1.2 Interazioni e interdipendenze

1 Strumenti e metodi interpretativi
3
matori (domanda) che dispongono di redditi monetari (salari) ricavati
lavorando nelle imprese. Un flusso monetario collega continuamente
consumatori e imprese e i comportamenti degli uni e delle altre dipendono dai prezzi dei beni e servizi prodotti combinando i fattori scarsi
(terra, capitale e lavoro) nel modo più efficiente possibile.
Gli economisti studiano i comportamenti e le attitudini di produttori e consumatori nell’ipotesi che il mercato trovi spontaneamente un punto d’equilibrio fra offerta e domanda dei fattori, dei beni e dei servizi, tendendo
all’ottima combinazione e al pieno utilizzo di terra, capitale e lavoro.
1.2 Interazioni e interdipendenze
In prospettiva storica, le relazioni economiche fanno parte di un macroinsieme di relazioni sociali e culturali riconducibili ad almeno quattro differenti sottoinsiemi fra loro interdipenenti:
1. l’ambiente;
2. la struttura e la dinamica delle popolazioni;
3. le istituzioni politiche (forme ed esercizio del potere) e giuridiche
(norme positive e consuetudini);
4. le gerarchie sociali (l’ordine esistente tra i diversi ceti).
L’ambiente è il campo di studio delle scienze naturali e della geografia – la
scienza degli uomini nello spazio – che s’interessa degli influssi esercitati
dalla natura sulle società umane e delle trasformazioni in vario modo apportate alla natura dagli uomini. Nel considerare l’interazione fra fattori fisici
(posizione, clima, vegetazione, acque, suolo, risorse naturali) e fattori antro-
Ambiente
Istituzioni
politiche e
giuridiche
Popolazione
Organizzazione
e/o sistema
economico
Gerarchie
sociali
1 Strumenti e metodi interpretativi
5
c) erano luogo d’incontro per lo scambio (fiere e mercati periodici) dei
manufatti artigianali e delle derrate agricole eccedenti rispetto al fabbisogno di quanti le producevano principalmente per consumarle.
Gli ostacoli naturali e istituzionali (confini di stato, dazi e gabelle) che
intralciavano i movimenti di merci a media e lunga distanza favorirono la
crescita economica e urbanistica delle città portuali e di quelle interne
situate lungo fiumi e/o canali navigabili, giacché le vie d’acqua esigevano
meno tempo e bassi costi di trasporto. Grandi città marinare come Venezia,
Genova, Napoli, Palermo, Messina, Marsiglia e Barcellona nel Mediterraneo e Lisbona, Bordeaux, Londra, Amsterdam, Amburgo e Brema sulle
rive dell’Atlantico e del Mar del Nord, per secoli furono centri densamente popolati nei quali si concentravano funzioni economiche terziarie (commercio all’ingrosso, vettori marittimi, banche e assicurazioni).
☞
Struttura e dinamica della popolazione. La popolazione è un complesso
organismo incessantemente soggetto a mutamenti dovuti a processi naturali: nascite-morti e a processi sociali: unioni, matrimoni e migrazioni. La
storia della popolazione si distingue in due epoche a partire da un lungo
spartiacque cronologico situato tra la metà del XVIII secolo e quella del
XIX. Da allora in poi, a cominciare dall’Europa occidentale, iniziò un processo di prolungata crescita che più tardi coinvolse le Americhe e l’Asia e,
dal Novecento, interessò anche Africa e Oceania, dando origine a un processo d’incessante aumento della popolazione mondiale.
Tabella 1.1 La dinamica di lungo periodo della popolazione mondiale
(stime in milioni di persone)
Epoche/continenti
1000
1500
1750
1900
1950
2005
Europa
Asia
Africa
Americhe
Oceania
Totali
39
177
50
13
1
280
68
231
85
41
2
427
130
484
100
15
2
731
394
1007
122
144
6
1.673
544
1.395
219
330
13
2.501
706
3.847
871
943
34
6.401
Fonte: J.D. Durand, «Historical Estimates of World Population: an Evaluation», Population and Development Review, III,
1977, con aggiornamento
L’avvio di un processo di crescita sinora ininterrotto coincise con l’avvento di migliorate condizioni di vita e con l’adozione di misure igienicosanitarie pubbliche e private. Tenori di vita cambiati in meglio favorirono
un aumento della fecondità mentre l’adozione di precauzioni igieniche
attenuarono la mortalità, in generale, e quella infantile in particolare (vedi
2 L’ereditàmedievale (1347-1530)
2.1 La ripresa della popolazione dopo la peste nera
2.1.1 La dinamica di lungo periodo
Attorno all’anno Mille, la popolazione europea, che secondo ragionevoli
stime ammontava a circa 40 milioni di persone, cominciò a crescere fino ai
primi del Trecento, quando oltrepassò i 90 milioni. Fra la fine del Duecento e il primo Trecento, una fase climatica sfavorevole – estati siccitose e
inverni particolarmente rigidi – causò frequenti fallimenti dei raccolti (grano, segale e orzo erano la base alimentare delle popolazioni). Un peggioFigura 2.1 Tempi di diffusione della «peste nera» in Europa
Fonte: E. Carpentier, Autour de la Peste Noire, Annales E.S.C., XVIII, 1962
2 L’eredità medievale (1347-1530)
13
ramento per molti anni di seguito delle diete della maggior parte degli abitanti fu all’origine di un calo delle nascite.
Dal novembre 1347, su una popolazione debilitata, s’abbatté la peste
bubbonica (la cosiddetta «peste nera»). Il bacillo della Yersinia pestis si
diffuse in Europa occidentale a partire da Messina e Genova dove attraccarono navi provenienti dalla Crimea. Risalendo il continente da sud a nord,
il contagio giunse in Francia settentrionale nel settembre del 1348, in
Inghilterra nel giugno dello stesso anno e in Norvegia nel dicembre del
’49. Nel 1350, dalla Germania e dalla Polonia, il morbo si diresse a oriente verso le steppe russe dove la bassa densità della popolazione, nel 1353,
ebbe ragione della sua forza distruttiva.
L’incapacità d’organizzare efficaci difese igieniche e sanitarie ebbe
effetti drammatici: da poco meno di 100 milioni, alla vigilia dell’infezione, gli europei scesero a circa 65 milioni attorno all’anno 1400. Oltre alla
tragica scomparsa di almeno un terzo degli abitanti, vanno considerati gli
effetti di lungo periodo sugli immaginari collettivi e nella vita quotidiana,
collegati all’insediarsi del morbo come malattia ricorrente.
Figura 2.2 Andamento annuale dei decessi ad Arezzo, 1388-1540 (media del periodo = 100)
900
Arezzo
Fonte: N.J.G. Pounds, An Economic History of Medieval Europe, London 1974, p. 154
Nel secondo Trecento e per tutto il Quattrocento, la peste si ripresentò
periodicamente. In Italia, per esempio, nell’arco di centocinquant’anni
visitò città e campagne almeno una decina di volte. La serie annuale delle
sepolture avvenute in Arezzo, dal 1390 al 1540, è un’efficace testimonianza del ritmico ritorno del contagio segnalato da impennate dei decessi.
Con il passare del tempo, l’effetto distruttivo del morbo diminuì e, dal
1530 in poi, la dinamica demografica generale d’Europa si orientò decisamente verso la crescita, tanto che, a fine Cinquecento, la popolazione guadagnò livelli (108/111 milioni) superiori a quelli della vigilia della peste
nera (92/97 milioni).
1540
1530
1520
1510
1500
1490
1480
1470
1460
1450
1440
1430
1420
1410
1400
200
100
0
1390
500
14
L’Europa verso il mercato globale
Figura 2.3 Andamento della popolazione europea dall’anno Mille all’anno 1700 (milioni)
160
120
80
40
0
1100
1200
1300
1400
1500
1600
1700
Fonte: M. Cattini, Introduzione alla storia economica moderna e contemporanea del mondo (secoli XV-XX), Ca’ Sanguinetti,
Modena, 2000
2.1.2 L’azione delle variabili demografiche
L’andamento della popolazione dell’Europa preindustriale può essere
paragonato alla tela di Penelope perché le variabili all’opera, matrimoni,
nascite e sepolture, convenzionalmente misurate sull’arco di un anno per
ogni mille abitanti (nuzialità, natalità e mortalità), raramente erano stabili
e incorrevano in frequenti prolungate fasi di squilibrio.
Le indagini condotte per i secoli XV-XVIII hanno permesso di precisare le
dinamiche demografiche di breve (un anno), medio (un decennio) e lungo
periodo (più di un secolo) distinguendo fasi di crescita duratura, in assenza
di guerre, carestie e pestilenze, da periodi di crisi riconoscibili per l’arresto
dei matrimoni, il crollo dei concepimenti e l’impennarsi delle sepolture.
Presso le società europee tradizionali, l’abilitazione a procreare coincideva con il rito del matrimonio sicché, fino alla metà del Settecento, le
nascite illegittime raramente superarono la percentuale del 2-3 per cento.
Nell’Europa occidentale, dove dal Cinquecento dominò la famiglia
nucleare (marito, moglie e figli) e neolocale (con una residenza autonoma
dopo le nozze), la formazione d’ogni nuovo ménage dipendeva dalle possibilità della coppia di metter su casa e di fronteggiare le spese del nascente nucleo familiare. Entrambe le condizioni avevano forti implicazioni
economiche, sia per le famiglie d’origine dei nubendi (la sposa portava un
corredo di biancheria per la casa, vestiario, gioielli e denaro contante: la
dote; lo sposo forniva l’abitazione e il mobilio), sia per gli sposi che,
lasciando il tetto paterno, dovevano assicurarsi entrate adeguate.
16
L’Europa verso il mercato globale
delle valute, la fusione e fucinatura del ferro e dell’acciaio, la carpenteria lignea e la costruzione d’imbarcazioni e di naviglio.
2.2 Le campagne. Dai campi aperti e comuni alle recinzioni
2.2.1 L’agricoltura tradizionale
Le condizioni economiche e sociali degli uomini delle campagne dipendevano anzitutto dal differente titolo giuridico in forza del quale lavoravano i
terreni. Sotto questo profilo, l’Europa era praticamente divisa in due da
una linea ideale discendente dall’estuario del Reno, nel Mar del Nord, al
golfo di Trieste, nell’alto Adriatico.
Figura 2.4 Strutture fondiarie in Europa alla fine del XVIII secolo. Contadini liberi (a ovest)
e contadini servi (a est) della linea tratteggiata
prevalenza di piccole e
medie proprietà contadine
prevalenza di grandi proprietà
(redditiere o capitaliste)
grandi proprietà a «seconda servitù»
Russia (grandi proprietà e mir)
Fonte: M. Cattini, op. cit., 2000
I contadini liberi residenti a ovest sfruttavano i suoli detenendone raramente
☞ la proprietà e, più spesso, il semplice possesso (enfiteusi, livello) contro
☞
prestazioni (onoranze) di valore pressoché simbolico. Molte terre erano date
in uso oppure lavorate in forza di contratti parziari (come la mezzadria,
2 L’eredità medievale (1347-1530)
2.3 Le città: il mercato regolato, l’economia di scambio e il
capitalismo
2.3.1 Le metropoli e il pulviscolo dei centri minori
Alla fine del Quattrocento, mentre la popolazione riprendeva a crescere, nella geografia europea le città erano inegualmente distribuite. Rarissime nelle
regioni orientali comprese fra il corso dell’Elba e gli Urali, a nord, e nell’area medio danubiana e in direzione dei Balcani, il maggior numero di città
era a ovest, fino ai Pirenei, oltre i quali i centri abitati tornavano a farsi rari.
Le città più numerose – sintomo di un’agricoltura più vivace e produttiva – andavano dalle Fiandre e dal Brabante (Olanda, Belgio e Lussemburgo) alle regioni centro italiane (Toscana, Umbria e Marche) passando per
la Lorena e la Borgogna, l’Alsazia e i cantoni svizzeri e, oltre la catena
alpina, per la pianura del Po. In quella parte d’Europa, i fiumi avevano
calamitato gli insediamenti urbani perché i corsi d’acqua, nel medesimo
tempo, erano le migliori vie di comunicazione e formidabili fonti energetiche per le più potenti macchine d’allora: i mulini ad acqua.
Le attività artigianali tecnicamente più evolute erano tipicamente urbane
e sfruttavano i mulini per vari usi come: macinare i cereali, battere e forgiare ferro e rame, filare la seta, cardare la lana e follare i pannilani,
miscelare la pasta di legno per fare la carta, sollevare acqua (idrovora),
muovere la vite d’Archimede per pressare e torchiare.
Figura 2.5 Mulini a vento alla periferia di una città europea
Fonte: Giovanni Stradano, Mulini a vento, Civica Raccolta di Stampe Achille Bertarelli, Milano
21
28
L’Europa verso il mercato globale
Tabella 2.1 Città dell’Europa occidentale con almeno 50.000 abitanti nell’anno 1500
Parigi
Napoli
Milano
Venezia
Granada
Praga*
Lisbona
Tours
Genova
225.000
125.000
100.000
100.000
70.000
70.000
65.000
60.000
58.000
Firenze
Gand
Palermo
Roma
Bologna
Bordeaux
Londra
Lione
Verona
* Città centroeuropea
Fonte: P. Bairoch, J. Batou e P. Chèvre, La population des villes européennes de 800 à 1850, Genève 1988
Figura 2.6 Città, strade e rotte marittime dal XIII al XVII secolo
Fonte: Da R.S. Lopez, Naissance de l’Europe, Ve-XIVe siècle, Paris, 1962, pp. 308-309
55.000
55.000
55.000
55.000
50.000
50.000
50.000
50.000
50.000
Fonte: M. Cattini, op. cit., 2000
Figura 2.7 Viaggi di scoperta, XV e XVI secolo
36
L’Europa verso il mercato globale
38
L’Europa verso il mercato globale
Tabella 2.2 Spedizioni d’oro dalle colonie americane a Siviglia (1), produzione mondiale (2)
e percentuale di quella americana (3) (medie annue in chilogrammi)
Periodi
(1)
(2)
(3)
1503-1510
1511-1520
1521-1530
620
915
489
6.000
7.000
7.000
10,3%
13,1%
7,0%
Fonte: M. Cattini, Le rotte del pepe dell’oro e dell’argento, in Storia del commercio europeo, Milano, 1983, p. 84
☞
I registri tenuti dal 1504 a Siviglia, il porto d’arrivo dei metalli preziosi del
Nuovo Mondo spagnolo, danno conto dei quantitativi d’oro sottratti agli
indios e spediti in Spagna.
La produzione messicana degli anni Venti, per gran parte frutto della
rifusione degli oggetti saccheggiati e della coltivazione di giacimenti scadenti, subì un calo anche per i devastanti effetti dei contagi di vaiolo, morbillo e peste diffusi dai bianchi fra gli indios, del tutto privi di difese
immunitarie.
Nel gennaio 1532, ottenuti privilegi e finanziamenti da Carlo V, alla
testa di duecento avventurieri, Francisco Pizarro s’addentrò nell’altipiano
andino dell’impero Inca. Con un espediente e un ardito colpo di mano, riuscì a rapire l’imperatore Atahualpa. Per liberarlo, chiese e ottenne in
riscatto enorme: quattro tonnellate d’oro e nove e mezzo d’argento, molto
di più del metallo pregiato complessivamente giunto a Siviglia negli anni
Venti del Cinquecento.
Fra la conquista del Messico (1521) e quella del Perù (1533), la colonizzazione spagnola mutò carattere. Ai pionieri, in maggioranza contadini,
emigrati in cerca di più umane condizioni di vita, si sostituì un gran numero di secundones: i figli cadetti della piccola e media nobiltà hidalga che,
seppur poveri, avevano ben altra cultura e nutrivano speranze di gloria e
ricchezza. Dall’infanzia essi avevano assorbito gli ideali feudali. Trapiantati in America, costruirono con fervore relazioni sociali ed economiche
coerenti con l’originaria vita nobiliare, oltre a procacciarsi quei benefici da
cui la dura regola della primogenitura li escludeva.
Il primo rapporto instaurato dagli spagnoli con gli americani fu di asservimento. A tre generazioni di distanza (circa 1560) dal primo sbarco di
Colombo, dei 90-100 milioni d’abitanti del Nuovo Mondo ne sopravvivevano da 12 a 18. Le condizioni di lavoro estreme e la mancanza di difese
immunitarie nei confronti di vaiolo, morbillo e peste, causarono una catastrofe demografica di proporzioni bibliche.
La lontananza dalla patria (sei mesi di viaggio in Atlantico, dall’istmo
di Panama a Siviglia) e i connessi proibitivi costi di trasporto impedirono l’avvio di produzioni destinate alla vendita in Europa, sicché l’unica
3 Dal Mediterraneo al Mare del Nord (1530-1720)
41
La crescita demografica non fu uniforme. I dati raccolti dagli studiosi,
raggruppati per vaste aree dai comuni caratteri geografici e climatici, sui
due secoli XVI e XVII mostrano dinamiche assai diversificate.
Tabella 3.1 Popolazione di paesi e di gruppi di paesi europei negli anni 1500, 1600 e 1700
(in milioni di abitanti, valori percentuali e INDICI)
☞
A 1500
Italia, Spagna, Portogallo
Francia
Germania, Polonia, Svizzera
Scandinavia, Gran Bretagna
Belgio e Olanda
Balcani
Est europeo
Totale Europa
Totale Europa (indici)
(%)
B 1600
(%)
19,8 (24,3)
16,4 (20,0)
16,3 (19,9)
7,8 (9,5)
24,6
18,5
21,0
12,1
7,0 (8,6)
14,5 (17,7)
81,8 (100)
100
8,0 (7,5)
22,5 (21,1)
106,7 (100)
130,4
(23,0)
(17,4)
(19,7)
(11,3)
C 1700
Diff. %
C/A
% C/
%A
(20,3)
(17,3)
(19,3)
(13,4)
–4,0
–2,7
–0,6
+3,9
–16,5
–13,5
–3,0
+41,0
8,0 (6,9)
26,3 (22,8)
115,3 (100)
140,9
–1,7
+5,1
0
–20,0
+29,0
0
+40,9
23,3
20,0
22,2
15,5
(%)
Fonti: J.C. Russel, La popolazione dal 500 al 1500, in Storia economica d’Europa, diretta da C.M. Cipolla, I secoli XVI e
XVII, trad. it., Torino 1979, I; R. Mols, La popolazione europea nei secoli XVI e XVII, ivi, II, elaborazioni dell’Autore
Nel corso del Cinquecento (B/A), in valori assoluti, ogni regione crebbe in
misura più o meno consistente. Di sopra dalla crescita media globale, pari al
+30,4 per cento, si mossero soltanto Scandinavia, Gran Bretagna, Belgio,
Olanda ed Est europeo (+55,1 per cento); tutte regioni appartenenti al centro-nord del continente. Il passo decisamente più spedito tenuto da quei paesi comportò cambiamenti a loro favore nella gerarchia del peso demografico
(percentuali fra parentesi della tabella). Prese assieme, Scandinavia, Gran
Bretagna, Belgio, Olanda ed Est europeo, da poco più di un quarto (27,2 per
cento) dell’intera popolazione europea che assommavano attorno all’anno
1500, un secolo dopo rappresentavano quasi la terza parte (32,4 per cento).
Nel XVII secolo (C/B), la crescita demografica proseguì, seppure secondo un ritmo assai più blando (+8%), mentre si accentuavano tendenze già
profilatesi nel Cinquecento. Il gruppo dei paesi a crescita sostenuta accrebbe il proprio peso relativo dal 34,6 per cento al 36,2 per cento e, soprattutto, la macroregione gravitante attorno al Mare del Nord (Scandinavia, Gran
Bretagna, Belgio e Olanda) non cessò di prosperare (dall’11,3 al 13,4 per
cento della popolazione europea). Anche l’Est crebbe consistentemente
mentre il resto d’Europa ristagnava o addirittura perdeva popolazione, come
avvenne per Italia, Spagna, e Portogallo (dal 23 per cento al 20,3).
Dappertutto, la risposta alla sfida della conservazione dell’equilibrio
dinamico esistente fra uomini e risorse naturali consistette nel rimettere a
coltura suoli abbandonati dopo la peste nel secondo Trecento e nel primo
Quattrocento. Pertanto, il Cinquecento fu il secolo dei contadini pionieri,
impegnati nella riconquista e messa in valore di terre incolte divenute
boschi e pascoli, acquitrini e paludi.
42
L’Europa verso il mercato globale
Dalla Scandinavia all’Est europeo, dalla Germania alla Polonia, dalla
Francia alla Spagna, fino all’Italia, l’ampliamento delle coltivazioni a spese di foreste e zone umide fu la regola, con crescenti problemi di limitazione degli spazi deputati all’allevamento di greggi transumanti e al pascolo semibrado dei bovini e dei suini sui campi comuni (demaniali).
Laddove la densità della popolazione era minore, la dinamica della crescita demografica ed economica fu più energica. In particolare, favorevoli
condizioni d’insolazione e piovosità, assieme alla natura dei terreni, garantivano alle campagne nordeuropee rendimenti cerealicoli quasi doppi
rispetto a quelli delle regioni mediterranee e, soprattutto, oscillazioni dei
volumi dei raccolti annuali ± 8 per cento) ben inferiori a quelle del Mezzogiorno (± dal 12 al 16 per cento). In pratica, nel centro-nord dell’occidente
europeo, i raccolti erano più copiosi e meno variabili, in volume, da un’annata all’altra. Il che, costringendo ad accantonare una parte minore di scorte per contrastare eventuali deficit produttivi dell’anno a venire, permetteva
ai coloni di avviare allo scambio più consistenti quote di raccolto (maggiore offerta) e di incappare più raramente in gravi carestie.
Figura 3.1 Variabilità nei raccolti di cereali: media percentuale di scostamento della norma
Fonte: M. Cattini, Introduzione alla storia economica moderna e contemporanea del mondo (secoli XV-XX), Ca’ Sanguinetti,
Modena, 2000
3 Dal Mediterraneo al Mare del Nord (1530-1720)
43
L’alta produttività cerealicola delle regioni affacciate sulle rive del Mare
del Nord è indirettamente attestata dalla sensibile crescita delle popolazioni residenti in centri urbani di quella parte d’Europa.
Tabella 3.2 Residenti in città europee di almeno 10.000 abitanti (valori percentuali)
Italia
Spagna e Portogallo
Scandinavia, Gran Bretagna, Belgio e Olanda
Francia
Germania e Svizzera
Est europeo
Tutta l’Europa
1500
1600
1650
1700
12,4
5,7
6,6
4,1
3,1
1,1
5,6
15,1
11,7
8,2
5,9
4,0
1,4
7,6
14,0
10,5
10,9
7,2
4,2
1,7
–
13,2
9,5
11,3
9,2
4,6
2,6
9,2
Fonte: J. de Vries, European Urbanisation 1500-1899, Cambridge1984, tavv. 3.2; 3.6; 3.7
Nel Cinque e Seicento, la produttività agricola migliorò abbastanza da permettere alle città nordiche d’aumentare di mole, avendo efficacemente risolto il
problema dell’approvvigionamento delle derrate alimentari. Qualcosa del genere non avvenne nell’Europa meridionale, come attesta il declino demografico
urbano seguito nel XVII secolo, dopo una sensibile crescita cinquecentesca.
Le percentuali di abitanti nelle città mostrano il rallentamento e declino
demografico dei paesi mediterranei e, per contro, i guadagni, fino a metà
Seicento, del nord-ovest. La crescita francese, invece, denota l’ingente
riserva di suoli riducibili a coltivazione nella Francia del Re Sole, allineatasi solamente attorno al 1700 alla media continentale.
In Olanda, dove verso il 1620, ben il 40 per cento della popolazione abitava nelle città – un primato europeo – con costose operazioni idrauliche si
costruirono terreni coltivabili (i polders) strappandoli alle lagune, dopo
aver innalzato dighe e prosciugato le acque con pompe idrovore mosse dai
celebri mulini a vento.
3.1.2 La “trappola malthusiana” all’opera
Thomas Malthus, pastore ed economista inglese, nel 1798 pubblicò uno
studio intitolato Saggio sul principio di popolazione nel quale, osservando
il sostenuto sviluppo della popolazione inglese (vedi infra, § 4.1.3) profilatosi da un quarantennio, previde che la crescita demografica avrebbe
condotto il paese alla catastrofe.
Malthus sostenne che due leggi assai diverse regolano la crescita della popolazione (rapida) e quella dei mezzi di sussistenza (più lenta). Per
chiarire il suo pensiero si valse di un semplice modello: la popolazione
si muoveva secondo una progressione geometrica (1, 2, 4, 8, 16…), gli
52
L’Europa verso il mercato globale
Figura 3.2 Paesi Bassi settentrionali (7 province unite olandesi), Paesi Bassi meridionali, Ducato
di Lussemburgo e Regno di Francia nel XVIII secolo
Fonte: Atlante e cronologia della storia del mondo, Zanichelli 1966
62
L’Europa verso il mercato globale
Figura 4.1 Il miglioramento della rete stradale con strade a pedaggio: il caso del Lancashire
Fonte: M. Cattini, La genesi della società contemporanea europea, Ca’ Sanguinetti, Modena, 1998
4 La prima rivoluzione industriale (1720-1870)
63
ca occidentale)-Antille (nell’America centrale), cui s’aggiunsero il porto
di New Orleans – l’emporio delle colonie inglesi del Nordamerica – e la
costa della nuova Inghilterra, nel secondo Settecento promosse una vistosa
crescita delle città di mare affacciate sulla costa occidentale di un paese
fino allora mancante di centri urbani di medie dimensioni.
Tabella 4.1 Le sei maggiori città inglesi (migliaia di abitanti)
1600
1. Londra
2. Norwich
3. York
4. Bristol
5. Newcastle
6. Exeter
Totali
Numeri indici
Indici di Londra
1750
200.000
15.000
12.000
12.000
10.000
9.000
258.000
100
100
1. Londra
2. Bristol
3. Norwich
4. Newcastle
5. Birmingham
6. Liverpool
1800
675.000
50,000
36.000
29.000
24.000
22.000
836.000
324
337
1. Londra
2. Manchester
3. Liverpool
4. Birmingham
5. Bristol
6. Leeds
960.000
84.000
78.000
74.000
64.000
53.000
1.313.000
509
480
Fonte: M.J. Daunton, Città e sviluppo economico nell’Inghilterra del diciottesimo secolo, in Città, storia, società, a cura di
Ph. Abrams e E.A. Wrigley, Bologna, 1983, p. 234
I dati danno conto di due fenomeni:
n del gigantismo di Londra fin dal primo Seicento, attorniata da piccolissime città;
n della vistosa crescita, nel secondo Settecento, dei porti affacciati sul
braccio di mare che separa il Galles dall’Irlanda.
La struttura urbana inglese, quasi inesistente fino alla prima metà del Settecento, prese forma grazie ai traffici internazionali e alle attività di servizio e
di lavorazione delle materie prime importate. Nel giro di qualche generazione, villaggi di pescatori-contadini si trasformarono in città sempre più popolose. Il fenomeno è tanto più appariscente se si considera che, nella seconda
metà del Settecento, la dinamica demografica della capitale (+42 per cento)
fu largamente inferiore a quella degli altri cinque centri considerati nella
tabella, presi insieme (+119 per cento). In ogni caso, intorno agli inizi del
XIX secolo, la percentuale di residenti in città di almeno 10.000 persone era
del 24 per cento in Inghilterra e Galles, contro il massimo europeo del 29
per cento dell’Olanda, il 16 per cento circa dell’Italia, il 9,5 per cento della
Francia e il 7,2 per cento della Germania a est dell’Elba.
4.1.2 L’ambiente: il mondo rurale
Il paesaggio inglese si divideva in terre alte e terre basse. Sui terreni ondulati prevaleva l’allevamento (bovino, ovino ed equino) mentre, nelle pianu-
64
L’Europa verso il mercato globale
re, aveva la meglio la cerealicoltura. Pascoli e campi coltivati erano un po’
dappertutto interrotti da boschi, foreste, brughiere e incolti, dai quali si
ricavavano legname e frutti spontanei.
È possibile distinguere i prevalenti orientamenti colturali separando il
territorio in due con un’ideale linea discendente da nord a sud fino a Londra e, poi, orientata a sud ovest verso la punta della Cornovaglia. Nel Settecento, a oriente, la cerealicoltura prevaleva sull’allevamento. Nei terreni
leggeri dell’East Anglia (Norfolk, Suffolk, Essex) le condizioni meteo-climatiche e i suoli assicuravano ottime rese, con minime oscillazioni dei
raccolti da un’annata all’altra. A occidente della linea, invece, prevaleva
l’allevamento bovino, ovino ed equino.
Nelle campagne dell’ovest, recintate per gran parte della loro superficie,
dominava l’individualismo agrario; in quelle orientali, suddivise in innumerevoli strisce, prevalevano i campi aperti. Le prime recinzioni erano
comparse a fine Quattrocento, su iniziativa di grandi proprietari fondiari
allevatori d’ovini ed esportatori di lana. Ai primi del Cinquecento, Tommaso Moro, il Lord Cancelliere di Enrico VIII, nel suo trattato Utopia,
stigmatizzò l’innovazione notando che le campagne ridotte a pascolo,
avrebbero condannato gli inglesi alla fame. L’Inghilterra era però così
poco densamente popolata, aveva una cerealicoltura così redditizia e
disponeva di una tale riserva di suolo che non rischiò di restare priva di
cereali. Tra metà Seicento e metà Settecento, con una popolazione ben più
numerosa di quella dei tempi di Enrico VIII (morto nel 1547), l’isola fu
addirittura fra i maggiori esportatori europei di grano.
Nell’Inghilterra di fine Seicento, le campagne erano sfruttate estensivamente, sia per la bassa densità demografica del paese (meno di 30 abitanti
per kmq, dalla metà a un terzo dei valori dell’Italia centro-settentrionale
alla stessa epoca), sia perché le terre erano distribuite in maniera assai sperequata tra i proprietari. Poche migliaia di famiglie aristocratiche intestatarie d’enormi tenute, trasmesse intatte di primogenito in primogenito, controllavano la maggior parte del suolo (vedi infra, § 4.6.1). Accanto a loro,
una ben più numerosa nobiltà di provincia – la gentry – disponeva di poderi di vaste dimensioni, se paragonati a quelli in genere controllati dalla
media aristocrazia europea.
Tabella 4.2 Uso del suolo in Inghilterra e Galles nel 1696 (milioni di ettari e percentuali)
Arativo
3,64 (42,8%)
Arativo: di cui seminativo
2,25 (61,8%)
Prato/pascolo
Totale
4,86 (57,2%)
8,5 (100%)
Maggese
Totale
1,39 (38,2%)
3,64 (100%)
Fonte: D. Grigg, La dinamica del mutamento in Agricoltura, trad. it., Bologna, 1985, tab. 27, p. 240, elaborazione dell’Autore
4 La prima rivoluzione industriale (1720-1870)
65
Gli 8,5 milioni di ettari utilizzati per l’agricoltura e l’allevamento rispetto
ai 15,1 milioni di superficie di Inghilterra e Galles, presi insieme, rappresentavano solo il 56 per cento. Per di più un’abbondante metà dell’ambiente sfruttato – il 57,2 per cento – serviva per l’allevamento (prato e
pascolo). Una dimensione sconosciuta nelle regioni europee densamente
popolate come Fiandre, Brabante, Olanda e Italia centrale e settentrionale.
Alla fine del Seicento, dunque, l’agricoltura inglese e gallese:
n disponeva di grandi riserve di terra;
n in molte parti del paese produceva per il mercato (prodotti orticoli, carne e latticini, cereali per la panificazione e per la produzione di birra);
n la produttività del frumento oscillava tra i 9 e i 10 quintali per ettaro,
vicino ai massimi europei del tempo e, soprattutto;
n i raccolti erano stabili nel medio periodo (la variabilità essendo compresa tra più e meno l’8 per cento), in virtù di favorevoli condizioni meteoclimatiche.
Se, poi, si considera che l’estensione media dei poderi era tra doppia e
quadrupla di quella delle più avanzate regioni continentali e che la grande
maggioranza delle aziende agricole (tra il 60 e il 70 per cento, secondo i
ruoli dell’imposta sul reddito) ai primi del Settecento era in mano a fittavoli che pagavano canoni in denaro, l’assetto strutturale delle campagne
inglesi nel secolo dell’avvio della rivoluzione industriale appare straordinariamente avanzato (grande disponibilità di suoli e imprenditori agricoli).
4.1.3 La popolazione: la dinamica generale
Dopo una lenta crescita dai primi del Seicento alla metà del Settecento, la
popolazione quasi triplicò entro metà Ottocento e la durata della vita si
allungò.
Tabella 4.3 Dinamica della popolazione in Inghilterra e Galles e Gran Bretagna
(milioni e indici, 1600-1850)
Anni
Inghilterra e Galles
Indici
Gran Bretagna
Indici
1600
1650
1700
1750
1800
1850
4,8
5,7 (18,7)
6,0 (5,2)
6,3 (3,3)
9,2 (48,4)
17,8 (93,4)
(100)
(119)
(125)
(131)
(192)
(371)
–
–
6,8
7,4 (8,8)
10,7 (44,6)
20,6 (92,5)
–
–
(100)
(109)
(145)
(303)
Fonte: B.R. Mitchell e Ph. Deane, Abstract of British Historical Statistics, Cambridge, 1962
I dati aggregati per contee, distinguendo quelle a vocazione agricola da
quelle in cui andavano concentrandosi le manifatture e i servizi, mostra-
66
L’Europa verso il mercato globale
no differenziazioni demografiche in relazione con i caratteri economici
prevalenti.
Tabella 4.4 Distribuzione della popolazione inglese secondo le attività economiche prevalenti,
1751-1831 (migliaia di abitanti e indici)
Contee agricole e a bassa densità manifatturiera
Contee industriali e commerciali
1751
1801
1831
3.890 (100)
2.251 (100)
5.391 (138)
3.765 (167)
7.734 (199)
6.318 (281)
Fonte: S. Pollard, La conquista pacifica, l’industrializzazione in Europa dal 1760 al 1970, Bologna, 1989
Nelle aree a prevalenti attività manifatturiere e commerciali, la popolazione crebbe maggiormente. Lo spostamento da attività rurali a impieghi nell’industria e nei servizi fu tuttavia meno rapido di quanto non dicano le
percentuali. Nel 1750, poco meno dei due terzi degli inglesi e dei gallesi
(63,3 per cento) abitavano in contee a vocazione agricola. Alla fine del
secolo, la maggioranza della popolazione (58,8 per cento) viveva ancora
nelle contee poste ai margini del processo di crescita industriale.
Nel 1831, quando l’industria tessile cotoniera giunse all’apice del suo
sviluppo (vedi infra, § 4.3.1), la quota di popolazione residente in contee
ad attività tradizionali era ancora il 55 per cento. Ciò significa che, nell’avvio della trasformazione economica del paese, le campagne svolsero
un ruolo decisivo, sia perché fornirono un crescente numero di braccia alle
aree in cui stavano prendendo slancio le attività industriali, commerciali e
di servizio, sia perché proprio nel settore agricolo, nonostante diffuse correnti migratorie, si profilarono quegli aggiustamenti tecnici, economici e
delle mentalità che promossero e sostennero l’industrializzazione.
Nella storia demografica inglese la grande Londra rappresenta un caso a
parte. Sul finire del Seicento, la capitale britannica era la maggiore città
europea con circa 575.000 abitanti. A metà Settecento era cresciuta di altre
100.000 anime e, agli inizi dell’Ottocento, ne contava quasi un milione. In
nessuna capitale risiedeva una percentuale tanto alta della popolazione del
paese: il 7 per cento nel 1650; addirittura l’11 per cento cent’anni dopo. Il
costante aumento della popolazione londinese lungo il Seicento e Settecento produsse effetti economici e sociali anticipatori di quelli caratteristici dell’industrializzazione.
Anzitutto, la crescita non avrebbe potuto proseguire senza i mutamenti
intervenuti nel mondo rurale circostante. L’eliminazione, nel secondo Seicento, di ogni divieto di movimento delle derrate agricole, assieme al
miglioramento delle infrastrutture dei trasporti via terra e via acqua, assicurarono l’approvvigionamento di cereali e ortaggi, di pesce, di carne, di
cuoio, di carbone, di materiali da costruzione e di materie prime industriali della capitale. Già agli inizi del Settecento, dal 20 al 25 per cento della
70
L’Europa verso il mercato globale
Tabella 4.5 Serie storica degli atti parlamentari di recinzione di campi aperti, 1702-post 1840
1702-1729
1730-1749
1750-1759
1760-1769
1770-1779
1780-1789
42
73
156
424
642
287
1790-1799
1800-1809
1810-1819
1820-1829
1830-1839
post 1840
506
906
835
205
146
190
Fonte: P. Mantoux, La rivoluzione industriale, Roma, 1971
☞
Quasi l’82 per cento degli atti fu emanato nel sessantennio 1760-1819,
anni in cui vi fu il massimo della crescita demografica e furono gettate le
basi di una solida struttura industriale. Il secondo aspetto istituzionale
importante per le implicazioni che ebbe sui rapporti sociali ed economici
riguarda la regolamentazione del lavoro artigianale e l’assistenza pubblica
ai poveri. Ai primi del Settecento, Daniel Defoe, il celebre autore del
Robinson Crusoe, riteneva che la città di Bristol fosse meno prospera di
Liverpool e Manchester per la “tenace follia dei suoi abitanti” che non
sapevano rinunciare alla “tirannia delle corporazioni”.
Di lì a pochi decenni, nel 1751, un’inchiesta parlamentare scoprì che “le
fabbriche più utili e prospere sono principalmente gestite, insieme al commercio più fiorente, in quelle città e in quei luoghi che non sono soggetti a
leggi locali sulle corporazioni” e la relazione proseguiva affermando: “Le
leggi relative al commercio e all’industria dovrebbero essere completamente annullate […] essendo divenute, nelle presenti congiunture, dannose per il commercio”.
In realtà, fin dal 1688, il sistema corporativo inglese era in via di smantellamento. Il rapido sviluppo dell’industria cotoniera del Lancashire dipese dalla mancanza dei freni tecnici e organizzativi di carattere corporativo. Là, infatti, diversamente da altre regioni in cui le corporazioni
ne impedirono l’adozione, ancor prima della fine del Settecento era stato
adottato quel telaio olandese che, una cinquantina d’anni prima, i tessitori londinesi non avevano voluto nei loro laboratori e dichiarato fuori legge fin dal 1638.
Dopo il 1688, più volte il Parlamento rifiutò il ripristino delle antiche
norme corporative, allineandosi alle sentenze emesse nelle contee dai giudici di pace. Nel 1694 fu abrogata la norma dello Statute of Artificiers
(1563) che vietava ai figli dei contadini l’esercizio d’attività artigianali,
legalizzandone l’impegno nelle manifatture tessili. Infine, l’eliminazione
dalla fine del Seicento dell’apprendistato offrì agli imprenditori l’opportunità di impiegare donne e bambini, prima indisponibili per legge, e permise loro di cambiare attrezzature e macchinari senza doverne rendere
conto ad alcuno.
Una situazione tanto gravida di conflitti economici e sociali fu efficacemente controllata grazie all’esistenza, fin dai tempi di Elisabetta I, di leggi
4 La prima rivoluzione industriale (1720-1870)
71
Figura 4.2 Geografia amministrativa dell’Inghilterra
La linea nera separa le contee in cui prevaleva la cerealicoltura (a est) da quelle dedite all’allevamento e alla produzione
casearia (a ovest). La linea tratteggiata trasversale distingue le contee ad alti salari agricoli (nord) da quella a bassi salari (sud)
Fonte: M. Cattini, op. cit., 1998
sui poveri (Poor Laws, 1579-1601) secondo le quali ogni parrocchia doveva distribuire sussidi ai bisognosi utilizzando fondi prelevati dai gettiti dell’imposta fondiaria. Il preambolo dell’Act of Settlement, una legge emessa
4 La prima rivoluzione industriale (1720-1870)
le loro campagne a fittavoli contro il pagamento di canoni in denaro. I fittavoli si valevano, a loro volta, dell’opera di braccianti ingaggiati stabilmente (servi e famigli) e di altri operai precari.
Alla fine del Seicento l’assetto della società rurale inglese era il seguente.
Proprietari fondiari:
• 200 famiglie di Pari (Lords) che possedevano il 20% dei terreni
• 16.000 famiglie della nobiltà di provincia (gentry) con il 50% dei terreni
• 180.000 famiglie contadine col 30% dei terreni (40.000 delle quali controllavano in media
più di 40 ettari e le rimanenti 140.000 disponevano di appezzamenti più piccoli)
Non proprietari:
• 150.000 famiglie di farmers (che gestivano terre altrui, prese ad affitto)
• 354.000 famiglie di lavoratori e domestici
• 400.000 famiglie di braccianti e di poveri
La concentrazione del 70 per cento della terra nelle mani di 16.200 casate
aristocratiche, che a fine Seicento rappresentavano il 3 per cento circa della popolazione, testimonia un’accentuata sperequazione nella distribuzione
della risorsa di base. A questa fascia sociale di vertice bisogna aggiungere
le 40.000 famiglie che controllavano poderi di almeno 40 ettari, bastanti
ad assicurare un tenore di vita più che decoroso. Per di più, le innovazioni
agronomiche adottate sui terreni recintati nel corso del Seicento avevano
accresciuto il numero dei fittavoli agiati e dei piccoli proprietari intraprendenti: le figure sociali emergenti dell’Inghilterra preindustriale.
Un testo del 1688 offre un’efficace descrizione del paesaggio sociale delle
campagne inglesi: “I piccoli proprietari costituiscono uno strato sociale del
tutto particolare, tipicamente inglese. La Francia e l’Italia somigliano a un
dado privo dei punti segnati tra il sei e l’uno: fra nobiltà e contadini […].
Il piccolo proprietario inglese indossa vesti rozze, ma paga in oro: porta
bottoni di rame, ma ha le tasche piene d’argento […], al suo paese è un
uomo importante, che fa parte delle giurie (dei tribunali penali). Ben di
rado si mette in viaggio e il suo credito va più lontano di lui”.
Nel corso del Settecento i pari del regno e la gentry consolidarono il loro
predominio sulla terra. Da parte loro, gli “affaristi”, com’erano chiamati
mercanti, finanzieri, assicuratori, banchieri e speculatori di borsa, furono
indotti a investire in terreni quando, nel 1710, il Parlamento votò una norma che esigeva una rendita fondiaria annua di almeno 600 sterline per
poter ottenere il titolo di cavaliere e di 300 per quello di Sir.
Un ruolo notevole nell’orientare valori e comportamenti della società di
provincia svolsero i giudici di pace e i pastori. In quasi totale indipendenza rispetto a Londra, i giudici di pace mantenevano l’ordine pubblico, collaboravano al reclutamento dell’esercito, fissavano localmente i salari,
controllavano l’applicazione delle leggi sui poveri, sui vagabondi e delle
norme del Settlement Act.
73
4 La prima rivoluzione industriale (1720-1870)
75
Il perfezionamento delle tecniche allevatorie fece sì che fra il 1710 e il
1795, il peso medio dei bovini adulti venduti per essere macellati passasse
da 370 a 800 libbre, quello dei vitelli da 50 a 150 e quello delle pecore da
38 a 80. La prova più persuasiva dei guadagni di produttività realizzati
nell’agricoltura inglese tra metà Seicento e metà Settecento è data dalla
crescita della produzione cerealicola. Fino a tutti gli anni Sessanta del Settecento, l’Inghilterra fu il maggiore esportatore di grano e di farina dell’Europa occidentale e ciò nonostante il paese contasse almeno mezzo
milione di abitanti in più rispetto a cento anni prima.
Tabella 4.6 Importazioni ed esportazioni di grano e farina dall’Inghilterra, 1697-1799
(medie annue, migliaia di quarter*)
Anni
Export
Import
Saldo
1700-9
1710-9
1720-9
1730-9
1740-9
1750-9
110,6
105,1
114,7
294,5
289,1
328,3
0,2
–
11,5
0,5
0,8
16,3
110,4
105,1
103,2
294,0
288,3
312,0
* Un quarter equivale a 1,17 litri
Fonte: P. Bairoch, Rivoluzione industriale e sottosviluppo, Torino, 1967, p. 240, tab. 6
Il paese non dispose solo del grano necessario a una popolazione aumentata, ma ebbe anche tutta l’avena indispensabile a sfamare una forza lavoro
animale – i cavalli da tiro – per lo meno triplicata lungo la prima metà del
Settecento.
Sotto l’aspetto organizzativo, l’agricoltura inglese settecentesca era
caratterizzata dalla presenza dominante di fittavoli imprenditori agricoli
(farmers). La stipula di contratti d’affitto di lunga durata (da 9 a 15 anni)
permetteva loro di fare investimenti migliorativi sulle terre e di poterne
raccogliere i frutti. Impegnandosi a pagare ai proprietari canoni annui in
moneta, i farmers erano indotti ad annotare costi e ricavi e a compiere calcoli di convenienza riguardo gli investimenti di capitale fisso e circolante.
Né meno importante era disporre tempestivamente di informazioni a proposito dei prezzi dei fattori produttivi, come di quelli dei raccolti e animali che avrebbero posto in vendita.
Oltre ai fittavoli, anche i rampolli della gentry e della grande nobiltà non
disdegnavano di occuparsi direttamente della gestione e dello sfruttamento
economico delle loro tenute, senza per questo dover rinunciare allo stile di
vita tipico dell’aristocrazia. Pertanto, a differenza di quanto accadeva nel
continente, nelle campagne inglesi:
78
L’Europa verso il mercato globale
numero di telai accuditi da tessitori impegnati a tempo pieno e pagati a
cottimo (un tanto a yarda di prodotto). Egli controllava ogni fase produttiva avendo investito in capitale fisso: l’immobile e i macchinari, e in
capitale circolante, vale a dire le scorte di materia prima e i salari.
Avrebbe venduto i suoi tessuti a grossisti che li piazzavano sul mercato
interno e su quello estero.
4.1.9 Gli inizi del cotonificio
L’avvio della lavorazione del cotone in Inghilterra risale al secondo
Cinquecento, quando i profughi protestanti fuggiti dalle Fiandre e dalla
Francia lo utilizzarono misto con lino o canapa per la produzione di tessuti di scadente qualità e basso prezzo. Quando la compagnia inglese
delle Indie Orientali prese il controllo delle coste indiane fu possibile
importare direttamente tessuti che, prima d’essere commercializzati,
erano stampati a colori. In seguito, la tratta dei neri tra Africa e America permise di piantare cotone nelle Antille e nelle colonie meridionali
del Nord America, che accrebbero l’offerta di fiocco di cotone in
Inghilterra.
L’imitazione delle tele indiane in Inghilterra fu stimolata dal divieto di
importare stoffe – calicots e mussole – votata dal Parlamento nel 1701 e
rinnovata nel 1721. La proibizione fu sollecitata dai produttori di lana,
che si sentivano minacciati dalla fortuna crescente delle tele asiatiche di
basso prezzo. Fino agli anni Trenta, il consumo di cotone grezzo crebbe
con relativa lentezza (+1,2 per cento annuo). Da allora in poi, per contro,
importazioni e consumi conobbero una dinamica sostenuta. Durante il
trentennio 1751-80 l’incremento medio annuo fu del 2,6 per cento. Prima che la filatura – la fase tecnicamente più difficile – conoscesse un
qualche progresso tecnico, i tessuti misti di cotone ebbero un successo
crescente.
Tabella 4.7 Importazione e consumo di cotone greggio in Gran Bretagna
(medie annue in milioni di libbre)
1698-1710
1711-1720
1721-1730
1731-1740
0,5
0,7
0,7
0,8
1741-1750
1751-1760
1761-1770
1771-1780
0,9
1,3
1,7
2,3
Fonte: P. Bairoch, Rivoluzione industriale e sottosviluppo, Torino, 1967, p. 253, tab. II
Solo le trasformazioni tecniche di fine Settecento fecero del cotonificio
inglese uno dei settori trainanti dell’economia del paese.
86
L’Europa verso il mercato globale
lenta e difficile – furono inventate tra il 1760 e il 1780. Nel 1733, John
Kay, un meccanico del Lancashire, con l’invenzione della “navetta volante” per il telaio aveva raddoppiato la produttività dei tessitori e moltiplicato la domanda di filo. Proprio la filatura rappresentava la strozzatura del
settore cotoniero, sia perché esigeva tempo e largo impiego di manodopera, sia perché il filo ottenuto manualmente, poco robusto, serviva solo per
la trama, mentre per l’ordito si usava filo di lino. Il lavoro quotidiano di
cinque-sei filatrici a malapena produceva abbastanza filo per il lavoro giornaliero di un tessitore.
Figura 4.3 Filatrici e telaio
4 La prima rivoluzione industriale (1720-1870)
87
Nel Lancashire, dove il cotonificio stava prendendo piede, nel 1769
Richard Arkwright brevettò un filatoio idraulico imponente e costoso detto
water frame. Ideata per essere mossa da un cavallo, dappertutto la macchina di Arkwright utilizzò la forza idraulica dei mulini. Nel 1770, James
Hargreaves, un tessitore di Stanhill, brevettò un piccolo filatoio, la spinning jenny, che aveva escogitato nel 1764 per riprodurre meccanicamente
il lavoro fino allora svolto a mano. La macchina ebbe grande successo
anche fuori d’Inghilterra perché costava poco, era facile da usare e, per di
più, permetteva a una sola persona di realizzare una grande quantità di filo
per ogni giornata di lavoro.
La macchina idraulica di Arkwright produceva un filo forte e ben ritorto,
adatto per maglieria e per l’ordito dei tessuti di cotone. Il filo della jenny,
invece, meno resistente, era utile solo per la trama. Un filatoio capace di
produrre filo adatto tanto per la trama quanto per l’ordito fu sviluppato, tra
il 1774 e il 1779, da Samuel Crompton, combinando i princìpi della jenny
con quelli della water frame.
Il macchinario di Crompton, detto mula (mule), permetteva di ottenere
diversi tipi di filo: più o meno sottile e ritorto. Nel 1790, William Kelly
riuscì a costruire delle mule automatiche, mosse da una ruota ad acqua
dotate di circa trecento fusi l’una. La mula di Crompton, modificata da
Kelly, si rivelò di grande affidabilità e si diffuse a macchia d’olio, sempre
più spesso mossa da macchine a vapore. I nuovi insediamenti, svincolati
dall’esigenza di situarsi presso corsi d’acqua, com’era stato per il passato,
si concentrarono presso Manchester e Liverpool.
I progressi nella tessitura furono più lenti. A parte la spoletta volante di
John Kay, che accelerava il lavoro, diffusasi dalla metà del Settecento, fino
ai primi dell’Ottocento non vi furono significative innovazioni. Da allora
in poi, una serie d’accorgimenti trasformò i telai in macchine semiautomatiche che arrotolavano la tela, apprettavano i fili dell’ordito e variavano la
velocità. Tra il 1841 e il 1845, i telai meccanici raggiunsero una tale perfezione tecnica da divenire il sistema di gran lunga più economico giacché
un solo sorvegliante accudiva più macchine, con sensibili risparmi dei
costi di produzione e minor impiego di manodopera qualificata. La serie
Tabella 4.8 Telai semiautomatici e automatici attivi in Gran Bretagna dal 1813 al 1850,
con indici
Anni
Telai
Indice
1813
1820
1829
1833
1850
2.400
14.150
55.000
85.000
224.000
100
589
2.291
3.541
9.333
4 La prima rivoluzione industriale (1720-1870)
89
Tabella 4.9 Distribuzione della popolazione tra aree urbane e rurali in Inghilterra e Galles,
dal 1801 al 1851 (valori percentuali)
Popolazione rurale
Popolazione urbana
Città > di 100.000 abitanti
Città > di 20 e < di 100.000
1801
1841
1851
66,2
33,8
1 (11%)
16 (13%)
51,7
48,3
7 (20,7%)
48 (17,6%)
46,0
54,0
10 (24,8%)
55 (19,3%)
Fonte: F. Bedarida in F. Caron, Gli inizi dell’industrializzazione, in Storia economica e sociale del mondo, a cura di P. Leon,
vol. III. 2, Le Rivoluzioni 1730-1840, p. 450
Tabella 4.10 Struttura della popolazione attiva inglese (valori percentuali, 1811 e 1841)
Settori
1811
1841
I - Agricoltura e pesca
II - Manifattura, edilizia, miniere
III - Commercio e trasporti
III - Burocrazia pubblica e libere professioni
III - Servizi domestici
Totali
33,1
30,2
11,6
13,3
11,8
100
22,3
40,5
14,2
8,5
14,5
100
Fonte: F. Caron, Gli inizi dell’industrializzazione, in Storia economica e sociale del mondo, a cura di P. Leon, vol. III.2, Le
Rivoluzioni 1730-1840
La crescente integrazione del sistema economico inglese è attestata tanto
dalla vistosa espansione degli addetti al secondario (manifattura, edilizia,
miniere) a spese del primario (agricoltura e pesca) proprio negli anni della massima diffusione delle macchine a vapore, delle strade ferrate e dei
telai automatici, quanto dal progresso, all’interno di uno stabile terziario
(il cui peso complessivo crebbe dello 0,5 per cento), delle attività di
intermediazione, distribuzione, trasporto, credito, assicurazione e di servizio alle persone.
Le serie storiche della ricchezza prodotta nei diversi comparti economici, nella prima metà dell’Ottocento, mostrano che le trasformazioni di
maggior peso avvennero nel ventennio successivo alla fine delle guerre
contro la Francia (1811-31).
Entro il 1831, nella formazione della ricchezza nazionale, l’agricoltura cedette il primato all’industria e, da allora fino alla metà del secolo, i
due settori subirono oscillazioni trascurabili. Fin dal 1831, dunque, l’Inghilterra era un paese a economia industriale. La caduta del contributo
dell’agricoltura alla produzione della ricchezza nazionale fu accentuata
dal differenziale (3,5 per cento) esistente tra il tasso annuo medio del
reddito agricolo (+1,2 per cento) e di quello dell’industria (+4,7 per
cento).
90
L’Europa verso il mercato globale
Tabella 4.11 Provenienza, per settori economici, del Prodotto Nazionale Lordo inglese
(valori percentuali)
Settori
1811
1821
1831
1841
1851
I - Agricoltura
II - Industria, miniere, impianti
II - Edilizia civile
III - Commercio, trasporti, redditi e rimesse dall’estero
III - Servizi pubblici e privati
Totali
35,7
20,8
5,7
16,6
21,2
100
26,1
32,0
6,2
16,9
18,8
100
23,4
34,4
6,5
18,4
17,3
100
22,1
34,4
8,2
19,8
15,5
100
20,3
34,3
8,1
20,7
16,6
100
Fonte: F. Caron, Gli inizi dell’industrializzazione, in Storia economica e sociale del mondo, a cura di P. Leon, vol. III. 2, Le
Rivoluzioni 1730-1840
In effetti, l’agricoltura inglese seppe fronteggiare vittoriosamente l’aumento della domanda interna di cereali derivante dalla grande crescita della
popolazione. Le importazioni di grani non superarono mai il 7,5 per cento
del fabbisogno globale. L’aumento della domanda stimolò una maggiore
produzione di frumento in Inghilterra e Galles del 14 per cento nel quadriennio 1843-46 rispetto alla media del periodo 1829-41.
Anche le serie storiche del PIL e di quello pro capite danno conto del
ritmo di crescita tenuto dall’economia inglese nel corso della prima metà
del XIX secolo (vedi tabella seguente). La crescita settecentesca divenne
sviluppo, sicché la ricchezza prodotta nel paese in cinquant’anni crebbe di
tre volte e mezzo. Era un processo senza precedenti, favorito dalla massiccia applicazione di macchine – capitale tecnologico – ai processi di fabbricazione su larga scala e prodotto dalla crescita numerica di una manodopera il cui lavoro – più intenso e regolare – diveniva sempre più produttivo
proprio grazie alle macchine.
Nel ventennio 1811-31 vi fu il massimo sviluppo economico inglese (+3
per cento annuo di incremento del reddito negli anni Dieci e addirittura
+4,3 per cento nel decennio seguente), ben prima che facessero la loro
comparsa le ferrovie. Dopo un difficile periodo agli inizi del secolo, in
Tabella 4.12 Andamento del Prodotto Lordo Nazionale e pro capite inglese in sterline costanti
Reddito globale (milioni di sterline)
Indici base 1801 = 100
Indici a base mobile
Reddito pro capite (sterline)
Indici base 1801 = 100
Indice a base mobile
1801
1811
1821
1831
1841
1851
138
100
100
12,9
100
100
168
122
122
13,2
102
102
218
158
130
15,3
119
116
312
226
143
19,1
148
125
394
284
126
21,3
165
111
494
358
126
23,7
184
111
Fonte: F. Caron, Gli inizi dell’industrializzazione, in Storia economica e sociale del mondo, a cura di P. Leon, vol. III. 2, Le
Rivoluzioni 1730-1840, p. 451, elaborazioni dell’Autore
4 La prima rivoluzione industriale (1720-1870)
93
Tabella 4.13 Produzione di ghisa in Gran Bretagna, 1796-1852
(migliaia di tonnellate e indici 1796 = 100)
1796
1806
1825
1830
127 (100)
262 (206)
590 (464)
689 (543)
1835
1839
1848
1852
955 (752)
1.269 (999)
2.030 (1.598)
2.744 (2.161)
Fonte: D.S. Landes, Prometeo liberato. Trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale nell’Europa occidentale dal
1750 ai giorni nostri, Torino, 1978, p. 127
I progressi della siderurgia e la crescente domanda di manufatti metallici
favorirono la nascita del settore metalmeccanico attorno agli anni Venti.
Una volta scaduto il brevetto di Boulton e Watt, le fabbriche di macchine a
vapore si moltiplicarono nel paese e furono aperte officine per fabbricare
telai automatici interamente metallici e parti metalliche di mulini e filatoi.
4.3.4 Gli investimenti in infrastrutture
Nella prima metà dell’Ottocento, il capitale fu investito soprattutto in
infrastrutture viarie. Nella costruzione e manutenzione dei canali, fino ai
primi quarant’anni dell’Ottocento, furono impiegati circa 11 milioni di
sterline. Verso il 1830, la rete d’acque artificiali toccò il massimo sviluppo
con circa 6400 km. Nonostante limiti e difetti, i canali inglesi svolsero un
ruolo decisivo nella formazione del mercato nazionale. Essi favorirono
Figura 4.4 Lo sviluppo della rete ferroviaria in Gran Bretagna
Fonte: M. Cattini, op. cit., 1998
98
L’Europa verso il mercato globale
do i seggi attribuiti alle città e diminuendo quelli delle contee di campagna. Nel medesimo tempo, furono ammessi a votare i maschi che avevano
almeno dieci sterline d’entrata annua (suffragio censitario).
4.3.7 Tenore di vita e assistenza ai poveri
Se nel periodo delle guerre francesi (1793-1814) prezzi e salari erano cresciuti in parallelo, con la fine delle ostilità, e dopo una grave carestia
(1816-17), sopravvenne un periodo (1818-24) contraddistinto da un calo
dei prezzi dell’ordine del 25-35 per cento. Solo pochi salari nominali
furono diminuiti sicché, in termini reali, il loro potere d’acquisto crebbe
di circa il 25 per cento. Nelle case operaie inglesi entrarono più pane,
patate, burro, zucchero, sapone, candele e prodotti tessili realizzati a macchina.
Tra la metà degli anni Venti e il quinquennio 1846-50, mentre i prezzi continuavano a calare, seppure con ritmo più blando (da –10 a –20 per cento),
i salari nominali resistettero o calarono di meno. L’unica eccezione fu
costituita dalle paghe dei tessitori, diminuite di quasi il 25 per cento per
Figura 4.5 Indice dei prezzi all’ingrosso, 1814-1850 (media degli anni 1865-1885 = 100)
Fonte: M. Cattini, op. cit., 1998
4 La prima rivoluzione industriale (1720-1870)
101
cevano le dimensioni del mercato nazionale e di quello estero” perché,
mentre deprimevano il potere d’acquisto degli operai inglesi, alzando i
prezzi del grano, dello zucchero, del burro ecc., limitavano anche la capacità d’acquisto dei paesi esportatori, desiderosi di vendere in Inghilterra le
loro materie prime per poter acquistare manufatti industriali.
Alla fine, il successo delle tesi liberoscambiste venne dalla prima mobilitazione dell’opinione pubblica. La Anti-Corn-Law League, fondata a
Manchester nel 1836, e il suo apostolo più celebre, Richard Cobden, ottennero lo scopo sei anni più tardi. Nel 1842, il primo ministro conservatore
Robert Peel varò quella riforma che i governi liberali degli anni 1824-25 e
1833-34 avevano solo abbozzato. La scala mobile del grano fu attenuata.
Tutti i dazi furono abbassati, eliminati i divieti d’entrata di talune merci e
fissate al 5 per cento le tariffe sulle materie prime. I dazi su semilavorati e
prodotti finiti furono rispettivamente abbassati al 12 e al 20 per cento.
Tabella 4.14 Bilancia britannica dei pagamenti, 1816-1850 (in milioni di sterline correnti)
Bilancia commerciale
Anni
1816-20
1821-25
1826-30
1831-35
1836-40
1841-45
1846-50
Import
49,3
45,4
48,7
53,6
73,6
71,0
87,7
Partite invisibili
Export
Saldo I/E
Servizi (1)
Capitali (2)
Saldo
40,3
37,3
35,9
40,5
49,6
54,0
60,9
–9,0
–8,1
–12,8
–13,1
–24,0
–17,0
–26,8
14,5
14,2
10,6
14,1
18,6
15,4
22,0
1,74
4,24
4,60
5,38
7,98
7,50
9,48
7,24
10,34
2,40
6,38
2,58
5,90
4,68
(1) Noli marittimi, diritti postali, turismo, rimesse, servizi bancari, assicurazioni
(2) Investimenti
Fonte: A.H. Imlah, Economic Elements in the Pax Britannica. Studies in British Foreign Trade in the Nineteenth Century,
New York, 1969
Un quadro generale e riassuntivo dei rapporti economici intrattenuti dalla
Gran Bretagna con l’estero nella prima metà dell’Ottocento permette di
soppesare il ruolo dei movimenti di merci (bilancia commerciale), l’importanza dei proventi ottenuti da servizi (soprattutto noli della flotta commerciale e assicurazioni marittime) e il crescente peso dei profitti realizzati investendo capitali all’estero.
La dipendenza commerciale dall’estero è talmente evidente da giustificare la preoccupazione di aprire le porte alle merci straniere. A parte i
manufatti, la vera forza dell’economia inglese consisteva nei servizi, nella
riesportazione di coloniali (tè, cacao, tabacco ecc.) e nell’esportazione di
capitali. La prima marineria commerciale del mondo per tonnellaggio produceva un enorme volume d’affari, per non dire dei servizi assicurativi,
commerciali e bancari connessi. Se la bilancia dei pagamenti fu costan-
☞
4 La prima rivoluzione industriale (1720-1870)
103
In America e in Germania gli stessi economisti giustificarono le attitudini
protezioniste a vantaggio delle cosiddette “industrie bambine” nazionali.
Come, del resto, avevano fatto gli stati settentrionali degli USA fin dal 1816.
Le economie in via di sviluppo, anche se di piccole dimensioni, una volta
appropriatesi delle conoscenze necessarie all’avvio dell’industrializzazione,
abbracciavano il protezionismo per consolidare standard tecnici tanto elevati da permettersi di affrontare e battere sui mercati esteri la concorrenza
britannica.
In conclusione, solo per il periodo compreso tra l’abolizione delle leggi
sui cereali in Inghilterra (1846) e l’avvio della grande depressione (1873),
Gran Bretagna, aree in via di sviluppo e regioni sottosviluppate trassero un
mutuo vantaggio dal libero commercio internazionale. Prima e dopo quel
trentennio scarso, la condizione economica inglese fu assai diversa.
Dopo essere cresciuto al ritmo dell’1 per cento annuo fra il 1800 e il
1830, il volume del commercio mondiale crebbe enormemente fra il 1840
e il 1870, aumentando di oltre cinque volte. Fu quello il periodo aureo dell’economia inglese – una prima forma di globalizzazione –, ma anche l’epoca a partire dalla quale il paese cominciò a perdere il suo primato industriale. Ostacolate dalla concorrenza delle industrie locali sui tradizionali
mercati di sbocco, le imprese inglesi orientarono le loro esportazioni sempre più in direzione del mondo sottosviluppato che la Gran Bretagna controllava politicamente e commercialmente, anche fuori dei confini del suo
immenso impero (Argentina, per esempio). La direzione presa dalle esportazioni di tessuti di cotone, la merce inglese per eccellenza, la dice lunga
sulle strategie messe in atto per contrastare la crescente aggressività dei
paesi in via d’avanzato sviluppo.
☞
Tabella 4.15 Sbocchi esteri dei tessuti inglesi di cotone
(valori percentuali e direzione geografica)
Anni
Europa e USA
Aree sottosviluppate
Altri paesi
Totale
1820
1840
1860
1880
1900
60,4
29,5
19,4
9,8
7,1
31,8
66,7
73,3
82,0
86,3
7,8
3,8
7,7
8,2
6,6
100
100
100
100
100
Fonte: E.J. Hobsbawm, La rivoIuzione industriale e l’impero, Torino, 1972, p. 162
Le interpretazioni del declino inglese hanno soprattutto insistito sulla
“stanchezza” della terza generazione di imprenditori i cui avi avevano
profittato di condizioni favorevoli al successo e i cui padri lo avevano
consolidato, senza tuttavia innovare in misura significativa né l’organizzazione finanziaria e manageriale delle imprese, né le tecniche produttive.
104
L’Europa verso il mercato globale
☞
☞
Per lo più, le industrie inglesi rimasero di media dimensione, a base individuale o societaria ristretta, spesso continuando ad appartenere alla famiglia del fondatore e lasciavano molto a desiderare sia sotto il profilo dell’aggiornamento tecnologico, sia sotto quello dell’amministrazione e del
marketing.
Taluni fattori esterni contribuirono ad aggravare una situazione socioculturale per molti versi statica. Il sistema scolastico britannico non fu
all’altezza della sfida posta dal crescente fabbisogno di capitale umano
istruito e addestrato a lavorare con strumenti tecnici. La Gran Bretagna
fu l’ultimo grande paese occidentale a organizzare l’istruzione elementare su base statale per tutti i cittadini. Né il sistema universitario si adeguò prontamente all’esigenza di trasmettere conoscenze scientifiche e
tecniche d’alto profilo. Ai primi del Novecento, in Germania si laureavano ogni anno all’incirca 3000 ingegneri, dalle università inglesi a mala
pena ne uscivano 350.
L’avvento tardivo di nuovi settori industriali ad alta intensità tecnologica
come la chimica organica, l’elettricità – l’illuminazione pubblica e privata
delle città inglesi, dalla fine del Settecento, era risolta con il gas illuminante ottenuto dal carbone – e l’alluminio, assieme al ritardo nell’adeguamento tecnologico in settori tradizionalmente forti, come l’acciaio, la chimica
di base o la filatura e tessitura del cotone, che non si dotarono dei macchinari escogitati negli USA e nell’Europa continentale, attestano il complesso di superiorità e, insieme, il forte vincolo rappresentato dagli investimenti del passato, tecnologicamente superati, i cui costi d’impianto erano
stati interamente ammortizzati (ammortamento).
Per di più, stile di vita e valori culturali di riferimento del mondo imprenditoriale, essendo piuttosto ricalcati sui modelli della gentry e dell’aristocrazia fondiaria d’antica estrazione, erano quanto di più lontano potesse
esistere dall’ingegneria industriale e dal management. Anche nel mondo
del credito e della finanza l’accentuato conservatorismo istituzionale divenne presto un fattore d’arretratezza. Basti pensare all’assenza di banche
Tabella 4.16 Reddito prodotto nel settore industriale, investimenti e spesa pubblica
in Gran Bretagna e in Europa (1800-1910)
Livelli %
1800
1840
1870
1890
1910
Reddito prodotto nel settore industriale in Gran Bretagna
In Europa (media)
Investimenti in % della spesa nazionale in Gran Bretagna
In Europa (media)
Spesa dello Stato in % della spesa totale in Gran Bretagna
In Europa (media)
19,8
22,0
7,9
12,6
15,3
7,4
31,5
25,2
10,5
14,4
7,9
7,0
33,5
31,3
8,5
17,2
4,8
6,3
33,6
32,8
7,3
18,6
5,9
5,9
31,8
34,4
7,0
19,5
8,2
5,7
Fonte: N.F. Crafts, La recente Storia quantitativa della rivoluzione industriale, in «Rivista di Storia economica», 3, 1989
5 L’Europa industriale (1830-1914)
Figura 5.1 Il Belgio
Fonte: M. Cattini, La genesi della società contemporanea europea, Ca’ Sanguinetti, Modena, 1998
Fin dal Trecento, la regione di Gand era tra quelle a più alta densità di tessitori in Europa. Dopo quattro secoli di produzione laniera, nel Settecento
vi si era sviluppata la fabbricazione di tele di lino con il sistema della
manifattura rurale domestica. Dagli anni Settanta del Settecento, i mercanti di tele cominciarono a organizzare anche la stampa a colori sgargianti di
cotonate importate dall’India. A Gand si insediarono anche fabbricanti
olandesi di tele miste. Il nuovo settore, sviluppatosi rapidamente anche ad
Anversa, venne organizzandosi secondo lo schema della grande manifattura accentrata. Il crescente successo sul mercato interno ed estero del coto-
109
110
L’Europa verso il mercato globale
☞
ne stampato portò alla guida degli opifici veri e propri imprenditori industriali. Dopo aver ottenuto il monopolio commerciale del cotone proveniente delle Indie olandesi, dal 1819-20, Gand divenne il maggior centro cotoniero continentale contando, nel 1830, 283.000 fusi e 700 telai meccanici.
Lo straordinario sviluppo del cotonificio indusse miglioramenti tecnici
anche nel tradizionale settore del linificio. Dopo molti tentativi di filare
lino a macchina, furono importati filatoi automatici inglesi e, nel 1838,
alcuni industriali cotonieri aprirono due grandi fabbriche di tele di lino al
cui finanziamento parteciparono anche alcune banche. Non lontano da
Liegi, a Verviers, presso il confine tedesco, dove esisteva una tradizione
manifatturiera domiciliare della lana, fin dai primi dell’Ottocento furono
introdotte alcune novità tecniche inglesi nella cardatura e nella filatura.
Sulla tecnologia aggiornata furono innestate innovazioni locali, così che
Verviers divenne il polo laniero più avanzato fuori d’Inghilterra. La rapida
meccanizzazione delle operazioni di filatura e tessitura da un lato accelerò
l’avvento della fabbrica, dall’altro garantì guadagni di produttività e stimolò concentrazione e integrazione verticale: da 150 nel 1789, le imprese si ridussero a 114 nel 1810 e addirittura a 50 a metà Ottocento, quando il
volume dei tessuti risultò triplicato rispetto a mezzo secolo prima.
Nell’insieme, l’esperienza storica dell’industrializzazione belga presenta
alcuni caratteri peculiari:
n la precocità dovuta al facile accesso alla tecnologia innovativa inglese;
n l’intraprendenza degli industriali locali, primi organizzatori del sistema
di fabbrica, e la disponibilità di capitale finanziario;
n i rapporti sempre più serrati stretti, a partire dagli anni Trenta, dal sistema bancario con le industrie;
n una politica statale favorevole all’industrializzazione che contribuì ad
accelerare l’avvento di un’imprenditoria moderna e proiettò sul mercato
internazionale una larga parte della produzione, nonostante un diffuso protezionismo e un tendenziale calo dei prezzi, fino ai primi anni Quaranta.
Il volume delle esportazioni belghe non smise di crescere dai primi dell’Ottocento al 1913. Nell’ammontare globale del commercio internazionale europeo, le merci esportate dal Belgio rappresentavano il 2,9 per cento
Tabella 5.1 Indice del Prodotto Interno Lordo (PIL) pro capite belga, comparato con
quello inglese e dell’Europa continentale (indice base: Gran Bretagna 1830 = 100)
Belgio
Gran Bretagna
Europa continentale
1830
1860
1870
1880
1890
1900
1910
82
100
66
142
161
82
165
182
95
170
197
96
182
227
99
208
255
118
247
261
131
Fonte: P. Bairoch, Commerce extérieur et croissance économique de l’Europe au XIX siècle, Paris, 1976, p. 155, elaborazioni dell’Autore
112
L’Europa verso il mercato globale
Figura 5.2 Carta politica della Svizzera
Dal 1821, l’adattamento alla tessitura del cotone del telaio realizzato da
Joseph-Marie Jacquard nel 1808, permise di intessere pannelli colorati di
grande effetto. L’accoglienza sui mercati statunitense, britannico e del
vicino Oriente di quel nuovo genere di stoffe pregiate (tessuti operati,
nastri, passamanerie, pizzi) favorì un vero e proprio boom dell’export svizzero in un settore oltretutto privo di concorrenti. La posizione di nicchia,
ormai consolidata a metà dell’Ottocento, permise di continuare a usare
telai a mano e filatoi idraulici dispersi entro un vasto comprensorio attorno
a Lucerna, Zurigo, San Gallo e Berna.
Nel settore serico, già avviato a Zurigo dalla seconda metà del Settecento (1800 telai), furono applicati principi analoghi:
n lavorazioni tecnicamente accurate eseguite in piccoli opifici;
n qualità eccellente;
n forte orientamento all’esportazione.
Nel 1848 attorno a Zurigo operavano 12.400 telai da seta e l’export del
settore equivaleva a quello del cotone.
114
L’Europa verso il mercato globale
Durante l’Ottocento la crescita economica del paese fu costante ed equilibrata. A partire dal 1892-94, si profilò una fase di sviluppo così intenso
da allineare il PIL pro capite svizzero a quelli belga e britannico. Anche
gli indici degli standard di vita della popolazione confermano una posizione d’eccellenza in Europa: mortalità infantile, consumi, densità di telefoni
e di automobili all’inizio del Novecento posero il paese nelle primissime
posizioni. Per di più, da secoli regione di emigranti, a prova delle migliorate condizioni economiche, dal 1890 la Svizzera cominciò a ricevere
immigrati da Italia, Francia e Baviera.
Tabella 5.2 Indici dei PIL pro capite belga, svizzero, inglese e dell’Europa continentale
(indice base: Gran Bretagna 1830 = 100)
Svizzera
Belgio
Gran Bretagna
Europa continentale
1830
1860
1870
1880
1890
1900
1910
80
82
100
66
139
142
161
82
159
165
182
95
195
170
197
96
204
182
227
99
227
208
255
118
259
247
261
131
Fonte: P. Bairoch, Commerce extérieur et croissance économique de l’Europe au XIX siècle, Paris, 1976, p. 155, elaborazioni dell’Autore
Pur lontana dal mare e quasi priva di un moderno settore siderurgico, tra il
1830 e il 1910 la Svizzera sperimentò una crescita economica – PIL pro
capite – di prim’ordine. Fra i fattori che concorsero a un risultato tanto
appariscente vi furono anche requisiti di carattere sociale e culturale come:
☞
☞
n il livello di istruzione e di ingegnosità della popolazione;
n un’ampia disponibilità d’energia idraulica che contenne i costi fissi e,
alla fine dell’Ottocento, fu utilizzata per produrre elettricità, in pratica
“saltando” la fase della macchina a vapore (20 per cento dell’energia
disponibile da vapore nel 1890);
n l’esportazione di prodotti di pregio e di nicchia;
n una secolare abitudine al risparmio, che abbassò costo del denaro e
propensione al consumo;
n la combinazione di redditi agricoli e da manifattura domestica, che contribuì a comprimere i salari nella fase d’avvio (1810-1850);
n un costante protezionismo agricolo, che nell’assicurare redditi adeguati
ai contadini li trattenne dal cercare in massa lavoro nell’industria;
n alta qualità delle produzioni nel cotonificio, nel setificio, nell’orologeria
e, più tardi, nella farmaceutica e nella chimica; settori tutti ad alta intensità di lavoro e a basso consumo d’energia, di materie prime e di semilavorati;
5 L’Europa industriale (1830-1914)
Figura 5.3 Lo sviluppo delle ferrovie in Francia, 1846-1856
Fonte: M. Cattini, op. cit., 1998
117
120
L’Europa verso il mercato globale
n il cotone aveva parzialmente sostituito il lino e la lana causando una
riduzione dei loro tradizionali sbocchi di mercato;
n la larga disponibilità di mano d’opera rurale a basso costo ritardò la
meccanizzazione e concentrazione della filatura;
n le notevoli difficoltà tecniche da superare, tanto che la filatura meccanica della seta e della lana fu inaugurata in Francia solo dopo il 1815 e
proseguì stentatamente fino agli anni Cinquanta.
L’ultimo comparto tessile a dotarsi di macchine fu quello del lino, una
fibra diffusamente coltivata e lavorata nelle campagne francesi su base tradizionale e domestica. I primi tentativi di filatura automatica furono realizzati nel 1837 al nord, a Lilla, non lontano da Gand e da altri centri del Belgio, dove in quegli stessi anni si avviava la modernizzazione del settore.
Ancora più lenta fu la diffusione di telai automatici, stante la larga
disponibilità d’attrezzi manuali nelle case contadine e il basso costo della
manodopera rurale. Dai primi dell’Ottocento si impose il telaio Jacquard:
un attrezzo ancora manuale affermatosi nella zona di Lione, impiegato
soprattutto per le stoffe operate e nel setificio. Il telaio meccanico idraulico o a vapore, noto in Alsazia fin dai primi anni del XIX secolo, si diffuse
lentamente, almeno fino a quando l’esigenza di standardizzare i tessuti e la
crescente domanda non lo resero concorrenziale rispetto ai tradizionali
modi di fabbricazione. La sostituzione avvenne in tempi diversi nelle varie
regioni. Nel decennio del Quaranta in Alsazia, negli anni Sessanta in Normandia e ancor più tardi nel Lionese.
Capitale finanziario e credito
Attorno al 1815, in Francia, la moneta aveva un ruolo modesto come intermediario degli scambi. Per di più, la circolazione monetaria era intralciata
dalla presenza di un’infinità di vecchie monete divisionali, nazionali ed
estere, di valore intrinseco largamente inferiore al nominale. L’abitudine a
tesaurizzare le specie a contenuto intrinseco (oro e argento) e l’insufficiente produzione di moneta metallica da parte della zecca, assieme alla riluttanza fuori delle grandi città ad accettare in pagamento le banconote, ritardarono sia l’avvento di un mercato monetario moderno, sia la nascita di un
sistema creditizio capillarmente diffuso.
Tabella 5.3 Struttura della massa monetaria in Francia (1803-1910, valori percentuali)
Moneta metallica
Banconote
Depositi bancari
Totali
1803
1845
1885
1910
95
5
–
100
82
8
10
100
52
29
19
100
33
23
44
100
Fonte: R. Cameron, Le banche e lo sviluppo del sistema industriale, Bologna, 1975
122
L’Europa verso il mercato globale
Un freno allo sviluppo economico provenne anche dall’attitudine tutta
francese a impiegare i risparmi in investimenti sicuri: come i titoli del
debito pubblico nazionale e di quei paesi che riscuotevano la fiducia delle
grandi banche parigine. Pertanto, durante il XIX secolo, solo un po’ meno
della metà del risparmio netto francese fu investito nell’agricoltura e nell’industria del paese.
Il commercio internazionale e l’andamento del reddito nazionale
Rivoluzione e primo impero intralciarono non poco le relazioni francesi
con l’estero, anche perché il conflitto con le potenze europee comportò un
embargo commerciale (1806) tendente a isolare l’economia inglese, bloccandone le importazioni e le esportazioni da e nel continente.
Dopo la caduta di Napoleone, e per buona parte dell’Ottocento, le importazioni di materie prime (cotone, carbone e lana) crebbero sotto lo stimolo
dell’industrializzazione in corso. La forte protezione doganale accordata ai
manufatti fino al 1860 ne contenne le importazioni che aumentarono solo
dopo la firma dei trattati liberoscambisti.
La bilancia commerciale francese, in avanzo fino al 1861, rimase in deficit fino alla vigilia della prima guerra mondiale. Il lungo periodo liberoscambista facilitò le importazioni di materie prime ma causò anche una
depressione agricola, superata solo dall’introduzione di dazi protettivi nei
primi anni Novanta. Poiché due terzi dei francesi nel 1885 abitavano nelle
campagne, un peggioramento dei loro redditi originò un calo della domanda di beni industriali e rallentò la dinamica economica complessiva tra la
metà degli anni Cinquanta e la metà degli Ottanta.
Per di più, la sconfitta subita nel 1870 a opera dei prussiani portò alla
perdita dell’Alsazia, il maggior polo dell’industria cotoniera, e della Lorena, ricca di giacimenti di carbone e ferro. Il trattato di pace (1871) addossò alla Francia il pagamento di un indennizzo di cinque milioni di franchi
oro, rastrellati in un anno e mezzo con due prestiti pubblici che, trasferiti
di là dal Reno, furono in parte usati dai tedeschi per importare pregiate
merci francesi. Un raffronto degli indici della ricchezza media individuale
Tabella 5.4 Indici dei Prodotto Interno Lordo pro capite francese, belga, svizzero, inglese
e dell’Europa continentale (indice base: Gran Bretagna 1830 = 100)
Francia
Svizzera
Belgio
Gran Bretagna
Europa continentale
1830
1860
1870
1880
1890
1900
1910
76
80
82
100
66
105
139
142
161
82
126
159
165
182
95
134
195
170
197
96
149
204
182
227
99
175
227
208
255
118
197
259
247
261
131
Fonte: P. Bairoch, Commerce extérieur et croissance économique de l’Europe au XIX siècle, Paris, 1976, p. 155, elaborazioni dell’Autore
5 L’Europa industriale (1830-1914)
123
prodotta in Francia con quelli belgi e svizzeri mette bene in evidenza il
lento progresso dell’economia transalpina.
La caduta delle protezioni daziarie, dopo il 1860, rivelò la debolezza del
sistema economico francese. Nel corso del ventennio 1875-1894, l’invasione tanto di beni industriali esteri quanto di derrate agricole, che entravano spesso a prezzi inferiori rispetto a quelli interni, se favorì i consumatori penalizzò pesantemente i produttori.
In conclusione, la miscela di vincoli e limiti dell’economia francese dell’Ottocento può essere così riepilogata:
n lo svantaggio derivante dalle dimensioni geografiche e demografiche
insolitamente ampie;
n un’agricoltura arretrata, generalmente imperniata su coltivazioni volte
ad assicurare la sussistenza, almeno fino alla metà del secolo;
n la notevole arretratezza del sistema monetario e creditizio;
n una persistente mentalità orientata soprattutto all’impiego del risparmio
in investimenti a basso rischio;
n un ingente debito pubblico che impegnava per il pagamento degli interessi una grossa parte del bilancio statale;
n una domanda interna depressa, tanto a causa della stagnante dinamica
demografica, quanto per la lenta crescita del reddito pro capite.
Un mondo rurale conservatore e tradizionalista ebbe una parte non
secondaria nella vicenda del lento sviluppo economico del paese. Nell’Ottocento la Francia divenne il massimo produttore di grano e di vino
dell’Europa occidentale. Il raffronto tra le serie storiche delle produzioni
di frumento dell’Inghilterra e della Francia mette in risalto la tendenza
di quest’ultima a non sacrificare il settore tradizionale per favorire quel-
☞
Tabella 5.5 Produzione di frumento in Gran Bretagna e Francia nel XIX secolo
(milioni di quintali)
Gran Bretagna
Francia
1831
1850
1860
1870
1876
1885
1895
1900
1907
33,7
51,3
25,2
66
24,1
76,2
30,7
74,2
25,6
75,5
21
85,2
10,4
92,4
14
86,6
15,5
103,8
Fonte: Annuaire de la Statistique Generale de la France, Parigi, 1951, pp. 386 e ss.
Tabella 5.6 Rendimento del frumento in Gran Bretagna e Francia (quintali per ettaro)
Gran Bretagna
Francia
1831
1850
1860
1870
1876
1885
1895
1900
1907
19,4
8,2
20,2
11,1
15,4
11,4
21
10,7
17,7
10,9
19,2
10,4
22,9
13,2
20,5
12,9
22
15,8
Fonte: Annuaire de la Statistique Generale de la France, Parigi, 1951, pp. 386 e ss.
5 L’Europa industriale (1830-1914)
125
cesso nella cantieristica (scafi e motori a vapore ad alta pressione) e nella
metalmeccanica ferroviaria (locomotive e vagoni, oltre a rotaie sette volte
più resistenti di quelle di ferro).
Tabella 5.7 Maggiori produttori di acciaio in Europa (1870-1913, in milioni di tonnellate)
Gran Bretagna
Germania
Francia
Europa
% dei tre paesi
1870
1880
1890
1900
1910
1913
0,25
0,18
0,09
0,61
85
1,76
0,59
0,38
3,3
83
3,36
2,21
0,69
7,8
80
4,9
6,2
1,5
17,2
73
6,2
13,2
3,5
32,8
70
7,9
17,6
4,7
43,3
70
Fonte: P. Bairoch, Commerce extèrieur et développement économique de l’Europe au XIX siècle, Paris, 1976, p. 143
Applicata alla metallurgia, la chimica contribuì alla scoperta e all’utilizzo,
in leghe con l’acciaio, di nuovi metalli come cromo, manganese e tungsteno e allo sfruttamento di zinco, nichel, magnesio e alluminio.
Dopo che, dalla seconda metà del Settecento, per la lavorazione del
cotone la chimica aveva saputo creare artificialmente la soda, l’acido
solforico e il cloro, con la sintesi dell’anilina, dal 1856, la chimica industriale aprì la strada al fondamentale settore dei coloranti artificiali. Da
allora in poi, soprattutto in Germania e Svizzera, esperimenti e ricerche di
chimici di professione, usciti dai politecnici, avviarono quattro nuovi settori produttivi:
1.
2.
3.
4.
principi attivi farmaceutici;
esplosivi;
reagenti fotosensibili;
fibre sintetiche.
Un sottoprodotto poco costoso della fabbricazione del coke: il catrame
minerale, divenne la materia prima di quasi tutti i nuovi processi chimici.
La realizzazione di fertilizzanti artificiali, spesso ottenuti come sottoprodotti siderurgici, assieme alla refrigerazione, liofilizzazione e pastorizzazione dei prodotti agricoli e dell’allevamento, stimolarono miglioramenti
nelle pratiche agricole saldandole con la mondializzazione del mercato dei
cereali e della carne bovina, avvenuta dai tardi anni Settanta grazie ai
grandi piroscafi che coprivano lunghissime distanze in tempi assai ridotti,
rispetto a quelli delle tradizionali navi a vela.
L’elettricità fu il campo della fisica nel quale, fin dal primo Ottocento, si
susseguirono scoperte teoriche più tardi tradotte in applicazioni economicamente sfruttabili. Nel 1821, l’inglese Michael Faraday inventò il motore
elettrico e, dieci anni dopo, la dinamo. Vi furono però insormontabili problemi di produzione, distribuzione e sfruttamento industriale dell’elettri-
132
L’Europa verso il mercato globale
Baviera e Sassonia concordarono un’unione doganale (Zollverein) a
cominciare dal gennaio del ’34. Entro il ’67, tutti gli stati tedeschi vi aderirono formando una Germania economica con un’unica frontiera tariffaria esterna. Per di più, industrie svizzere, alsaziane e belghe si trasferirono entro i confini dello Zollverein per operare nel vasto mercato unificato
tedesco.
La costruzione di strade ferrate rafforzò le relazioni commerciali
entro il mercato comune. La prima linea fu inaugurata nel 1835 in
Baviera. Nel 1840 in Germania funzionavano già 550 km di ferrovie.
Al termine di un decennio di massicci investimenti concentrati tra
Reno ed Elba, nel 1850 il paese disponeva di 6000 km di ferrovie a
integrazione di una rete di fiumi navigabili e di canali artificiali in
costante espansione.
Per l’ingegneria ferroviaria, fino agli ultimi anni Trenta, i tedeschi dipesero dalla tecnologia britannica. Dopo che il governo prussiano ebbe inviato in Inghilterra alcuni ingegneri, furono attivate produzioni nazionali di
binari, carri e di locomotive (1839). In fatto di regolazione pubblica, i
diversi stati si valsero di tutte le possibili soluzioni: linee costruite e gestite dallo stato, secondo lo stile belga, linee in concessione alla francese,
altre totalmente private all’inglese.
Figura 5.4 Lo Zollverein fra il 1834 e il 1888
Fonte: M. Cattini, op. cit., 1998
134
L’Europa verso il mercato globale
☞
1852 al 1857, nonostante una crisi commerciale e gli effetti depressivi sul
mercato cotoniero della guerra di secessione americana (1861-65), l’economia tedesca continuò a crescere impetuosamente.
Fra il 1848 e il 1873, il settore tessile fu investito dai mutamenti più
incisivi, con alla testa il comparto cotoniero che adottò le più avanzate tecnologie inglesi. L’industria della lana, molto meno accentrata di quella del
cotone, si modernizzò più lentamente perché buona parte della materia prima era esportata. Già con i primi anni Sessanta, tuttavia, la bilancia commerciale del settore laniero divenne ampiamente positiva.
Il settore tessile meno dinamico e tecnicamente arretrato continuò a
essere il linificio, a causa del permanere di tradizioni produttive domestiche. Mancata la fase d’aggiornamento tecnico e organizzativo, il mercato
interno fu perduto a vantaggio dei lini russi, di mediocre qualità, ma dai
prezzi imbattibili. Sui mercati esteri i lini tedeschi cedettero alla concorrenza delle tele di Fiandra belghe e di quelle irlandesi e scozzesi.
Le leggi minerarie prussiane del 1851 diedero notevole impulso all’estrazione di carbone e ferro. Furono aboliti i controlli statali sulle estrazioni e conferiti a proprietari e direttori dei cantieri libertà analoghe a quelle
riconosciute agli industriali. Fu anche dimezzata la tassa gravante sulle
materie prime estratte. Al crescere della domanda di minerale, le tecnologie estrattive venivano aggiornate e migliorate con risorse statali. In parte,
intervenne anche quell’aristocrazia fondiaria che controllava i giacimenti.
Non mancarono apporti di investitori stranieri (inglesi e belgi, in particolare), di banche e di singoli risparmiatori, favoriti dalla creazione di società
minerarie anonime.
Dalla metà del secolo, la domanda di prodotti siderurgici esplose. Mentre la produzione d’insieme del comparto industriale nel ventennio 18501870 raddoppiava (+98 per cento), quella del carbone e del ferro quintuplicò. Il salto di livello dell’intero sistema economico tedesco è ben testimoniato dagli indici dei volumi dei principali generi esportati.
Tabella 5.8 Indici dei volumi d’esportazione dalla Germania (medie annuali su ciascun triennio)
Anni
1849-51
1859-61
1869-71
Alimentari
Materie prime
Semilavorati
Prodotti finiti
Totale
100
156
300
100
185
506
100
192
515
100
186
310
100
176
338
Fonte: W.G. Hoffmann, Das Wachstum der Deutschen Wirtschaft seit der mitte des I9 jahrhunderts, Berlin-HeidelbergNew York, 1965, tab. 131, pp. 536-537
Le esportazioni di materie prime e semilavorati tennero un ritmo altissimo,
quelle di prodotti finiti restarono al di sotto del livello generale delle vendite all’estero e superarono di poco quelle delle derrate agricole. Nel ven-
Fonte: M. Cattini, op. cit., 1998
Figura 5.5 La formazione dell’Impero tedesco 1864-1870
136
L’Europa verso il mercato globale
138
L’Europa verso il mercato globale
5.3.7 Verso una posizione di primato
Dal 1870 al 1913, ormai avviata a diventare una delle grandi potenze economiche e commerciali del mondo, la Germania esportò sempre meno derrate agricole e sempre più prodotti industriali ad alto valore aggiunto. Se,
attorno al 1860, i manufatti tessili rappresentavano circa la metà di tutte le
merci esportate, nel 1913 non superavano il 20 per cento. Alla vigilia della grande guerra, nell’export germanico i prodotti metalmeccanici rappresentavano il 40 per cento e quelli chimici il 19 per cento. A partire dal
1880, l’economia tedesca ebbe un equilibrato sviluppo che coinvolse agricoltura, commercio e servizi accanto all’industria, il settore dei massimi
investimenti in tecnologia.
Tabella 5.9 Indici di sviluppo di alcuni settori economici tedeschi e del Prodotto Interno Lordo
nazionale, 1870-1913 (1913 = 100)
Anni
Carbone
Metalli
Tessile
Trasporti
Industria
PIL totale
1870
1880
1890
1900
1913
13,9
24,7
36,9
57,5
100
7,5
13,9
23,8
47,5
100
31,9
40,1
65,0
72,8
100
8,9
16,1
27,9
50,1
100
18,8
26,1
39,9
61,4
100
29,2
36,5
48,7
68,4
100
Fonte: W.G. Hoffmann, Das Wachstum der Deutschen Wirtschaft seit der mitte des I9 jahrhunderts, Berlin-HeidelbergNew York, 1965, pp. 390-392 e 451-452
Gli indici mostrano le diverse dinamiche settoriali. Il tessile fece da battistrada nell’industria. Metalli e trasporti, strettamente collegati nella meccanica, elettromeccanica e cantieristica, crebbero lentamente fino al 1890,
dopo di che, in un quarto di secolo, quadruplicarono le dimensioni della
ricchezza prodotta.
Il successo industriale tedesco per gran parte dipese dalle grandi dimensioni aziendali e dai continui investimenti migliorativi in tecnologia, favoriti
anche dagli stretti legami intrecciati fra industria, credito e finanza. Un secondo fattore di crescita fu rappresentato dalla rinuncia alla concorrenza antagonistica sui prezzi a vantaggio di accordi e di combinazioni fra imprese.
Quando, con i primi anni Settanta, gli imprenditori si accorsero che era
cominciato un prolungato calo dei prezzi e di erosione dei profitti, fra loro
prevalsero attitudini favorevoli alla stipulazione di Kartell-Bewegung (cartelli industriali), veri e propri patti di non aggressione miranti a mantenere
sul mercato un discreto numero di imprese d’analoga dimensione, bandendo la concorrenza.
Sorti con l’intento di mitigare le eccessive alterazioni dei prezzi e di mantenerli attorno a livelli comunque superiori ai costi, nelle forme più evolute
della fine Ottocento, i cartelli giunsero a regolare prezzi e produzioni, a
5 L’Europa industriale (1830-1914)
distribuire le quote di mercato tra imprese e a formare potenti gruppi d’acquisto delle materie prime. Nel 1891 fu costituito il sindacato (cartello) della ghisa e, nel 1904, quello gigantesco dell’acciaio cui aderirono 27 imprese
metallurgiche che controllavano l’85 per cento della produzione nazionale.
La possibilità di fissare prezzi impegnativi per tutti i produttori di interi
settori merceologici spostò la concorrenza dal mercato all’organizzazione
aziendale (management) e alla tecnologia produttiva. Le imprese più efficienti, essendo dati i prezzi di vendita dei prodotti e i ricavi, agirono piuttosto sul controllo dei costi e della produttività per spuntare crescenti margini di profitto.
L’industria tedesca condusse anche una politica commerciale aggressiva
di dumping, vendendo all’estero a prezzi inferiori ai costi per inibire la
nascita di competitori entro i paesi più arretrati. Le perdite accumulate
esportando sottocosto erano compensate dai maggiori prezzi pagati dai
consumatori tedeschi che, in tal modo, assicuravano stabilità produttiva e
occupazione alle imprese. Di fatto, piazzando all’estero una consistente
quota di produzione, le fabbriche lavoravano a pieno regime minimizzando
i costi medi. La pratica del dumping era l’effetto delle sempre più energiche
difese daziarie messe in atto dalla maggior parte dei paesi a quell’epoca in
via di sviluppo. Prezzi bassi all’esportazione, pur sopportando dazi pesanti,
sarebbero stati egualmente competitivi sui mercati esteri di sbocco. Così
facendo, le imprese tedesche riuscirono a mantenere solide posizioni sui
mercati esteri, nonostante l’ostilità commerciale dei paesi importatori.
La realizzazione in molti comparti di integrazioni verticali e orizzontali –
alla belga – di aziende appartenenti allo stessa società permise di realizzare
consistenti economie di scala. Le grandi imprese erano la regola nell’industria
pesante dove, nel 1907, quasi tre quarti degli addetti lavoravano in fabbriche
con più di mille lavoratori. Anche negli altri settori, però, la concentrazione
era un fenomeno relativamente diffuso, come mostra la seguente tabella.
139
☞
Tabella 5.10 Occupati in opifici con più di 50 addetti nel 1907 (settori e percentuali)
Metalmeccanico
Elettromeccanico
Chimica di base
Filatura
Tessitura
84
96,4
90
89
73,5
Fonte: D. Landes, Prometeo liberato. Trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale nell’Europa occidentale dal 1750
ai giorni nostri, Torino, 1978, p. 393
La concentrazione degli operai in stabilimenti di grandi dimensioni favorì
una migliore utilizzazione del personale, con sensibili incrementi della
produttività. Nelle fonderie, per esempio, la produttività del lavoro crebbe
addirittura di sette volte e mezzo tra il 1880 e il 1910.
144
L’Europa verso il mercato globale
Figura 5.6 Sistema dell’agricoltura nella Russia europea verso la metà del XIX secolo
Fonte: M. Cattini, op. cit., 1998
146
L’Europa verso il mercato globale
Tabella 5.11 Fabbriche, operai (in migliaia) e addetti in media per stabilimento in Russia
dal 1804 al 1855 (ferriere e distillerie escluse)
Anni
Fabbriche
Operai
Addetti
1804
1815
1825
1825
1830
1835
1840
1845
1850
1855
2.399
4.189
4.578
5.261
5.450
6.054
6.863
8.302
9.848
10.943
95,2
172,8
179,6
210,6
253,9
288,1
435,8
507.6
501.7
483.2
40
41
39
40
47
48
63
61
51
44
Fonte: F.X. Coquin, La Russia, in Storia economica e sociale del mondo, a cura di P. Leon, vol. III.2, Le rivoluzioni 17301840, Roma-Bari, 1980, p. 626
La serie storica mette in evidenza soprattutto due aspetti. Il primo: l’alto
numero di addetti per opificio, spiegabile con l’assenza di macchinari e con
l’utilizzo di servi trasformati in operai. Il secondo: la minima percentuale di
manodopera impegnata nelle fabbriche, pari a meno dell’1 per cento dell’intera popolazione nel 1850. Benché, dagli anni Quaranta, la Russia
disponesse di tecnologie importate, la nobiltà non riuscì a trasformarsi in
un ceto imprenditoriale. Indebitati e privi di credito, ignavi e ignoranti, i
pomesciki non seppero organizzare le proprie tradizionali manifatture servili su basi rinnovate e preferirono “affittare” in blocco i loro servi-operai a
intraprendenti industriali, nonostante fosse vietato per legge.
Accanto alle manifatture servili, vi erano imprese fornitrici di materiale strategico allo stato, come vele e cordami per la flotta e come carta, armi, uniformi ecc. per la burocrazia pubblica, che ricevevano in proprietà un certo numero di servi-operai. A mano a mano che penetrava un’elementare meccanizzazione, gli imprenditori supplicarono il governo di poter fare a meno dei servi
per impiegare salariati liberi, da assumere e licenziare secondo le congiunture.
L’unico settore industriale all’altezza dei tempi a metà Ottocento era il
cotonificio. Sorto nel 1753, quando due imprenditori inglesi avevano ottenuto il privilegio di aprire uno stabilimento di rifinitura e tintura di cotonate indiane alla periferia di San Pietroburgo, a fine Settecento, esistevano
quasi 200 manifatture localizzate in prevalenza nella regione di Mosca.
Attraverso un sistema misto di servi-imprenditori, attivi per conto dei loro
signori e di mercanti che ricorrevano al sistema tradizionale di tessitura a
domicilio, i filati importati dall’Inghilterra erano trasformati in tessuti.
Attorno al 1830, ormai emancipatasi dall’importazione di filati inglesi, in
Russia cominciarono a comparire grandi impianti tecnologicamente all’avanguardia, come quello del barone Stieglitz (1833), dotato di macchine a
vapore, di illuminazione a gas e di 25/30.000 fusi.
5 L’Europa industriale (1830-1914)
Figura 5.7 La Russia verso il 1860 (Atlas historique de l’URSS, t. II, tav. 15)
Fonte: M. Cattini, op. cit., 1998
I dazi protettivi sui filati esteri, assieme all’importazione di macchinari e
di tecnici inglesi, tra il 1838 e il 1853 favorirono un boom della filatura.
Contemporaneamente, il governo rilanciò l’espansione territoriale in Asia
centrale, sia per avviarvi la coltivazione del cotone, sia per smaltirvi le
147
5 L’Europa industriale (1830-1914)
149
raggiunto da una strada ferrata. Il governo concesse il terreno, accordò prestiti, garantì commesse di rotaie e, nel 1887, aumentò le dogane sui prodotti siderurgici impegnandosi a non diminuirli per almeno 12 anni. L’iniziativa della ditta belga fu rapidamente imitata da altri imprenditori d’Europa occidentale (belgi, francesi e inglesi). Tra il 1886 e il 1900, in Ucraina
si svilupparono due giganteschi bacini siderurgici con stabilimenti integrati che utilizzavano le tecniche più avanzate allora note.
☞
Tabella 5.12 Indici dei volumi di prodotto dei principali settori industriali russi,
anno 1887 = indice 100
Generi
1887
1890
1900
1908
1913
Ghisa
Carbone
Ferro e acciaio
Petrolio
Cotone (consumo)
Zucchero
100
100
100
100
100
100
152
133
136
146
72
95
490
357
459
407
139
187
474
582
415
341
184
296
784
802
694
362
225
435
Fonte: R. Portal, L’industrializzazione della Russia, in Storia economica Cambridge, vol. 6, Torino, 1974, pp. 903 e 910
Il governo incoraggiò e sostenne anche le attività metalmeccaniche. Specialisti inglesi della fabbricazione di macchine a vapore furono invitati a
impiantare fabbriche. Dal 1880, il settore crebbe rapidamente, tanto che
alla fine del secolo XIX la metalmeccanica russa produceva telai automatici per le industrie tessili, macchine per mulini a cilindri, per distillerie di
vodka e per produrre e raffinare lo zucchero ricavato dalle barbabietole.
Nel settore petrolifero – sorto nel Caucaso – e in quello del credito si
affermarono dei veri e propri trust, mentre nella metallurgia la combinazione di cartelli, attenuando la concorrenza, permise di espandere le esportazioni. La crescita del ceto borghese, protagonista dell’imprenditoria e
della finanza, produsse un mutamento sociale soprattutto nelle città, nelle
quali l’artigianato tradizionale cominciò a tramontare.
Al finanziamento delle infrastrutture pubbliche e dell’industria privata
parteciparono sia i capitali esteri sia quelli nazionali. Fino al 1875, seppur
irregolarmente, giunsero in Russia soprattutto risorse finanziarie inglesi e
tedesche. A partire dai primi anni Ottanta, gli investimenti esteri crebbero
di mole e si orientarono verso il prestito pubblico. Anche l’industria fruì di
capitali esteri, tanto che nel 1900 il 40 per cento del capitale delle società
per azioni russe apparteneva a investitori stranieri. In alcuni settori la
finanza estera addirittura dominava. Nei primi anni del XX secolo l’88 per
cento delle risorse investite nella metallurgia, il 72 per cento della meccanica, il 48 per cento degli investimenti immobiliari e il 29 per cento del
capitale creditizio appartenevano a stranieri.
☞
150
L’Europa verso il mercato globale
Figura 5.8 La Russia verso il 1913 (Atlas historique de l’URSS, t. III, tav. 9)
Fonte: M. Cattini, op. cit., 1998
Nel 1913 la situazione non era molto cambiata. Il 52 per cento di tutto il
capitale privato apparteneva a investitori esteri, con interessi soprattutto
nell’estrazione mineraria, nella metallurgia, nella chimica, nelle banche e
nel tessile. Il primato degli investimenti esteri spettava alla Francia (34,4
152
L’Europa verso il mercato globale
Rispetto a quella dei maggiori stati dell’Europa centro-occidentale, l’economia italiana era arretrata e depressa. Il 58 per cento della ricchezza prodotta veniva dall’agricoltura, il 22 per cento da commercio, trasporti, banche, assicurazioni e servizi e solo il 20 per cento da un artigianato tradizionale e da una piccola industria tessile (lanificio e cotonificio). Per di più,
come ai giorni nostri, quasi tutte le imprese avevano meno di dieci addetti.
Attorno al 1860, il reddito medio pro capite degli italiani era ovviamente di molto inferiore a quello degli abitanti degli altri paesi europei economicamente più evoluti, a parte la Russia.
Tabella 5.13 Reddito medio pro capite degli abitanti di alcuni paesi europei nel triennio 1859-61
(in dollari e prezzi statunitensi del 1960, Gran Bretagna indice 100)
Gran Bretagna
Belgio
Svizzera
Francia
558
490
480
365
(100)
(88)
(86)
(65)
Germania
Europa (media)
Italia
Russia
354
310
301
178
(63)
(55)
(54)
(32)
Fonte: P. Bairoch, Commerce extérieur et croissance économique de l’Europe au XIX siècle, Paris, 1976
L’economia italiana, all’epoca divisa in molti mercati particolari, separati
gli uni dagli altri dalla diversità delle monete preunitarie che continuavano
a circolare, da dazi municipali che funzionavano come dogane interne e da
alti costi di trasporto, risentiva di alcune caratteristiche sfavorevoli all’avvio di un processo di crescita industriale.
n L’agricoltura era tra le meno produttive d’Europa. Il reddito medio per
addetto era un quarto di quello inglese, a un terzo di quello francese,
metà di quello tedesco, belga, austriaco e svizzero e, infine, due terzi di
quello russo. I pochi suoli adatti alle coltivazioni (circa il 40 per cento
del territorio), le condizioni climatiche sfavorevoli, l’arretratezza agronomica e la carenza di macchine e di fertilizzanti chimici (capitale) non
garantivano nemmeno l’autosufficienza cerealicola del paese.
n Il basso reddito assicurato dal dominante settore primario, nel limitare i
consumi, impediva anche l’accantonamento di risparmi. Nel primo
quindicennio dopo l’unificazione, la percentuale di ricchezza prodotta e
risparmiata dagli italiani non superò in media il 2 per cento annuo.
n Il paese era privo delle risorse naturali (ferro e carbone) indispensabili
per l’impianto di una siderurgia moderna e per fare massiccio uso della
macchina a vapore: il motore universale dell’industria ottocentesca
sostitutivo del vecchio mulino ad acqua.
Negli anni Sessanta e Settanta, l’azione del governo a favore delle imprese
fu relativamente blanda. L’estensione all’intera nazione delle dogane liberoscambiste piemontesi cancellò le protezioni daziarie per quei manufatti
5 L’Europa industriale (1830-1914)
157
Tabella 5.14 Prodotto Interno Lordo pro capite (in dollari USA 1990 e indici)
Anni
Italia
Francia
Germania
Gran Bretagna
Stati Uniti
1871
1891
1911
1.473 (100)
1.615 (110)
2.407 (163)
1.881 (100)
2.409 (128)
3.219 (171)
1.891 (100)
2.508 (133)
3.602 (190)
3.421 (100)
4.065 (119)
4.815 (141)
2.508 (100)
3.471 (138)
5.052 (201)
Fonte: A. Maddison, Monitoring the World Economy (1820-1992), Paris, 1995
Gli anni della grande guerra (1914-1918), con la “mobilitazione industriale”, comportarono un’assidua regolazione amministrativa delle oltre mille
imprese che partecipavano allo sforzo di produrre rifornimenti adeguati.
La pubblica amministrazione avrebbe garantito le scorte di materie prime,
le fonti energetiche e la manodopera necessaria, che fu equiparata alle
truppe arruolate. Per consegnare nei tempi stretti richiesti dal Ministero
della Guerra cartucce, spolette, divise e scarponi molte imprese ricorsero a
subappalti a imprese artigiane che impiegavano lavoratori e lavoratrici a
domicilio, pagati a cottimo.
Nei febbrili anni della guerra, le grandi imprese siderurgiche e meccaniche divennero colossi perché approfittarono di una legislazione che prevedeva facilitazioni fiscali per i profitti reinvestiti in ampliamenti e in nuovi
impianti. Numerose aziende industriali attivarono centrali elettriche per
non dipendere da altri per i rifornimenti energetici. I settori della chimica,
degli esplosivi e della meccanica dei motori per autocarri, aerei e navi
ebbero sviluppi repentini. La certezza dei margini di utile e la ristrettezza
del mercato nazionale frenarono gli investimenti in tecnologia, la creazione di organizzazioni manageriali complesse e di estese reti commerciali.
L’Italia uscì dalla guerra vittoriosa, ma con enormi disavanzi di bilancio
statale e debiti esteri ingenti, con prezzi più che quadruplicati, troppa cartamoneta in circolazione e potenziali produttivi industriali largamente superiori alla più ottimistica capacità d’assorbimento della domanda interna.
L’agricoltura versava in condizioni anche peggiori. La sua manodopera era
stata largamente utilizzata come fanteria al fronte e nelle numerose fabbriche ausiliarie, il patrimonio zootecnico era stato decimato, mancavano i fertilizzanti chimici e le scorte erano state requisite dagli ammassi obbligatori,
sicché la domanda di manufatti industriali espressa dal mondo rurale crollò
rendendo anche più difficile il ripristino di condizioni produttive di pace.
6 L’industria fuori d’Europa
cento nel 1872) che deteneva la terra in semplice uso. Ai daimyo, titolari dei
diritti sui suoli, i contadini conferivano la metà del riso raccolto e prestavano
periodicamente lavoro. L’appartenenza per nascita a un ceto decideva i destini individuali, essendo vietato cambiare residenza e occupazione o mestiere.
Ai daimyo e ai samurai era proibito commerciare, sicché i mercanti prosperavano mettendo in circolazione i raccolti dei nobili e prestando loro denaro.
L’esistenza di numerosi centri urbani densamente popolati fu un potente
fattore d’evoluzione economica e sociale. Nelle città, infatti, durante il
XVIII secolo, i mercanti garantivano l’offerta di derrate agricole e di
manufatti e i banchieri prestavano a usura. Nelle campagne, aggirando la
legge, i contadini più abili e fortunati accrescevano il loro controllo sui terreni, svolgendo il ruolo di maggiorenti e influenzando l’amministrazione
locale. Insomma, nonostante una politica improntata alla conservazione
dell’assetto sociale tradizionale, nel lungo andare i Tokugawa non riuscirono a evitare che, nelle città come nelle campagne, prosperasse una borghesia orientata agli scambi e al credito, mantenuta in condizioni di inferiorità
sociale e culturale nonostante controllasse una crescente quota di ricchezza fondiaria (case e terreni) e mobiliare (merci, denaro e credito).
Figura 6.1 Carta politica del Giappone con la Corea e la costa cinese
159
6 L’industria fuori d’Europa
163
no un forte spirito di disciplina e un alto senso dell’onore, le tensioni sociali
si attenuarono.
Impossibilitati a fabbricare in proprio o a importare impianti produttivi tecnicamente avanzati, gli industriali giapponesi si adattarono ad acquistare a
basso prezzo attrezzature obsolete e dismesse nei paesi più avanzati (capitale),
che tuttavia funzionavano ancora. Nel commercio internazionale, dopo una
prima fase durante la quale il paese esportò materie prime e prodotti agricoli,
soprattutto rame, carbone, tè e seta, superate le prime tappe dell’industrializzazione, vennero venduti all’estero i manufatti tessili. Solo dopo aver costruito una solida base industriale, il Giappone si lanciò nella diversificazione delle attività. Ancora nel 1913 importava acciaio e macchinari industriali.
Tabella 6.1 Indici del commercio estero giapponese (1910-14 = 100)
Anni
1885-89
1895-99
1905-09
1910-14
1915-19
1920-24
1925-29
1930-34
Importazioni
Esportazioni
Differenza
16
46
87
100
124
190
242
277
16
31
61
100
168
142
217
327
–
–15
–26
–
+44
–48
–25
+50
Fonte: W.W. Lockwood, The Scale of The Economic Growth in Japan (1868-1938), in Economic Growth, Brasil, India,
Japan, Princeton, 1955
Nel breve arco di un quarantennio, il nazionalismo imperialista giapponese condusse tre guerre vittoriose nello scacchiere asiatico. La prima, del
1894-95, combattuta contro la Cina, rese un’ingente quantità di oro come
risarcimento dei danni di guerra; la seconda, contro l’impero russo nel
1904-1905, impose il paese all’attenzione del mondo; la terza, con l’invasione della Manciuria nel 1931, inaugurò il colonialismo del Sol levante.
La politica statale degli armamenti concorse allo sviluppo della siderurgia,
della meccanica, dell’industria cantieristica e dell’aeronautica.
Nel corso del settantennio trascorso fra la fine dello shogunato dei Tokugawa (1868) e la vigilia della seconda guerra mondiale (1938), la crescita
economica giapponese ristagnò nel decennio delle guerre con la Cina e
con la Russia, ma successivamente fu continuo e sostenuto. Nel corso del
cinquantennio 1885-1935 la produzione totale quadruplicò, secondo un ritmo medio annuo di +3,3 per cento, e il reddito pro capite aumentò di sole
tre volte a causa della consistente crescita della popolazione, che da 34,8
milioni, nel 1872, giunse a 43,8 nel 1900 e a 69,1 milioni nel 1935. Il prodotto pro capite della popolazione attiva, dopo il 1905, testimonia il sostenuto aumento del fattore capitale applicato alla produzione.
164
L’Europa verso il mercato globale
Tabella 6.2 Popolazione e prodotto nazionale netto giapponese, 1885-1935
(indici a prezzi costanti, 1885 = 100)
Anni
Pop. in milioni
Prodotto pro capite
Prodotto pro capite
della pop. attiva
1885
1895
1905
1915
1925
1935
38,5 (100)
41,9 (109)
46,7 (121)
53,3 (138)
59,9 (155)
69,1 (179)
100
132
132
161
231
292
100
129
132
176
272
360
Fonte: M. Niveau, Storia dei fatti economici contemporanei, Milano, 1972, tab. V, p. 108
In conclusione, l’economia giapponese moderna offre uno dei più riusciti
esempi di sviluppo economico diretto dal governo e dalla burocrazia pubblica. La prima e principale ragione del successo consiste nell’avere accettato senza complessi d’inferiorità culturale il ruolo di paese economicamente arretrato. Il Giappone non fece appello al capitale finanziario estero,
evitò di imitare le strutture dei consumi europei, non coltivò ambizioni
smisurate in fatto di industria, né sognò di far meglio dei migliori paesi
industrializzati del tempo.
La permanente capacità di apprendere, imitare, adattarsi e perseguire
l’ottimo possibile è il segreto del successo giapponese. C’è anche un
secondo elemento esplicativo altrettanto notevole. Il processo di rapida
modernizzazione – dal feudalesimo al capitalismo – avvenne senza implicazioni ideologiche e su base eminentemente empirica, facilitato dalla proverbiale frugalità dei contadini. Dall’Occidente fu preso a prestito solamente quanto era tecnicamente indispensabile, per il resto le tradizioni
culturali, l’organizzazione sociale fondata sulla famiglia, un alto livello
medio d’istruzione e l’etica del lavoro ben svolto svolsero un ruolo decisivo. La prevalenza del gruppo sul singolo individuo, il valore riconosciuto
alla cooperazione e all’armonia piuttosto che all’antagonismo e alla rivalità, il rispetto ossessivo per le differenze di rango e per i cerimoniali, l’importanza accordata alle relazioni personali (l’alto senso dell’onore) da
sempre preferite alle transazioni contrattuali, sono altrettante testimonianze della tenuta, nel tempo, di un mondo di relazioni e di valori ereditato
dalla tradizione; un mondo che non ha impedito al paese di diventare
modernissimo senza tradire la propria identità culturale.
6.1.4 Dalla sconfitta militare all’eccellenza economica
Uscito sconfitto dalla seconda guerra mondiale, il Giappone si diede una
costituzione democratica (monarchia costituzionale), rinunciò ad avere un
esercito e intrattenne con il suo vincitore, gli Stati Uniti, relazioni tanto
6 L’industria fuori d’Europa
165
strette da diventare suo alleato, nel 1951, e da imitarne le tecniche di
gestione aziendale. Di fronte all’altissima concentrazione di proprietà
industriali e bancarie (3762 individui legati agli zaibatsu controllavano
poco meno della metà del capitale azionario giapponese), il comando americano occupante stabilì rigorose regole per avviare una democratizzazione
dell’economia. L’intento era l’eliminazione degli zaibatsu. Le società
holding furono dichiarate fuori legge e suddivise in molte nuove imprese,
le grandi famiglie dovettero cedere i loro pacchetti azionari, che furono
collocati presso il pubblico. Infine, imposte straordinarie sui patrimoni e
sulle trasmissioni ereditarie ridussero a un ventesimo delle dimensioni prebelliche la ricchezza controllata dalle grandi famiglie.
Recuperata la sovranità, coerentemente alla cultura nazionale, il governo
invertì la rotta favorendo una ricomposizione degli antichi potentati senza
tuttavia eliminare un diffuso azionariato popolare, che oggi detiene la
maggior parte delle quote azionarie di grandissime imprese, come la Mitsubishi e la Hitachi che contano svariate centinaia di migliaia di azionisti.
Al posto degli zaibatsu comparvero i keiretsu (i lignaggi) che raggruppano in senso verticale o orizzontale aziende minori sotto l’egida di una
grande impresa dominante. Nel 1962 l’autorità parlamentare d’inchiesta
sugli assetti societari appurò che le 256 aziende «madri» controllavano in
media ciascuna 16 società «figlie».
Dopo una fase di ristagno durata dal 1914 al 1945, il volume del commercio mondiale quadruplicò tra il 1953 e il 1977. Con il passare del tempo, prevalsero i prodotti industriali ad alto valore specifico e, in questo
campo, il Giappone continuò ad accrescere la sua quota di esportazioni
vendendo all’estero più di quanto importava; anzitutto perché i suoi prodotti, tecnologicamente avanzati, avevano prezzi concorrenziali e poi perché il governo nipponico ha sempre adottato politiche commerciali difensive e mantenuto relativamente bassi i consumi interni.
☞
☞
Tabella 6.3 Incidenza percentuale delle esportazioni di alcuni paesi sul totale mondiale
(1951-2004)
USA
Giappone
Germania
Gran Bretagna
Italia
1951
1960
1970
1982
1987
2004
20,3
1,9
5,4
8,8
2,2
18,9
3,8
12,2
8,4
3,4
14,8
6,7
11,9
6,7
4,6
12,2
8,2
10,4
5,7
4,4
10,5
9,9
12,7
5,7
5,0
9,0
6,2
10,0
3,8
3,8
Fonte: V. Zamagni, Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica dell’Italia 1861-1990, Bologna, 2000, p. 454
e calcoli dell’Autore in ICE-ISTAT, L’Italia nell’economia internazionale, rapporto ICE 204-2005, Roma, 2005
6 L’industria fuori d’Europa
Figura 6.2 Gli Stati Uniti: dalle 13 colonie alla costa del Pacifico
Fonte: Toninelli, Nascita di una nazione, Il Mulino 1953
in Europa la maggior parte delle sue produzioni di piantagione, grazie ai
porti e ai mercanti internazionali del nord-est. Negli anni Trenta, Quaranta
e Cinquanta, la costruzione di ferrovie permise di collegare ancora più
strettamente le tre grandi regioni economiche e, soprattutto, mise in relazione diretta le vaste pianure centrali produttrici di cereali, mais e carne con
l’area industriale altamente urbanizzata del nord-est.
6.2.2 Dal conflitto economico alla guerra di secessione
La scoperta di ricche miniere d’oro in California, nel 1848, accelerò il ritmo di immigrazione negli USA e quello di trasferimento verso ovest di
pionieri-coloni e di cercatori d’oro. La crescente disponibilità di metallo
giallo sul mercato americano ebbe due conseguenze. La prima fu la preferenza per l’oro come metallo di riserva, a garanzia della circolazione di
cartamoneta prodotta dalle banche. La seconda si tradusse in un tendenziale incremento dei prezzi, sia dei prodotti agricoli sia di quelli industriali.
Tra il 1847 e il 1855 giunsero negli USA 300.000 emigranti (fattore
lavoro) all’anno e, dalla piazza di Londra, affluirono capitali finanziari da
investire soprattutto nelle grandi società ferroviarie che costruivano tron-
169
6 L’industria fuori d’Europa
171
135 a 60 ha, mentre decine di migliaia di proprietari diretti coltivatori
bianchi e di mezzadri neri prendevano il posto della manodopera schiava.
6.2.3 Verso imprese di grandi dimensioni
Dal 1865 al 1914 lo sviluppo dell’economia statunitense proseguì quasi
ininterrotto contemporaneamente in tutti e tre i settori: l’agricoltura e
allevamento, in continua espansione nelle grandi pianure centrali e in
California (vigneti e frutteti); l’industria pesante (gli USA divennero il primo produttore mondiale d’acciaio) e leggera; il terziario delle assicurazioni e
delle banche, ma soprattutto dei trasporti navali e ferroviari.
Nell’arco di tre generazioni (1839-1919) – circa ottanta anni – la popolazione crebbe di oltre sei volte, facendo del paese il primo mercato di
massa del mondo. La ricchezza mediamente disponibile per ogni cittadino
americano aumentò a un ritmo di pressappoco la metà di quello, altissimo,
tenuto dalla dinamica demografica. Infine, la ricchezza mediamente prodotta da ogni persona economicamente attiva crebbe sensibilmente, a riprova
dei continui investimenti in dotazioni di capitale tecnico e del miglioramento dell’organizzazione produttiva affidata a manager ingegneri.
Il progresso tecnico e organizzativo riguardò ogni settore: siderurgia dell’acciaio, chimica di base e chimica fine, meccanica, fonti energetiche
(carbone, elettricità, distillazione del petrolio), agroindustria (carne congelata, fresca e conservata, legumi e frutta in scatola), vestiario (abiti confezionati di serie e scarpe). L’introduzione di tecniche di vendita innovative
nelle grandi città (grandi magazzini e pubblicità) e nelle campagne (vendite per corrispondenza) accelerò la creazione di un mercato nazionale in
continua espansione perché la manodopera (da 13 a 37 milioni di addetti
fra il 1870 e il 1910) non cessava di crescere, soprattutto grazie all’immigrazione. Poiché la forza lavoro riceveva alti salari, nella distribuzione della ricchezza prodotta annualmente la quota assegnata al fattore lavoro continuò a crescere, alimentando la domanda aggregata e spingendo l’offerta
a rispondere adeguatamente.
Tabella 6.4 Popolazione e produzione del primario e secondario negli Stati Uniti, 1839-1919
(valori espressi in dollari costanti e indici)
Anni
Popolazione (x 1.000)
Produzione pro capite
Produzione per addetto
1839
1859
1879
1899
1919
17.120 (100)
31.513 (184)
50.262 (293)
76.094 (444)
106.466 (622)
64 (100)
85 (133)
105 (164)
154 (241)
201 (314)
244 (100)
330 (135)
413 (169)
602 (246)
858 (352)
Fonte: R.E. Gallman, Commodity Output in the United States, Princeton, 1960, pp. 16-19
6 L’industria fuori d’Europa
173
La gestione delle ferrovie pretese il ricorso a un’inedita figura professionale: l’alto dirigente stipendiato e impegnato a tempo pieno. Egli
aveva il compito di preordinare i movimenti dei treni per merci e per passeggeri, di disporre la manutenzione ordinaria di locomotive, carri, stazioni, depositi e linee, di contabilizzare i flussi finanziari (entrate e spese), di
calcolare i costi e di fissare i prezzi. La formazione di personale adatto a
svolgere un così complesso insieme di funzioni fu affidata ai politecnici,
sicché gli ingegneri civili e industriali cominciarono a essere identificati
come i professionisti culturalmente meglio attrezzati per svolgere il ruolo
di dirigenti nelle grandi imprese a organizzazione complessa.
L’adozione di macchine a ciclo continuo, che realizzavano enormi quantità di pezzi, indusse le imprese a riversare sul mercato internazionale una
parte crescente della produzione (macchine da cucire, macchine agricole,
macchine da scrivere e registratori di cassa), corredandola d’assistenza
tecnica alla clientela, del servizio dei ricambi e di crediti sugli acquisti.
La vittoria dei nordisti, convinti protezionisti dei prodotti industriali,
portò al raddoppio delle tariffe doganali dopo la fine della guerra civile
(1865) così da riservare ai produttori nazionali il mercato interno, sul quale andavano peraltro dispiegandosi tecniche di vendita (marketing) innovative, che facevano della pubblicità il mezzo propagandistico prevalente.
Dai secondi anni Settanta, quando, grazie alle nuove capienti e rapide navi
a vapore, i cereali delle grandi pianure centrali poterono raggiungere i porti europei a prezzi imbattibili, le esportazioni statunitensi, che consistevano in materie prime, derrate agricole, manufatti industriali e macchine
(agricole, da cucire e da scrivere), sopravanzarono le importazioni con
vantaggio per la bilancia dei pagamenti.
Per quanto ricco e in continua espansione, tuttavia il mercato interno
non era sufficiente ad assorbire i crescenti volumi dei prodotti agricoli e
industriali. Le esportazioni del cinquantennio 1860-1910, tra le quali i prodotti dell’agricoltura, non scesero in valore mai sotto un peso relativo del
20 per cento e i beni industriali passarono dal 15 per cento degli anni Settanta al 33 per cento del periodo 1909-18, prova che, nel corso del trenten-
Tabella 6.5 Importazioni ed esportazioni degli USA, 1860-1910 (in milioni di dollari correnti)
Anni
Esportazioni
Importazioni
Saldo
1860
1870
1880
1890
1900
1910
334
393
836
858
1.394
1.745
354
436
668
789
850
1.557
–20
–43
168
69
544
188
Fonte: P.A.Toninelli, Nascita di una nazione. Lo sviluppo economico degli Stati Uniti (1780-1914), Bologna, 1993, p. 238
7 La prima globalizzazione fra Ottocento
e Novecento
7.1 La formazione di un mercato mondiale
Nei quarant’anni che precedettero lo scoppio della prima guerra mondiale,
l’Europa raggiunse il massimo potere economico, insieme rappresentato
dal primato nella produzione di beni industriali (Gran Bretagna, Germania,
Belgio, Svizzera e Francia) e dal dominio sul commercio internazionale il
cui volume, nel periodo 1885-1914, crebbe in media del 3,3 per cento
l’anno, mentre i prezzi internazionali, dopo un calo dal 1873 al 1896, avevano preso a crescere.
L’esistenza di un’imponente rete di trasporti in Europa e nell’America settentrionale (818.900 km di ferrovie nel 1913), collegata ai porti frequentati
da navi metalliche sempre più capienti e veloci i cui noli (costi dei viaggi)
continuavano a diminuire, accelerò il processo di integrazione dell’economia mondiale avviato dalla Gran Bretagna a metà Ottocento con l’eliminazione delle dogane e la libera circolazione internazionale delle merci.
Dagli anni Settanta, le popolazioni originarie del vecchio continente che
stavano colonizzando i territori extraeuropei a clima temperato, grazie alla
diffusione delle ferrovie (dal 1890 al 1913 furono realizzati 169.000 km di
strade ferrate in Asia, Africa e America Latina) e di piroscafi a vapore, rinsaldarono i rapporti con i mercati delle rispettive patrie.
Tabella 7.1 Sviluppo delle reti ferroviarie nei continenti (in chilometri a fine anno)
Anni
Europa
America
del Nord
America
del Sud
Asia
Africa
Mondo
1870
1880
1890
1900
1913
104.900
169.100
225.300
292.400
362.700
89.200
161.800
291.100
340.800
456.200
3.980
12.900
40.300
61.100
110.900
8.190
16.200
32.300
51.400
92.100
1.790
4.650
9.390
20.100
48.000
209.800
372.400
617.300
790.100
1.105.500
Fonte: P. Bairoch, Commerce extérieur et développement économique de l’Europe au XIXe siècle, Paris, 1976, p. 32
Nel secondo Ottocento e nel primo Novecento, il trapianto di quasi 22
milioni di europei nelle Americhe, in Sud Africa e in Australia diffuse un
7 La prima globalizzazione fra Ottocento e Novecento
177
anche quasi monopolisti del mercato internazionale del grano, ma dai primi del Novecento presero il sopravvento le esportazioni cerealicole dell’Argentina e del Canada. Alla stessa epoca, il Giappone divenne il maggior
esportatore di seta e di tè.
Tabella 7.2 Valore delle esportazioni dei maggiori paesi nel 1913
(milioni di dollari correnti e percentuali)
Gran Bretagna
Germania
Stati Uniti
Francia
Russia
2.550
2.450
2.450
1.340
780
21,8
20,9
20,9
11,5
6,6
Austria-Ungheria
Italia
Australia
Canada
Giappone
610
480
380
360
320
5,2
4,1
3,2
3,1
2,7
Fonte: P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo, vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi, Torino, 1999, vol. II,
p. 1038
7.2 Guerre doganali e rivalitàtecniche e commerciali
L’aumento dell’offerta in Europa di derrate agricole di base provenienti dalle regioni extraeuropee, a prezzi nettamente più bassi rispetto a quelli interni ai diversi paesi, in un mercato effettivamente aperto avrebbe dato origine
a un’inevitabile quanto pronta riorganizzazione delle coltivazioni, secondo i
postulati del mercato di concorrenza. Dagli ultimi anni Settanta, sotto la
minaccia dei grani americani, attivando un’efficace pressione politica, gli
agricoltori dell’Europa occidentale riuscirono a evitare di dover procedere a
radicali riconversioni (per esempio l’abbandono della cerealicoltura a favore di altre coltivazioni) ottenendo dai governi energiche difese doganali.
L’introduzione e l’inasprimento di tariffe (con rialzi oscillanti tra il 25 e il
150 per cento), che colpivano tanto le importazioni di derrate agricole quanto quelle di manufatti industriali, innescò una reazione a catena di conflitti
commerciali fra paesi europei, che in qualche caso sfociarono in vere e proprie guerre doganali. Germania, Francia, Austria-Ungheria, Russia e Stati
Uniti si distinsero nella rincorsa al rialzo dei dazi all’importazione, che raggiunse il culmine fra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento.
Solo la Gran Bretagna rimase fedele al dogma liberoscambista perché
l’opinione pubblica inglese, memore delle lunghe e dure battaglie politiche condotte per l’abolizione della scala mobile sui grani, non accettava
l’idea che i prezzi dei beni alimentari potessero aumentare (come sarebbe
avvenuto nel caso che le importazioni di derrate agricole fossero sottoposte a oneri doganali). Le regioni dell’impero britannico prive di autonomia
finanziaria non poterono che allinearsi alla madrepatria, sicché andò formandosi un duplice mercato internazionale: quello inglese, improntato al
liberoscambismo, e quello dei paesi in via di industrializzazione, contrad-
178
L’Europa verso il mercato globale
distinto da regimi doganali che disincentivavano gli scambi e favorivano
relazioni commerciali preferenziali con partner ai quali erano legati anche
da affinità politiche e diplomatiche.
La fede inglese nel liberoscambismo fece sì che s’invertisse la corrente
di importazioni ed esportazioni di manufatti industriali da e verso i paesi
dell’Europa continentale. I consumatori inglesi beneficiarono dei prezzi
industriali interni più bassi d’Europa, ma l’apparato produttivo del paese
incontrò crescenti ostacoli nel conservare le dimensioni e le posizioni acquisiste durante il trentennio liberoscambista (1843-73).
Tabella 7.3 Importazioni ed esportazioni britanniche di manufatti da e per
l’Europa industrializzata* (valori in milioni di sterline correnti)
Importazioni
Esportazioni
Saldi
1855
1878
1899
1911
8,5
20,3
+11,8
42,4
41,2
–1,2
71,9
42,4
–29,5
98,9
65,8
–33,1
* Germania, Francia, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Svezia, Austria-Ungheria e Italia
Fonte: P. Bairoch, Commerce extérieur et croissance économique de l’Europe au XIX siècle, Paris, 1976
Dalla fine dell’Ottocento, insomma, nell’Europa continentale e negli USA
il nazionalismo economico prevalse sul liberalismo concorrenziale. Di là
dall’adesione a politiche protezioniste o liberiste, allora era più che mai attuale la questione del ruolo degli stati nell’opera di sostegno e di promozione dello sviluppo delle economie nazionali. Dalla metà dell’Ottocento,
nei paesi impegnatisi nel rincorrere l’industria britannica, i governi non
potevano disinteressarsi del finanziamento di basilari infrastrutture quali
porti, strade, canali e ferrovie, della promozione di un’essenziale armatura
industriale e, con essa, dell’industria pesante cantieristica e produttrice
d’acciaio. Nel medesimo tempo, era indispensabile attenuare il disagio
indotto dall’avvento dell’industrializzazione nei settori tradizionalmente
meno efficienti come agricoltura e commercio al dettaglio.
Il diffuso irrigidimento doganale in ogni caso ebbe l’effetto di stimolare
i maggiori gruppi produttori di beni industriali a superare gli ostacoli commerciali frapposti alla circolazione internazionale dei prodotti aprendo stabilimenti all’interno dei paesi protezionisti. In tal modo si trasferirono
capitali finanziari e tecnologie piuttosto che merci e si diede vita a gruppi
multinazionali che, a partire dai brevetti che controllavano, avviarono
imprese ad alta tecnologia là dove, spontaneamente, non sarebbero sorte.
Gruppi di imprese del genere facevano parte di cartelli internazionali che
decidevano i prezzi di ogni mercato secondo una logica di tendenziale
monopolio. Il trust americano delle sigarette, per esempio, controllava
7 La prima globalizzazione fra Ottocento e Novecento
179
quasi per intero le manifatture inglesi e aveva stabilito solidi presidi produttivi anche in Germania.
L’avvento di processi e la realizzazione di prodotti ad alto contenuto tecnico, tipici della seconda rivoluzione industriale, alimentarono rivalità tra
paesi europei che esportavano in concorrenza con la Gran Bretagna; rivalità inimmaginabili fra il 1843 e il 1873, nel trentennio liberoscambista,
quando i paesi in via di industrializzazione erano ancora alle prime armi.
Dopo aver umiliato la Francia (1870), la maggior potenza politica continentale, sui campi di battaglia, dall’ultimo decennio del XIX secolo, la
Germania strappò alla Gran Bretagna il primato industriale in Europa a
cominciare dalla siderurgia dell’acciaio. Tra il 1910 e il 1913 le esportazioni tedesche sopravanzarono di poco quelle statunitensi e nettamente quelle
inglesi. Questi ultimi, addirittura, compravano semilavorati d’acciaio dai
loro concorrenti tedeschi. Costoro, adottando il metodo Gilchrist-Thomas,
dai secondi anni Settanta avevano potuto utilizzare il minerale di ferro ricco di
fosforo che abbondava nel loro sottosuolo e avevano sviluppato gigantesche
acciaierie verticalmente integrate, dai costi medi imbattibili per gli inglesi.
Tabella 7.4 Produzione di acciaio in Germania, Gran Bretagna ed Europa, 1880-1913
(migliaia di tonnellate e indici)
Gran Bretagna
Germania
Europa
1880
1890
1.760 (100)
590 (100)
3.310 (100)
3.360 (191)
2.210 (374)
7.810 (258)
1900
1910
4.900 (278) 6.260 (356)
6.240 (1.058) 13.170 (2.220)
17.250 (521) 32.850 (992)
1913
7.890 (448)
17.600 (2.983)
43.350 (1.319)
Fonte: P. Bairoch, Commerce extérieur et croissance économique de l’Europe au XIX siècle, Paris, 1976
Per la Gran Bretagna, un altro fattore di crisi provenne dalla formazione di
un mercato globale del carbone, che ne mise in difficoltà le esportazioni
perché i prezzi delle varietà inglesi erano pari a quelli dei minerali tedeschi
ed erano addirittura tripli di quelli dell’antracite scavata di là dall’Atlantico
settentrionale, nelle ricche miniere della Pennsylvania. Venivano così meno
le condizioni che avevano lungamente permesso all’economia inglese di
sopportare i costi più bassi per produrre energia e calore. Inoltre, la concentrazione delle esportazioni inglesi principalmente sui due settori del carbone e dei tessuti di cotone, impediva di applicare ai rispettivi processi produttivi innovazioni tecniche capaci di abbattere consistentemente i costi.
Nella chimica industriale, uno dei settori di recente formazione, la Germania vantava un altro netto vantaggio competitivo rispetto alla Gran Bretagna, derivante dall’esistenza in quel paese di numerose istituzioni culturali e scientifiche (scuole tecniche e università) d’alto profilo. La formazione di quadri dirigenti e il gran numero di scienziati dediti alla ricerca
7 La prima globalizzazione fra Ottocento e Novecento
181
Dagli ultimi anni Settanta dell’Ottocento, l’afflusso dei cereali americani
nei paesi d’Europa che li importavano per integrare le loro produzioni
(Gran Bretagna, Germania e Italia) fu una delle principali cause del rallentamento dello sviluppo agricolo delle regioni del vecchio continente.
Tenuto conto dell’importanza relativa del settore primario nell’Europa di
allora, nonostante le dogane protettive, la concorrenza americana causò
una caduta dei prezzi, dei redditi e del potere d’acquisto di contadini e
agricoltori tradottasi in un ripiegamento della domanda di concimi e macchine agricole, con non trascurabili effetti di freno sui ritmi generali di
crescita economica.
7.3 Alle origini del sottosviluppo: il secondo colonialismo
☞
La superiorità di strumenti tecnici (naviglio d’alto mare armato di cannoni
a lunga gittata) e concettuali (la capacità di dedurre dalle leggi scientifiche
le applicazioni pratiche e le invenzioni, l’abilità nel padroneggiare l’energia, una mirabile produzione cartografica), assieme alla superiore arte della guerra, del governo e del credito, a partire dal XV secolo permisero agli
europei di stabilizzare il loro dominio su popolazioni di altri continenti.
Fin dall’inizio, i rapporti fra Europa e altre civiltà e culture si stabilirono
su un piano di disparità. L’iniziativa aggressiva degli europei causava
remissione o antagonismo armato. Alla lunga, i bianchi prevalsero ovunque affermando la loro superiorità tecnica e concettuale mediante il diritto,
il potere e l’organizzazione.
Attorno al 1760, quando l’Inghilterra muoveva i primi passi verso l’industria, le popolazioni dei diversi domini coloniali, estesi per 24,2 milioni di kmq, ammontavano a 27 milioni di abitanti, mentre l’Europa ne contava circa 130 milioni. Nel 1830, quando la decolonizzazione di gran parTabella 7.5 Popolazione coloniale dei paesi economicamente avanzati (in milioni, 1760-1938)
Paesi
Belgio
Francia
Germania
Giappone
Italia
Paesi Bassi
Portogallo
Regno Unito
Spagna
Stati Uniti
1760
1830
1880
1913
1938
–
0,6
–
–
–
3,3
1,6
2,7
18,8
–
–
0,5
–
–
–
11,1
0,7
189
4,3
–
–
7,1
–
–
–
24,1
1,8
270,9
8,3
–
11
48
12,5
19,6
1,9
49,9
5,6
393,8
0,9
10
14,3
70,6
–
30,9
12,9
68,4
10,6
496,1
1,1
18,6
Fonte: P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo. Vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi, 2 voll., Torino, 1999,
vol. I, tab. 41, p. 715
182
L’Europa verso il mercato globale
te delle Americhe aveva ridotto a un terzo (8,2 milioni di kmq) la superficie del dominio coloniale europeo, le popolazioni colonizzate (205 milioni) superavano quelle d’Europa (180, senza la Russia). Alla vigilia della
prima guerra mondiale (1913), l’estensione del mondo coloniale misurava
53,2 milioni di kmq e le sue popolazioni rappresentavano un terzo dell’intera popolazione mondiale. La massima espansione di abitanti (724
milioni) e di superficie dominata (56,7 milioni di kmq) dagli europei si
ebbe nel 1938.
Tra il 1760 e il 1938 l’assetto coloniale subì una doppia trasformazione.
L’America, emancipatasi da inglesi (guerra d’indipendenza statunitense),
portoghesi e spagnoli (1822-23) cedette il suo primato d’area coloniale
all’Asia. Analogamente, dal 1830, il primato del controllo dei bianchi sul
resto del mondo passò dalla Spagna al Regno Unito. Se a metà Settecento
la Spagna controllava il 70 per cento della popolazione colonizzata e l’Inghilterra il 10 per cento, nel 1830, la seconda, che fra l’altro aveva spalleggiato le colonie ispanoamericane nel separarsi dalle madrepatrie, era
arrivata al 92 per cento degli uomini colonizzati mentre la Spagna era precipitata al 2 per cento. Anche il Portogallo, coprotagonista della prima
colonizzazione cinquecentesca e dominatore incontrastato dell’Asia fino alla
fine del Cinquecento, nell’Ottocento non era più una potenza marittima e
commerciale: perduto il Brasile (1822), in Asia conservava Goa e in Africa
arrivò a controllare l’Angola e il Mozambico solo dal 1880.
Tabella 7.6 Superficie coloniale per aree continentali in milioni di chilometri quadrati
(1760-1938)
Continenti
1760
1830
1880
1913
1938
Africa
America
Asia
Oceania
Totale
–
23,7
0,4
–
24,2
0,4
1,3
3,7
2,7
8,2
1,7
9,6
5,1
8
24,5
26
10,3
8,4
8,6
53,2
29,1
10,3
8,7
8,6
56,7
Fonte: P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo. Vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi, 2 voll., Torino, 1999,
vol. I, tab. 41, p. 715
Secondo stime attendibili, intorno al 1790, il «Terzo Mondo» coloniale
esportava in Europa circa 400.000 t di merci di differente valore, il 90 per
cento delle quali erano prodotti agricoli i cui due terzi erano rappresentati
da zucchero di canna seguito, nell’ordine d’importanza, da cotone greggio,
caffè, spezie, tè e, a distanza, da cacao, seta greggia, tabacco ecc.
Alla vigilia della prima guerra mondiale, le merci importate in Europa
ammontavano a 20 milioni di t, pari a 50 volte i quantitativi del 1790. Anche
le proporzioni fra i prodotti erano profondamente mutate. Il peso dello zuc-
7 La prima globalizzazione fra Ottocento e Novecento
183
chero, per esempio, nel 1910 era sceso al 45 per cento per la concorrenza
dello zucchero di barbabietola prodotto in Europa. All’inizio del XX secolo,
anche le esportazioni di indaco (un colorante naturale), di tessuti e di metalli preziosi avevano perso due terzi del loro iniziale peso relativo, mentre, per
contro, era quintuplicato quello di sostanze oleose, cereali, concimi e carne.
Se guardiamo al valore (misurato in milioni di dollari) delle merci coloniali che tra il 1830 e il 1912 dalla periferia raggiungevano il centro mentre la rivoluzione industriale si diffondeva nella vecchia Europa, negli Stati Uniti d’America e in Giappone, la dinamica dei trasferimenti tenne ritmi
sostenuti e subì una straordinaria accelerazione nei primi dodici anni del
Novecento, all’epoca della prima globalizzazione dell’economia mondiale.
Tabella 7.7 Valore delle esportazioni delle colonie in milioni di dollari USA correnti
Anni
1830
1860
1900
1912
Milioni di $ correnti
Indici
Tasso annuo di crescita %
275,3
100
–
696,7
253
5,1
1.777
645
3,9
3.887,2
1412
9,8
Fonte: P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo. Vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi, 2 voll., Torino, 1999,
vol. I, tab. 44, p. 729, elaborazioni dell’Autore
Tre processi condizionarono la diversificazione dei prodotti importati dalle
colonie:
n la progressiva industrializzazione europea, con il ridurre i costi di produzione dei manufatti, ne rese quasi impossibile l’esportazione dalle
colonie e, nel contempo, creò le premesse di un’inondazione in periferia
di prodotti industriali europei e nordamericani;
n l’innalzamento sensibile, nel lungo andare, dei tenori di vita degli europei moltiplicò gli sbocchi per l’offerta di quei prodotti tropicali fino ai
primi dell’Ottocento percepiti come beni di lusso esotici;
n l’abbattimento progressivo dei costi di trasporto sulle lunghe distanze
(velieri e poi piroscafi) dagli anni Quaranta in avanti rafforzò le due tendenze ricordate.
Nessun paese non occidentale, a parte il Giappone, riuscì ad avviare un
processo di sviluppo economico prima del 1960, quando le «quattro tigri»
asiatiche (Hong Kong, Corea, Thaiwan e Singapore) misero in moto uno
sviluppo così rapido che, nel 1980, ormai rientravano fra i paesi economicamente avanzati. Come spiegare la durevole condizione d’arretratezza
economica del Terzo Mondo (ex coloniale), a sessant’anni dall’avvio della
decolonizzazione (1947)?
Innanzitutto, la diffusione delle innovative tecniche agricole inglesi nel
sud del mondo fu ostacolata da condizioni climatiche assai diverse da
188
L’Europa verso il mercato globale
☞
caduti, ostilità verso le divisioni partitiche, disistima verso la classe politica e i sistemi parlamentari (l’imperativo era agire, non discutere per confrontare le opinioni).
Al ritorno dal fronte, i reduci trovarono una società ben più polarizzata
di quella prebellica: da una parte un ristretto gruppo di nuovi ricchi, molti
dei quali, improvvisatisi fabbricanti, commercianti, intermediari e faccendieri, avevano sfruttato la particolare congiuntura interna, mentre altri
rischiavano o perdevano la vita sui campi di battaglia. Fra l’altro, il repentino quanto appariscente arricchimento dei «profittatori» metteva in
discussione la solida fiducia nella superiorità del lavoro e nella virtù del
risparmio, minando i fondamenti di quei valori borghesi maturati e consolidatisi lungo l’Ottocento.
Al polo sociale opposto c’era la maggioranza delle vittime degli effetti
economici della guerra. Coloro che vivevano di redditi fissi, come i percettori di rendite immobiliari urbane e rurali, in pochi anni avevano visto drasticamente ridursi le loro entrate, a mano a mano che l’inflazione progrediva. Costoro, numerosissimi in Francia, Belgio e Gran Bretagna, possessori di obbligazioni di società anonime quotate in borsa e di titoli del debito pubblico, avevano sopportato pesanti tagli del potere d’acquisto dei loro
redditi e del valore stesso dei titoli, quando gli investimenti non erano
andati perduti per fallimento o bancarotta degli stati esteri emittenti. I titoli pubblici russi del periodo zarista, per esempio, furono disconosciuti
dopo che i bolscevichi si furono consolidati al potere. Il Tesoro del nuovo
governo turco, caduto l’impero ottomano, non garantì il pagamento degli
interessi sul debito pubblico preesistente.
Nemmeno il mondo rurale – nel quale operava la maggioranza delle
popolazioni europee – fu risparmiato dalle conseguenze economiche della
guerra. Nei diversi paesi, i prezzi delle derrate agricole non salirono abbastanza da equilibrare l’effetto inflativo e, in ogni caso, aumentarono molto
meno dei prezzi dei prodotti industriali. Tornata la pace, quegli uomini e
donne delle campagne che avevano lavorato nelle industrie furono espulsi
Tabella 8.1 Livelli di disoccupazione nell’industria in alcuni paesi europei prima e dopo
la guerra 1914-18
Paesi
Belgio
Danimarca
Germania
Gran Bretagna
Norvegia
Paesi Bassi
1911-1913
1922-1929
1,9
8,2
3,5
2,8
1,6
3,6
1,6
16,8
10,0
11,4
16,7
7,9
Fonte: P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo: vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi, 2 voll., Torino, 1999,
vol. II, tab. 511, p. 952
190
L’Europa verso il mercato globale
Tabella 8.2 Circolazione delle banconote di alcune banche centrali, medie annuali (e indici)
in milioni di unità della valuta di ogni paese (1913-1921)
Anni
1913
1914
1915
1916
1917
1918
1919
1920
1921
Banca d’Inghilterra Banca di Francia
(sterline)
(franchi)
28,7 (100)
35,6 (124)
33,8 (118)
35,4 (123)
40,2 (140)
54,8 (191)
76,4 (266)
114,8 (400)
127,3 (444)
5.665
7.325
12.280
15.552
19.845
27.531
34.744
38.286
37.352
(100)
(129)
(217)
(275)
(350)
(486)
(613)
(674)
(659)
Reichsbank
(marchi)
1.958 (100)
2.018 (103)
5.409 (276)
6.871 (351)
9.010 (460)
13.681 (699)
27.887 (1.424)
52.435 (2.678)
76.536 (3.909)
Banca d’Italia
(lire)
1.647
1.828
2.624
3.294
4.660
7.751
10.197
13.525
14.175
(100)
(111)
(159)
(200)
(283)
(471)
(619)
(821)
(861)
Fonte: C.P. Kindleberger, Storia della finanza nell’Europa occidentale, Roma-Bari, 1987, p. 403, elaborazioni dell’Autore
sciuta di sette volte, il disavanzo del bilancio statale di sei volte, il rapporto fra riserva d’oro e moneta cartacea (gold standard) era calato dal 57 per
cento al 10 per cento e, infine, i prezzi erano quintuplicati. In condizioni
non troppo diverse versavano anche Austria, Francia, Belgio e Italia.
Per i governi, la pace portò con sé il pesante fardello delle pensioni a
favore di orfani e vedove dei caduti e di quei reduci, grandi invalidi, che
non potevano tornare al lavoro. Stabilito il principio che le vittime della
guerra avevano diritto alla solidarietà della nazione, l’erogazione di indennizzi e sussidi pretese un’organizzazione burocratica senza precedenti. Nei
bilanci pubblici, fra le spese ordinarie, la corresponsione di pensioni ebbe
un peso rilevante e concorsero a rendere ancora più difficile il ritorno al
pareggio fra entrate e uscite.
Nel caso dei tre imperi sconfitti (Germania, Austria-Ungheria e Turchia),
gli oneri derivanti da interessi del debito pubblico e pensioni si aggiunsero
alle riparazioni o danni di guerra imposti soprattutto alla Germania (132
miliardi di marchi) dopo che Inghilterra, Francia, Belgio e Giappone si erano
spartiti le sue colonie e che, con la firma del trattato di pace di Versailles (giugno 1919), la Francia le aveva sottratto l’Alsazia, la Lorena e la regione mineraria e industriale della Saar.
8.6 Il difficile ritorno alla normalità
Finita la grande guerra, in Europa il rapporto fra stato e imprese private
mutò profondamente. Dopo che il potere pubblico aveva regolato per anni
ogni rapporto economico e sociale, il ritorno a condizioni di pace fu lento,
difficile e graduale. I governi continuarono a regolare l’economia nell’utopistico intento di ripristinare condizioni analoghe a quelle preesistenti
rispetto al 1914. Dal 1920, quando furono progressivamente abrogate le
8 Da una guerra all’altra (1914-1945)
191
norme degli anni della mobilitazione generale, con qualche differenza tra
paesi vincitori e sconfitti, i problemi comuni a tutti gli stati usciti dalla
guerra erano:
n ricostruire le infrastrutture (strade, ferrovie, ponti, porti, dighe) e il
capitale tecnico (impianti produttivi pubblici e privati) distrutti o danneggiati;
n gestire i debiti di guerra interni e internazionali e le riparazioni dei paesi sconfitti (la Germania soprattutto);
n rientrare dall’inflazione, ricostituire le riserve di oro e di valute estere
convertibili in oro in modo da ritornare alla base aurea della moneta e
da ripristinare il gold standard;
n ridurre l’eccesso di capacità produttiva in alcuni settori industriali
(metalmeccanica, chimica, automobilistica, cantieristica, aeronautica)
enormemente cresciuti durante il conflitto;
n attenuare la dilagante disoccupazione, reperire risorse per corrispondere
sussidi pubblici ai reduci di guerra invalidi, alle vedove e agli orfani;
n limitare le importazioni troppo costose, tenuto conto dell’inflazione, e
contingentare gli scambi internazionali.
Nell’immediato dopoguerra, ci si illuse di tornare in breve al dinamismo
economico dei primi tre lustri del Novecento, quando la produzione era
stata costantemente in crescita e, nonostante i molti intralci daziari, gli
scambi internazionali avevano continuato a lievitare.
Da paesi strutturalmente esportatori di beni, servizi e capitali, cioè dalla
condizione di paesi creditori che ricevevano pagamenti in oro, la guerra
Tabella 8.3 Indici del potenziale economico degli Stati Uniti e dell’Europa (Russia esclusa),
prima e dopo la grande guerra
PNL per abitante (in $ 1960)
Stati Uniti
Europa
1913
1925
1.351
655
1.617 (+19,7%)
653 (–0,4%)
Produzione d’acciaio (indice 1913 = 100)
Stati Uniti
Europa
100
100
Esportazioni totali (miliardi di $ correnti)
Stati Uniti
Europa
2,4
9,8
5 (+108,3%)
14,3 (+45,9%)
Capitali all’estero (miliardi di $ correnti)
Stati Uniti
Europa
4
44
15 (+275%)
29 (–34,1%)
143,7
102,5
Fonte: P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo: vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi, 2 voll., Torino, 1999,
vol. 2, tab. 50, elaborazioni dell’Autore
196
L’Europa verso il mercato globale
Tabella 8.4 Spese militari, in percentuale del PIL, in alcuni paesi, dal 1929 al 1938
Anni
1929-32
1933
1934
1935
1936
1937
1938
Germania
Italia
0,9
3,2
4,4
8,9
11,4
14,4
28,2
3,7
5,5
6,8
7,3
15,7
16,1
9,2
Francia Gran Bretagna
3,8
4,0
6,3
7,4
8,2
7,1
7,2
2,0
2,1
3,9
5,1
7,1
9,4
12,8
URSS
USA
Giappone
3,4
4,1
18,3
26,4
12,8
13,7
19,7
0,9
1,0
1,2
1,1
1,1
1,1
1,3
2,5
1,6
2,4
2,3
2,1
5,2
9,8
Fonte: P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo: vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi, 2 voll., Torino, 1999,
vol. II, tab. 57, p. 975
8.8 Le politiche economiche e sociali in alcuni paesi europei
In Gran Bretagna, dal 1934 il governo intervenne a sostegno dei settori
minerario, cotoniero e dei cantieri navali. In alcune regioni del paese la
disoccupazione arrivò a oscillare fra il 30 e il 60 per cento, mentre in altre
non superava il 5-8 per cento. 200.000 lavoratori disoccupati furono incentivati a trasferirsi in contee dove c’era domanda di lavoro. Dal 1937, furono offerti incentivi alle imprese che si installavano in aree economicamente depresse. Il tasso ufficiale di sconto fu mantenuto basso per incoraggiare gli investimenti.
Furono promosse costruzioni immobiliari, piani regolatori urbani e di
sviluppo di nuovi centri. Per il commercio internazionale, la clausola della
preferenza imperiale tra paesi del Commonwealth garantì gli sbocchi delle
esportazioni nazionali e i rifornimenti di materie prime coloniali.
In Francia, dopo la svalutazione della sterlina (settembre 1931), il governo mantenne il gold standard e tentò una politica di deflazione controllata.
Il ribasso dei prezzi fece aumentare i disoccupati e calare i profitti, mentre
i costi di produzione erano in lenta discesa. Gli agricoltori furono i più
colpiti dal ribasso dei prezzi e dalla perdita dei loro risparmi per fallimento di molte banche locali. Il malessere economico e sociale, nelle elezioni
del 1936, portò alla vittoria il Fronte popolare (la sinistra) che abbandonò
la parità aurea e svalutò il franco del 30 per cento, avviò opere pubbliche,
accrebbe i salari statali e privati, diminuì l’orario di lavoro da 48 a 40 ore
settimanali, prescrisse 15 giorni di ferie ai lavoratori dipendenti pagate dai
datori di lavoro e promosse la stipulazione di contratti collettivi fra sindacati e padronato. Nel 1937, per effetto delle misure governative fu raggiunto il pieno impiego della forza lavoro.
La Svezia non ricorse al protezionismo, né attivò pratiche monetarie
deflative. Il governo regolò la spesa pubblica per controbilanciare le fluttuazioni dell’economia. Nel 1932 la corona fu svalutata e abbassato il
8 Da una guerra all’altra (1914-1945)
197
tasso di sconto per offrire denaro a buon mercato. Nel 1933 quasi un
quarto dei disoccupati aveva un impiego statale sostitutivo. Nel 1935, il
governo dichiarò che lo stato era tenuto a sostenere l’economia per promuovere la ripresa. Furono varati lavori pubblici lanciando prestiti redimibili. Dopo il 1935, quando l’economia riprese lena, i lavori pubblici
furono interrotti e i prestiti rimborsati accrescendo la liquidità a disposizione del sistema. Il basso costo del denaro incentivò l’edilizia abitativa
e gli investimenti migliorativi nelle industrie. La ripresa delle esportazioni di prodotti industriali fece da traino all’economia generale. La Svezia
fu il primo paese ad applicare un’attiva quanto efficace politica economica anticiclica.
☞
☞
Tabella 8.5 Prodotto Nazionale Lordo pro capite e indici di alcuni paesi (in dollari USA 1960)
Paesi
Belgio
Francia
Germania
Gran Bret.
Svezia
Italia
Svizzera
URSS
Giappone
Stati Uniti
1913
815
670
790
1035
705
455
895
340
310
1350
(100)
(100)
(100)
(100)
(100)
(100)
(100)
(100)
(100)
(100)
1929
1020
890
870
1160
875
525
1150
350
425
1775
(125)
(133)
(110)
(112)
(124)
(115)
(128)
(103)
(137)
(131)
1938
1000
855
1260
1280
1060
560
1130
515
660
1570
(123)
(128)
(159)
(124)
(150)
(123)
(126)
(151)
(213)
(116)
Fonte: P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo: vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi, 2 voll., Torino, 1999,
vol. II, tab. 54, p. 964, elaborazioni dell’Autore
La tabella che raccoglie i risultati delle politiche economiche poste in atto
dai governi dei diversi paesi nel corso degli anni Trenta, misurati in reddito per abitante, mostra che la miscela di misure più efficaci fu escogitata e
messa in atto in Svezia. I regimi totalitari dirigisti come la Germania hitleriana e la Russia staliniana (vedi infra, § 8.9) accrebbero il reddito pro
capite a un ritmo compreso fra +4,4 e +4,6 per cento l’anno. Lo stesso
Giappone, il meno economicamente avanzato dei paesi considerati, nel
decennio 1929-38 realizzò un tasso di crescita da decollo industriale
(+5,5 per cento all’anno).
Tra i paesi europei industrializzati, pur investita dalla crisi nei primi
anni Trenta, solo la Gran Bretagna non smise di crescere (+1 per cento
annuo) nonostante le difficoltà e le contrarietà interne e internazionali.
Per gli abitanti di Belgio, Francia e Svizzera e, di là dall’Atlantico,
degli Stati Uniti, invece, gli anni Trenta furono anni delle bibliche vacche magre.
☞
8 Da una guerra all’altra (1914-1945)
201
Tabella 8.6 Ricchezza prodotta nell’URSS, prima e dopo il primo piano quinquennale,
1928-1933
Agricoltura
Industria
Costruzioni
Terziario
Totale
1927-28
1932-33
45,7
31,6
6,4
16,3
100,0
18,4
45,3
13,6
22,7
100,0
Fonte: M. Niveau, Storia dei fatti economici contemporanei, Milano, 1972, tab. 1, p. 41, elaborazioni dell’Autore
care che la programmazione coercitiva di Stalin, applicata a un paese industrialmente arretrato, era simile a «un’economia di guerra» (O. Lange) e
che la Russia andò del tutto esente dagli effetti devastanti sugli apparati
industriali occidentali della crisi del 1929.
Alla fine della seconda guerra mondiale, che all’Unione Sovietica costò
17 milioni di morti e distruzioni di infrastrutture, abitazioni civili (25
milioni di senza tetto) e patrimonio zootecnico, il paese rifiutò gli aiuti
americani del piano Marshall del 1947 e rilanciò la pianificazione economica (1946-51). Nel 1949 la produzione sovietica aveva già riguadagnato i
livelli della vigilia della guerra (1940). I primi due piani del secondo
dopoguerra (1946-51 e 1952-56) riavviarono il processo di sviluppo industriale ma, dopo la morte di Stalin (marzo 1953), riemersero le disastrose
condizioni dell’agricoltura, il settore economico sino allora più trascurato.
Il patrimonio bovino russo era inferiore di ben 9 milioni di capi rispetto
a quello del 1928. La cerealicoltura aveva rendimenti per ettaro inferiori a
quelli del 1913 e, nell’insieme, non produceva abbastanza da garantire
l’approvvigionamento alimentare di base di una popolazione che ogni
anno aumentava di oltre 3 milioni di persone. Nel 1954 il governo decise
di avviare il dissodamento di «terre vergini» per aumentare il volume dei
raccolti. L’obiettivo fu raggiunto nel 1962 con un incremento di 210 milioni di quintali di grano che avrebbero assicurato l’alimentazione di 60
milioni di persone.
Dagli anni Sessanta, mentre la rivalità nei confronti degli USA accresceva la spesa in armamenti e in ricerca scientifica e tecnologica (conquista
dello spazio), l’agricoltura cominciò a registrare preoccupanti cali produttivi di cereali, carne e latte. Il basso tenore di vita della popolazione di un
paese ormai economicamente avanzato pose la questione di riorganizzare i
principi stessi della pianificazione, attribuendo la stessa dignità alla produzione di beni di consumo rispetto a quella di beni strumentali e armamenti.
Mentre l’economia sovietica dal 1930 al 1960 aveva sperimentato una
costante espansione, dal 1960 al 1989 andò progressivamente incontro al
ristagno. Lavoro, energia e materie prime a basso costo per un trentennio
avevano creato acciaio, cemento, locomotive, autocarri, trattori e case (a
202
L’Europa verso il mercato globale
parte i massicci impieghi in armamenti). Quando, dagli anni Cinquanta,
l’economia capitalista si dedicò al soddisfacimento della crescente domanda privata di elettrodomestici, automobili, elettronica, aeronautica civile,
chimica farmaceutica e comunicazioni, l’Unione Sovietica non riuscì a
imitarla. Non era immaginabile smantellare la politica economica di piano,
né sottrarre risorse all’agricoltura, agli armamenti e allo spazio per orientarle verso la produzione di sofisticati beni di consumo, a parte la necessità
di acquisire tecnologie sconosciute. I flussi del commercio estero russo da
e verso il mondo capitalistico occidentale, tra il 1970 e il 1982, testimoniano efficacemente il progressivo deterioramento cui andò incontro l’economia sovietica esportatrice soprattutto di beni primari, gas naturale e petrolio
e importatrice di derrate alimentari, metalli e prodotti chimici.
Tabella 8.7 Flussi del commercio estero sovietico (%) per generi merceologici (1970-1982)
Import dall’Occidente
Merci
Alimentari
Carburanti
Manufatti industriali
Metalli e prodotti chimici
Macchine per trasporto
Totali
Export verso Occidente
1970
1976
1982
1970
1976
1982
8,8
6,7
21,7
21,9
40,9
100
20,1
3,2
11,5
27,4
37,8
100
24,3
6,2
4,9
37,0
26,7
100
7,2
65,9
3,7
18,3
3,9
100
2,2
77,4
7,2
8,8
4,4
100
0,9
88,3
0,3
8,7
1,8
100
Fonte: H. Van der Wee, L’economia mondiale tra crisi e benessere (1945-1980). Una sintesi della storia economica del
dopoguerra, Milano, 1989, Tab. 34, p. 333
☞
Dopo il crollo del 1989, entrata in una fase eufemisticamente chiamata di
«transizione» (verso il capitalismo), l’economia russa andò incontro al
disastro. Nel giro di pochi anni, la ricchezza annualmente prodotta (PIL)
nell’ex URSS quasi dimezzò e il reddito pro capite scese attorno alla terza
parte di quello medio dei cittadini statunitensi. L’economia fu distrutta da
manovre speculative della nomenklatura, dalle prescrizioni astrattamente
liberistiche del fondo monetario internazionale (FMI), da alcuni economisti occidentali e dai loro colleghi russi, inesperti di capitalismo, chiamati a ruoli di grande responsabilità.
L’eredità permanente dello statalismo sovietico ha distrutto la società
civile, negandola per decenni. Il radicamento della democrazia è difficile
in un mondo orfano di un’identità collettiva dove i flussi del potere e del
denaro condizionano le istituzioni economiche e sociali emergenti. La
Russia attuale, nominalmente democratica, somiglia in maniera impressionante allo zarismo primo novecentesco.
9 Ricostruzione, sviluppo e maturità (1945-1973)
211
prie economie nazionali e usava i dollari avuti in prestito per le importazioni di cereali indispensabili a sfamare le popolazioni.
In quello stesso mese di giugno del 1947, il segretario di stato americano
George Marshall presentò un imponente piano ERP (European Recovery
Program) di aiuti diretti ai paesi dell’Europa occidentale per impedire che,
mancando di riserve valutarie, ricadessero nell’autarchia e nel protezionismo e, dopo aver rilanciato le economie nazionali, smettessero di acquistare
materie prime, macchinari e manufatti industriali statunitensi, causando una
crisi economica di là dall’Atlantico. Il governo americano attribuì al piano
anche il compito di rafforzare il commercio internazionale intereuropeo,
avversato dai potenti partiti di sinistra dei maggiori paesi, proprio mentre la
guerra fredda fra blocco atlantico e blocco russo andava inasprendosi.
Tra l’aprile del 1948 e la metà del 1953, il governo americano trasferì in
Europa 15,7 miliardi di dollari, 12 dei quali a titolo gratuito. La ripartizione delle risorse avvenne in proporzione con il volume del commercio estero di ogni paese. Alla Gran Bretagna toccò la fetta maggiore (3,1 miliardi),
alla Francia 2,7, all’Italia 1,5, alla Germania 1,4, all’Olanda 1,1, alla Grecia e all’Austria 0,7 miliardi ciascuna. Il piano prevedeva anche la cooperazione tra i destinatari degli aiuti, riuniti nell’OECE (Organizzazione
europea per la cooperazione economica) che avrebbe controllato la compatibilità dei piani nazionali di utilizzo degli aiuti e incentivato gli scambi
fra partner che ristabilivano relazioni economiche.
Pur mossi da un altruismo interessato, gli USA contribuirono a riavviare
le economie europee e a promuoverne le esportazioni in modo da controbilanciare le importazioni di derrate agricole e di materie prime. Le relazioni fra paesi debitori e paesi creditori furono garantite dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) e dalla Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BIRS). Dopo l’istituzione del GATT, l’accordo generale
Tabella 9.1 Indici del Prodotto Nazionale Lordo a prezzi costanti nel secondo dopoguerra
(1938 = 100)
Belgio
Francia
Germania federale
Italia
Olanda
Gran Bretagna
Europa occidentale
Stati Uniti
Giappone
Unione Sovietica
1938
1948
1950
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
115
100
45
92
114
106
87
165
63
105
124
121
64
104
127
114
102
179
72
128
Fonte: H. Van der Wee, L’economia mondiale tra crisi e benessere (1945-1980). Una sintesi della storia economica del
dopoguerra, Milano, 1989, p. 25
9 Ricostruzione, sviluppo e maturità (1945-1973)
213
n diminuzione/aumento della pressione fiscale per sostenere il risparmio
(destinato a diventare investimento) e la domanda (incoraggiando, per
esempio, il settore edilizio, il più ricco di collegamenti con gli altri settori produttivi).
Le linee generali di politica economica perseguite dai diversi governi sono
riconducibili ai seguenti principi:
n concentrare gli investimenti nelle industrie di base, così da ottenere
incrementi di produttività, di volumi prodotti e di esportazioni;
n accordare priorità agli investimenti rispetto ai consumi;
n stimolare il risparmio, rendere il credito per investimenti facile e a buon
mercato;
n investire risorse pubbliche. In molti paesi dal 30 al 50 per cento degli
investimenti complessivi furono realizzati dalla mano pubblica nelle
industrie nazionalizzate, come in Gran Bretagna e in Francia;
n controllare l’inflazione attraverso la leva fiscale sulla domanda, tassando i profitti non reinvestiti e contenendo i salari (specialmente in Danimarca, Olanda, Norvegia, Svezia e Gran Bretagna);
n promuovere le esportazioni e contenere le importazioni perché, fino al
1951, i paesi europei mancavano di riserve di dollari e di oro per aumentare il commercio internazionale.
Nonostante i gravi danni, i tempi della ricostruzione – in genere tre, quattro
anni nei diversi paesi – si rivelarono nettamente più brevi di quelli pretesi
dal primo dopoguerra. Nell’insieme, in quasi tutti i settori economici, fra
1948 e 1949 erano già stati riguadagnati gli standard produttivi del 1938 e,
grazie anche alla diminuzione della popolazione, nel biennio 1950-51 ci si
riportò addirittura di sopra rispetto a quelli del 1929.
Tabella 9.2 Livelli delle produzioni industriali e agricole in Europa occidentale, 1947-51
(indice 1938 = 100)
Produzioni industriali
Paesi
Austria
Belgio
Danimarca
Francia
Italia
Olanda
Norvegia
Spagna
Svezia
Gran Bretagna
Produzioni agricole
1947
1949
1951
1947
1949
1951
56
106
123
92
86
95
115
127
141
115
123
122
142
118
101
126
140
130
157
137
166
143
162
134
138
145
158
147
171
155
70
84
97
82
85
87
98
88
104
117
74
93
97
95
97
104
101
80
109
122
98
111
126
108
109
123
118
86
113
130
Fonte: A. Maddison, Monitoring the World Economy (1820-1992), Paris, 1995
218
L’Europa verso il mercato globale
la pressante domanda di derrate agricole, per il periodo 1946-55, gli alti
prezzi interni dei beni alimentari agirono da freno al trasferimento massiccio e repentino di manodopera dal primario all’industria e ai servizi, consentendo altresì l’accumulo di potere d’acquisto e di risparmio presso larga parte della popolazione rurale.
Per di più, con facilitazioni e incentivi, i governi avviarono o riavviarono il processo di meccanizzazione dell’agricoltura e di aggiornamento
agronomico delle tecniche produttive. Sotto l’impatto di investimenti di
capitale di dimensioni fino allora sconosciute, in Europa continentale e in
Giappone furono realizzati stupefacenti progressi nel settore primario. Dai
primi anni Cinquanta al 1980, nel vecchio continente, la produttività agricola crebbe al ritmo medio del 5,6 per cento l’anno; un livello largamente
superiore a quello, per esempio, tenuto nel medesimo periodo dall’industria manifatturiera (3,4 per cento).
Dal 1950 al 1972, in Europa e in Giappone, le quote di ricchezza annualmente accantonata per essere reinvestita, piuttosto che consumata, raggiunsero limiti prima sconosciuti, oscillando tra il 26 per cento e, addirittura, il
35,1 per cento del paese del Sol levante. I massicci investimenti in capitale produssero sensibili aumenti della produttività perché si trattava soprattutto di «ingegneria del miglioramento»; cioè di applicazioni ai processi
produttivi esistenti degli accorgimenti e delle attrezzature usate negli Stati
Uniti dagli anni Trenta e Quaranta.
Gli investimenti ebbero effetti stimolanti sulla produttività del lavoro e
sulla crescita economica complessiva di tutti i paesi, come mostrano gli
indici del PIL pro capite. In particolare, i tre paesi usciti sconfitti dalla
guerra realizzarono i maggiori progressi in virtù di una miscela di fattori
economici (massicci investimenti in tecnologia, bassi salari, liberalizzazione degli scambi internazionali), sociali (da società tendenzialmente
gerarchizzate e statiche a società aperte e meritocratiche, dove era
ammessa la promozione sociale) e culturali (l’innesto su valori tradizionali di idee progressiste).
Tabella 9.3 Andamento degli indici del PIL pro capite dei maggiori paesi europei, degli Stati Uniti
e del Giappone (1946-71)
Francia
Germania
Italia
Gran Bretagna
Stati Uniti
Giappone
1946
1951
1956
1961
1966
1971
100
100
100
100
100
100
144
186
149
109
112
149
170
273
194
121
119
206
204
349
255
136
123
310
253
411
317
152
152
455
314
486
392
168
165
700
Fonte: A. Maddison, Monitoring the World Economy (1820-1992), Paris, 1995
9 Ricostruzione, sviluppo e maturità (1945-1973)
221
Tabella 9.4 Aspetti quantitativi del «miracolo» economico italiano (1951-63)
PIL, incremento annuo %
Incremento annuo della produzione industriale %
Esportazioni sul PIL
Importazioni sul PIL
Addetti all’agricoltura %
1951-58
1958-63
5,3
6,8
9,2
8,5
42,2
6,6
10,2
11,3
10,8
29,1
Fonte: F. Amatori e A. Colli, Impresa e industria in Italia dall’Unità a oggi, Venezia, 1999, p. 252
controllo incrociato della Banca d’Italia e delle tre banche controllate dall’IRI e dal ministro del Tesoro (Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano e Banco di Roma), fornì
credito a lungo termine alle imprese industriali controllate dalla mano pubblica (IRI).
L’impegno governativo tendeva a correggere i meccanismi di mercato che penalizzavano le economie regionali più arretrate, le tendenze oligopolistiche di alcuni rami produttivi e le carenze di investimenti in settori strategici, nei quali tuttavia il ritorno, molto
differito nel tempo, scoraggiava l’impegno dei privati.
Un’industria di stato di grandi dimensioni (350.000 addetti nel 1962) affidata alla
direzione di manager che svolgevano un ruolo politicamente ed economicamente strategico contraddistinse in Europa la via italiana allo sviluppo. Nel 1957, dopo l’istituzione del Ministero delle Partecipazioni statali (1956), con il compito di coordinare l’azione delle maggiori imprese pubbliche, fu approvata una legge che le vincolava a destinare al Mezzogiorno il 60 per cento dei loro nuovi investimenti. Lo stato, insomma, si
faceva attivo promotore di un riequilibrio economico e del superamento del DUALISMO
nord-sud.
Dal 1962, dopo la nazionalizzazione delle imprese produttrici e distributrici dell’elettricità (ENEL) e l’avvio della programmazione economica, gli industriali italiani si schierarono contro i programmi governativi e cominciarono a trasferire clandestinamente
capitali finanziari all’estero (oltre 7,2 miliardi di dollari dal 1963 al 1969). Rispetto alla
condizione analoga nella quale si era venuta a trovare nel 1905, ai tempi della nazionalizzazione delle ferrovie, l’imprenditoria privata perse la storica occasione di investire in
settori innovativi come, per esempio, la chimica.
Nel 1963 lo sviluppo italiano subì un’improvvisa battuta d’arresto. I sindacati degli
operai dell’industria rivendicarono miglioramenti salariali, i prezzi ebbero un’impennata
e i nostri prodotti persero competitività sui mercati esteri. Dopo una breve crisi congiunturale che frenò gli investimenti, fece aumentare il costo del denaro e indebolì la
lira, lo sviluppo riprese lena interessando anche la cosiddetta terza Italia (Emilia-Romagna, Triveneto, Marche e Toscana). Contro ogni aspettativa, laddove gli esperti si attendevano il trionfo della grande impresa, protagoniste di questa seconda fase furono
piuttosto le piccole aziende familiari attive nei «distretti industriali» della monocoltura
(le valli bresciane per la posateria e il tondino da calcestruzzo, l’alto Mantovano per le
calze, il Friuli per gli infissi e le seggiole, Carpi per la maglieria, Sassuolo per la ceramica, Prato per i tessuti di lana povera, la Romagna e le Marche per le calzature ecc.).
3. Il consolidamento dello sviluppo
Seguìun decennio di crescita di poco inferiore a quella maturata fra 1952 e 1963. Nel
1969, l’anno del celebre autunno caldo, i sindacati operai sollevarono la questione di
☞
222
L’Europa verso il mercato globale
un adeguamento dei servizi sociali in un paese ormai relativamente evoluto, ancora
contraddistinto da relazioni tipiche dei paesi preindustriali. Le pensioni furono aumentate nel 1969, nel 1970 fu approvato lo statuto dei lavoratori, tra 1968 e 1972 migliorarono i trattamenti della disoccupazione e della maternità. Nel 1972 fu riformata la
politica pubblica della casa e iniziò la progettazione di quel servizio sanitario nazionale
che sarebbe poi entrato in vigore solo nel 1978.
Alla metà degli anni Settanta, il sistema delle imprese a partecipazione statale
dava lavoro a 700.000 persone e produceva gran parte della ricchezza realizzata
dall’industria italiana. Dopo l’istituzione del Ministero delle Partecipazioni statali,
però, il sistema di relazioni fra centro delle decisioni strategiche, le holding di settore, e le singole aziende andò complicandosi per l’invadenza dei politici che
affiancarono i manager. La distribuzione di favori e di risorse pubbliche prese il
sopravvento sulla missione imprenditoriale di crescita dimensionale e di realizzazione di profitti. L’IRI divenne un pachiderma ipertrofico e clientelare che realizzava
perdite colossali ripianate dal Parlamento con erogazioni tratte da un apposito fondo di dotazione.
L’agricoltura fu il settore più penalizzato in materia di politica economica governativa. Dopo i Piani verdi del 1961 e del 1966, si ebbero solo provvedimenti a pioggia,
mutui agevolati per l’acquisto di macchine e l’intervento CEE a favore della produzione
di derrate giudicate strategiche. Il sostegno accordato ai prezzi dei prodotti agricoli
penalizzò i consumatori senza promuovere trasformazioni strutturali apprezzabili nella
nostra agricoltura che, vantando la superficie media per podere più bassa d’Europa (7
ha), non poté avvalersi delle economie di scala.
La crisi petrolifera del 1973, dopo lo sganciamento dall’oro delle monete, deciso
dagli USA nell’agosto di due anni prima (1971), chiuse il secondo ciclo di sviluppo economico del nostro paese. Frattanto, la rapida evoluzione delle tecnologie, dei rapporti
economici e sociali, assieme alla tenuta di mentalità tradizionali nonostante l’accelerazione del mutamento, furono all’origine di movimenti eversivi – i cosiddetti anni di
piombo – sia dell’assetto politico, sia di quello economico.
Il grande progresso economico avvenuto in Italia nel ventennio 1950-70, cosìvistoso
da essere definito «miracolo», avvenne contemporaneamente a un processo d’armonizzazione dei PIL e dei consumi di beni durevoli nei paesi dell’Europa occidentale, vincitori e vinti della seconda guerra mondiale.
Tabella 9.5 PIL per abitante ($ 1960) e beni durevoli di consumo
(auto e televisori per mille abitanti)
Paesi
PIL 1950
Belgio
1.240
Francia
1.060
Germania
990
Italia
600
Gran Bretagna 1.400
Europa occ.
930
PIL 1970 Auto 1950 Auto 1970
2.380
2.500
2.700
1.670
2.220
2.090
32
36
13
7
46
20
213
254
223
190
210
182
TV 1960
TV 1970
69
95
21
45
214
65
207
216
276
181
294
210
Fonte: P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo: vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi,
2 voll., Torino, 1999, vol. II, p. 1007
9 Ricostruzione, sviluppo e maturità (1945-1973)
225
v’è dubbio che il regresso abbia più pesantemente riguardato i settori tradizionali a basso contenuto tecnologico, come il tessile, l’abbigliamento e
la siderurgia. In ogni caso, nessun settore produttivo fa eccezione alla tendenza generale.
All’origine delle rilocalizzazioni industriali agiscono tre fattori:
n differenti livelli salariali, collegati a ben diversi livelli di vita (profilatisi
nei paesi dell’Est europeo, dopo il crollo del socialismo reale);
n disponibilità o meno di manodopera addestrata;
n abbattimento delle dogane su prodotti industriali esteri, con dimezzamento
delle tariffe tra i primi anni Cinquanta e i primi anni Settanta.
9.6 Conflitti e integrazioni di fine secolo
Gli shock petroliferi degli anni Settanta spinsero i paesi sviluppati occidentali a incrementare le loro esportazioni nel tentativo di controbilanciare
almeno in parte, con entrate valutarie, il maggior esborso a favore dei produttori/venditori di petrolio greggio.
Intorno al 1970, le esportazioni dei paesi sviluppati occidentali si aggiravano attorno al 10 per cento della ricchezza prodotta ogni anno nel mondo. A
partire dal 1973, la percentuale superò il 12 per cento e oscillò tra il 13 e il
16 per cento, fino a stabilizzarsi attorno al 15 per cento nei primi anni Novanta.
Tabella 9.6 Quote percentuali del volume mondiale d’esportazioni (1970-2004)
USA
CEE-UE
Giappone
Totali
1970
1990
2004
4
17
8,6
29,6
7,5
21
9,4
37,9
9
30
6,2
45,2
Fonti: ICE-ISTAT, L’Italia nell’economia internazionale, rapporti diversi
Nonostante il processo di integrazione europea sia felicemente proseguito dal
1970, gli Stati Uniti sono il paese che più di ogni altro ha ampliato la propria
quota di esportazioni, più che raddoppiando la sua percentuale dal 1970 al
2004. Nell’insieme, i paesi dell’Unione Europea sono cresciuti dal 17 al 30
per cento, ma non va trascurato che dai sei iniziali sono diventati 25 e che l’unione doganale ha stimolato anzitutto gli scambi interni. Una dinamica del
genere spiega, fra l’altro, perché il concetto di mondializzazione o globalizzazione abbia molto più credito di là dall’Atlantico che nel vecchio continente.
Il terzo protagonista dell’economia mondiale, il Giappone, attestatosi
attorno al 8,6 per cento di tutte le esportazioni nel 1970, all’inizio degli
9 Ricostruzione, sviluppo e maturità (1945-1973)
227
immagini, acquisto e vendita con contrattazioni virtuali) hanno irrobustito
la tendenza alla delocalizzazione delle strutture produttive.
Protagoniste di investimenti esteri volti alla delocalizzazione sono
soprattutto le imprese multinazionali. Tra il 1975 e il 1992, operai e
impiegati addetti a queste ultime nel mondo crebbero da 40 a 73 milioni
di persone. Le multinazionali coprono i due terzi del commercio mondiale, che per la metà consiste in semplici trasferimenti da una filiale all’altra del medesimo gruppo. Se, nell’insieme, si può parlare di mondializzazione dell’economia, posto che nella storia passata e recente mai si è dato
un volume di scambi internazionali di merci e di servizi paragonabile a
quello dei giorni nostri, non v’è tuttavia alcun dubbio che si tratti di un
processo che riguarda prevalentemente le imprese dei paesi ricchi, nei
quali – è bene ricordarlo – vive e opera solo il 22 per cento della popolazione del globo.
Conviene, per finire, gettare uno sguardo agli indici dell’andamento della ricchezza prodotta dal 1971 al 2005 nei sei paesi più ricchi. Nell’arco di
35 anni durante i quali c’è stata prima la crisi petrolifera dal 1973 ai primi
anni Ottanta, la stagnazione giapponese dal 1992-93 al 2004 e, poi, la crisi di fine secolo di tre delle quattro tigri, la ricchezza prodotta ha smesso
di crescere tra il 1991 e il 1996 dappertutto tranne che in Gran Bretagna.
La rivoluzione tecnologica delle comunicazioni sembra favorire i paesi in
via di sviluppo molto più di quelli solidamente sviluppatisi con l’economia mista dopo la seconda guerra mondiale. L’unica eccezione dell’Occidente sembra essere il primo paese industriale del mondo, che per primo
imboccò la via della deindustrializzazione. Analogamente, gli Stati Uniti,
che erano giunti alla maturità economica prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, crebbero più lentamente e meno bruscamente calarono sul finire del secondo millennio. Sembra che, come per l’Inghilterra
dell’ultimo Ottocento, la maturità renda meno reattive le economie e troppo alti i costi d’impianto di infrastrutture e di tecnologie avanzate, senza
parlare del personale tecnico e scientifico necessario per convertire e mantenere le strutture innovative.
Tabella 9.7 Indici del Prodotto Interno Lordo delle sei maggiori economie nazionali
Francia
Germania
Italia
Gran Bretagna
USA
Giappone
1971
1976
1981
1986
1991
1996
2001
2005
100
100
100
100
100
100
114
113
117
111
111
116
126
126
137
116
122
139
134
138
148
135
135
160
148
159
168
146
141
198
153
160
173
159
160
211
155
149
168
165
158
190
147
146
155
169
162
193
Fonte: Elaborazioni dell’Autore su dati di A. Maddison, Monitoring the World Economy (1820-1992), Paris, 1995 e di Eurostat
10 L’Unione Europea tra passato e futuro
229
riserva l’oro e i dollari dispensati dal piano di aiuti. In tal mondo, era assicurata la piena convertibilità delle valute e facilitata la ripresa di scambi
multilaterali. Nello stesso anno, la Francia, povera di carbone, propose di
mettere in comune la grande riserva di minerale tedesco a prezzi concordati così da disporre della materia prima energetica basilare per la produzione di acciaio e da controllare quei settori (siderurgico e meccanico) che,
a far tempo dalla seconda rivoluzione industriale, in Germania erano stati
protagonisti delle politiche di potenza e d’armamento.
I sei paesi fondatori della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio
(CECA, operativa dal luglio 1952, alla quale aderirono la Repubblica
federale tedesca, la Francia, l’Italia, il Lussemburgo, il Belgio e l’Olanda),
vale a dire le materie prime all’epoca indispensabili per avviare e consolidare un processo di crescita industriale, si unirono per eliminare i dazi
doganali e per decidere i prezzi e le quote di produzione secondo lo stile di
un cartello internazionale.
La Germania era il massimo produttore europeo di carbone, la Francia
era seconda solo all’URSS in quella del ferro e dipendeva dal carbone
tedesco per la sua siderurgia. L’accordo permise alla Germania di supera-
Figura 10.1 I sei paesi fondatori della CECA (Benelux, Francia, Germania Federale e Italia)
Olanda
Belgio Germania Fed.
Lussemburgo
Francia
Italia
230
L’Europa verso il mercato globale
Tabella 10.1 Produzione di carbone, coke, minerale di ferro e acciaio grezzo, 1952
(in milioni di t, Saar tedesca sotto controllo degli occupanti francesi)
Paesi
Germania
Francia
Saar
Belgio
Lussemburgo
Olanda
Italia
Totale
Carbone
Coke
Minerale di ferro
Acciaio grezzo
123,3
55,4
16,2
30,4
0
12,5
1,1
238,9
37,2
9,2
3,9
6,4
0
3,3
2,4
62,4
15,4
41,2
0
0,1
7,2
0
1,3
65,2
15,8
10,9
2,8
5,2
3,0
0,7
3,5
41,9
Fonte: F. Fauri, L’Italia e l’integrazione economica europea, Bologna, 2001, tab. 3.1, p. 94
☞
re i controlli delle potenze occidentali occupanti (USA, Francia e Gran
Bretagna) sulla sua industria pesante e di avviare, pur in ritardo rispetto
agli altri stati, una sua solida ricostruzione economica e politica. Tutta
l’industria carbosiderurgica europea era in tal modo sottoposta a controllo e, al contempo, fruiva di vantaggi economici e tecnologici. Nel 1972,
quando il mercato europeo dell’acciaio diede i primi segnali di ristagno e
declino, il volume prodotto entro i confini della CECA era quintuplicato
rispetto ai valori del 1948.
Nel 1955, sulla base di un memorandum presentato dal Benelux (Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo, dal 1950, avevano creato una unione
doganale che dal 1956 aveva eliminato ogni dazio fra i tre paesi), i sei
paesi della CECA decisero di studiare la possibilità di approdare a un’unione economica più completa. Al termine di lunghe trattative, il 25 marzo 1957, i sei fondatori della CECA stipularono a Roma il trattato
EURATOM, per coordinare il nascente settore strategico dell’energia
nucleare e, soprattutto, fondarono la Comunità Economica Europea
(CEE, detta anche Mercato Comune, ideata dal francese Jean Monnet,
responsabile della programmazione economica del governo di Parigi) che
avrebbe gradualmente abolito i dazi fra i sei paesi e che, entro 12/15 anni,
avrebbe creato un’area nella quale i prodotti industriali e agricoli, i servizi, le persone e i capitali si sarebbero mossi liberamente, difesi da una
comune tariffa esterna.
Parallelamente a provvedimenti volti a eliminare restrizioni e ostacoli al
libero commercio, e soprattutto su istanza italiana, si previdero interventi
miranti a superare i forti squilibri territoriali, settoriali e sociali fra le
regioni dei sei paesi. Le istituzioni ideate per procedere verso l’integrazione furono la Banca Europea degli Investimenti (BEI), che avrebbe fatto
credito alle aree meno sviluppate e alle imprese da ammodernare, e il Fondo sociale che avrebbe contribuito alle spese per la formazione e riqualifi-
10 L’Unione Europea tra passato e futuro
231
cazione professionale sopportate da ogni stato membro. Per sostenere i
redditi del settore primario, garantendo prezzi remunerativi, e per migliorare la produttività delle imprese agricole fu creato un Fondo Europeo di
Orientamento e Garanzia Agricola (FEOGA).
Tra 1957 e 1968, il processo di integrazione della CEE procedette soprattutto eliminando gli ostacoli al libero commercio. Nel 1968, con un anno e
mezzo d’anticipo rispetto al termine inizialmente previsto, la riduzione dei
dazi doganali era stata realizzata e funzionava un mercato comune dei prodotti industriali e di quelli agricoli di quasi 200 milioni di consumatori. La
tariffa doganale comune decisa verso l’esterno, già in partenza liberoscambista, a più riprese subì riduzioni.
Tabella 10.2 Commercio interno alla CEE e quote % delle esportazioni totali di gruppi di paesi
e di paesi (1953-72)
Commercio interno
Quota di esportazione sul totale
Anni
CEE
CEE
USA e Canada
Giappone
1953
1957
1960
1965
1970
1972
31,3
33,9
34,5
43,4
48,9
49,5
27,3
30,7
34,7
37,2
39,3
41,4
37,6
34,6
30,5
7,7
26,4
23,5
2,4
3,8
4,7
6,6
8,6
9,6
Fonte: P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo, vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi, Torino, 1999, p. 1053
Dal 1953 al 1972, l’integrazione commerciale dei sei paesi fondatori della
Comunità (il commercio interno all’area) crebbe del 58 per cento mentre
la quota CEE di esportazioni nel mondo dei paesi a economia di mercato
aumentò del 50 per cento. Contemporaneamente diminuiva di oltre un terzo (–37,5 per cento) il peso delle esportazioni nordamericane e quadruplicava quello del Giappone, che stava realizzando una grande crescita. La
politica statunitense di stabilità monetaria e di liberalizzazione degli scambi inaugurata negli anni Quaranta coadiuvò la crescita del Mercato Comune Europeo, tanto da convincere paesi prima scettici a chiedere e ottenere
di entrarne a far parte.
Negli anni Sessanta, l’accelerazione subita dal processo di integrazione
economica verso uno stato federale suscitò reazioni di netta resistenza al
trasferimento di quote di sovranità a Bruxelles (sede della Commissione).
Le reazioni più energiche vennero dal presidente della repubblica francese
Charles de Gaulle, che nel 1963 e nel 1967 pose anche il veto all’ingresso
della Gran Bretagna, a suo avviso troppo vicina per ideali e interessi globali agli USA. Scomparso de Gaulle (1970), nel 1973 la Gran Bretagna,
234
L’Europa verso il mercato globale
2. I Fondi strutturali sono oggi la seconda posta di uscite per importanza
(32,1 per cento) e, accanto alla PAC, svolgono il ruolo di redistribuzione di risorse a vantaggio delle regioni economicamente più arretrate.
3. La spesa per Politiche interne intende accrescere le risorse per la ricerca e lo sviluppo tecnologico e per realizzare reti transeuropee nel campo dei trasporti, dell’energia, delle telecomunicazioni e di salvaguardia
dell’ambiente, così da moltiplicare e sfruttare economie di sistema.
4. Le Spese per ricerca sono volte a migliorare le capacità scientifiche e tecnologiche dell’industria comunitaria e promuoverne la competitività. Ne
sono favoriti i paesi più ricchi e le regioni tecnologicamente più avanzate.
5. Spese per Azioni esterne (e aiuti d’emergenza).
6. Riserva monetaria e riserve per garanzia. La prima fu introdotta con il
vertice di Edimburgo (1992) per fronteggiare spese impreviste di bilancio. Le seconde per assicurarsi contro il rischio di inadempienza di prestiti garantiti dall’UE.
7. Gli Aiuti preadesione sono spese a favore di quei paesi in attesa di
entrare a far parte della UE.
Tabella 10.3 Stanziamenti di bilancio CEE e UE, in % di milioni di euro (1970-2006)
1. PAC (FEOGA)
2. Azioni strutturali
3. Politiche interne
4. Azioni esterne
5. Spese amministrative
6. Riserve
7. Aiuto preadesione
Totale
1970
1990
2006
96,0
1,2
0,0
0,7
2,1
63,3
18,6
3,8
9,3
5,0
46,0
32,1
7,3
5,1
5,5
0,4
3,6
92.406 (100)
5.448 (100)
46.677 (100)
Fonte: F. Fauri, L’Italia e l’integrazione economica europea, Bologna, 2001, tab. 8.7, p. 238, elaborazioni dell’Autore
10.3 Le tappe dell’ampliamento (1973-2004)
Negli anni Ottanta entrarono a far parte della comunità i tre paesi mediterranei relativamente più arretrati: la Grecia (1981) e Spagna e Portogallo
(1986), portando il numero dei membri a 12. Tra i nuovi arrivati, il Portogallo era il più povero giacché il suo reddito pro capite era solo il 44 per
cento di quello dei due paesi all’epoca più ricchi: Francia e Germania.
Agli inizi degli anni Novanta, caduto il muro di Berlino e implosa l’Unione Sovietica, i dodici paesi, con i loro 327 milioni d’abitanti rappresentavano i nove decimi della popolazione dell’Europa occidentale e il 40 per
cento di quella dei paesi sviluppati, vale a dire l’insieme di produttori e di
consumatori più evoluto e numeroso del mondo.
10 L’Unione Europea tra passato e futuro
237
Tabella 10.4 PIL pro capite 2004 misurato in $ USA (media ponderata dell’Unione $ 23.906)
Lussemburgo
Irlanda
Danimarca
Austria
Belgio
61.816
35.879
32.136
30.781
28.662
Paesi Bassi
Svezia
Germania
Finlandia
Regno Unito
28.590
28.335
28.104
27.956
27.777
Italia
Francia
Spagna
Slovenia
Malta
27.480
27.047
22.835
20.450
20.119
Grecia
Cipro
Portogallo
Rep. Ceca
Ungheria
19.563
19.224
18.428
16.265
15.342
Slovakia
Estonia
Lituania
Polonia
Lettonia
14.060
13.107
11.871
11.428
10.387
Fonte: Eurostat
I costi dell’allargamento stanno imponendo una riorganizzazione degli
aiuti regionali e dei fondi strutturali causando una diminuzione dei finanziamenti tradizionalmente destinati alle regioni povere dei quindici paesi,
assieme a un aumento dei contributi richiesti a ogni paese. La Commissione Prodi, per il periodo 2000-2006, ha approvato un incremento di fondi
del 33 per cento rispetto al periodo 1994-99 e ha riorganizzato la suddivisione fra regioni sottosviluppate abbassando i livelli del PIL pro capite a
partire dai quali scattano gli aiuti.
Poiché nelle moderne economie industriali la maggior parte della manodopera non è impegnata in produzioni di massa a bassa specializzazione,
ma piuttosto in occupazioni nelle quali servono abilità tecniche e competenze in continua evoluzione, il vero problema di fondo dell’economia
europea consiste nell’alta percentuale di popolazione adulta che dispone
della sola istruzione di base (36 per cento nel complesso dell’Unione). Dalla metà degli anni Ottanta, si è profilato un mutamento occupazionale della
forza lavoro a vantaggio di persone contraddistinte da alte qualifiche scolastiche e tecnologiche e da capacità professionali basate sulla conoscenza in
costante evoluzione. Investimenti in ricerca e sviluppo producono brevetti
internazionali e crescita economica per gran parte derivante dall’aumento
della produttività del lavoro, posto che le nuove tecnologie creano posizioni lavorative altamente qualificate in imprese di medie dimensioni.
È probabile che, date le circostanze, l’Unione dei 25, allargata a Romania, Bulgaria e Turchia, tenderà a chiudersi verso l’esterno, intralciando
le importazioni di prodotti agricoli concorrenziali, di manufatti di basso
valore unitario e di largo consumo provenienti dall’Asia orientale e da
altre economie in rapida industrializzazione nonché dei prodotti d’alta
tecnologia statunitensi, giapponesi, cinesi e delle quattro tigri. Un’economia aperta alla dinamica globalizzante metterebbe inoltre in discussione i
programmi di protezione sociale degli stati continentali dell’Unione; programmi che, dalla fine della seconda guerra mondiale, hanno garantito un
clima di pace sociale. L’innalzamento della durata della vita rende ancora
più oneroso il finanziamento pubblico di tali programmi, sicché non è
azzardato prevedere che inderogabili riforme riduttive dello stato sociale
(Welfare), se miglioreranno i bilanci pubblici, innescheranno anche reazioni protezioniste.
☞
238
L’Europa verso il mercato globale
Tabella 10.5 Cronologia essenziale dell’integrazione europea
1951
1955
1957
1962
1963
1965
1966
1967
1968
1969
1970
1973
1975
1979
1981
1985
1986
1987
1989
1990
1991
A Parigi è istituita la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), entrata in
vigore nel 1952.
Conferenza a Messina, i sei stati della Ceca tracciano le tappe di creazione del Mercato Europeo Comune e dell’energia atomica.
A Roma, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Francia, Germania e Italia fondano la Comunità
Economica Europea (CEE, detta anche Mercato Comune), entrata in vigore nel gennaio
1958.
La Commissione europea stabilisce l’obiettivo dell’unità monetaria.
Dopo un anno e mezzo di trattative, la Francia del generale de Gaulle pone ufficialmente il veto all’adesione della Gran Bretagna alla CEE. Il presidente de Gaulle e il
cancelliere tedesco K. Adenauer formano il trattato dell’Eliseo, che prevede una stretta collaborazione fra i due paesi su tutte le principali questioni politiche, economiche
e culturali.
Trattato sulla fusione degli esecutivi che istituisce un Consiglio e una Commissione
unici per le tre Comunità europee. I rappresentanti del governo francese si ritirano
dalla Comunità, inizia la cosiddetta crisi della sedia vuota.
Il compromesso del Lussemburgo risolve la crisi e stabilisce la prevalenza degli «interessi nazionali vitali» sui poteri della CEE e inaugura la terza fase del periodo transitorio previsto dal trattato di Roma.
L’integrazione delle istituzioni europee apre la strada alla formazione della Comunità
Europea (CE), che sostituisce la CEE.
Il periodo transitorio di 12 anni previsto dal trattato della CEE si chiude con 18 mesi
d’anticipo. L’abolizione delle ultime barriere doganali fra gli stati e l’adozione di una
tariffa esterna comune fa nascere il Mercato Europeo Comune (MEC).
Un vertice all’Aia si chiude con la richiesta dell’unità monetaria ed economica, istituzioni più forti e una maggiore cooperazione politica.
Il piano Werner propone l’unità monetaria europea. A l’Aia una conferenza dei capi di
stato dei sei paesi membri lancia lo slogan «allargamento, completamento, approfondimento».
Danimarca, Irlanda e Gran Bretagna entrano nella Comunità. I membri diventano
nove.
Il Consiglio europeo indice per il giugno 1979 la prima elezione a suffragio universale
dei parlamentari europei.
Elezioni dei membri del Parlamento di Strasburgo. Inizia il Sistema Monetario Europeo
(SME), che fissa parità fra i cambi delle diverse monete comunitarie e ne limita le
oscillazioni. Si basò su una moneta ideale (ECU) costituita da un paniere di monete
della comunità rispetto al quale ogni valuta ebbe definita la propria parità.
La Grecia entra nella Comunità. Dieci membri.
La Commissione pubblica (giugno) il «libro bianco» per il completamento del mercato
interno o unico. Le proposte della Commissione sono inserite nell’Atto unico europeo,
ratificato nel 1987, che modifica e completa i trattati di Roma.
Portogallo e Spagna entrano a far parte della Comunità. Dodici membri.
L’Atto Unico Europeo (revisione e ripresa del trattato di Roma) entra in vigore.
Pubblicazione del piano Delors (presidente della Commissione) per la creazione di
un’Unione Economica e Monetaria Europea, comprendente la moneta unica e la banca centrale.
Il vertice di Madrid stabilisce che il 1° luglio 1990 inizi il primo stadio dell’Unione
Monetaria.
Riunificazione tedesca, la CEE si allarga all’ex Repubblica Democratica Tedesca.
Il vertice di Maastricht approva il trattato dell’Unione Europea, stabilisce di creare una
moneta unica (l’euro) e fissa il calendario per giungere all’Unione Monetaria.
10 L’Unione Europea tra passato e futuro
Tabella 10.5 segue
1992
1993
1994
1995
1996
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
Con un referendum i danesi bocciano il trattato di Maastricht. I francesi lo approvano
di misura mentre la Gran Bretagna e l’Italia escono dallo SME. La Svizzera chiede l’adesione poi bocciata da un referendum. Lo stesso accade per la Norvegia.
Entra in vigore il trattato di Maastricht, nasce l’Unione Europea. A fianco della Comunità
Europea nascono la PESC (Politica Estera e di Sicurezza Comune) e la CGAI (Cooperazione nei settori della Giustizia e degli Affari interni) che, assieme alla CE, formano i tre
pilastri dell’Unione Europea. I danesi approvano il trattato con un secondo referendum. La Gran Bretagna decide di non far parte dell’unione monetaria. Il trattato di
Maastricht entra in vigore e nasce l’Unione Europea (UE).
Austria, Finlandia e Svezia confermano con referendum l’adesione all’UE, la Norvegia
la nega.
Austria, Finlandia e Svezia entrano nella UE, aumentando i membri a quindici.
Il vertice di Dublino definisce il patto di stabilità.
Il 31 dicembre sono definiti i tassi di conversione dell’euro con le monete nazionali dei
paesi che hanno rispettato i requisiti economici stabiliti a Maastricht nel 1992.
Il 1° gennaio entra in vigore l’euro. È fissato il tasso irrevocabile di conversione fra
l’euro e ogni valuta nazionale. Moneta e banconote continueranno a circolare per tre
anni (1999-2001).
Il Parlamento, la Commissione e il Consiglio proclamano la Carta dei Diritti Fondamentali.
Nei dodici paesi dell’Unione Economica e Monetaria sono distribuiti gli euro-kit (sacchetti
con monete di euro), in previsione della messa in circolazione del 1° gennaio 2002.
Il 1° gennaio entra nell’uso la moneta unica effettiva (cartacea e metallica) prendendo
il posto delle monete nazionali di Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Grecia,
Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna. Di fatto adottano l’euro
anche Andorra, Città del Vaticano, Principato di Monaco e San Marino. L’euro è emesso dalla Banca Centrale Europea (BCE), l’unica istituzione responsabile della politica
monetaria dell’Unione. Gran Bretagna, Danimarca e Svezia non aderirono all’area dell’euro, la Grecia vi era entrata nel 2001.
In ordine cronologico dei referendum entrano a far parte dell’UE Malta, Slovenia,
Ungheria, Lituania, Repubblica Slovacca, Polonia e Repubblica Ceca. Venticinque paesi firmano ad Atene il trattato che prevede l’allargamento dell’Unione.
Dal 1° maggio Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca,
Repubblica Slovacca, Slovenia e Ungheria entrano a far parte dell’UE, che forma un
mercato unico di 455 milioni di persone.
239
242
L’Europa verso il mercato globale
Tabella 11.1 Tasso lordo di scolarizzazione universitaria nel Terzo Mondo
(% della popolazione in età tra 20 e 24 anni)
Terzo Mondo a economia di mercato
1937
1950
1960
1970
1980
1990
2000*
Africa
America
Asia
Totale
Cina
Totale
complessivo
0,1
0,2
0,7
1,5
3,5
5
6
0,9
1,8
3
6,3
13,5
17,1
20,8
0,3
1
2,9
5,3
6,2
9,1
15,2
0,4
1
2,1
4,6
7,2
9,1
14,1
0,1
0,3
0,2
0,1
1,2
1,7
6
0,3
0,7
1,5
3,2
5
7
12,1
* Valori stimati
Fonti: P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo, vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi, Torino, 1999, tab. 92,
p. 1352; Annuario statistico Unesco, varie edizioni
7 per cento. La sostituzione delle importazioni con produzione locale spiega l’intensità del processo. In pratica, fu rovesciata la tendenza consolidatasi nel XIX secolo e proseguita fino alla vigilia della prima guerra mondiale, quando le importazioni di manufatti dai territori metropolitani avevano sostituito le produzioni locali.
Non appena il processo di sostituzione delle importazioni fu completato
senza dover affrontare grandi investimenti e importare tecnologie costose,
sul finire degli anni Sessanta vi fu un ovvio rallentamento della crescita
delle attività manifatturiere. Per di più, la possibilità di riversare su mercati esteri produzioni a basso valore aggiunto, come i tessili, fu intralciata da
limitazioni e ostacoli frapposti alle importazioni dai paesi sviluppati che
difendevano la loro manodopera e le loro imprese.
Un freno alla prosecuzione dello sviluppo venne anche dalla rigidità della domanda mondiale di tessili e calzature – il grosso delle esportazioni –
assieme alla dipendenza dalle società multinazionali occidentali che, dalla
fine degli anni Sessanta, nel Terzo Mondo spostarono in crescente misura
quelle fasi dei processi produttivi che impiegano manodopera scarsamente
qualificata. La creazione e l’organizzazione di imprese industriali da parte
dei governi e degli amministratori pubblici regionali, provocando sprechi
di risorse, agirono da freno. I casi di massicci investimenti rivelatisi del
tutto inutili o largamente sovradimensionati non si contano, come quelli di
sperpero energetico e di materie prime.
Un capitolo a parte meriterebbe la questione della diffusa corruzione
delle autorità governative e dei funzionari pubblici chiamati a decidere la
localizzazione di nuovi impianti industriali. Un altro fattore limitativo è
dato dalla prevalente sottoutilizzazione della capacità produttiva delle
installazioni, spesso largamente sovradimensionate rispetto ai volumi di
11 Dalla decolonizzazione al Terzo Mondo
245
La crescita demografica dei quattro paesi fu inferiore a quella del resto
dell’Asia. Nel caso di Hong Kong, per esempio, l’aumento provenne
soprattutto da un flusso incessante di rifugiati cinesi, molti dei quali dotati
di un elevato livello di qualificazione professionale. Un notevole fattore di
facilitazione nell’avvio dello sviluppo fu dato anche dalle basse percentuali di contadini e di livelli d’analfabetismo (26 per cento) nettamente inferiori alla media (64 per cento) dei paesi asiatici a economia di mercato.
Ciò spiega la grande abilità nell’assimilare, utilizzare e sviluppare nuove
tecnologie informatiche e la capacità strategica di prevedere il potenziale
delle innovazioni, puntando a un costante rinnovamento tecnologico dei
settori, del management e della manodopera.
La novità delle quattro tigri consiste nelle relazioni, sconosciute in Occidente, istituitesi fra stato, come fattore e organizzatore di sviluppo, economia, tecnologia e società muovendo da politiche dettate dalla logica della
sopravvivenza nazionale postbellica. La crescita economica andò di pari
passo con un visibile miglioramento dei tenori di vita (salari, sanità, istruzione e condizioni abitative) e della perequazione dei redditi.
Tabella 11.2 Rapporto fra reddito medio del 20% della popolazione più ricca
rispetto al reddito medio del 20% della popolazione più povera
Hong Kong
Giappone
Sud Korea
Taiwan
Singapore
Anno
Rapporto
1981
1979
1981
1978-81
1978
12,1
4,0
4,9
4,3
7,5
Fonte: W.J. Baumol, R.R. Nelson, e E.N. Wolff, Convergence of Productivity. Cross- National Studies and Historical Evidence, New York, 1994
È interessante notare che nei due paesi in cui ha lungamente dominato la
cultura britannica, fondata sull’antagonismo individualista, la sperequazione dei redditi è nettamente più accentuata rispetto ai rimanenti tre paesi
nei quali domina la cultura orientale tendente a non polarizzare la distribuzione della ricchezza, che significa maggior potere d’acquisto diffuso,
maggiore capacità di risparmio, migliore sostegno della domanda. In tutti
e quattro i casi considerati, in vario modo, l’azione delle amministrazioni
pubbliche è stata così decisiva da far coniare agli studiosi la formula: «stato per lo sviluppo», espressiva di uno stato che, mentre sostiene le imprese, impone loro di misurarsi sul mercato globale.
Hong Kong fu la più precoce delle quattro. Fin dalla metà degli anni
Cinquanta, cominciò a crescere economicamente come un paradiso del
libero mercato alle porte della Cina comunista. Tutto il territorio apparteneva alla corona inglese che lo affittava, con contratti a lungo termine,
250
L’Europa verso il mercato globale
Figura 12.1 Carta della Cina
re fu la Commissione militare centrale del Comitato centrale del partito, la
cui presidenza fu l’unica carica ininterrottamente conservata da Mao sino
alla morte (1976). Il partito – una cosa sola con l’esercito – era un’immensa macchina politica ramificata e decentrata ovunque, che per la prima
volta nella storia cinese controllava ogni angolo dell’immenso paese.
L’estrema personalizzazione della leadership ha fatto sì che qualsiasi
decisione presa dal vertice, grazie alla catena di comando che attraversa i
centri di potere e si disperde nella società, si trasformi in una mobilitazione generale. Solo così si spiega la straordinaria potenza distruttiva di parole d’ordine come il «grande balzo in avanti» e la «rivoluzione culturale
proletaria», lanciate e attuate da Mao Zedong in persona, contro la volontà
del vertice del partito.
In realtà, coerentemente con la sua cultura contadina e la sua esperienza
di combattente partigiano, Mao rispondeva alla fondamentale questione di
come conservare il potere comunista e come rendere la Cina forte e indipendente in un mondo radicalmente diviso fra le due superpotenze e avendo alle porte quattro tigri in rapido sviluppo economico e tecnologico. Egli
era convinto che convenisse conservare la civiltà rurale cinese della quale
era figlio, sviluppare l’autosufficienza (l’autarchia contadina), assicurare il
254
L’Europa verso il mercato globale
ziali nel resto del mercato cinese e in quelli esteri. Alcune di queste imprese, specie quelle del settore informatico, fondano il successo economico su
un’impegnativa politica di ricerca e sviluppo, ottenendo risultati lusinghieri che le pongono fra le protagoniste emergenti del mercato mondiale.
La serie storica del tasso di sviluppo annuale del PIL tra il 1979 e il
2004, ricalcolato di recente dall’Istituto Centrale di Statistica cinese, dà
una media su venticinque anni del 9,6 per cento e, in particolare, dal 1993
al 2004, elenca le percentuali annue seguenti:
1993
1994 1995
1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004
14,0
13,1
10,0
10,9
9,3
7,8
7,6
8,4
8,3
9,1
10,0
10,1
Fonte: it.chinabroadcast.cn/economia
La crisi del biennio 1998-99 ha causato un relativo rallentamento dell’altissimo ritmo di crescita mantenuto nel dodicennio qui considerato,
dopo di che la percentuale annua di crescita è costantemente aumentata
nonostante le autorità governative si sforzino di mantenere sotto controllo
la dinamica economica in atto, potenzialmente inflativa.
Le conseguenze della politica della «porta aperta» di Deng, che decretò
la fine dell’isolamento cinese e preparò l’introduzione nella Costituzione
(1999-2004) del diritto «inviolabile» della proprietà privata, dello stato di
diritto e del superamento della pianificazione economica socialista, pongono però una serie di questioni di gran peso.
■ La prima e più vistosa è data dal massiccio esodo dalle campagne di
alcune centinaia di milioni di cinesi socialmente e culturalmente sradicati e in condizioni economiche precarie. Per di più, le forti distorsioni
e disparità nella distribuzione del reddito tra regioni urbane e rurali
(rispettivamente un terzo e due terzi degli abitanti) che si ripercuotono
sui livelli di consumo e, di conseguenza, sui livelli di vita degli appartenenti ai due gruppi, evocano un incombente dualismo.
■ I sempre più frequenti conflitti tra Pechino e province della fascia
costiera derivanti dalla larga autonomia concessa dal governo alle autorità provinciali in fatto di relazioni dirette con l’economia internazionale sono un potenziale fattore di disgregazione e di crisi politica.
■ Le imprese pubbliche a bassa produttività non trovano compratori, né
possono essere liquidate. Lo stato sociale (sanità, scuola, vacanze) non
potrà essere smantellato. La nuova economia cinese, gestita e sorvegliata dalla pianificazione del governo centrale, dovrà contemperare le esigenze dei tre comparti coesistenti: il tradizionale settore pubblico, che
funziona al riparo dalla concorrenza, quello aperto a investimenti e
commerci con l’estero e, infine, quello capitalistico, orientato soprattut-
12 Il risveglio dei dinosauri asiatici
controllo, il 2 agosto 1858, con il Governement Act of India, il Parlamento
trasferiva alla corona tutti i diritti della Est India Company riducendo il
paese allo stato di colonia.
La piantagione di materie prime industriali (juta e cotone, per esempio)
squilibrò l’agricoltura indiana e impedì alle popolazioni di coltivare secondo
le proprie esigenze alimentari, tanto che alla fine del XIX secolo si verificarono disastrose carestie. Poiché a lungo l’economia indiana fu diretta da
Londra, all’indomani dell’indipendenza (1947), il paese non poté fare a
meno dei partner economici inglesi. Del resto, da un secolo e mezzo la stessa formazione culturale delle élite indiane – la lingua inglese al posto dello
hindi, il pragmatismo antagonista britannico in luogo del mite buddismo – è
perfettamente coerente con i valori e gli stili di vita anglosassoni.
Figura 12.2 Carta dell’India
257
12 Il risveglio dei dinosauri asiatici
259
Tabella 12.1 Impieghi di spesa pubblica (%) dei primi due piani quinquennali (1951-61)
Trasporti e comunicazione
Servizi sociali
Industrie e miniere
Agricoltura
Irrigazione
Energia
Piccole imprese
Totale
Fonte: http://planningcommission.nic.in. Indian planning experience. A statistical profile
Con i primi quattro piani (1951-71), i governi mirarono soprattutto a dotare
il paese di infrastrutture di base adeguate e a migliorarne l’agricoltura, così
da renderlo autonomo sotto il profilo alimentare, mentre la popolazione non
smetteva di crescere. Una politica daziaria iperprotettiva dal 1950 difese le
industrie e le manifatture nazionali dalla concorrenza degli altri paesi asiatici. Con gli anni Settanta, i governanti cominciarono a dimostrare un crescente interesse per forme di cooperazione internazionale che promuovessero lo sviluppo della base produttiva attraverso interventi di modernizzazione degli impianti e di investimento nei settori orientati all’esportazione.
12.6 L’apertura verso l’estero
Con i primi anni Ottanta, il ceto governativo indiano si convinse che convenisse seguire la via intrapresa dalle quattro tigri, cioè abbattere le difese
daziarie e aumentare i prodotti da esportare, promuovendo la concorrenza
e l’efficienza. Per far ciò era indispensabile incentivare investimenti esteri
diretti e favorire lo spostamento di manodopera dal dominante e arretrato
settore primario al secondario. L’effetto indiretto del nuovo indirizzo non
tardò a manifestarsi con un calo del tasso di povertà.
Un prestito di oltre 5 miliardi di dollari concesso al governo indiano dal
FMI nel 1982, la somma più alta fino allora mai erogata, sancì il gradimento delle istituzioni internazionali per il cambiamento in atto. Gli aiuti
servirono per correggere gli squilibri della bilancia dei pagamenti causati
dalla crisi petrolifera e per continuare a importare macchinari, attrezzature,
materie prime per l’industria e tecnologia aggiornata per lo sviluppo.
Nel 1991, l’ingresso dell’India nel WTO accelerò il processo di riforme e
di liberalizzazione del mercato. Dopo la svalutazione della rupia (del 22 per
cento rispetto al dollaro nel luglio del 1991), le principali riforme economiche del periodo 1991-97 attenuarono la presa dello stato sull’economia:
n fu abolito il sistema delle licenze per aprire o ampliare imprese, a eccezione di quelle strategiche (energia, petrolio e telecomunicazioni);
27,8
19,6
14,8
12,8
11,0
10,7
3,3
100
260
L’Europa verso il mercato globale
n furono eliminati i controlli sulle importazioni di capitali e merci (a parte i beni di consumo) e ulteriormente ridotte le tariffe doganali.
Dal 1993, la rupia divenne convertibile nelle maggiori valute. Gli investimenti di capitale estero nelle imprese indiane poterono arrivare al 74 per
cento (dal 1997) e al 100 per cento in quelle totalmente orientate all’esportazione (EOU, Export Oriented Units) aperte in speciali zone (SEZ, Special
Economic Zones) nonché in quelle localizzate in parchi tecnologici per
hardware o per il software o appartenenti ai settori energetico e elettronico.
Fu liberalizzato il tasso di interesse, allentata la barriera all’ingresso per banche private nazionali ed estere e aperta la borsa a investitori istituzionali esteri.
Da ultimo, il sistema fiscale fu rafforzato, riformato e semplificato.
Il pacchetto di riforme, accolto con scetticismo, si rivelò vincente. Si
temeva che un fiume di importazioni allagasse il mercato interno, mettendo in crisi i produttori nazionali, e che la bilancia valutaria, senza controllo statale, finisse in pesante deficit compromettendo la parità del cambio.
In realtà, tutto andò per il meglio. Superate alcune iniziali titubanze, l’economia indiana imboccò la via dello sviluppo, realizzando una crescita
superiore al 5 per cento nel 1992-93 e intorno al 6 per cento nel 1993-94.
Nei tre anni successivi, l’espansione proseguì a un ritmo superiore al 7 per
cento. La crisi asiatica del 1997-98 abbassò il PIL nazionale indiano al
+4,8 per cento, ma l’anno successivo si riportò al 6,5 per cento.
Nel triennio iniziale del nuovo secolo (2001-2003), la ricchezza annualmente prodotta ha oscillato, dipendendo in parte dalla produttività agricola, a sua volta legata alla meteorologia. Il peso ancora alto del settore priTabella 12.2 Tasso annuo percentuale di crescita del PIL indiano, 1965-2006
Anno*
1965-66
1966-67
1967-68
1968-69
1969-70
1970-71
1971-72
1972-73
1973-74
1974-75
1975-76
1976-77
1977-78
1978-79
Tasso %
Anno
Tasso %
Anno
Tasso %
–3,7
1,0
8,1
2,6
6,5
5,0
1,0
–0,3
4,6
1,2
9,0
1,2
7,5
5,5
1979-80
1980-81
1981-82
1982-83
1983-84
1984-85
1985-86
1986-87
1987-88
1988-89
1989-90
1990-91
1991-92
1992-93
–5,2
7,2
6,0
3,1
7,7
4,3
4,5
4,3
3,8
10,5
6,7
5,6
1,3
5,1
1993-94
1994-95
1995-96
1996-97
1997-98
1998-99
1999-00
2000-01
2001-02
2002-03
2003-04
2004-05
2005-06 **
5,9
7,3
7,3
7,8
4,8
6,5
6,1
4,4
5,6
4,4
8,2
6,9
8,0
* L’anno di riferimento comincia il 1° aprile e termina il 31 marzo
** Stima
Fonti: Planning Commission, cit., Economic Survey, 2002-2003, tab. 1.2; Annual Policy Statement for the year 2005-06
13 Bilanci e prospettive
13.1 Bilancio delle economie del Terzo Mondo
Prima della rivoluzione industriale, vale a dire fino all’inizio del XVIII
secolo, i livelli di vita del futuro Terzo Mondo e quelli del futuro occidente sviluppato non erano troppo diversi. C’è persino chi ha sostenuto
(Bairoch) che il divario dei redditi tra i due gruppi a quel tempo non
superasse il 10 per cento a favore dei bianchi. Il rapporto prese a peggiorare dal 1830 in avanti, quando in Inghilterra l’industrializzazione superò
un punto di non ritorno e nel continente europeo (Belgio) comparvero le
prime fabbriche dotate di macchine a vapore utilizzate da grandi imprese
verticalmente integrate.
È interessante mettere il Prodotto Nazionale Lordo reale (corretto dalle
distorsioni dovute al potere d’acquisto delle monete) dei paesi sviluppati
occidentali sia in rapporto a quello dei paesi del Terzo Mondo a economia
di mercato, sia a quello dei paesi più indigenti (Etiopia, Nepal e Burundi)
comparandoli lungo un periodo che va dal 1830 al tramonto del secondo millennio (1995).
Tabella 13.1 Disparità del Prodotto Nazionale reale per abitante tra Terzo Mondo
e paesi sviluppati
Paesi sviluppati occidentali
in rapporto al Terzo Mondo a
economia di mercato
1830
1860
1913
1938
1950
1960
1970
1980
1995
1,6
1,7
4,1
5,1
5,7
6,5
8,4
8,5
10,3
(100)
(106)
(256)
(319)
(356)
(406)
(525)
(531)
(644)
Paesi più sviluppati
in rapporto ai paesi
meno sviluppati del Terzo Mondo
2,8 (100)
4,5 (161)
10,4 (371)
11,9 (425)
19 (678)
25,5 (911)
31 (1.107)
37 (1.321)
49 (1.750)
Fonte: P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo, vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi, Torino, 1999, vol. II,
tab. 177, p. 1514, elaborazioni dell’Autore
13 Bilanci e prospettive
265
La misura convenzionale del livello di globalizzazione è data dal crescente volume complessivo delle merci esportate ogni anno, qua e là
intralciato da periodiche crisi settoriali o macroregionali, come quella
capitata in Asia orientale negli ultimi anni del secolo scorso. Per misurare
le tendenze dell’ultimo decennio è bene considerare i contributi delle
diverse aree economiche del pianeta all’ampliamento del volume di merci
uscite dai confini dei paesi produttori. È ipotizzabile che esista una relazione diretta fra tendenziale aumento o diminuzione del contributo di ogni
paese e di ogni macroregione economica al commercio internazionale e
stato di salute della rispettiva economia. I dati relativi al recente decennio
1995-2004 e al solo 2004 sembrano assai istruttivi in proposito.
Tabella 13.2 Contributo delle aree alla crescita delle importazioni mondiali di merci
(prezzi in $ 2000)
Unione Europea
Giappone
Stati Uniti
Paesi in via di sviluppo
Paesi poveri
1995-2004
2004
37,5
5,9
18,6
19,8
3,1
26,2
3,8
19,2
30,6
2,8
Fonte: Elaborazioni ICE su dati FMI, OMC e Commissione europea, 2005
Il senso delle informazioni è chiaro. La vecchia Europa appare in declino, il
suo sostegno alla globalizzazione dei mercati è nettamente calato, tanto che
nell’ultimo anno compreso nella serie storica (26,2) si è portato di molto sotto
dalla media generale (37,5) del decennio. Analogamente si è comportata l’economia giapponese, anch’essa in declino dai primi anni Novanta e ulteriormente
danneggiata dalla bolla speculativa edilizia di fine millennio. L’economia nordamericana è l’unica, fra quelle occidentali, a muoversi in controtendenza con
un minimo differenziale positivo (+0,6) nel 2004 rispetto alla media generale
del decennio. Nell’insieme, i paesi approdati a uno sviluppo economico maturo nella seconda metà del Novecento, dalla metà degli anni Novanta del secolo
scorso stanno vistosamente rallentando il loro sostegno alla globalizzazione.
Il Terzo Mondo a economia di mercato e non (Paesi in Via di Sviluppo:
PVS) sta invece dando una sostanziosa spinta alle importazioni, come del
resto si conviene a economie che dagli anni Sessanta-Ottanta del XX secolo stanno sviluppandosi tenendo ritmi altissimi (+8 –10 per cento del PIL
annuo) e che, nelle loro esportazioni, accrescono la quota di merci tecnologicamente avanzate.
La crescita del PIL per macroaree economiche non è meno istruttiva perché
permette di misurare i differenziali tra economie e di proiettarli verso il prossimo futuro.
266
L’Europa verso il mercato globale
Tabella 13.3 Crescita del PIL (%) per aree economiche del mondo
2004
2005
2.0
4,4
5,1
8,2
7,8
5,5
5,7
5,1
1,6
3,6
5,0
6,5
7,1
5,0
4,1
4,3
Area dell’euro
Stati Uniti
Africa
CSI*
Asia
Medio Oriente
America Latina
Mondo
* Paesi dell’Europa dell’Est e Russia (ex URSS)
Fonti: Eurostat
L’Unione Europea si conferma l’economia di gran lunga meno dinamica
del pianeta. Gli stessi Stati Uniti, ben più attivi degli europei occidentali
nella produzione della ricchezza, si situano al di sotto dei livelli medi calcolati per ogni altra macroarea, compreso il continente nero, e nell’insieme per il mondo.
Esiste una qualche terapia per risvegliare le economie della vecchia
Europa occidentale dalle popolazioni sempre più vecchie e conservatrici?
Qualche stimolo potrà venire dalle «giovani» economie ex comuniste dell’Europa centrale, da poco accolte nell’Unione Europea in fuga dalla Russia, e dai paesi candidati a entrare nell’Unione nei prossimi anni, ma
occorrerà armarsi di pazienza, tanto è ampio il differenziale dei redditi e
dei consumi pro capite delle nazioni entrate da poco e ancora esterne alla
zona euro (vedi supra, 10.3). Una qualche terapia stimolante e correttiva
dall’interno dei paesi fondatori dell’Unione potrebbe consistere in una perseverante politica di redistribuzione dei redditi, volta a invertire il processo
di polarizzazione della ricchezza e di sperequazione crescente tra ceti
sociali in Occidente, pericolosamente accentuatasi nell’ultimo quarto di
secolo, con effetti sociali, culturali ed economici fortemente disgregativi. I
governi degli stati per lo sviluppo del lontano Oriente, da quelli delle piccole tigri a quelli dei giganteschi Cina e India, dove l’economia sta tumultuosamente progredendo a grandi passi, saggiamente perseguono politiche
perequative della distribuzione della ricchezza, con positivi effetti sia sui
livelli dei consumi, sia sulla propensione al risparmio delle popolazioni.
Ma torniamo, per concludere, ai movimenti delle merci nello scenario
dell’economia globale. La classifica dei primi dieci paesi esportatori – in
valori assoluti – del mondo elenca otto vecchie conoscenze su dieci, tra le
quali hanno fatto irruzione il Canada, strettamente legato agli USA, e il
dragone cinese collezionista di recenti primati.
Per «pesare» la qualità specifica dell’economia dei singoli paesi conviene ponderare i volumi assoluti di ricchezza esportata con l’ammontare del-
13 Bilanci e prospettive
267
le rispettive popolazioni. Si ottiene così un indice relativo e comparabile
d’abilità nel produrre dei surplus di beni – che riguarda un terzo della popolazione mondiale – rispetto alla capacità di assorbimento della domanda interna e alla maestria nel piazzarli all’estero, fidelizzando i compratori.
Tabella 13.4 Primi dieci paesi esportatori nel 2004
Graduatoria
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Paesi (%)*
Miliardi di $
Popolazione**
$ pro capite
Graduatoria
Germania (16)
USA (31,8)
Cina (27)
Giappone (24)
Francia (19)
Olanda (18,8)
Italia (8)
Regno Un. (21)
Canada (14)
Belgio (8)
915
819
703
565
451
359
346
346
322
309
82,5
293,6
1.275
127,6
60,3
16,2
58,4
59,6
40
10,4
11.090
2.789
551
4.427
7.479
22.160
5.924
5.805
8.050
29.711
3
9
10
8
5
2
6
7
4
1
* Percentuale di esportazioni tecnologicamente avanzate
** Espressa in milioni
Fonte: Elaborazioni ICE su dati OMC e Eurostat, integrati con calcoli dell’Autore
La graduatoria di destra, che elenca cifre omogenee e comparabili, sovverte quella di sinistra, basata sui soli valori assoluti. L’unico paese che conserva la stessa posizione nelle due liste è la Francia (5). Addirittura, l’ultimo della graduatoria di sinistra diventa di gran lunga il primo in quella di
destra. Il piccolo Belgio, primo paese industriale dell’Europa continentale,
che alla vigilia della grande guerra (1910) contribuiva all’export mondiale
con il 7,3 per cento (vedi supra, § 5.1.1), nel 2004 ha venduto all’estero
una quantità di ricchezza pro capite di poco inferiore al PIL per abitante
del 2004 (30.592 dollari).
L’Olanda, seconda a notevole distanza dal Belgio, esporta il doppio per
abitante della Germania, cinque volte la quota del Giappone e otto volte
quella degli Stati Uniti. A parte il Canada, che si piazza in quarta posizione, gli altri tre paesi extraeuropei sono in coda alla classifica dei valori pro
capite e, per di più, largamente distanziati da tutti gli altri. Se trascuriamo
l’ultimo – il dragone cinese – neofita molto aggressivo e intraprendente
del capitalismo e del commercio internazionale, che però sconta un’immensa popolazione in maggioranza contadina, colpisce la comune condizione di Stati Uniti e Giappone che, pur esportando grandi quantità di merci d’alta tecnologia, piazzano all’estero solo una piccola parte della ricchezza prodotta (il 7,1 per cento gli USA e il 13,4 per cento il Giappone).
In conclusione, la vecchia Europa occidentale, con sei paesi sui primi
dieci della classifica delle esportazioni nel mondo mantiene un invidiabile