruolo decisivo. La prevalenza del gruppo sul singolo individuo, il valore riconosciuto alla cooperazione e all’armonia piuttosto che all’antagonismo e alla rivalità, il rispetto ossessivo per le differenze di rango e per i cerimoniali, l’importanza accordata alle relazioni personali (l’alto senso dell’onore) da sempre preferite alle transazioni contrattuali, sono altrettante testimonianze della tenuta, nel tempo, di un mondo di relazioni e di valori ereditato dalla tradizione; un mondo che non ha impedito al paese di diventare modernissimo senza tradire la propria identità culturale. 6.1.4 Dalla sconfitta militare all’eccellenza economica Uscito sconfitto dalla seconda guerra mondiale, il Giappone si diede una costituzione democratica (monarchia costituzionale), rinunciò ad avere un esercito e intrattenne con il suo vincitore, gli Stati Uniti, relazioni tanto 6 L’industria fuori d’Europa 165 strette da diventare suo alleato, nel 1951, e da imitarne le tecniche di gestione aziendale. Di fronte all’altissima concentrazione di proprietà industriali e bancarie (3762 individui legati agli zaibatsu controllavano poco meno della metà del capitale azionario giapponese), il comando americano occupante stabilì rigorose regole per avviare una democratizzazione dell’economia. L’intento era l’eliminazione degli zaibatsu. Le società holding furono dichiarate fuori legge e suddivise in molte nuove imprese, le grandi famiglie dovettero cedere i loro pacchetti azionari, che furono collocati presso il pubblico. Infine, imposte straordinarie sui patrimoni e sulle trasmissioni ereditarie ridussero a un ventesimo delle dimensioni prebelliche la ricchezza controllata dalle grandi famiglie. Recuperata la sovranità, coerentemente alla cultura nazionale, il governo invertì la rotta favorendo una ricomposizione degli antichi potentati senza tuttavia eliminare un diffuso azionariato popolare, che oggi detiene la maggior parte delle quote azionarie di grandissime imprese, come la Mitsubishi e la Hitachi che contano svariate centinaia di migliaia di azionisti. Al posto degli zaibatsu comparvero i keiretsu (i lignaggi) che raggruppano in senso verticale o orizzontale aziende minori sotto l’egida di una grande impresa dominante. Nel 1962 l’autorità parlamentare d’inchiesta sugli assetti societari appurò che le 256 aziende «madri» controllavano in media ciascuna 16 società «figlie». Dopo una fase di ristagno durata dal 1914 al 1945, il volume del commercio mondiale quadruplicò tra il 1953 e il 1977. Con il passare del tempo, prevalsero i prodotti industriali ad alto valore specifico e, in questo campo, il Giappone continuò ad accrescere la sua quota di esportazioni vendendo all’estero più di quanto importava; anzitutto perché i suoi prodotti, tecnologicamente avanzati, avevano prezzi concorrenziali e poi perché il governo nipponico ha sempre adottato politiche commerciali difensive e mantenuto relativamente bassi i consumi interni. ☞ ☞ Tabella 6.3 Incidenza percentuale delle esportazioni di alcuni paesi sul totale mondiale (1951-2004) USA Giappone Germania Gran Bretagna Italia 1951 1960 1970 1982 1987 2004 20,3 1,9 5,4 8,8 2,2 18,9 3,8 12,2 8,4 3,4 14,8 6,7 11,9 6,7 4,6 12,2 8,2 10,4 5,7 4,4 10,5 9,9 12,7 5,7 5,0 9,0 6,2 10,0 3,8 3,8 Fonte: V. Zamagni, Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica dell’Italia 1861-1990, Bologna, 2000, p. 454 e calcoli dell’Autore in ICE-ISTAT, L’Italia nell’economia internazionale, rapporto ICE 204-2005, Roma, 2005 6 L’industria fuori d’Europa Figura 6.2 Gli Stati Uniti: dalle 13 colonie alla costa del Pacifico Fonte: Toninelli, Nascita di una nazione, Il Mulino 1953 in Europa la maggior parte delle sue produzioni di piantagione, grazie ai porti e ai mercanti internazionali del nord-est. Negli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta, la costruzione di ferrovie permise di collegare ancora più strettamente le tre grandi regioni economiche e, soprattutto, mise in relazione diretta le vaste pianure centrali produttrici di cereali, mais e carne con l’area industriale altamente urbanizzata del nord-est. 6.2.2 Dal conflitto economico alla guerra di secessione La scoperta di ricche miniere d’oro in California, nel 1848, accelerò il ritmo di immigrazione negli USA e quello di trasferimento verso ovest di pionieri-coloni e di cercatori d’oro. La crescente disponibilità di metallo giallo sul mercato americano ebbe due conseguenze. La prima fu la preferenza per l’oro come metallo di riserva, a garanzia della circolazione di cartamoneta prodotta dalle banche. La seconda si tradusse in un tendenziale incremento dei prezzi, sia dei prodotti agricoli sia di quelli industriali. Tra il 1847 e il 1855 giunsero negli USA 300.000 emigranti (fattore lavoro) all’anno e, dalla piazza di Londra, affluirono capitali finanziari da investire soprattutto nelle grandi società ferroviarie che costruivano tron- 169 6 L’industria fuori d’Europa 171 135 a 60 ha, mentre decine di migliaia di proprietari diretti coltivatori bianchi e di mezzadri neri prendevano il posto della manodopera schiava. 6.2.3 Verso imprese di grandi dimensioni Dal 1865 al 1914 lo sviluppo dell’economia statunitense proseguì quasi ininterrotto contemporaneamente in tutti e tre i settori: l’agricoltura e allevamento, in continua espansione nelle grandi pianure centrali e in California (vigneti e frutteti); l’industria pesante (gli USA divennero il primo produttore mondiale d’acciaio) e leggera; il terziario delle assicurazioni e delle banche, ma soprattutto dei trasporti navali e ferroviari. Nell’arco di tre generazioni (1839-1919) – circa ottanta anni – la popolazione crebbe di oltre sei volte, facendo del paese il primo mercato di massa del mondo. La ricchezza mediamente disponibile per ogni cittadino americano aumentò a un ritmo di pressappoco la metà di quello, altissimo, tenuto dalla dinamica demografica. Infine, la ricchezza mediamente prodotta da ogni persona economicamente attiva crebbe sensibilmente, a riprova dei continui investimenti in dotazioni di capitale tecnico e del miglioramento dell’organizzazione produttiva affidata a manager ingegneri. Il progresso tecnico e organizzativo riguardò ogni settore: siderurgia dell’acciaio, chimica di base e chimica fine, meccanica, fonti energetiche (carbone, elettricità, distillazione del petrolio), agroindustria (carne congelata, fresca e conservata, legumi e frutta in scatola), vestiario (abiti confezionati di serie e scarpe). L’introduzione di tecniche di vendita innovative nelle grandi città (grandi magazzini e pubblicità) e nelle campagne (vendite per corrispondenza) accelerò la creazione di un mercato nazionale in continua espansione perché la manodopera (da 13 a 37 milioni di addetti fra il 1870 e il 1910) non cessava di crescere, soprattutto grazie all’immigrazione. Poiché la forza lavoro riceveva alti salari, nella distribuzione della ricchezza prodotta annualmente la quota assegnata al fattore lavoro continuò a crescere, alimentando la domanda aggregata e spingendo l’offerta a rispondere adeguatamente. Tabella 6.4 Popolazione e produzione del primario e secondario negli Stati Uniti, 1839-1919 (valori espressi in dollari costanti e indici) Anni Popolazione (x 1.000) Produzione pro capite Produzione per addetto 1839 1859 1879 1899 1919 17.120 (100) 31.513 (184) 50.262 (293) 76.094 (444) 106.466 (622) 64 (100) 85 (133) 105 (164) 154 (241) 201 (314) 244 (100) 330 (135) 413 (169) 602 (246) 858 (352) Fonte: R.E. Gallman, Commodity Output in the United States, Princeton, 1960, pp. 16-19 6 L’industria fuori d’Europa 173 La gestione delle ferrovie pretese il ricorso a un’inedita figura professionale: l’alto dirigente stipendiato e impegnato a tempo pieno. Egli aveva il compito di preordinare i movimenti dei treni per merci e per passeggeri, di disporre la manutenzione ordinaria di locomotive, carri, stazioni, depositi e linee, di contabilizzare i flussi finanziari (entrate e spese), di calcolare i costi e di fissare i prezzi. La formazione di personale adatto a svolgere un così complesso insieme di funzioni fu affidata ai politecnici, sicché gli ingegneri civili e industriali cominciarono a essere identificati come i professionisti culturalmente meglio attrezzati per svolgere il ruolo di dirigenti nelle grandi imprese a organizzazione complessa. L’adozione di macchine a ciclo continuo, che realizzavano enormi quantità di pezzi, indusse le imprese a riversare sul mercato internazionale una parte crescente della produzione (macchine da cucire, macchine agricole, macchine da scrivere e registratori di cassa), corredandola d’assistenza tecnica alla clientela, del servizio dei ricambi e di crediti sugli acquisti. La vittoria dei nordisti, convinti protezionisti dei prodotti industriali, portò al raddoppio delle tariffe doganali dopo la fine della guerra civile (1865) così da riservare ai produttori nazionali il mercato interno, sul quale andavano peraltro dispiegandosi tecniche di vendita (marketing) innovative, che facevano della pubblicità il mezzo propagandistico prevalente. Dai secondi anni Settanta, quando, grazie alle nuove capienti e rapide navi a vapore, i cereali delle grandi pianure centrali poterono raggiungere i porti europei a prezzi imbattibili, le esportazioni statunitensi, che consistevano in materie prime, derrate agricole, manufatti industriali e macchine (agricole, da cucire e da scrivere), sopravanzarono le importazioni con vantaggio per la bilancia dei pagamenti. Per quanto ricco e in continua espansione, tuttavia il mercato interno non era sufficiente ad assorbire i crescenti volumi dei prodotti agricoli e industriali. Le esportazioni del cinquantennio 1860-1910, tra le quali i prodotti dell’agricoltura, non scesero in valore mai sotto un peso relativo del 20 per cento e i beni industriali passarono dal 15 per cento degli anni Settanta al 33 per cento del periodo 1909-18, prova che, nel corso del trenten- Tabella 6.5 Importazioni ed esportazioni degli USA, 1860-1910 (in milioni di dollari correnti) Anni Esportazioni Importazioni Saldo 1860 1870 1880 1890 1900 1910 334 393 836 858 1.394 1.745 354 436 668 789 850 1.557 –20 –43 168 69 544 188 Fonte: P.A.Toninelli, Nascita di una nazione. Lo sviluppo economico degli Stati Uniti (1780-1914), Bologna, 1993, p. 238 7 La prima globalizzazione fra Ottocento e Novecento 7.1 La formazione di un mercato mondiale Nei quarant’anni che precedettero lo scoppio della prima guerra mondiale, l’Europa raggiunse il massimo potere economico, insieme rappresentato dal primato nella produzione di beni industriali (Gran Bretagna, Germania, Belgio, Svizzera e Francia) e dal dominio sul commercio internazionale il cui volume, nel periodo 1885-1914, crebbe in media del 3,3 per cento l’anno, mentre i prezzi internazionali, dopo un calo dal 1873 al 1896, avevano preso a crescere. L’esistenza di un’imponente rete di trasporti in Europa e nell’America settentrionale (818.900 km di ferrovie nel 1913), collegata ai porti frequentati da navi metalliche sempre più capienti e veloci i cui noli (costi dei viaggi) continuavano a diminuire, accelerò il processo di integrazione dell’economia mondiale avviato dalla Gran Bretagna a metà Ottocento con l’eliminazione delle dogane e la libera circolazione internazionale delle merci. Dagli anni Settanta, le popolazioni originarie del vecchio continente che stavano colonizzando i territori extraeuropei a clima temperato, grazie alla diffusione delle ferrovie (dal 1890 al 1913 furono realizzati 169.000 km di strade ferrate in Asia, Africa e America Latina) e di piroscafi a vapore, rinsaldarono i rapporti con i mercati delle rispettive patrie. Tabella 7.1 Sviluppo delle reti ferroviarie nei continenti (in chilometri a fine anno) Anni Europa America del Nord America del Sud Asia Africa Mondo 1870 1880 1890 1900 1913 104.900 169.100 225.300 292.400 362.700 89.200 161.800 291.100 340.800 456.200 3.980 12.900 40.300 61.100 110.900 8.190 16.200 32.300 51.400 92.100 1.790 4.650 9.390 20.100 48.000 209.800 372.400 617.300 790.100 1.105.500 Fonte: P. Bairoch, Commerce extérieur et développement économique de l’Europe au XIXe siècle, Paris, 1976, p. 32 Nel secondo Ottocento e nel primo Novecento, il trapianto di quasi 22 milioni di europei nelle Americhe, in Sud Africa e in Australia diffuse un 7 La prima globalizzazione fra Ottocento e Novecento 177 anche quasi monopolisti del mercato internazionale del grano, ma dai primi del Novecento presero il sopravvento le esportazioni cerealicole dell’Argentina e del Canada. Alla stessa epoca, il Giappone divenne il maggior esportatore di seta e di tè. Tabella 7.2 Valore delle esportazioni dei maggiori paesi nel 1913 (milioni di dollari correnti e percentuali) Gran Bretagna Germania Stati Uniti Francia Russia 2.550 2.450 2.450 1.340 780 21,8 20,9 20,9 11,5 6,6 Austria-Ungheria Italia Australia Canada Giappone 610 480 380 360 320 5,2 4,1 3,2 3,1 2,7 Fonte: P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo, vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi, Torino, 1999, vol. II, p. 1038 7.2 Guerre doganali e rivalitàtecniche e commerciali L’aumento dell’offerta in Europa di derrate agricole di base provenienti dalle regioni extraeuropee, a prezzi nettamente più bassi rispetto a quelli interni ai diversi paesi, in un mercato effettivamente aperto avrebbe dato origine a un’inevitabile quanto pronta riorganizzazione delle coltivazioni, secondo i postulati del mercato di concorrenza. Dagli ultimi anni Settanta, sotto la minaccia dei grani americani, attivando un’efficace pressione politica, gli agricoltori dell’Europa occidentale riuscirono a evitare di dover procedere a radicali riconversioni (per esempio l’abbandono della cerealicoltura a favore di altre coltivazioni) ottenendo dai governi energiche difese doganali. L’introduzione e l’inasprimento di tariffe (con rialzi oscillanti tra il 25 e il 150 per cento), che colpivano tanto le importazioni di derrate agricole quanto quelle di manufatti industriali, innescò una reazione a catena di conflitti commerciali fra paesi europei, che in qualche caso sfociarono in vere e proprie guerre doganali. Germania, Francia, Austria-Ungheria, Russia e Stati Uniti si distinsero nella rincorsa al rialzo dei dazi all’importazione, che raggiunse il culmine fra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento. Solo la Gran Bretagna rimase fedele al dogma liberoscambista perché l’opinione pubblica inglese, memore delle lunghe e dure battaglie politiche condotte per l’abolizione della scala mobile sui grani, non accettava l’idea che i prezzi dei beni alimentari potessero aumentare (come sarebbe avvenuto nel caso che le importazioni di derrate agricole fossero sottoposte a oneri doganali). Le regioni dell’impero britannico prive di autonomia finanziaria non poterono che allinearsi alla madrepatria, sicché andò formandosi un duplice mercato internazionale: quello inglese, improntato al liberoscambismo, e quello dei paesi in via di industrializzazione, contrad- 178 L’Europa verso il mercato globale distinto da regimi doganali che disincentivavano gli scambi e favorivano relazioni commerciali preferenziali con partner ai quali erano legati anche da affinità politiche e diplomatiche. La fede inglese nel liberoscambismo fece sì che s’invertisse la corrente di importazioni ed esportazioni di manufatti industriali da e verso i paesi dell’Europa continentale. I consumatori inglesi beneficiarono dei prezzi industriali interni più bassi d’Europa, ma l’apparato produttivo del paese incontrò crescenti ostacoli nel conservare le dimensioni e le posizioni acquisiste durante il trentennio liberoscambista (1843-73). Tabella 7.3 Importazioni ed esportazioni britanniche di manufatti da e per l’Europa industrializzata* (valori in milioni di sterline correnti) Importazioni Esportazioni Saldi 1855 1878 1899 1911 8,5 20,3 +11,8 42,4 41,2 –1,2 71,9 42,4 –29,5 98,9 65,8 –33,1 * Germania, Francia, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Svezia, Austria-Ungheria e Italia Fonte: P. Bairoch, Commerce extérieur et croissance économique de l’Europe au XIX siècle, Paris, 1976 Dalla fine dell’Ottocento, insomma, nell’Europa continentale e negli USA il nazionalismo economico prevalse sul liberalismo concorrenziale. Di là dall’adesione a politiche protezioniste o liberiste, allora era più che mai attuale la questione del ruolo degli stati nell’opera di sostegno e di promozione dello sviluppo delle economie nazionali. Dalla metà dell’Ottocento, nei paesi impegnatisi nel rincorrere l’industria britannica, i governi non potevano disinteressarsi del finanziamento di basilari infrastrutture quali porti, strade, canali e ferrovie, della promozione di un’essenziale armatura industriale e, con essa, dell’industria pesante cantieristica e produttrice d’acciaio. Nel medesimo tempo, era indispensabile attenuare il disagio indotto dall’avvento dell’industrializzazione nei settori tradizionalmente meno efficienti come agricoltura e commercio al dettaglio. Il diffuso irrigidimento doganale in ogni caso ebbe l’effetto di stimolare i maggiori gruppi produttori di beni industriali a superare gli ostacoli commerciali frapposti alla circolazione internazionale dei prodotti aprendo stabilimenti all’interno dei paesi protezionisti. In tal modo si trasferirono capitali finanziari e tecnologie piuttosto che merci e si diede vita a gruppi multinazionali che, a partire dai brevetti che controllavano, avviarono imprese ad alta tecnologia là dove, spontaneamente, non sarebbero sorte. Gruppi di imprese del genere facevano parte di cartelli internazionali che decidevano i prezzi di ogni mercato secondo una logica di tendenziale monopolio. Il trust americano delle sigarette, per esempio, controllava 7 La prima globalizzazione fra Ottocento e Novecento 179 quasi per intero le manifatture inglesi e aveva stabilito solidi presidi produttivi anche in Germania. L’avvento di processi e la realizzazione di prodotti ad alto contenuto tecnico, tipici della seconda rivoluzione industriale, alimentarono rivalità tra paesi europei che esportavano in concorrenza con la Gran Bretagna; rivalità inimmaginabili fra il 1843 e il 1873, nel trentennio liberoscambista, quando i paesi in via di industrializzazione erano ancora alle prime armi. Dopo aver umiliato la Francia (1870), la maggior potenza politica continentale, sui campi di battaglia, dall’ultimo decennio del XIX secolo, la Germania strappò alla Gran Bretagna il primato industriale in Europa a cominciare dalla siderurgia dell’acciaio. Tra il 1910 e il 1913 le esportazioni tedesche sopravanzarono di poco quelle statunitensi e nettamente quelle inglesi. Questi ultimi, addirittura, compravano semilavorati d’acciaio dai loro concorrenti tedeschi. Costoro, adottando il metodo Gilchrist-Thomas, dai secondi anni Settanta avevano potuto utilizzare il minerale di ferro ricco di fosforo che abbondava nel loro sottosuolo e avevano sviluppato gigantesche acciaierie verticalmente integrate, dai costi medi imbattibili per gli inglesi. Tabella 7.4 Produzione di acciaio in Germania, Gran Bretagna ed Europa, 1880-1913 (migliaia di tonnellate e indici) Gran Bretagna Germania Europa 1880 1890 1.760 (100) 590 (100) 3.310 (100) 3.360 (191) 2.210 (374) 7.810 (258) 1900 1910 4.900 (278) 6.260 (356) 6.240 (1.058) 13.170 (2.220) 17.250 (521) 32.850 (992) 1913 7.890 (448) 17.600 (2.983) 43.350 (1.319) Fonte: P. Bairoch, Commerce extérieur et croissance économique de l’Europe au XIX siècle, Paris, 1976 Per la Gran Bretagna, un altro fattore di crisi provenne dalla formazione di un mercato globale del carbone, che ne mise in difficoltà le esportazioni perché i prezzi delle varietà inglesi erano pari a quelli dei minerali tedeschi ed erano addirittura tripli di quelli dell’antracite scavata di là dall’Atlantico settentrionale, nelle ricche miniere della Pennsylvania. Venivano così meno le condizioni che avevano lungamente permesso all’economia inglese di sopportare i costi più bassi per produrre energia e calore. Inoltre, la concentrazione delle esportazioni inglesi principalmente sui due settori del carbone e dei tessuti di cotone, impediva di applicare ai rispettivi processi produttivi innovazioni tecniche capaci di abbattere consistentemente i costi. Nella chimica industriale, uno dei settori di recente formazione, la Germania vantava un altro netto vantaggio competitivo rispetto alla Gran Bretagna, derivante dall’esistenza in quel paese di numerose istituzioni culturali e scientifiche (scuole tecniche e università) d’alto profilo. La formazione di quadri dirigenti e il gran numero di scienziati dediti alla ricerca 7 La prima globalizzazione fra Ottocento e Novecento 181 Dagli ultimi anni Settanta dell’Ottocento, l’afflusso dei cereali americani nei paesi d’Europa che li importavano per integrare le loro produzioni (Gran Bretagna, Germania e Italia) fu una delle principali cause del rallentamento dello sviluppo agricolo delle regioni del vecchio continente. Tenuto conto dell’importanza relativa del settore primario nell’Europa di allora, nonostante le dogane protettive, la concorrenza americana causò una caduta dei prezzi, dei redditi e del potere d’acquisto di contadini e agricoltori tradottasi in un ripiegamento della domanda di concimi e macchine agricole, con non trascurabili effetti di freno sui ritmi generali di crescita economica. 7.3 Alle origini del sottosviluppo: il secondo colonialismo ☞ La superiorità di strumenti tecnici (naviglio d’alto mare armato di cannoni a lunga gittata) e concettuali (la capacità di dedurre dalle leggi scientifiche le applicazioni pratiche e le invenzioni, l’abilità nel padroneggiare l’energia, una mirabile produzione cartografica), assieme alla superiore arte della guerra, del governo e del credito, a partire dal XV secolo permisero agli europei di stabilizzare il loro dominio su popolazioni di altri continenti. Fin dall’inizio, i rapporti fra Europa e altre civiltà e culture si stabilirono su un piano di disparità. L’iniziativa aggressiva degli europei causava remissione o antagonismo armato. Alla lunga, i bianchi prevalsero ovunque affermando la loro superiorità tecnica e concettuale mediante il diritto, il potere e l’organizzazione. Attorno al 1760, quando l’Inghilterra muoveva i primi passi verso l’industria, le popolazioni dei diversi domini coloniali, estesi per 24,2 milioni di kmq, ammontavano a 27 milioni di abitanti, mentre l’Europa ne contava circa 130 milioni. Nel 1830, quando la decolonizzazione di gran parTabella 7.5 Popolazione coloniale dei paesi economicamente avanzati (in milioni, 1760-1938) Paesi Belgio Francia Germania Giappone Italia Paesi Bassi Portogallo Regno Unito Spagna Stati Uniti 1760 1830 1880 1913 1938 – 0,6 – – – 3,3 1,6 2,7 18,8 – – 0,5 – – – 11,1 0,7 189 4,3 – – 7,1 – – – 24,1 1,8 270,9 8,3 – 11 48 12,5 19,6 1,9 49,9 5,6 393,8 0,9 10 14,3 70,6 – 30,9 12,9 68,4 10,6 496,1 1,1 18,6 Fonte: P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo. Vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi, 2 voll., Torino, 1999, vol. I, tab. 41, p. 715 182 L’Europa verso il mercato globale te delle Americhe aveva ridotto a un terzo (8,2 milioni di kmq) la superficie del dominio coloniale europeo, le popolazioni colonizzate (205 milioni) superavano quelle d’Europa (180, senza la Russia). Alla vigilia della prima guerra mondiale (1913), l’estensione del mondo coloniale misurava 53,2 milioni di kmq e le sue popolazioni rappresentavano un terzo dell’intera popolazione mondiale. La massima espansione di abitanti (724 milioni) e di superficie dominata (56,7 milioni di kmq) dagli europei si ebbe nel 1938. Tra il 1760 e il 1938 l’assetto coloniale subì una doppia trasformazione. L’America, emancipatasi da inglesi (guerra d’indipendenza statunitense), portoghesi e spagnoli (1822-23) cedette il suo primato d’area coloniale all’Asia. Analogamente, dal 1830, il primato del controllo dei bianchi sul resto del mondo passò dalla Spagna al Regno Unito. Se a metà Settecento la Spagna controllava il 70 per cento della popolazione colonizzata e l’Inghilterra il 10 per cento, nel 1830, la seconda, che fra l’altro aveva spalleggiato le colonie ispanoamericane nel separarsi dalle madrepatrie, era arrivata al 92 per cento degli uomini colonizzati mentre la Spagna era precipitata al 2 per cento. Anche il Portogallo, coprotagonista della prima colonizzazione cinquecentesca e dominatore incontrastato dell’Asia fino alla fine del Cinquecento, nell’Ottocento non era più una potenza marittima e commerciale: perduto il Brasile (1822), in Asia conservava Goa e in Africa arrivò a controllare l’Angola e il Mozambico solo dal 1880. Tabella 7.6 Superficie coloniale per aree continentali in milioni di chilometri quadrati (1760-1938) Continenti 1760 1830 1880 1913 1938 Africa America Asia Oceania Totale – 23,7 0,4 – 24,2 0,4 1,3 3,7 2,7 8,2 1,7 9,6 5,1 8 24,5 26 10,3 8,4 8,6 53,2 29,1 10,3 8,7 8,6 56,7 Fonte: P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo. Vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi, 2 voll., Torino, 1999, vol. I, tab. 41, p. 715 Secondo stime attendibili, intorno al 1790, il «Terzo Mondo» coloniale esportava in Europa circa 400.000 t di merci di differente valore, il 90 per cento delle quali erano prodotti agricoli i cui due terzi erano rappresentati da zucchero di canna seguito, nell’ordine d’importanza, da cotone greggio, caffè, spezie, tè e, a distanza, da cacao, seta greggia, tabacco ecc. Alla vigilia della prima guerra mondiale, le merci importate in Europa ammontavano a 20 milioni di t, pari a 50 volte i quantitativi del 1790. Anche le proporzioni fra i prodotti erano profondamente mutate. Il peso dello zuc- 7 La prima globalizzazione fra Ottocento e Novecento 183 chero, per esempio, nel 1910 era sceso al 45 per cento per la concorrenza dello zucchero di barbabietola prodotto in Europa. All’inizio del XX secolo, anche le esportazioni di indaco (un colorante naturale), di tessuti e di metalli preziosi avevano perso due terzi del loro iniziale peso relativo, mentre, per contro, era quintuplicato quello di sostanze oleose, cereali, concimi e carne. Se guardiamo al valore (misurato in milioni di dollari) delle merci coloniali che tra il 1830 e il 1912 dalla periferia raggiungevano il centro mentre la rivoluzione industriale si diffondeva nella vecchia Europa, negli Stati Uniti d’America e in Giappone, la dinamica dei trasferimenti tenne ritmi sostenuti e subì una straordinaria accelerazione nei primi dodici anni del Novecento, all’epoca della prima globalizzazione dell’economia mondiale. Tabella 7.7 Valore delle esportazioni delle colonie in milioni di dollari USA correnti Anni 1830 1860 1900 1912 Milioni di $ correnti Indici Tasso annuo di crescita % 275,3 100 – 696,7 253 5,1 1.777 645 3,9 3.887,2 1412 9,8 Fonte: P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo. Vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi, 2 voll., Torino, 1999, vol. I, tab. 44, p. 729, elaborazioni dell’Autore Tre processi condizionarono la diversificazione dei prodotti importati dalle colonie: n la progressiva industrializzazione europea, con il ridurre i costi di produzione dei manufatti, ne rese quasi impossibile l’esportazione dalle colonie e, nel contempo, creò le premesse di un’inondazione in periferia di prodotti industriali europei e nordamericani; n l’innalzamento sensibile, nel lungo andare, dei tenori di vita degli europei moltiplicò gli sbocchi per l’offerta di quei prodotti tropicali fino ai primi dell’Ottocento percepiti come beni di lusso esotici; n l’abbattimento progressivo dei costi di trasporto sulle lunghe distanze (velieri e poi piroscafi) dagli anni Quaranta in avanti rafforzò le due tendenze ricordate. Nessun paese non occidentale, a parte il Giappone, riuscì ad avviare un processo di sviluppo economico prima del 1960, quando le «quattro tigri» asiatiche (Hong Kong, Corea, Thaiwan e Singapore) misero in moto uno sviluppo così rapido che, nel 1980, ormai rientravano fra i paesi economicamente avanzati. Come spiegare la durevole condizione d’arretratezza economica del Terzo Mondo (ex coloniale), a sessant’anni dall’avvio della decolonizzazione (1947)? Innanzitutto, la diffusione delle innovative tecniche agricole inglesi nel sud del mondo fu ostacolata da condizioni climatiche assai diverse da 188 L’Europa verso il mercato globale ☞ caduti, ostilità verso le divisioni partitiche, disistima verso la classe politica e i sistemi parlamentari (l’imperativo era agire, non discutere per confrontare le opinioni). Al ritorno dal fronte, i reduci trovarono una società ben più polarizzata di quella prebellica: da una parte un ristretto gruppo di nuovi ricchi, molti dei quali, improvvisatisi fabbricanti, commercianti, intermediari e faccendieri, avevano sfruttato la particolare congiuntura interna, mentre altri rischiavano o perdevano la vita sui campi di battaglia. Fra l’altro, il repentino quanto appariscente arricchimento dei «profittatori» metteva in discussione la solida fiducia nella superiorità del lavoro e nella virtù del risparmio, minando i fondamenti di quei valori borghesi maturati e consolidatisi lungo l’Ottocento. Al polo sociale opposto c’era la maggioranza delle vittime degli effetti economici della guerra. Coloro che vivevano di redditi fissi, come i percettori di rendite immobiliari urbane e rurali, in pochi anni avevano visto drasticamente ridursi le loro entrate, a mano a mano che l’inflazione progrediva. Costoro, numerosissimi in Francia, Belgio e Gran Bretagna, possessori di obbligazioni di società anonime quotate in borsa e di titoli del debito pubblico, avevano sopportato pesanti tagli del potere d’acquisto dei loro redditi e del valore stesso dei titoli, quando gli investimenti non erano andati perduti per fallimento o bancarotta degli stati esteri emittenti. I titoli pubblici russi del periodo zarista, per esempio, furono disconosciuti dopo che i bolscevichi si furono consolidati al potere. Il Tesoro del nuovo governo turco, caduto l’impero ottomano, non garantì il pagamento degli interessi sul debito pubblico preesistente. Nemmeno il mondo rurale – nel quale operava la maggioranza delle popolazioni europee – fu risparmiato dalle conseguenze economiche della guerra. Nei diversi paesi, i prezzi delle derrate agricole non salirono abbastanza da equilibrare l’effetto inflativo e, in ogni caso, aumentarono molto meno dei prezzi dei prodotti industriali. Tornata la pace, quegli uomini e donne delle campagne che avevano lavorato nelle industrie furono espulsi Tabella 8.1 Livelli di disoccupazione nell’industria in alcuni paesi europei prima e dopo la guerra 1914-18 Paesi Belgio Danimarca Germania Gran Bretagna Norvegia Paesi Bassi 1911-1913 1922-1929 1,9 8,2 3,5 2,8 1,6 3,6 1,6 16,8 10,0 11,4 16,7 7,9 Fonte: P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo: vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi, 2 voll., Torino, 1999, vol. II, tab. 511, p. 952 190 L’Europa verso il mercato globale Tabella 8.2 Circolazione delle banconote di alcune banche centrali, medie annuali (e indici) in milioni di unità della valuta di ogni paese (1913-1921) Anni 1913 1914 1915 1916 1917 1918 1919 1920 1921 Banca d’Inghilterra Banca di Francia (sterline) (franchi) 28,7 (100) 35,6 (124) 33,8 (118) 35,4 (123) 40,2 (140) 54,8 (191) 76,4 (266) 114,8 (400) 127,3 (444) 5.665 7.325 12.280 15.552 19.845 27.531 34.744 38.286 37.352 (100) (129) (217) (275) (350) (486) (613) (674) (659) Reichsbank (marchi) 1.958 (100) 2.018 (103) 5.409 (276) 6.871 (351) 9.010 (460) 13.681 (699) 27.887 (1.424) 52.435 (2.678) 76.536 (3.909) Banca d’Italia (lire) 1.647 1.828 2.624 3.294 4.660 7.751 10.197 13.525 14.175 (100) (111) (159) (200) (283) (471) (619) (821) (861) Fonte: C.P. Kindleberger, Storia della finanza nell’Europa occidentale, Roma-Bari, 1987, p. 403, elaborazioni dell’Autore sciuta di sette volte, il disavanzo del bilancio statale di sei volte, il rapporto fra riserva d’oro e moneta cartacea (gold standard) era calato dal 57 per cento al 10 per cento e, infine, i prezzi erano quintuplicati. In condizioni non troppo diverse versavano anche Austria, Francia, Belgio e Italia. Per i governi, la pace portò con sé il pesante fardello delle pensioni a favore di orfani e vedove dei caduti e di quei reduci, grandi invalidi, che non potevano tornare al lavoro. Stabilito il principio che le vittime della guerra avevano diritto alla solidarietà della nazione, l’erogazione di indennizzi e sussidi pretese un’organizzazione burocratica senza precedenti. Nei bilanci pubblici, fra le spese ordinarie, la corresponsione di pensioni ebbe un peso rilevante e concorsero a rendere ancora più difficile il ritorno al pareggio fra entrate e uscite. Nel caso dei tre imperi sconfitti (Germania, Austria-Ungheria e Turchia), gli oneri derivanti da interessi del debito pubblico e pensioni si aggiunsero alle riparazioni o danni di guerra imposti soprattutto alla Germania (132 miliardi di marchi) dopo che Inghilterra, Francia, Belgio e Giappone si erano spartiti le sue colonie e che, con la firma del trattato di pace di Versailles (giugno 1919), la Francia le aveva sottratto l’Alsazia, la Lorena e la regione mineraria e industriale della Saar. 8.6 Il difficile ritorno alla normalità Finita la grande guerra, in Europa il rapporto fra stato e imprese private mutò profondamente. Dopo che il potere pubblico aveva regolato per anni ogni rapporto economico e sociale, il ritorno a condizioni di pace fu lento, difficile e graduale. I governi continuarono a regolare l’economia nell’utopistico intento di ripristinare condizioni analoghe a quelle preesistenti rispetto al 1914. Dal 1920, quando furono progressivamente abrogate le 8 Da una guerra all’altra (1914-1945) 191 norme degli anni della mobilitazione generale, con qualche differenza tra paesi vincitori e sconfitti, i problemi comuni a tutti gli stati usciti dalla guerra erano: n ricostruire le infrastrutture (strade, ferrovie, ponti, porti, dighe) e il capitale tecnico (impianti produttivi pubblici e privati) distrutti o danneggiati; n gestire i debiti di guerra interni e internazionali e le riparazioni dei paesi sconfitti (la Germania soprattutto); n rientrare dall’inflazione, ricostituire le riserve di oro e di valute estere convertibili in oro in modo da ritornare alla base aurea della moneta e da ripristinare il gold standard; n ridurre l’eccesso di capacità produttiva in alcuni settori industriali (metalmeccanica, chimica, automobilistica, cantieristica, aeronautica) enormemente cresciuti durante il conflitto; n attenuare la dilagante disoccupazione, reperire risorse per corrispondere sussidi pubblici ai reduci di guerra invalidi, alle vedove e agli orfani; n limitare le importazioni troppo costose, tenuto conto dell’inflazione, e contingentare gli scambi internazionali. Nell’immediato dopoguerra, ci si illuse di tornare in breve al dinamismo economico dei primi tre lustri del Novecento, quando la produzione era stata costantemente in crescita e, nonostante i molti intralci daziari, gli scambi internazionali avevano continuato a lievitare. Da paesi strutturalmente esportatori di beni, servizi e capitali, cioè dalla condizione di paesi creditori che ricevevano pagamenti in oro, la guerra Tabella 8.3 Indici del potenziale economico degli Stati Uniti e dell’Europa (Russia esclusa), prima e dopo la grande guerra PNL per abitante (in $ 1960) Stati Uniti Europa 1913 1925 1.351 655 1.617 (+19,7%) 653 (–0,4%) Produzione d’acciaio (indice 1913 = 100) Stati Uniti Europa 100 100 Esportazioni totali (miliardi di $ correnti) Stati Uniti Europa 2,4 9,8 5 (+108,3%) 14,3 (+45,9%) Capitali all’estero (miliardi di $ correnti) Stati Uniti Europa 4 44 15 (+275%) 29 (–34,1%) 143,7 102,5 Fonte: P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo: vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi, 2 voll., Torino, 1999, vol. 2, tab. 50, elaborazioni dell’Autore 196 L’Europa verso il mercato globale Tabella 8.4 Spese militari, in percentuale del PIL, in alcuni paesi, dal 1929 al 1938 Anni 1929-32 1933 1934 1935 1936 1937 1938 Germania Italia 0,9 3,2 4,4 8,9 11,4 14,4 28,2 3,7 5,5 6,8 7,3 15,7 16,1 9,2 Francia Gran Bretagna 3,8 4,0 6,3 7,4 8,2 7,1 7,2 2,0 2,1 3,9 5,1 7,1 9,4 12,8 URSS USA Giappone 3,4 4,1 18,3 26,4 12,8 13,7 19,7 0,9 1,0 1,2 1,1 1,1 1,1 1,3 2,5 1,6 2,4 2,3 2,1 5,2 9,8 Fonte: P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo: vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi, 2 voll., Torino, 1999, vol. II, tab. 57, p. 975 8.8 Le politiche economiche e sociali in alcuni paesi europei In Gran Bretagna, dal 1934 il governo intervenne a sostegno dei settori minerario, cotoniero e dei cantieri navali. In alcune regioni del paese la disoccupazione arrivò a oscillare fra il 30 e il 60 per cento, mentre in altre non superava il 5-8 per cento. 200.000 lavoratori disoccupati furono incentivati a trasferirsi in contee dove c’era domanda di lavoro. Dal 1937, furono offerti incentivi alle imprese che si installavano in aree economicamente depresse. Il tasso ufficiale di sconto fu mantenuto basso per incoraggiare gli investimenti. Furono promosse costruzioni immobiliari, piani regolatori urbani e di sviluppo di nuovi centri. Per il commercio internazionale, la clausola della preferenza imperiale tra paesi del Commonwealth garantì gli sbocchi delle esportazioni nazionali e i rifornimenti di materie prime coloniali. In Francia, dopo la svalutazione della sterlina (settembre 1931), il governo mantenne il gold standard e tentò una politica di deflazione controllata. Il ribasso dei prezzi fece aumentare i disoccupati e calare i profitti, mentre i costi di produzione erano in lenta discesa. Gli agricoltori furono i più colpiti dal ribasso dei prezzi e dalla perdita dei loro risparmi per fallimento di molte banche locali. Il malessere economico e sociale, nelle elezioni del 1936, portò alla vittoria il Fronte popolare (la sinistra) che abbandonò la parità aurea e svalutò il franco del 30 per cento, avviò opere pubbliche, accrebbe i salari statali e privati, diminuì l’orario di lavoro da 48 a 40 ore settimanali, prescrisse 15 giorni di ferie ai lavoratori dipendenti pagate dai datori di lavoro e promosse la stipulazione di contratti collettivi fra sindacati e padronato. Nel 1937, per effetto delle misure governative fu raggiunto il pieno impiego della forza lavoro. La Svezia non ricorse al protezionismo, né attivò pratiche monetarie deflative. Il governo regolò la spesa pubblica per controbilanciare le fluttuazioni dell’economia. Nel 1932 la corona fu svalutata e abbassato il 8 Da una guerra all’altra (1914-1945) 197 tasso di sconto per offrire denaro a buon mercato. Nel 1933 quasi un quarto dei disoccupati aveva un impiego statale sostitutivo. Nel 1935, il governo dichiarò che lo stato era tenuto a sostenere l’economia per promuovere la ripresa. Furono varati lavori pubblici lanciando prestiti redimibili. Dopo il 1935, quando l’economia riprese lena, i lavori pubblici furono interrotti e i prestiti rimborsati accrescendo la liquidità a disposizione del sistema. Il basso costo del denaro incentivò l’edilizia abitativa e gli investimenti migliorativi nelle industrie. La ripresa delle esportazioni di prodotti industriali fece da traino all’economia generale. La Svezia fu il primo paese ad applicare un’attiva quanto efficace politica economica anticiclica. ☞ ☞ Tabella 8.5 Prodotto Nazionale Lordo pro capite e indici di alcuni paesi (in dollari USA 1960) Paesi Belgio Francia Germania Gran Bret. Svezia Italia Svizzera URSS Giappone Stati Uniti 1913 815 670 790 1035 705 455 895 340 310 1350 (100) (100) (100) (100) (100) (100) (100) (100) (100) (100) 1929 1020 890 870 1160 875 525 1150 350 425 1775 (125) (133) (110) (112) (124) (115) (128) (103) (137) (131) 1938 1000 855 1260 1280 1060 560 1130 515 660 1570 (123) (128) (159) (124) (150) (123) (126) (151) (213) (116) Fonte: P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo: vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi, 2 voll., Torino, 1999, vol. II, tab. 54, p. 964, elaborazioni dell’Autore La tabella che raccoglie i risultati delle politiche economiche poste in atto dai governi dei diversi paesi nel corso degli anni Trenta, misurati in reddito per abitante, mostra che la miscela di misure più efficaci fu escogitata e messa in atto in Svezia. I regimi totalitari dirigisti come la Germania hitleriana e la Russia staliniana (vedi infra, § 8.9) accrebbero il reddito pro capite a un ritmo compreso fra +4,4 e +4,6 per cento l’anno. Lo stesso Giappone, il meno economicamente avanzato dei paesi considerati, nel decennio 1929-38 realizzò un tasso di crescita da decollo industriale (+5,5 per cento all’anno). Tra i paesi europei industrializzati, pur investita dalla crisi nei primi anni Trenta, solo la Gran Bretagna non smise di crescere (+1 per cento annuo) nonostante le difficoltà e le contrarietà interne e internazionali. Per gli abitanti di Belgio, Francia e Svizzera e, di là dall’Atlantico, degli Stati Uniti, invece, gli anni Trenta furono anni delle bibliche vacche magre. ☞ 8 Da una guerra all’altra (1914-1945) 201 Tabella 8.6 Ricchezza prodotta nell’URSS, prima e dopo il primo piano quinquennale, 1928-1933 Agricoltura Industria Costruzioni Terziario Totale 1927-28 1932-33 45,7 31,6 6,4 16,3 100,0 18,4 45,3 13,6 22,7 100,0 Fonte: M. Niveau, Storia dei fatti economici contemporanei, Milano, 1972, tab. 1, p. 41, elaborazioni dell’Autore care che la programmazione coercitiva di Stalin, applicata a un paese industrialmente arretrato, era simile a «un’economia di guerra» (O. Lange) e che la Russia andò del tutto esente dagli effetti devastanti sugli apparati industriali occidentali della crisi del 1929. Alla fine della seconda guerra mondiale, che all’Unione Sovietica costò 17 milioni di morti e distruzioni di infrastrutture, abitazioni civili (25 milioni di senza tetto) e patrimonio zootecnico, il paese rifiutò gli aiuti americani del piano Marshall del 1947 e rilanciò la pianificazione economica (1946-51). Nel 1949 la produzione sovietica aveva già riguadagnato i livelli della vigilia della guerra (1940). I primi due piani del secondo dopoguerra (1946-51 e 1952-56) riavviarono il processo di sviluppo industriale ma, dopo la morte di Stalin (marzo 1953), riemersero le disastrose condizioni dell’agricoltura, il settore economico sino allora più trascurato. Il patrimonio bovino russo era inferiore di ben 9 milioni di capi rispetto a quello del 1928. La cerealicoltura aveva rendimenti per ettaro inferiori a quelli del 1913 e, nell’insieme, non produceva abbastanza da garantire l’approvvigionamento alimentare di base di una popolazione che ogni anno aumentava di oltre 3 milioni di persone. Nel 1954 il governo decise di avviare il dissodamento di «terre vergini» per aumentare il volume dei raccolti. L’obiettivo fu raggiunto nel 1962 con un incremento di 210 milioni di quintali di grano che avrebbero assicurato l’alimentazione di 60 milioni di persone. Dagli anni Sessanta, mentre la rivalità nei confronti degli USA accresceva la spesa in armamenti e in ricerca scientifica e tecnologica (conquista dello spazio), l’agricoltura cominciò a registrare preoccupanti cali produttivi di cereali, carne e latte. Il basso tenore di vita della popolazione di un paese ormai economicamente avanzato pose la questione di riorganizzare i principi stessi della pianificazione, attribuendo la stessa dignità alla produzione di beni di consumo rispetto a quella di beni strumentali e armamenti. Mentre l’economia sovietica dal 1930 al 1960 aveva sperimentato una costante espansione, dal 1960 al 1989 andò progressivamente incontro al ristagno. Lavoro, energia e materie prime a basso costo per un trentennio avevano creato acciaio, cemento, locomotive, autocarri, trattori e case (a 202 L’Europa verso il mercato globale parte i massicci impieghi in armamenti). Quando, dagli anni Cinquanta, l’economia capitalista si dedicò al soddisfacimento della crescente domanda privata di elettrodomestici, automobili, elettronica, aeronautica civile, chimica farmaceutica e comunicazioni, l’Unione Sovietica non riuscì a imitarla. Non era immaginabile smantellare la politica economica di piano, né sottrarre risorse all’agricoltura, agli armamenti e allo spazio per orientarle verso la produzione di sofisticati beni di consumo, a parte la necessità di acquisire tecnologie sconosciute. I flussi del commercio estero russo da e verso il mondo capitalistico occidentale, tra il 1970 e il 1982, testimoniano efficacemente il progressivo deterioramento cui andò incontro l’economia sovietica esportatrice soprattutto di beni primari, gas naturale e petrolio e importatrice di derrate alimentari, metalli e prodotti chimici. Tabella 8.7 Flussi del commercio estero sovietico (%) per generi merceologici (1970-1982) Import dall’Occidente Merci Alimentari Carburanti Manufatti industriali Metalli e prodotti chimici Macchine per trasporto Totali Export verso Occidente 1970 1976 1982 1970 1976 1982 8,8 6,7 21,7 21,9 40,9 100 20,1 3,2 11,5 27,4 37,8 100 24,3 6,2 4,9 37,0 26,7 100 7,2 65,9 3,7 18,3 3,9 100 2,2 77,4 7,2 8,8 4,4 100 0,9 88,3 0,3 8,7 1,8 100 Fonte: H. Van der Wee, L’economia mondiale tra crisi e benessere (1945-1980). Una sintesi della storia economica del dopoguerra, Milano, 1989, Tab. 34, p. 333 ☞ Dopo il crollo del 1989, entrata in una fase eufemisticamente chiamata di «transizione» (verso il capitalismo), l’economia russa andò incontro al disastro. Nel giro di pochi anni, la ricchezza annualmente prodotta (PIL) nell’ex URSS quasi dimezzò e il reddito pro capite scese attorno alla terza parte di quello medio dei cittadini statunitensi. L’economia fu distrutta da manovre speculative della nomenklatura, dalle prescrizioni astrattamente liberistiche del fondo monetario internazionale (FMI), da alcuni economisti occidentali e dai loro colleghi russi, inesperti di capitalismo, chiamati a ruoli di grande responsabilità. L’eredità permanente dello statalismo sovietico ha distrutto la società civile, negandola per decenni. Il radicamento della democrazia è difficile in un mondo orfano di un’identità collettiva dove i flussi del potere e del denaro condizionano le istituzioni economiche e sociali emergenti. La Russia attuale, nominalmente democratica, somiglia in maniera impressionante allo zarismo primo novecentesco. 9 Ricostruzione, sviluppo e maturità (1945-1973) 211 prie economie nazionali e usava i dollari avuti in prestito per le importazioni di cereali indispensabili a sfamare le popolazioni. In quello stesso mese di giugno del 1947, il segretario di stato americano George Marshall presentò un imponente piano ERP (European Recovery Program) di aiuti diretti ai paesi dell’Europa occidentale per impedire che, mancando di riserve valutarie, ricadessero nell’autarchia e nel protezionismo e, dopo aver rilanciato le economie nazionali, smettessero di acquistare materie prime, macchinari e manufatti industriali statunitensi, causando una crisi economica di là dall’Atlantico. Il governo americano attribuì al piano anche il compito di rafforzare il commercio internazionale intereuropeo, avversato dai potenti partiti di sinistra dei maggiori paesi, proprio mentre la guerra fredda fra blocco atlantico e blocco russo andava inasprendosi. Tra l’aprile del 1948 e la metà del 1953, il governo americano trasferì in Europa 15,7 miliardi di dollari, 12 dei quali a titolo gratuito. La ripartizione delle risorse avvenne in proporzione con il volume del commercio estero di ogni paese. Alla Gran Bretagna toccò la fetta maggiore (3,1 miliardi), alla Francia 2,7, all’Italia 1,5, alla Germania 1,4, all’Olanda 1,1, alla Grecia e all’Austria 0,7 miliardi ciascuna. Il piano prevedeva anche la cooperazione tra i destinatari degli aiuti, riuniti nell’OECE (Organizzazione europea per la cooperazione economica) che avrebbe controllato la compatibilità dei piani nazionali di utilizzo degli aiuti e incentivato gli scambi fra partner che ristabilivano relazioni economiche. Pur mossi da un altruismo interessato, gli USA contribuirono a riavviare le economie europee e a promuoverne le esportazioni in modo da controbilanciare le importazioni di derrate agricole e di materie prime. Le relazioni fra paesi debitori e paesi creditori furono garantite dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) e dalla Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BIRS). Dopo l’istituzione del GATT, l’accordo generale Tabella 9.1 Indici del Prodotto Nazionale Lordo a prezzi costanti nel secondo dopoguerra (1938 = 100) Belgio Francia Germania federale Italia Olanda Gran Bretagna Europa occidentale Stati Uniti Giappone Unione Sovietica 1938 1948 1950 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 115 100 45 92 114 106 87 165 63 105 124 121 64 104 127 114 102 179 72 128 Fonte: H. Van der Wee, L’economia mondiale tra crisi e benessere (1945-1980). Una sintesi della storia economica del dopoguerra, Milano, 1989, p. 25 9 Ricostruzione, sviluppo e maturità (1945-1973) 213 n diminuzione/aumento della pressione fiscale per sostenere il risparmio (destinato a diventare investimento) e la domanda (incoraggiando, per esempio, il settore edilizio, il più ricco di collegamenti con gli altri settori produttivi). Le linee generali di politica economica perseguite dai diversi governi sono riconducibili ai seguenti principi: n concentrare gli investimenti nelle industrie di base, così da ottenere incrementi di produttività, di volumi prodotti e di esportazioni; n accordare priorità agli investimenti rispetto ai consumi; n stimolare il risparmio, rendere il credito per investimenti facile e a buon mercato; n investire risorse pubbliche. In molti paesi dal 30 al 50 per cento degli investimenti complessivi furono realizzati dalla mano pubblica nelle industrie nazionalizzate, come in Gran Bretagna e in Francia; n controllare l’inflazione attraverso la leva fiscale sulla domanda, tassando i profitti non reinvestiti e contenendo i salari (specialmente in Danimarca, Olanda, Norvegia, Svezia e Gran Bretagna); n promuovere le esportazioni e contenere le importazioni perché, fino al 1951, i paesi europei mancavano di riserve di dollari e di oro per aumentare il commercio internazionale. Nonostante i gravi danni, i tempi della ricostruzione – in genere tre, quattro anni nei diversi paesi – si rivelarono nettamente più brevi di quelli pretesi dal primo dopoguerra. Nell’insieme, in quasi tutti i settori economici, fra 1948 e 1949 erano già stati riguadagnati gli standard produttivi del 1938 e, grazie anche alla diminuzione della popolazione, nel biennio 1950-51 ci si riportò addirittura di sopra rispetto a quelli del 1929. Tabella 9.2 Livelli delle produzioni industriali e agricole in Europa occidentale, 1947-51 (indice 1938 = 100) Produzioni industriali Paesi Austria Belgio Danimarca Francia Italia Olanda Norvegia Spagna Svezia Gran Bretagna Produzioni agricole 1947 1949 1951 1947 1949 1951 56 106 123 92 86 95 115 127 141 115 123 122 142 118 101 126 140 130 157 137 166 143 162 134 138 145 158 147 171 155 70 84 97 82 85 87 98 88 104 117 74 93 97 95 97 104 101 80 109 122 98 111 126 108 109 123 118 86 113 130 Fonte: A. Maddison, Monitoring the World Economy (1820-1992), Paris, 1995 218 L’Europa verso il mercato globale la pressante domanda di derrate agricole, per il periodo 1946-55, gli alti prezzi interni dei beni alimentari agirono da freno al trasferimento massiccio e repentino di manodopera dal primario all’industria e ai servizi, consentendo altresì l’accumulo di potere d’acquisto e di risparmio presso larga parte della popolazione rurale. Per di più, con facilitazioni e incentivi, i governi avviarono o riavviarono il processo di meccanizzazione dell’agricoltura e di aggiornamento agronomico delle tecniche produttive. Sotto l’impatto di investimenti di capitale di dimensioni fino allora sconosciute, in Europa continentale e in Giappone furono realizzati stupefacenti progressi nel settore primario. Dai primi anni Cinquanta al 1980, nel vecchio continente, la produttività agricola crebbe al ritmo medio del 5,6 per cento l’anno; un livello largamente superiore a quello, per esempio, tenuto nel medesimo periodo dall’industria manifatturiera (3,4 per cento). Dal 1950 al 1972, in Europa e in Giappone, le quote di ricchezza annualmente accantonata per essere reinvestita, piuttosto che consumata, raggiunsero limiti prima sconosciuti, oscillando tra il 26 per cento e, addirittura, il 35,1 per cento del paese del Sol levante. I massicci investimenti in capitale produssero sensibili aumenti della produttività perché si trattava soprattutto di «ingegneria del miglioramento»; cioè di applicazioni ai processi produttivi esistenti degli accorgimenti e delle attrezzature usate negli Stati Uniti dagli anni Trenta e Quaranta. Gli investimenti ebbero effetti stimolanti sulla produttività del lavoro e sulla crescita economica complessiva di tutti i paesi, come mostrano gli indici del PIL pro capite. In particolare, i tre paesi usciti sconfitti dalla guerra realizzarono i maggiori progressi in virtù di una miscela di fattori economici (massicci investimenti in tecnologia, bassi salari, liberalizzazione degli scambi internazionali), sociali (da società tendenzialmente gerarchizzate e statiche a società aperte e meritocratiche, dove era ammessa la promozione sociale) e culturali (l’innesto su valori tradizionali di idee progressiste). Tabella 9.3 Andamento degli indici del PIL pro capite dei maggiori paesi europei, degli Stati Uniti e del Giappone (1946-71) Francia Germania Italia Gran Bretagna Stati Uniti Giappone 1946 1951 1956 1961 1966 1971 100 100 100 100 100 100 144 186 149 109 112 149 170 273 194 121 119 206 204 349 255 136 123 310 253 411 317 152 152 455 314 486 392 168 165 700 Fonte: A. Maddison, Monitoring the World Economy (1820-1992), Paris, 1995 9 Ricostruzione, sviluppo e maturità (1945-1973) 221 Tabella 9.4 Aspetti quantitativi del «miracolo» economico italiano (1951-63) PIL, incremento annuo % Incremento annuo della produzione industriale % Esportazioni sul PIL Importazioni sul PIL Addetti all’agricoltura % 1951-58 1958-63 5,3 6,8 9,2 8,5 42,2 6,6 10,2 11,3 10,8 29,1 Fonte: F. Amatori e A. Colli, Impresa e industria in Italia dall’Unità a oggi, Venezia, 1999, p. 252 controllo incrociato della Banca d’Italia e delle tre banche controllate dall’IRI e dal ministro del Tesoro (Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano e Banco di Roma), fornì credito a lungo termine alle imprese industriali controllate dalla mano pubblica (IRI). L’impegno governativo tendeva a correggere i meccanismi di mercato che penalizzavano le economie regionali più arretrate, le tendenze oligopolistiche di alcuni rami produttivi e le carenze di investimenti in settori strategici, nei quali tuttavia il ritorno, molto differito nel tempo, scoraggiava l’impegno dei privati. Un’industria di stato di grandi dimensioni (350.000 addetti nel 1962) affidata alla direzione di manager che svolgevano un ruolo politicamente ed economicamente strategico contraddistinse in Europa la via italiana allo sviluppo. Nel 1957, dopo l’istituzione del Ministero delle Partecipazioni statali (1956), con il compito di coordinare l’azione delle maggiori imprese pubbliche, fu approvata una legge che le vincolava a destinare al Mezzogiorno il 60 per cento dei loro nuovi investimenti. Lo stato, insomma, si faceva attivo promotore di un riequilibrio economico e del superamento del DUALISMO nord-sud. Dal 1962, dopo la nazionalizzazione delle imprese produttrici e distributrici dell’elettricità (ENEL) e l’avvio della programmazione economica, gli industriali italiani si schierarono contro i programmi governativi e cominciarono a trasferire clandestinamente capitali finanziari all’estero (oltre 7,2 miliardi di dollari dal 1963 al 1969). Rispetto alla condizione analoga nella quale si era venuta a trovare nel 1905, ai tempi della nazionalizzazione delle ferrovie, l’imprenditoria privata perse la storica occasione di investire in settori innovativi come, per esempio, la chimica. Nel 1963 lo sviluppo italiano subì un’improvvisa battuta d’arresto. I sindacati degli operai dell’industria rivendicarono miglioramenti salariali, i prezzi ebbero un’impennata e i nostri prodotti persero competitività sui mercati esteri. Dopo una breve crisi congiunturale che frenò gli investimenti, fece aumentare il costo del denaro e indebolì la lira, lo sviluppo riprese lena interessando anche la cosiddetta terza Italia (Emilia-Romagna, Triveneto, Marche e Toscana). Contro ogni aspettativa, laddove gli esperti si attendevano il trionfo della grande impresa, protagoniste di questa seconda fase furono piuttosto le piccole aziende familiari attive nei «distretti industriali» della monocoltura (le valli bresciane per la posateria e il tondino da calcestruzzo, l’alto Mantovano per le calze, il Friuli per gli infissi e le seggiole, Carpi per la maglieria, Sassuolo per la ceramica, Prato per i tessuti di lana povera, la Romagna e le Marche per le calzature ecc.). 3. Il consolidamento dello sviluppo Seguìun decennio di crescita di poco inferiore a quella maturata fra 1952 e 1963. Nel 1969, l’anno del celebre autunno caldo, i sindacati operai sollevarono la questione di ☞ 222 L’Europa verso il mercato globale un adeguamento dei servizi sociali in un paese ormai relativamente evoluto, ancora contraddistinto da relazioni tipiche dei paesi preindustriali. Le pensioni furono aumentate nel 1969, nel 1970 fu approvato lo statuto dei lavoratori, tra 1968 e 1972 migliorarono i trattamenti della disoccupazione e della maternità. Nel 1972 fu riformata la politica pubblica della casa e iniziò la progettazione di quel servizio sanitario nazionale che sarebbe poi entrato in vigore solo nel 1978. Alla metà degli anni Settanta, il sistema delle imprese a partecipazione statale dava lavoro a 700.000 persone e produceva gran parte della ricchezza realizzata dall’industria italiana. Dopo l’istituzione del Ministero delle Partecipazioni statali, però, il sistema di relazioni fra centro delle decisioni strategiche, le holding di settore, e le singole aziende andò complicandosi per l’invadenza dei politici che affiancarono i manager. La distribuzione di favori e di risorse pubbliche prese il sopravvento sulla missione imprenditoriale di crescita dimensionale e di realizzazione di profitti. L’IRI divenne un pachiderma ipertrofico e clientelare che realizzava perdite colossali ripianate dal Parlamento con erogazioni tratte da un apposito fondo di dotazione. L’agricoltura fu il settore più penalizzato in materia di politica economica governativa. Dopo i Piani verdi del 1961 e del 1966, si ebbero solo provvedimenti a pioggia, mutui agevolati per l’acquisto di macchine e l’intervento CEE a favore della produzione di derrate giudicate strategiche. Il sostegno accordato ai prezzi dei prodotti agricoli penalizzò i consumatori senza promuovere trasformazioni strutturali apprezzabili nella nostra agricoltura che, vantando la superficie media per podere più bassa d’Europa (7 ha), non poté avvalersi delle economie di scala. La crisi petrolifera del 1973, dopo lo sganciamento dall’oro delle monete, deciso dagli USA nell’agosto di due anni prima (1971), chiuse il secondo ciclo di sviluppo economico del nostro paese. Frattanto, la rapida evoluzione delle tecnologie, dei rapporti economici e sociali, assieme alla tenuta di mentalità tradizionali nonostante l’accelerazione del mutamento, furono all’origine di movimenti eversivi – i cosiddetti anni di piombo – sia dell’assetto politico, sia di quello economico. Il grande progresso economico avvenuto in Italia nel ventennio 1950-70, cosìvistoso da essere definito «miracolo», avvenne contemporaneamente a un processo d’armonizzazione dei PIL e dei consumi di beni durevoli nei paesi dell’Europa occidentale, vincitori e vinti della seconda guerra mondiale. Tabella 9.5 PIL per abitante ($ 1960) e beni durevoli di consumo (auto e televisori per mille abitanti) Paesi PIL 1950 Belgio 1.240 Francia 1.060 Germania 990 Italia 600 Gran Bretagna 1.400 Europa occ. 930 PIL 1970 Auto 1950 Auto 1970 2.380 2.500 2.700 1.670 2.220 2.090 32 36 13 7 46 20 213 254 223 190 210 182 TV 1960 TV 1970 69 95 21 45 214 65 207 216 276 181 294 210 Fonte: P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo: vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi, 2 voll., Torino, 1999, vol. II, p. 1007 9 Ricostruzione, sviluppo e maturità (1945-1973) 225 v’è dubbio che il regresso abbia più pesantemente riguardato i settori tradizionali a basso contenuto tecnologico, come il tessile, l’abbigliamento e la siderurgia. In ogni caso, nessun settore produttivo fa eccezione alla tendenza generale. All’origine delle rilocalizzazioni industriali agiscono tre fattori: n differenti livelli salariali, collegati a ben diversi livelli di vita (profilatisi nei paesi dell’Est europeo, dopo il crollo del socialismo reale); n disponibilità o meno di manodopera addestrata; n abbattimento delle dogane su prodotti industriali esteri, con dimezzamento delle tariffe tra i primi anni Cinquanta e i primi anni Settanta. 9.6 Conflitti e integrazioni di fine secolo Gli shock petroliferi degli anni Settanta spinsero i paesi sviluppati occidentali a incrementare le loro esportazioni nel tentativo di controbilanciare almeno in parte, con entrate valutarie, il maggior esborso a favore dei produttori/venditori di petrolio greggio. Intorno al 1970, le esportazioni dei paesi sviluppati occidentali si aggiravano attorno al 10 per cento della ricchezza prodotta ogni anno nel mondo. A partire dal 1973, la percentuale superò il 12 per cento e oscillò tra il 13 e il 16 per cento, fino a stabilizzarsi attorno al 15 per cento nei primi anni Novanta. Tabella 9.6 Quote percentuali del volume mondiale d’esportazioni (1970-2004) USA CEE-UE Giappone Totali 1970 1990 2004 4 17 8,6 29,6 7,5 21 9,4 37,9 9 30 6,2 45,2 Fonti: ICE-ISTAT, L’Italia nell’economia internazionale, rapporti diversi Nonostante il processo di integrazione europea sia felicemente proseguito dal 1970, gli Stati Uniti sono il paese che più di ogni altro ha ampliato la propria quota di esportazioni, più che raddoppiando la sua percentuale dal 1970 al 2004. Nell’insieme, i paesi dell’Unione Europea sono cresciuti dal 17 al 30 per cento, ma non va trascurato che dai sei iniziali sono diventati 25 e che l’unione doganale ha stimolato anzitutto gli scambi interni. Una dinamica del genere spiega, fra l’altro, perché il concetto di mondializzazione o globalizzazione abbia molto più credito di là dall’Atlantico che nel vecchio continente. Il terzo protagonista dell’economia mondiale, il Giappone, attestatosi attorno al 8,6 per cento di tutte le esportazioni nel 1970, all’inizio degli 9 Ricostruzione, sviluppo e maturità (1945-1973) 227 immagini, acquisto e vendita con contrattazioni virtuali) hanno irrobustito la tendenza alla delocalizzazione delle strutture produttive. Protagoniste di investimenti esteri volti alla delocalizzazione sono soprattutto le imprese multinazionali. Tra il 1975 e il 1992, operai e impiegati addetti a queste ultime nel mondo crebbero da 40 a 73 milioni di persone. Le multinazionali coprono i due terzi del commercio mondiale, che per la metà consiste in semplici trasferimenti da una filiale all’altra del medesimo gruppo. Se, nell’insieme, si può parlare di mondializzazione dell’economia, posto che nella storia passata e recente mai si è dato un volume di scambi internazionali di merci e di servizi paragonabile a quello dei giorni nostri, non v’è tuttavia alcun dubbio che si tratti di un processo che riguarda prevalentemente le imprese dei paesi ricchi, nei quali – è bene ricordarlo – vive e opera solo il 22 per cento della popolazione del globo. Conviene, per finire, gettare uno sguardo agli indici dell’andamento della ricchezza prodotta dal 1971 al 2005 nei sei paesi più ricchi. Nell’arco di 35 anni durante i quali c’è stata prima la crisi petrolifera dal 1973 ai primi anni Ottanta, la stagnazione giapponese dal 1992-93 al 2004 e, poi, la crisi di fine secolo di tre delle quattro tigri, la ricchezza prodotta ha smesso di crescere tra il 1991 e il 1996 dappertutto tranne che in Gran Bretagna. La rivoluzione tecnologica delle comunicazioni sembra favorire i paesi in via di sviluppo molto più di quelli solidamente sviluppatisi con l’economia mista dopo la seconda guerra mondiale. L’unica eccezione dell’Occidente sembra essere il primo paese industriale del mondo, che per primo imboccò la via della deindustrializzazione. Analogamente, gli Stati Uniti, che erano giunti alla maturità economica prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, crebbero più lentamente e meno bruscamente calarono sul finire del secondo millennio. Sembra che, come per l’Inghilterra dell’ultimo Ottocento, la maturità renda meno reattive le economie e troppo alti i costi d’impianto di infrastrutture e di tecnologie avanzate, senza parlare del personale tecnico e scientifico necessario per convertire e mantenere le strutture innovative. Tabella 9.7 Indici del Prodotto Interno Lordo delle sei maggiori economie nazionali Francia Germania Italia Gran Bretagna USA Giappone 1971 1976 1981 1986 1991 1996 2001 2005 100 100 100 100 100 100 114 113 117 111 111 116 126 126 137 116 122 139 134 138 148 135 135 160 148 159 168 146 141 198 153 160 173 159 160 211 155 149 168 165 158 190 147 146 155 169 162 193 Fonte: Elaborazioni dell’Autore su dati di A. Maddison, Monitoring the World Economy (1820-1992), Paris, 1995 e di Eurostat 10 L’Unione Europea tra passato e futuro 229 riserva l’oro e i dollari dispensati dal piano di aiuti. In tal mondo, era assicurata la piena convertibilità delle valute e facilitata la ripresa di scambi multilaterali. Nello stesso anno, la Francia, povera di carbone, propose di mettere in comune la grande riserva di minerale tedesco a prezzi concordati così da disporre della materia prima energetica basilare per la produzione di acciaio e da controllare quei settori (siderurgico e meccanico) che, a far tempo dalla seconda rivoluzione industriale, in Germania erano stati protagonisti delle politiche di potenza e d’armamento. I sei paesi fondatori della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA, operativa dal luglio 1952, alla quale aderirono la Repubblica federale tedesca, la Francia, l’Italia, il Lussemburgo, il Belgio e l’Olanda), vale a dire le materie prime all’epoca indispensabili per avviare e consolidare un processo di crescita industriale, si unirono per eliminare i dazi doganali e per decidere i prezzi e le quote di produzione secondo lo stile di un cartello internazionale. La Germania era il massimo produttore europeo di carbone, la Francia era seconda solo all’URSS in quella del ferro e dipendeva dal carbone tedesco per la sua siderurgia. L’accordo permise alla Germania di supera- Figura 10.1 I sei paesi fondatori della CECA (Benelux, Francia, Germania Federale e Italia) Olanda Belgio Germania Fed. Lussemburgo Francia Italia 230 L’Europa verso il mercato globale Tabella 10.1 Produzione di carbone, coke, minerale di ferro e acciaio grezzo, 1952 (in milioni di t, Saar tedesca sotto controllo degli occupanti francesi) Paesi Germania Francia Saar Belgio Lussemburgo Olanda Italia Totale Carbone Coke Minerale di ferro Acciaio grezzo 123,3 55,4 16,2 30,4 0 12,5 1,1 238,9 37,2 9,2 3,9 6,4 0 3,3 2,4 62,4 15,4 41,2 0 0,1 7,2 0 1,3 65,2 15,8 10,9 2,8 5,2 3,0 0,7 3,5 41,9 Fonte: F. Fauri, L’Italia e l’integrazione economica europea, Bologna, 2001, tab. 3.1, p. 94 ☞ re i controlli delle potenze occidentali occupanti (USA, Francia e Gran Bretagna) sulla sua industria pesante e di avviare, pur in ritardo rispetto agli altri stati, una sua solida ricostruzione economica e politica. Tutta l’industria carbosiderurgica europea era in tal modo sottoposta a controllo e, al contempo, fruiva di vantaggi economici e tecnologici. Nel 1972, quando il mercato europeo dell’acciaio diede i primi segnali di ristagno e declino, il volume prodotto entro i confini della CECA era quintuplicato rispetto ai valori del 1948. Nel 1955, sulla base di un memorandum presentato dal Benelux (Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo, dal 1950, avevano creato una unione doganale che dal 1956 aveva eliminato ogni dazio fra i tre paesi), i sei paesi della CECA decisero di studiare la possibilità di approdare a un’unione economica più completa. Al termine di lunghe trattative, il 25 marzo 1957, i sei fondatori della CECA stipularono a Roma il trattato EURATOM, per coordinare il nascente settore strategico dell’energia nucleare e, soprattutto, fondarono la Comunità Economica Europea (CEE, detta anche Mercato Comune, ideata dal francese Jean Monnet, responsabile della programmazione economica del governo di Parigi) che avrebbe gradualmente abolito i dazi fra i sei paesi e che, entro 12/15 anni, avrebbe creato un’area nella quale i prodotti industriali e agricoli, i servizi, le persone e i capitali si sarebbero mossi liberamente, difesi da una comune tariffa esterna. Parallelamente a provvedimenti volti a eliminare restrizioni e ostacoli al libero commercio, e soprattutto su istanza italiana, si previdero interventi miranti a superare i forti squilibri territoriali, settoriali e sociali fra le regioni dei sei paesi. Le istituzioni ideate per procedere verso l’integrazione furono la Banca Europea degli Investimenti (BEI), che avrebbe fatto credito alle aree meno sviluppate e alle imprese da ammodernare, e il Fondo sociale che avrebbe contribuito alle spese per la formazione e riqualifi- 10 L’Unione Europea tra passato e futuro 231 cazione professionale sopportate da ogni stato membro. Per sostenere i redditi del settore primario, garantendo prezzi remunerativi, e per migliorare la produttività delle imprese agricole fu creato un Fondo Europeo di Orientamento e Garanzia Agricola (FEOGA). Tra 1957 e 1968, il processo di integrazione della CEE procedette soprattutto eliminando gli ostacoli al libero commercio. Nel 1968, con un anno e mezzo d’anticipo rispetto al termine inizialmente previsto, la riduzione dei dazi doganali era stata realizzata e funzionava un mercato comune dei prodotti industriali e di quelli agricoli di quasi 200 milioni di consumatori. La tariffa doganale comune decisa verso l’esterno, già in partenza liberoscambista, a più riprese subì riduzioni. Tabella 10.2 Commercio interno alla CEE e quote % delle esportazioni totali di gruppi di paesi e di paesi (1953-72) Commercio interno Quota di esportazione sul totale Anni CEE CEE USA e Canada Giappone 1953 1957 1960 1965 1970 1972 31,3 33,9 34,5 43,4 48,9 49,5 27,3 30,7 34,7 37,2 39,3 41,4 37,6 34,6 30,5 7,7 26,4 23,5 2,4 3,8 4,7 6,6 8,6 9,6 Fonte: P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo, vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi, Torino, 1999, p. 1053 Dal 1953 al 1972, l’integrazione commerciale dei sei paesi fondatori della Comunità (il commercio interno all’area) crebbe del 58 per cento mentre la quota CEE di esportazioni nel mondo dei paesi a economia di mercato aumentò del 50 per cento. Contemporaneamente diminuiva di oltre un terzo (–37,5 per cento) il peso delle esportazioni nordamericane e quadruplicava quello del Giappone, che stava realizzando una grande crescita. La politica statunitense di stabilità monetaria e di liberalizzazione degli scambi inaugurata negli anni Quaranta coadiuvò la crescita del Mercato Comune Europeo, tanto da convincere paesi prima scettici a chiedere e ottenere di entrarne a far parte. Negli anni Sessanta, l’accelerazione subita dal processo di integrazione economica verso uno stato federale suscitò reazioni di netta resistenza al trasferimento di quote di sovranità a Bruxelles (sede della Commissione). Le reazioni più energiche vennero dal presidente della repubblica francese Charles de Gaulle, che nel 1963 e nel 1967 pose anche il veto all’ingresso della Gran Bretagna, a suo avviso troppo vicina per ideali e interessi globali agli USA. Scomparso de Gaulle (1970), nel 1973 la Gran Bretagna, 234 L’Europa verso il mercato globale 2. I Fondi strutturali sono oggi la seconda posta di uscite per importanza (32,1 per cento) e, accanto alla PAC, svolgono il ruolo di redistribuzione di risorse a vantaggio delle regioni economicamente più arretrate. 3. La spesa per Politiche interne intende accrescere le risorse per la ricerca e lo sviluppo tecnologico e per realizzare reti transeuropee nel campo dei trasporti, dell’energia, delle telecomunicazioni e di salvaguardia dell’ambiente, così da moltiplicare e sfruttare economie di sistema. 4. Le Spese per ricerca sono volte a migliorare le capacità scientifiche e tecnologiche dell’industria comunitaria e promuoverne la competitività. Ne sono favoriti i paesi più ricchi e le regioni tecnologicamente più avanzate. 5. Spese per Azioni esterne (e aiuti d’emergenza). 6. Riserva monetaria e riserve per garanzia. La prima fu introdotta con il vertice di Edimburgo (1992) per fronteggiare spese impreviste di bilancio. Le seconde per assicurarsi contro il rischio di inadempienza di prestiti garantiti dall’UE. 7. Gli Aiuti preadesione sono spese a favore di quei paesi in attesa di entrare a far parte della UE. Tabella 10.3 Stanziamenti di bilancio CEE e UE, in % di milioni di euro (1970-2006) 1. PAC (FEOGA) 2. Azioni strutturali 3. Politiche interne 4. Azioni esterne 5. Spese amministrative 6. Riserve 7. Aiuto preadesione Totale 1970 1990 2006 96,0 1,2 0,0 0,7 2,1 63,3 18,6 3,8 9,3 5,0 46,0 32,1 7,3 5,1 5,5 0,4 3,6 92.406 (100) 5.448 (100) 46.677 (100) Fonte: F. Fauri, L’Italia e l’integrazione economica europea, Bologna, 2001, tab. 8.7, p. 238, elaborazioni dell’Autore 10.3 Le tappe dell’ampliamento (1973-2004) Negli anni Ottanta entrarono a far parte della comunità i tre paesi mediterranei relativamente più arretrati: la Grecia (1981) e Spagna e Portogallo (1986), portando il numero dei membri a 12. Tra i nuovi arrivati, il Portogallo era il più povero giacché il suo reddito pro capite era solo il 44 per cento di quello dei due paesi all’epoca più ricchi: Francia e Germania. Agli inizi degli anni Novanta, caduto il muro di Berlino e implosa l’Unione Sovietica, i dodici paesi, con i loro 327 milioni d’abitanti rappresentavano i nove decimi della popolazione dell’Europa occidentale e il 40 per cento di quella dei paesi sviluppati, vale a dire l’insieme di produttori e di consumatori più evoluto e numeroso del mondo. 10 L’Unione Europea tra passato e futuro 237 Tabella 10.4 PIL pro capite 2004 misurato in $ USA (media ponderata dell’Unione $ 23.906) Lussemburgo Irlanda Danimarca Austria Belgio 61.816 35.879 32.136 30.781 28.662 Paesi Bassi Svezia Germania Finlandia Regno Unito 28.590 28.335 28.104 27.956 27.777 Italia Francia Spagna Slovenia Malta 27.480 27.047 22.835 20.450 20.119 Grecia Cipro Portogallo Rep. Ceca Ungheria 19.563 19.224 18.428 16.265 15.342 Slovakia Estonia Lituania Polonia Lettonia 14.060 13.107 11.871 11.428 10.387 Fonte: Eurostat I costi dell’allargamento stanno imponendo una riorganizzazione degli aiuti regionali e dei fondi strutturali causando una diminuzione dei finanziamenti tradizionalmente destinati alle regioni povere dei quindici paesi, assieme a un aumento dei contributi richiesti a ogni paese. La Commissione Prodi, per il periodo 2000-2006, ha approvato un incremento di fondi del 33 per cento rispetto al periodo 1994-99 e ha riorganizzato la suddivisione fra regioni sottosviluppate abbassando i livelli del PIL pro capite a partire dai quali scattano gli aiuti. Poiché nelle moderne economie industriali la maggior parte della manodopera non è impegnata in produzioni di massa a bassa specializzazione, ma piuttosto in occupazioni nelle quali servono abilità tecniche e competenze in continua evoluzione, il vero problema di fondo dell’economia europea consiste nell’alta percentuale di popolazione adulta che dispone della sola istruzione di base (36 per cento nel complesso dell’Unione). Dalla metà degli anni Ottanta, si è profilato un mutamento occupazionale della forza lavoro a vantaggio di persone contraddistinte da alte qualifiche scolastiche e tecnologiche e da capacità professionali basate sulla conoscenza in costante evoluzione. Investimenti in ricerca e sviluppo producono brevetti internazionali e crescita economica per gran parte derivante dall’aumento della produttività del lavoro, posto che le nuove tecnologie creano posizioni lavorative altamente qualificate in imprese di medie dimensioni. È probabile che, date le circostanze, l’Unione dei 25, allargata a Romania, Bulgaria e Turchia, tenderà a chiudersi verso l’esterno, intralciando le importazioni di prodotti agricoli concorrenziali, di manufatti di basso valore unitario e di largo consumo provenienti dall’Asia orientale e da altre economie in rapida industrializzazione nonché dei prodotti d’alta tecnologia statunitensi, giapponesi, cinesi e delle quattro tigri. Un’economia aperta alla dinamica globalizzante metterebbe inoltre in discussione i programmi di protezione sociale degli stati continentali dell’Unione; programmi che, dalla fine della seconda guerra mondiale, hanno garantito un clima di pace sociale. L’innalzamento della durata della vita rende ancora più oneroso il finanziamento pubblico di tali programmi, sicché non è azzardato prevedere che inderogabili riforme riduttive dello stato sociale (Welfare), se miglioreranno i bilanci pubblici, innescheranno anche reazioni protezioniste. ☞ 238 L’Europa verso il mercato globale Tabella 10.5 Cronologia essenziale dell’integrazione europea 1951 1955 1957 1962 1963 1965 1966 1967 1968 1969 1970 1973 1975 1979 1981 1985 1986 1987 1989 1990 1991 A Parigi è istituita la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), entrata in vigore nel 1952. Conferenza a Messina, i sei stati della Ceca tracciano le tappe di creazione del Mercato Europeo Comune e dell’energia atomica. A Roma, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Francia, Germania e Italia fondano la Comunità Economica Europea (CEE, detta anche Mercato Comune), entrata in vigore nel gennaio 1958. La Commissione europea stabilisce l’obiettivo dell’unità monetaria. Dopo un anno e mezzo di trattative, la Francia del generale de Gaulle pone ufficialmente il veto all’adesione della Gran Bretagna alla CEE. Il presidente de Gaulle e il cancelliere tedesco K. Adenauer formano il trattato dell’Eliseo, che prevede una stretta collaborazione fra i due paesi su tutte le principali questioni politiche, economiche e culturali. Trattato sulla fusione degli esecutivi che istituisce un Consiglio e una Commissione unici per le tre Comunità europee. I rappresentanti del governo francese si ritirano dalla Comunità, inizia la cosiddetta crisi della sedia vuota. Il compromesso del Lussemburgo risolve la crisi e stabilisce la prevalenza degli «interessi nazionali vitali» sui poteri della CEE e inaugura la terza fase del periodo transitorio previsto dal trattato di Roma. L’integrazione delle istituzioni europee apre la strada alla formazione della Comunità Europea (CE), che sostituisce la CEE. Il periodo transitorio di 12 anni previsto dal trattato della CEE si chiude con 18 mesi d’anticipo. L’abolizione delle ultime barriere doganali fra gli stati e l’adozione di una tariffa esterna comune fa nascere il Mercato Europeo Comune (MEC). Un vertice all’Aia si chiude con la richiesta dell’unità monetaria ed economica, istituzioni più forti e una maggiore cooperazione politica. Il piano Werner propone l’unità monetaria europea. A l’Aia una conferenza dei capi di stato dei sei paesi membri lancia lo slogan «allargamento, completamento, approfondimento». Danimarca, Irlanda e Gran Bretagna entrano nella Comunità. I membri diventano nove. Il Consiglio europeo indice per il giugno 1979 la prima elezione a suffragio universale dei parlamentari europei. Elezioni dei membri del Parlamento di Strasburgo. Inizia il Sistema Monetario Europeo (SME), che fissa parità fra i cambi delle diverse monete comunitarie e ne limita le oscillazioni. Si basò su una moneta ideale (ECU) costituita da un paniere di monete della comunità rispetto al quale ogni valuta ebbe definita la propria parità. La Grecia entra nella Comunità. Dieci membri. La Commissione pubblica (giugno) il «libro bianco» per il completamento del mercato interno o unico. Le proposte della Commissione sono inserite nell’Atto unico europeo, ratificato nel 1987, che modifica e completa i trattati di Roma. Portogallo e Spagna entrano a far parte della Comunità. Dodici membri. L’Atto Unico Europeo (revisione e ripresa del trattato di Roma) entra in vigore. Pubblicazione del piano Delors (presidente della Commissione) per la creazione di un’Unione Economica e Monetaria Europea, comprendente la moneta unica e la banca centrale. Il vertice di Madrid stabilisce che il 1° luglio 1990 inizi il primo stadio dell’Unione Monetaria. Riunificazione tedesca, la CEE si allarga all’ex Repubblica Democratica Tedesca. Il vertice di Maastricht approva il trattato dell’Unione Europea, stabilisce di creare una moneta unica (l’euro) e fissa il calendario per giungere all’Unione Monetaria. 10 L’Unione Europea tra passato e futuro Tabella 10.5 segue 1992 1993 1994 1995 1996 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 Con un referendum i danesi bocciano il trattato di Maastricht. I francesi lo approvano di misura mentre la Gran Bretagna e l’Italia escono dallo SME. La Svizzera chiede l’adesione poi bocciata da un referendum. Lo stesso accade per la Norvegia. Entra in vigore il trattato di Maastricht, nasce l’Unione Europea. A fianco della Comunità Europea nascono la PESC (Politica Estera e di Sicurezza Comune) e la CGAI (Cooperazione nei settori della Giustizia e degli Affari interni) che, assieme alla CE, formano i tre pilastri dell’Unione Europea. I danesi approvano il trattato con un secondo referendum. La Gran Bretagna decide di non far parte dell’unione monetaria. Il trattato di Maastricht entra in vigore e nasce l’Unione Europea (UE). Austria, Finlandia e Svezia confermano con referendum l’adesione all’UE, la Norvegia la nega. Austria, Finlandia e Svezia entrano nella UE, aumentando i membri a quindici. Il vertice di Dublino definisce il patto di stabilità. Il 31 dicembre sono definiti i tassi di conversione dell’euro con le monete nazionali dei paesi che hanno rispettato i requisiti economici stabiliti a Maastricht nel 1992. Il 1° gennaio entra in vigore l’euro. È fissato il tasso irrevocabile di conversione fra l’euro e ogni valuta nazionale. Moneta e banconote continueranno a circolare per tre anni (1999-2001). Il Parlamento, la Commissione e il Consiglio proclamano la Carta dei Diritti Fondamentali. Nei dodici paesi dell’Unione Economica e Monetaria sono distribuiti gli euro-kit (sacchetti con monete di euro), in previsione della messa in circolazione del 1° gennaio 2002. Il 1° gennaio entra nell’uso la moneta unica effettiva (cartacea e metallica) prendendo il posto delle monete nazionali di Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna. Di fatto adottano l’euro anche Andorra, Città del Vaticano, Principato di Monaco e San Marino. L’euro è emesso dalla Banca Centrale Europea (BCE), l’unica istituzione responsabile della politica monetaria dell’Unione. Gran Bretagna, Danimarca e Svezia non aderirono all’area dell’euro, la Grecia vi era entrata nel 2001. In ordine cronologico dei referendum entrano a far parte dell’UE Malta, Slovenia, Ungheria, Lituania, Repubblica Slovacca, Polonia e Repubblica Ceca. Venticinque paesi firmano ad Atene il trattato che prevede l’allargamento dell’Unione. Dal 1° maggio Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Slovenia e Ungheria entrano a far parte dell’UE, che forma un mercato unico di 455 milioni di persone. 239 242 L’Europa verso il mercato globale Tabella 11.1 Tasso lordo di scolarizzazione universitaria nel Terzo Mondo (% della popolazione in età tra 20 e 24 anni) Terzo Mondo a economia di mercato 1937 1950 1960 1970 1980 1990 2000* Africa America Asia Totale Cina Totale complessivo 0,1 0,2 0,7 1,5 3,5 5 6 0,9 1,8 3 6,3 13,5 17,1 20,8 0,3 1 2,9 5,3 6,2 9,1 15,2 0,4 1 2,1 4,6 7,2 9,1 14,1 0,1 0,3 0,2 0,1 1,2 1,7 6 0,3 0,7 1,5 3,2 5 7 12,1 * Valori stimati Fonti: P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo, vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi, Torino, 1999, tab. 92, p. 1352; Annuario statistico Unesco, varie edizioni 7 per cento. La sostituzione delle importazioni con produzione locale spiega l’intensità del processo. In pratica, fu rovesciata la tendenza consolidatasi nel XIX secolo e proseguita fino alla vigilia della prima guerra mondiale, quando le importazioni di manufatti dai territori metropolitani avevano sostituito le produzioni locali. Non appena il processo di sostituzione delle importazioni fu completato senza dover affrontare grandi investimenti e importare tecnologie costose, sul finire degli anni Sessanta vi fu un ovvio rallentamento della crescita delle attività manifatturiere. Per di più, la possibilità di riversare su mercati esteri produzioni a basso valore aggiunto, come i tessili, fu intralciata da limitazioni e ostacoli frapposti alle importazioni dai paesi sviluppati che difendevano la loro manodopera e le loro imprese. Un freno alla prosecuzione dello sviluppo venne anche dalla rigidità della domanda mondiale di tessili e calzature – il grosso delle esportazioni – assieme alla dipendenza dalle società multinazionali occidentali che, dalla fine degli anni Sessanta, nel Terzo Mondo spostarono in crescente misura quelle fasi dei processi produttivi che impiegano manodopera scarsamente qualificata. La creazione e l’organizzazione di imprese industriali da parte dei governi e degli amministratori pubblici regionali, provocando sprechi di risorse, agirono da freno. I casi di massicci investimenti rivelatisi del tutto inutili o largamente sovradimensionati non si contano, come quelli di sperpero energetico e di materie prime. Un capitolo a parte meriterebbe la questione della diffusa corruzione delle autorità governative e dei funzionari pubblici chiamati a decidere la localizzazione di nuovi impianti industriali. Un altro fattore limitativo è dato dalla prevalente sottoutilizzazione della capacità produttiva delle installazioni, spesso largamente sovradimensionate rispetto ai volumi di 11 Dalla decolonizzazione al Terzo Mondo 245 La crescita demografica dei quattro paesi fu inferiore a quella del resto dell’Asia. Nel caso di Hong Kong, per esempio, l’aumento provenne soprattutto da un flusso incessante di rifugiati cinesi, molti dei quali dotati di un elevato livello di qualificazione professionale. Un notevole fattore di facilitazione nell’avvio dello sviluppo fu dato anche dalle basse percentuali di contadini e di livelli d’analfabetismo (26 per cento) nettamente inferiori alla media (64 per cento) dei paesi asiatici a economia di mercato. Ciò spiega la grande abilità nell’assimilare, utilizzare e sviluppare nuove tecnologie informatiche e la capacità strategica di prevedere il potenziale delle innovazioni, puntando a un costante rinnovamento tecnologico dei settori, del management e della manodopera. La novità delle quattro tigri consiste nelle relazioni, sconosciute in Occidente, istituitesi fra stato, come fattore e organizzatore di sviluppo, economia, tecnologia e società muovendo da politiche dettate dalla logica della sopravvivenza nazionale postbellica. La crescita economica andò di pari passo con un visibile miglioramento dei tenori di vita (salari, sanità, istruzione e condizioni abitative) e della perequazione dei redditi. Tabella 11.2 Rapporto fra reddito medio del 20% della popolazione più ricca rispetto al reddito medio del 20% della popolazione più povera Hong Kong Giappone Sud Korea Taiwan Singapore Anno Rapporto 1981 1979 1981 1978-81 1978 12,1 4,0 4,9 4,3 7,5 Fonte: W.J. Baumol, R.R. Nelson, e E.N. Wolff, Convergence of Productivity. Cross- National Studies and Historical Evidence, New York, 1994 È interessante notare che nei due paesi in cui ha lungamente dominato la cultura britannica, fondata sull’antagonismo individualista, la sperequazione dei redditi è nettamente più accentuata rispetto ai rimanenti tre paesi nei quali domina la cultura orientale tendente a non polarizzare la distribuzione della ricchezza, che significa maggior potere d’acquisto diffuso, maggiore capacità di risparmio, migliore sostegno della domanda. In tutti e quattro i casi considerati, in vario modo, l’azione delle amministrazioni pubbliche è stata così decisiva da far coniare agli studiosi la formula: «stato per lo sviluppo», espressiva di uno stato che, mentre sostiene le imprese, impone loro di misurarsi sul mercato globale. Hong Kong fu la più precoce delle quattro. Fin dalla metà degli anni Cinquanta, cominciò a crescere economicamente come un paradiso del libero mercato alle porte della Cina comunista. Tutto il territorio apparteneva alla corona inglese che lo affittava, con contratti a lungo termine, 250 L’Europa verso il mercato globale Figura 12.1 Carta della Cina re fu la Commissione militare centrale del Comitato centrale del partito, la cui presidenza fu l’unica carica ininterrottamente conservata da Mao sino alla morte (1976). Il partito – una cosa sola con l’esercito – era un’immensa macchina politica ramificata e decentrata ovunque, che per la prima volta nella storia cinese controllava ogni angolo dell’immenso paese. L’estrema personalizzazione della leadership ha fatto sì che qualsiasi decisione presa dal vertice, grazie alla catena di comando che attraversa i centri di potere e si disperde nella società, si trasformi in una mobilitazione generale. Solo così si spiega la straordinaria potenza distruttiva di parole d’ordine come il «grande balzo in avanti» e la «rivoluzione culturale proletaria», lanciate e attuate da Mao Zedong in persona, contro la volontà del vertice del partito. In realtà, coerentemente con la sua cultura contadina e la sua esperienza di combattente partigiano, Mao rispondeva alla fondamentale questione di come conservare il potere comunista e come rendere la Cina forte e indipendente in un mondo radicalmente diviso fra le due superpotenze e avendo alle porte quattro tigri in rapido sviluppo economico e tecnologico. Egli era convinto che convenisse conservare la civiltà rurale cinese della quale era figlio, sviluppare l’autosufficienza (l’autarchia contadina), assicurare il 254 L’Europa verso il mercato globale ziali nel resto del mercato cinese e in quelli esteri. Alcune di queste imprese, specie quelle del settore informatico, fondano il successo economico su un’impegnativa politica di ricerca e sviluppo, ottenendo risultati lusinghieri che le pongono fra le protagoniste emergenti del mercato mondiale. La serie storica del tasso di sviluppo annuale del PIL tra il 1979 e il 2004, ricalcolato di recente dall’Istituto Centrale di Statistica cinese, dà una media su venticinque anni del 9,6 per cento e, in particolare, dal 1993 al 2004, elenca le percentuali annue seguenti: 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 14,0 13,1 10,0 10,9 9,3 7,8 7,6 8,4 8,3 9,1 10,0 10,1 Fonte: it.chinabroadcast.cn/economia La crisi del biennio 1998-99 ha causato un relativo rallentamento dell’altissimo ritmo di crescita mantenuto nel dodicennio qui considerato, dopo di che la percentuale annua di crescita è costantemente aumentata nonostante le autorità governative si sforzino di mantenere sotto controllo la dinamica economica in atto, potenzialmente inflativa. Le conseguenze della politica della «porta aperta» di Deng, che decretò la fine dell’isolamento cinese e preparò l’introduzione nella Costituzione (1999-2004) del diritto «inviolabile» della proprietà privata, dello stato di diritto e del superamento della pianificazione economica socialista, pongono però una serie di questioni di gran peso. ■ La prima e più vistosa è data dal massiccio esodo dalle campagne di alcune centinaia di milioni di cinesi socialmente e culturalmente sradicati e in condizioni economiche precarie. Per di più, le forti distorsioni e disparità nella distribuzione del reddito tra regioni urbane e rurali (rispettivamente un terzo e due terzi degli abitanti) che si ripercuotono sui livelli di consumo e, di conseguenza, sui livelli di vita degli appartenenti ai due gruppi, evocano un incombente dualismo. ■ I sempre più frequenti conflitti tra Pechino e province della fascia costiera derivanti dalla larga autonomia concessa dal governo alle autorità provinciali in fatto di relazioni dirette con l’economia internazionale sono un potenziale fattore di disgregazione e di crisi politica. ■ Le imprese pubbliche a bassa produttività non trovano compratori, né possono essere liquidate. Lo stato sociale (sanità, scuola, vacanze) non potrà essere smantellato. La nuova economia cinese, gestita e sorvegliata dalla pianificazione del governo centrale, dovrà contemperare le esigenze dei tre comparti coesistenti: il tradizionale settore pubblico, che funziona al riparo dalla concorrenza, quello aperto a investimenti e commerci con l’estero e, infine, quello capitalistico, orientato soprattut- 12 Il risveglio dei dinosauri asiatici controllo, il 2 agosto 1858, con il Governement Act of India, il Parlamento trasferiva alla corona tutti i diritti della Est India Company riducendo il paese allo stato di colonia. La piantagione di materie prime industriali (juta e cotone, per esempio) squilibrò l’agricoltura indiana e impedì alle popolazioni di coltivare secondo le proprie esigenze alimentari, tanto che alla fine del XIX secolo si verificarono disastrose carestie. Poiché a lungo l’economia indiana fu diretta da Londra, all’indomani dell’indipendenza (1947), il paese non poté fare a meno dei partner economici inglesi. Del resto, da un secolo e mezzo la stessa formazione culturale delle élite indiane – la lingua inglese al posto dello hindi, il pragmatismo antagonista britannico in luogo del mite buddismo – è perfettamente coerente con i valori e gli stili di vita anglosassoni. Figura 12.2 Carta dell’India 257 12 Il risveglio dei dinosauri asiatici 259 Tabella 12.1 Impieghi di spesa pubblica (%) dei primi due piani quinquennali (1951-61) Trasporti e comunicazione Servizi sociali Industrie e miniere Agricoltura Irrigazione Energia Piccole imprese Totale Fonte: http://planningcommission.nic.in. Indian planning experience. A statistical profile Con i primi quattro piani (1951-71), i governi mirarono soprattutto a dotare il paese di infrastrutture di base adeguate e a migliorarne l’agricoltura, così da renderlo autonomo sotto il profilo alimentare, mentre la popolazione non smetteva di crescere. Una politica daziaria iperprotettiva dal 1950 difese le industrie e le manifatture nazionali dalla concorrenza degli altri paesi asiatici. Con gli anni Settanta, i governanti cominciarono a dimostrare un crescente interesse per forme di cooperazione internazionale che promuovessero lo sviluppo della base produttiva attraverso interventi di modernizzazione degli impianti e di investimento nei settori orientati all’esportazione. 12.6 L’apertura verso l’estero Con i primi anni Ottanta, il ceto governativo indiano si convinse che convenisse seguire la via intrapresa dalle quattro tigri, cioè abbattere le difese daziarie e aumentare i prodotti da esportare, promuovendo la concorrenza e l’efficienza. Per far ciò era indispensabile incentivare investimenti esteri diretti e favorire lo spostamento di manodopera dal dominante e arretrato settore primario al secondario. L’effetto indiretto del nuovo indirizzo non tardò a manifestarsi con un calo del tasso di povertà. Un prestito di oltre 5 miliardi di dollari concesso al governo indiano dal FMI nel 1982, la somma più alta fino allora mai erogata, sancì il gradimento delle istituzioni internazionali per il cambiamento in atto. Gli aiuti servirono per correggere gli squilibri della bilancia dei pagamenti causati dalla crisi petrolifera e per continuare a importare macchinari, attrezzature, materie prime per l’industria e tecnologia aggiornata per lo sviluppo. Nel 1991, l’ingresso dell’India nel WTO accelerò il processo di riforme e di liberalizzazione del mercato. Dopo la svalutazione della rupia (del 22 per cento rispetto al dollaro nel luglio del 1991), le principali riforme economiche del periodo 1991-97 attenuarono la presa dello stato sull’economia: n fu abolito il sistema delle licenze per aprire o ampliare imprese, a eccezione di quelle strategiche (energia, petrolio e telecomunicazioni); 27,8 19,6 14,8 12,8 11,0 10,7 3,3 100 260 L’Europa verso il mercato globale n furono eliminati i controlli sulle importazioni di capitali e merci (a parte i beni di consumo) e ulteriormente ridotte le tariffe doganali. Dal 1993, la rupia divenne convertibile nelle maggiori valute. Gli investimenti di capitale estero nelle imprese indiane poterono arrivare al 74 per cento (dal 1997) e al 100 per cento in quelle totalmente orientate all’esportazione (EOU, Export Oriented Units) aperte in speciali zone (SEZ, Special Economic Zones) nonché in quelle localizzate in parchi tecnologici per hardware o per il software o appartenenti ai settori energetico e elettronico. Fu liberalizzato il tasso di interesse, allentata la barriera all’ingresso per banche private nazionali ed estere e aperta la borsa a investitori istituzionali esteri. Da ultimo, il sistema fiscale fu rafforzato, riformato e semplificato. Il pacchetto di riforme, accolto con scetticismo, si rivelò vincente. Si temeva che un fiume di importazioni allagasse il mercato interno, mettendo in crisi i produttori nazionali, e che la bilancia valutaria, senza controllo statale, finisse in pesante deficit compromettendo la parità del cambio. In realtà, tutto andò per il meglio. Superate alcune iniziali titubanze, l’economia indiana imboccò la via dello sviluppo, realizzando una crescita superiore al 5 per cento nel 1992-93 e intorno al 6 per cento nel 1993-94. Nei tre anni successivi, l’espansione proseguì a un ritmo superiore al 7 per cento. La crisi asiatica del 1997-98 abbassò il PIL nazionale indiano al +4,8 per cento, ma l’anno successivo si riportò al 6,5 per cento. Nel triennio iniziale del nuovo secolo (2001-2003), la ricchezza annualmente prodotta ha oscillato, dipendendo in parte dalla produttività agricola, a sua volta legata alla meteorologia. Il peso ancora alto del settore priTabella 12.2 Tasso annuo percentuale di crescita del PIL indiano, 1965-2006 Anno* 1965-66 1966-67 1967-68 1968-69 1969-70 1970-71 1971-72 1972-73 1973-74 1974-75 1975-76 1976-77 1977-78 1978-79 Tasso % Anno Tasso % Anno Tasso % –3,7 1,0 8,1 2,6 6,5 5,0 1,0 –0,3 4,6 1,2 9,0 1,2 7,5 5,5 1979-80 1980-81 1981-82 1982-83 1983-84 1984-85 1985-86 1986-87 1987-88 1988-89 1989-90 1990-91 1991-92 1992-93 –5,2 7,2 6,0 3,1 7,7 4,3 4,5 4,3 3,8 10,5 6,7 5,6 1,3 5,1 1993-94 1994-95 1995-96 1996-97 1997-98 1998-99 1999-00 2000-01 2001-02 2002-03 2003-04 2004-05 2005-06 ** 5,9 7,3 7,3 7,8 4,8 6,5 6,1 4,4 5,6 4,4 8,2 6,9 8,0 * L’anno di riferimento comincia il 1° aprile e termina il 31 marzo ** Stima Fonti: Planning Commission, cit., Economic Survey, 2002-2003, tab. 1.2; Annual Policy Statement for the year 2005-06 13 Bilanci e prospettive 13.1 Bilancio delle economie del Terzo Mondo Prima della rivoluzione industriale, vale a dire fino all’inizio del XVIII secolo, i livelli di vita del futuro Terzo Mondo e quelli del futuro occidente sviluppato non erano troppo diversi. C’è persino chi ha sostenuto (Bairoch) che il divario dei redditi tra i due gruppi a quel tempo non superasse il 10 per cento a favore dei bianchi. Il rapporto prese a peggiorare dal 1830 in avanti, quando in Inghilterra l’industrializzazione superò un punto di non ritorno e nel continente europeo (Belgio) comparvero le prime fabbriche dotate di macchine a vapore utilizzate da grandi imprese verticalmente integrate. È interessante mettere il Prodotto Nazionale Lordo reale (corretto dalle distorsioni dovute al potere d’acquisto delle monete) dei paesi sviluppati occidentali sia in rapporto a quello dei paesi del Terzo Mondo a economia di mercato, sia a quello dei paesi più indigenti (Etiopia, Nepal e Burundi) comparandoli lungo un periodo che va dal 1830 al tramonto del secondo millennio (1995). Tabella 13.1 Disparità del Prodotto Nazionale reale per abitante tra Terzo Mondo e paesi sviluppati Paesi sviluppati occidentali in rapporto al Terzo Mondo a economia di mercato 1830 1860 1913 1938 1950 1960 1970 1980 1995 1,6 1,7 4,1 5,1 5,7 6,5 8,4 8,5 10,3 (100) (106) (256) (319) (356) (406) (525) (531) (644) Paesi più sviluppati in rapporto ai paesi meno sviluppati del Terzo Mondo 2,8 (100) 4,5 (161) 10,4 (371) 11,9 (425) 19 (678) 25,5 (911) 31 (1.107) 37 (1.321) 49 (1.750) Fonte: P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo, vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi, Torino, 1999, vol. II, tab. 177, p. 1514, elaborazioni dell’Autore 13 Bilanci e prospettive 265 La misura convenzionale del livello di globalizzazione è data dal crescente volume complessivo delle merci esportate ogni anno, qua e là intralciato da periodiche crisi settoriali o macroregionali, come quella capitata in Asia orientale negli ultimi anni del secolo scorso. Per misurare le tendenze dell’ultimo decennio è bene considerare i contributi delle diverse aree economiche del pianeta all’ampliamento del volume di merci uscite dai confini dei paesi produttori. È ipotizzabile che esista una relazione diretta fra tendenziale aumento o diminuzione del contributo di ogni paese e di ogni macroregione economica al commercio internazionale e stato di salute della rispettiva economia. I dati relativi al recente decennio 1995-2004 e al solo 2004 sembrano assai istruttivi in proposito. Tabella 13.2 Contributo delle aree alla crescita delle importazioni mondiali di merci (prezzi in $ 2000) Unione Europea Giappone Stati Uniti Paesi in via di sviluppo Paesi poveri 1995-2004 2004 37,5 5,9 18,6 19,8 3,1 26,2 3,8 19,2 30,6 2,8 Fonte: Elaborazioni ICE su dati FMI, OMC e Commissione europea, 2005 Il senso delle informazioni è chiaro. La vecchia Europa appare in declino, il suo sostegno alla globalizzazione dei mercati è nettamente calato, tanto che nell’ultimo anno compreso nella serie storica (26,2) si è portato di molto sotto dalla media generale (37,5) del decennio. Analogamente si è comportata l’economia giapponese, anch’essa in declino dai primi anni Novanta e ulteriormente danneggiata dalla bolla speculativa edilizia di fine millennio. L’economia nordamericana è l’unica, fra quelle occidentali, a muoversi in controtendenza con un minimo differenziale positivo (+0,6) nel 2004 rispetto alla media generale del decennio. Nell’insieme, i paesi approdati a uno sviluppo economico maturo nella seconda metà del Novecento, dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso stanno vistosamente rallentando il loro sostegno alla globalizzazione. Il Terzo Mondo a economia di mercato e non (Paesi in Via di Sviluppo: PVS) sta invece dando una sostanziosa spinta alle importazioni, come del resto si conviene a economie che dagli anni Sessanta-Ottanta del XX secolo stanno sviluppandosi tenendo ritmi altissimi (+8 –10 per cento del PIL annuo) e che, nelle loro esportazioni, accrescono la quota di merci tecnologicamente avanzate. La crescita del PIL per macroaree economiche non è meno istruttiva perché permette di misurare i differenziali tra economie e di proiettarli verso il prossimo futuro. 266 L’Europa verso il mercato globale Tabella 13.3 Crescita del PIL (%) per aree economiche del mondo 2004 2005 2.0 4,4 5,1 8,2 7,8 5,5 5,7 5,1 1,6 3,6 5,0 6,5 7,1 5,0 4,1 4,3 Area dell’euro Stati Uniti Africa CSI* Asia Medio Oriente America Latina Mondo * Paesi dell’Europa dell’Est e Russia (ex URSS) Fonti: Eurostat L’Unione Europea si conferma l’economia di gran lunga meno dinamica del pianeta. Gli stessi Stati Uniti, ben più attivi degli europei occidentali nella produzione della ricchezza, si situano al di sotto dei livelli medi calcolati per ogni altra macroarea, compreso il continente nero, e nell’insieme per il mondo. Esiste una qualche terapia per risvegliare le economie della vecchia Europa occidentale dalle popolazioni sempre più vecchie e conservatrici? Qualche stimolo potrà venire dalle «giovani» economie ex comuniste dell’Europa centrale, da poco accolte nell’Unione Europea in fuga dalla Russia, e dai paesi candidati a entrare nell’Unione nei prossimi anni, ma occorrerà armarsi di pazienza, tanto è ampio il differenziale dei redditi e dei consumi pro capite delle nazioni entrate da poco e ancora esterne alla zona euro (vedi supra, 10.3). Una qualche terapia stimolante e correttiva dall’interno dei paesi fondatori dell’Unione potrebbe consistere in una perseverante politica di redistribuzione dei redditi, volta a invertire il processo di polarizzazione della ricchezza e di sperequazione crescente tra ceti sociali in Occidente, pericolosamente accentuatasi nell’ultimo quarto di secolo, con effetti sociali, culturali ed economici fortemente disgregativi. I governi degli stati per lo sviluppo del lontano Oriente, da quelli delle piccole tigri a quelli dei giganteschi Cina e India, dove l’economia sta tumultuosamente progredendo a grandi passi, saggiamente perseguono politiche perequative della distribuzione della ricchezza, con positivi effetti sia sui livelli dei consumi, sia sulla propensione al risparmio delle popolazioni. Ma torniamo, per concludere, ai movimenti delle merci nello scenario dell’economia globale. La classifica dei primi dieci paesi esportatori – in valori assoluti – del mondo elenca otto vecchie conoscenze su dieci, tra le quali hanno fatto irruzione il Canada, strettamente legato agli USA, e il dragone cinese collezionista di recenti primati. Per «pesare» la qualità specifica dell’economia dei singoli paesi conviene ponderare i volumi assoluti di ricchezza esportata con l’ammontare del- 13 Bilanci e prospettive 267 le rispettive popolazioni. Si ottiene così un indice relativo e comparabile d’abilità nel produrre dei surplus di beni – che riguarda un terzo della popolazione mondiale – rispetto alla capacità di assorbimento della domanda interna e alla maestria nel piazzarli all’estero, fidelizzando i compratori. Tabella 13.4 Primi dieci paesi esportatori nel 2004 Graduatoria 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 Paesi (%)* Miliardi di $ Popolazione** $ pro capite Graduatoria Germania (16) USA (31,8) Cina (27) Giappone (24) Francia (19) Olanda (18,8) Italia (8) Regno Un. (21) Canada (14) Belgio (8) 915 819 703 565 451 359 346 346 322 309 82,5 293,6 1.275 127,6 60,3 16,2 58,4 59,6 40 10,4 11.090 2.789 551 4.427 7.479 22.160 5.924 5.805 8.050 29.711 3 9 10 8 5 2 6 7 4 1 * Percentuale di esportazioni tecnologicamente avanzate ** Espressa in milioni Fonte: Elaborazioni ICE su dati OMC e Eurostat, integrati con calcoli dell’Autore La graduatoria di destra, che elenca cifre omogenee e comparabili, sovverte quella di sinistra, basata sui soli valori assoluti. L’unico paese che conserva la stessa posizione nelle due liste è la Francia (5). Addirittura, l’ultimo della graduatoria di sinistra diventa di gran lunga il primo in quella di destra. Il piccolo Belgio, primo paese industriale dell’Europa continentale, che alla vigilia della grande guerra (1910) contribuiva all’export mondiale con il 7,3 per cento (vedi supra, § 5.1.1), nel 2004 ha venduto all’estero una quantità di ricchezza pro capite di poco inferiore al PIL per abitante del 2004 (30.592 dollari). L’Olanda, seconda a notevole distanza dal Belgio, esporta il doppio per abitante della Germania, cinque volte la quota del Giappone e otto volte quella degli Stati Uniti. A parte il Canada, che si piazza in quarta posizione, gli altri tre paesi extraeuropei sono in coda alla classifica dei valori pro capite e, per di più, largamente distanziati da tutti gli altri. Se trascuriamo l’ultimo – il dragone cinese – neofita molto aggressivo e intraprendente del capitalismo e del commercio internazionale, che però sconta un’immensa popolazione in maggioranza contadina, colpisce la comune condizione di Stati Uniti e Giappone che, pur esportando grandi quantità di merci d’alta tecnologia, piazzano all’estero solo una piccola parte della ricchezza prodotta (il 7,1 per cento gli USA e il 13,4 per cento il Giappone). In conclusione, la vecchia Europa occidentale, con sei paesi sui primi dieci della classifica delle esportazioni nel mondo mantiene un invidiabile