La filosofia del Novecento

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LDB
RemoBode
LA
FILOSOFI
DEL
NOVECEN
Feltrinelli
©Giangiacomo
FeltrinelliEditore
Milano
©1997,2006
Donzellieditore,
Roma
Primaedizione
nell’“Universale
Economica”–
saggiaprile2015
StampaNuovo
IstitutoItaliano
d’ArtiGraficheBG
ISBN978-88-5882069-8
Lafilosofianel
Novecento
AChiara
ALisa
Notaintroduttiva
Questo libro offre
strumenti per pensare
l’esperienza
di
un
secolo
denso
di
impreviste
trasformazioni.
Ricostruisce
le
coordinate
che
orientano
i
nostri
paesaggi mentali e
delinea la mappa dei
percorsi in cui la
filosofia
incrocia
i
saperi
più
rappresentativi.
Cogliendo le idee in
movimento, risultano
così
maggiormente
visibili,
nella
loro
specificità, gli snodi
che
articolano
il
discorso filosofico, qui
riferito
utilizzando
soltanto
le
fonti
primarie. Con stile
narrativo limpido e
rigoroso,
vengono
abbandonati i due
modelli espositivi più
diffusi: quello della
storia lineare (che
presentafilastrocchedi
opinioni
ricucite
attraverso l’esile filo
della
progressione
cronologica) e quello,
totalmente privo di
contesto,
della
descrizione di sistemi
miniaturizzati e isolati
(che
sarebbero
in
possesso
di
una
esistenza autonoma e
fuoridaltempo).Aessi
si
preferisce
la
rappresentazione
di
scene
teoriche
compatte, scandite per
quadri concettuali, in
cui
i
protagonisti
intrecciano in maniera
avvincente
i
loro
argomenti nello sforzo
di chiarire problemi
chesonoanchenostri.
In
termini
quantitativi, alla base
delvolumesitrovaper
metà una precedente
ricerca,
peraltro
radicalmente
rielaborata
(cfr.
Filosofia, in La cultura
del ’900, Gulliver,
Milano 1979 e Oscar
Studio
Mondadori,
Milano 1981). L’altra
metàcostituisceinvece
un
lavoro
completamente nuovo,
cheampliaalcuneparti
già scritte e introduce
alla
riflessione
filosoficapiùrecente.
Los
Angeles-Pisa,
autunno-inverno 199697
R.B.
Premessaalla
nuovaedizione
2015
Sono passati diversi
anni dalla seconda
edizione del 2006. Nel
frattempo il dibattito
filosoficopiùrecentesi
èarricchitoditemiedi
autori di cui ho voluto
rendere criticamente
conto,
inquadrandoli
nell’ambitodeglieventi
che
hanno
caratterizzatogliultimi
decenni.
Ho
così
rielaborato e ampliato
la trattazione di alcuni
capitoli,
concentrandomi,
in
particolare, sulla fase
finale del pensiero di
Foucault,
sull’umanesimo
europeo in confronto
con altre civiltà, sulle
biotecnologie e le loro
implicazioni.Ho,infine,
aggiunto
numerose
pagine sulla filosofia
italiana, dagli anni
ottanta del Novecento
a oggi, e sul rapporto
verità-realtà. In un
momento storico in cui
l’esistenza
di
innumerevoli
esseri
umani è diventata
precariaeincuicresce
l’incertezza legata al
futuro, la filosofia può
aiutarci a riflettere
sullanostracondizione.
Pisa-Los
Angeles,
febbraio2015
R.B.
I.Lefilosofie
delloslancio
1.Iltemporitrovato
A chi si desta in
piena notte succede,
secondo Proust, di
ignorare talvolta tutti i
datirelativiallapropria
persona e al luogo in
cuisitrova.Laragione,
rilassandosi nel sonno,
ha cancellato tutti i
confini di tempo e di
spazio. Non resta, al
risveglio,
che
un
elementare
e
indeterminato “senso
dell’esistenza
quale
può
fremere
nella
profondità
di
un
animale”einun“uomo
delle caverne”. Per
situarsi e orientarsi di
nuovo
occorre
ricostruirelaretedelle
coordinatedelmondoe
i “tratti originali” del
proprio io, compiendo
inpochiattimiunbalzo
“soprasecolidiciviltà”.
Ma per rivestire la
coscienzadisestessiè
necessario ricomporre
l’ordine delle cose.
Dapprima è il corpo, al
buio, che viene in
aiuto, è “la memoria
delle sue costole, dei
suoi ginocchi, delle
spalle” che ricorda i
vari tipi di letto in cui
si è dormito, che cerca
di
indovinare
la
posizione dei mobili e
le situazioni vissute:
“ero in campagna a
casa del nonno, morto
parecchi anni fa; [...] il
muro
correva
in
un’altra direzione; ero
nellamiastanzaacasa
di Madame de SaintLoup”. E, intanto, “le
pareti
invisibili,
mutando
posizione
secondo la forma della
stanza
immaginata”,
preparano
il
riconoscimento
del
luogo in cui si è. Ogni
stanza si presenta
intagliata nella fuga di
altre
stanze,
che
appaiono come suoi
contorni
fluttuanti,
margini indispensabili
del
processo
di
individuazione.
Ogni
cosa ha un alone di
alterità, ondeggia nel
suo stato fluido, è
attraversata
dalla
correntedeltempo.Ma
ecco: la coscienza è
completamente desta,
ha ripreso il controllo
della situazione, è
intervenuto il pensiero
che solidifica tutto:
“Forse
l’immobilità
dellecoseintornoanoi
è loro imposta dalla
nostra certezza che
sono esse e non altre,
dall’immobilità
del
nostro pensiero nei
loro
confronti”.
Abbiamo nominato le
cose e (a scopo
pedagogico,perevitare
dispersione e fatica) le
abbiamo classificate e
semplificate, togliendo
loro
ogni
alterità
interna, ogni pluralità
di
contorni,
ogni
riferimento a noi: “Le
parole ci presentano,
delle cose, una piccola
immagine nitida e
consueta, simile alle
figureches’appendono
alle pareti delle scuole
per dare ai bambini
l’esempio di quel che
sia un banco, un
uccello, un formicaio,
cose concepite come
uguali a tutte quelle
della
medesima
specie”.1
Per
riprendere possesso di
noi stessi e delle cose
in modo autentico, si
deve compiere una
sortadiesperimento,in
solitudine e in silenzio:
riprodurre la durata
pura, sgretolando le
resistenti concrezioni
del presente, intuendo
al di là del pensiero
immobilizzante e del
linguaggio
classificatorio. Lontani
dalla
folla
e
dall’incalzante
involgarimento
dei
tempi, protetti dagli
stimolitroppointensie
perciò ottundenti della
grande città, liberi
dalla costrizione di
operare praticamente
sulle cose – nel
lavorarle, infatti, esse
rivelerebbero
hegelianamente
ben
altra durezza –, è
possibile
evocare
un’esistenza ricca e
internamentearticolata
e sfumata, tradurre la
spazialità nel tempo
della
coscienza,
rendere testimonianza,
in
un
laboratoriocatacomba di sughero,
di un’umanità raffinata
e sensibile che sta per
esseretravolta.
In questa solitudine
si
possono
far
riaffiorare gli strati più
antichi di noi stessi, i
vari “io” che si sono
succeduti
e
che
giacciono in profondità
quasi
geologiche,
schiacciati dal peso
dellanostrapersonalità
attuale. Ognuno di essi
è stato, a suo tempo,
sepolto da una potente
scossa, che ne ha
provocato l’abbandono,
obbligandoci
a
reinventare noi stessi.
Il destino ci fornisce,
del resto, tanti “io di
ricambio” entro cui
riformulare le nostre
passioni e il nostro
pensiero. Nei loro
confronti, una volta
lasciati
indietro,
proviamo alla fine
soltantouna“tenerezza
disecondamano”.2Per
fortuna, però, non
potendoli
elaborare
completamente
o
asservire del tutto
all’ultimo“io”incarica,
essi talvolta ritornano.
Lo
scopriamo
all’improvviso,
con
meraviglia, nell’attimo
in cui un ricordo (del
quale ci sembrava di
non conservare più
alcunatraccia)civiene
incontro grazie a una
casuale scintilla del
presente. In questi
momenti
ritroviamo
miracolosamente
intatto un nostro “io”
trascorso, per nulla
logorato
dalle
modificazioni psichiche
successive,
paradossalmente
protetto e custodito
dall’oblio come in una
teca.Quandoidue“io”
cronologicamente
lontani – quello del
presente e quello del
passato – si toccano
allamanieradiduepoli
in un arco voltaico,
quando l’emozione non
si separa più dalla
conoscenza“acausadi
quell’anacronismo che
tanto spesso impedisce
al calendario dei fatti
di
coincidere
con
quellodeisentimenti”,3
allora si avverte come
un aroma di eternità.
Ci si accorge che
qualcosa si è salvato
dalla
distruttiva
voracità del tempo.
Pare allora di risolvere
“l’enigma
della
felicità”, nascosto nelle
agnizioni
“stereoscopiche” di se
stessiinquantorimasti
identici attraverso i
mutamenti, unici e
sdoppiati.
Stranamente,
quelli
che ci commuovono,
quando si affacciano
per mezzo del ricordo
involontario,
sono
eventi a prima vista
insignificanti. Essi si
sono tuttavia salvati
dall’omologazione alla
prospettiva
del
presente
proprio
perché l’intelligenza li
ha scartati, in ragione
della
loro
inutilizzabilità:
“la
minima parola da noi
detta in un periodo
della nostra vita, il
gestopiùinsignificante
da noi compiuto erano
circondati, portavano
su di sé il riflesso di
cose che dal punto di
vista
logico
non
avevano con essi alcun
rapporto, che ne sono
state
separate
dall’intelligenza,
che
non sapevano che
farsene di loro per le
necessità
del
ragionamento, ma in
mezzo alle quali – qui
riflesso rosato della
sera sul muro fiorito
d’un
ristorante
di
campagna, sensazione
di fame, desiderio di
donne, piacere del
lusso – là volute
azzurre
del
mare
mattutino ad avvolgere
frasi musicali che ne
emergonoparzialmente
come le spalle delle
ondine–ilpiùsemplice
dei gesti, degli atti
rimane racchiuso come
in mille vasi riempiti
ciascuno di cose d’un
colore, d’un odore, di
una
temperatura
assolutamente diversi;
senza contare che
questi vasi, disposti
lungotuttal’altezzadei
nostri
anni
(anni
durante i quali non
abbiamomaismessodi
cambiare, fosse solo
nel sogno e nel
pensiero), sono situati
a quote molto diverse,
e
ci
danno
la
sensazione
di
atmosfere
singolarmente variate
[...]. Sì, se il ricordo,
grazie all’oblio, non ha
potuto contrarre alcun
legame,
gettare
nessunacatenafrasée
l’istante presente, se è
rimasto al suo posto,
alla sua data, se ha
mantenuto
le
sue
distanze,
il
suo
isolamento
nella
profonditàd’unavalleo
incimaadunavetta,ci
farà respirare di colpo
un’aria nuova per la
precisa ragione che è
un’aria respirata in
altri tempi, quell’aria
più pura che i poeti
hanno cercato invano
di far regnare nel
paradiso e che non
potrebbe
dare
la
sensazione profonda di
rinnovamentochecidà
se non fosse già stata
respirata,giacchéiveri
paradisisonoiparadisi
che
abbiamo
perduto”.4 A tali rari
istanti
possiamo
aggrapparci
per
sfuggire
la
piatta
uniformità
di
una
intelligenza che ci
svuotadiemozioniedi
sfumature, spingendoci
verso
una
routine
dimentica del possibile
riscattodaltempo.
2.Lecicatricidella
crescita
Secoli di civiltà e
l’inesorabile pressione
dei bisogni pratici
cospirano
dunque
verso la tendenziale
univocità e fissazione
dei pensieri e delle
cose
che
essi
catturano.Ciòerastato
affermato,informepiù
argomentative,
da
Henri Bergson, cugino
acquisito di Proust.
Anch’egliavevacercato
di dimostrare come i
contorni netti che noi
attribuiamo alle cose
non siano altro che lo
schema
di
una
influenza
che
potremmo esercitare
sudiesse,iprogrammi
di
possibili
manipolazioni:
“Essi
sono il piano delle
nostre azioni eventuali
che viene rimandato ai
nostri occhi come da
uno specchio, quando
percepiamolesuperfici
e i contorni delle cose
[...].Abbiamodettoche
i corpi bruti vengono
ritagliati nella stoffa
della natura da una
percezione
le
cui
forbici seguono, in
qualche
modo,
il
tracciato delle linee su
cui potrebbe passare
l’azione”.5
L’intelligenza
e
la
percezione
immobilizzantesonogli
strumenti
di
un
interventosulmondoal
servizio
della
sopravvivenza
della
specie
umana.
L’azione, per essere
efficace,deveritagliare
il mondo secondo linee
di possibile intervento.
Al fine di manipolarlo
deve però essere in
grado di misurare e di
prevedere, di foggiare
strumenti e macchine,
di estendere il suo
poteresuipiùdisparati
fenomeni. Per questo
l’intelligenza
e
le
scienze
sono
il
prolungamento
dell’azione nella loro
capacità di fabbricare
oggetti
artificiali,
strumenti e macchine
semprepiùperfetti.
Èlanecessitàpratica
dell’azione
che
seleziona i ricordi in
vistadelledifficoltàdel
momento, che chiama
inaiutolamemoriaper
risolvere
analogicamente
le
impasses di volta in
volta incontrate. Il
passato si conserva
così virtualmente, in
maniera automatica, e
la
memoria
è
paragonata a un cono
rovesciato,
il
cui
vertice condensa un
numero minimo di
ricordi nel toccare il
pianodelpresente,che
sempre si allontana e
sempre è inseguito,
mentre
i
ricordi
aumentano
progressivamente
quanto più si risale
versolabase.“Chinato
sul
presente”,
il
passato ci insegue e
bussa alla porta della
coscienza.
Questo tempo non
trova ascolto se non
quando è considerato
utile,
quantificabile.
Soltanto lo spazio,
tuttavia,
si
può
misurare, soltanto quel
che è esattamente
programmato
e
prestabilito si può
prevedere.
Succede
però
che
questo
paradigmadidominioe
di controllo del reale
venga impropriamente
esteso anche al campo
della coscienza e della
cultura
umana,
spazializzando il tempo
e
pietrificando
e
omogeneizzando
quanto si modifica e si
sviluppa. Ecco allora
che i nostri stati di
coscienza, che sono
“come degli esseri
viventi,
incessantemente in via
di
formazione”,
vengono
assimilati
all’esterioritàreciproca
delle cose inerti (al
tempo
cronologico
suddiviso
in
parti
uguali) e considerati
stabili, malgrado la
loroinstabilità,distinti,
malgradolaloromutua
compenetrazione.
Il tempo cronologico
è sostanzialmente quel
simbolo t, impiegato
nelle equazioni della
meccanica, che offre a
Bergson,
giovane
professore a ClermontFerrand,
la
prima
occasioneperriflettere
sulla durata e per
distinguere il carattere
astratto del primo dal
carattere
concreto
della seconda, che ha
valore intensivo ed è
“creazione
continua,
sgorgareininterrottodi
novità”. E mentre il
tempo cronologico è
supposto
unico
e
lineare, quello della
durata è multiplo,
elastico,
complesso,
privodiununicoritmo.
Dicontroallacoscienza
diluita e segmentata
dal tempo cronologico,
esteriorizzata
e
dipendente dalle cose,
occorre riappropriarsi
individualmente
dell’esistenza,
riscoprireinsestessila
sorgente
della
spontaneità e della
trasformazione,
lo
slancio “floreale” anti-
meccanicistico.
Se
nellacornicedeltempo
spazializzato si assiste
alla dissipazione dell’io
e alla sua diretta
subordinazione
a
esigenze
sociali
spersonalizzanti,
all’interno
della
“durata”
ciascuno
amministra
e
capitalizza il proprio
sviluppo,
facendo
“valangasusestesso”.
Su
quale
fulcro
insistere per uscire
dalla
normale
condizione di inerzia,
dal
frequente
impoverimento
e
passività
della
coscienza? Triste è
infatti la condizione di
chi
si
lascia
semplicemente
trascinare
dall’abitudine:
“La
maggior parte del
nostro tempo, noi lo
viviamo all’esterno di
noi
stessi,
non
percepiamo del nostro
io che un fantasma
scolorito, ombra che la
durata proietta sullo
spazio omogeneo. La
nostra esistenza si
svolge dunque nello
spaziopiuttostochenel
tempo; viviamo per il
mondo
esteriore
piuttosto che per noi;
parliamo piuttosto che
pensare; ‘siamo agiti’
piuttosto che agire noi
stessi.
Agire
liberamenteèprendere
possesso di sé, è
rimettersi nella durata
pura”.6
Invertire la rotta è
peròdifficile,inquanto
ilnostrosensocomune,
storicamente acquisito,
deriva dal paradigma
dello spazio omogeneo
e inerte, su cui
interviene, ritagliando
e
collegando,
una
intelligenza
strumentale che non è
né vera né falsa (in ciò
Bergsonèstrettamente
imparentato con tanta
parte della cultura
filosoficadell’epoca,da
Nietzsche
all’empiriocriticismo,
da James all’immagine
crocianadellascienza).
Dal mondo dell’azione,
ossia anche del lavoro,
si può evadere verso il
mondo della durata
pura, della libertà, il
cui regno comincia
oltre la prassi, oltre il
lavoro. E chi potrà
godere
di
questo
privilegio? Chi potrà
elitariamente sottrarsi
all’“essere agiti”? Chi
potrà
evitare
la
degradazione
–
economica,
emozionale,
intellettuale
–
dell’esistenza? Vi è in
Bergson
un’implicita
protesta
contro
il
deterioramento
di
questo vivere, l’oscura
impressione che la
scienza sia diventata
un alleato dell’illibertà
edellareificazione.
A ciò egli reagisce
sostanzialmente
con
due strategie. In primo
luogo, enfatizzando lo
slancio
in
avanti,
negando ogni datità
immobile
e
ogni
riduzione al presente o
al già-stato, senza
tuttavia
promettere
alcunaassicurazionedi
effettivo
progresso:
l’evoluzione
è
imprevedibile, si può
solo nutrire fiducia nel
cambiamento. Questo
perché la “durata”
viene
garantita
dall’analogia tra la
coscienza umana e la
vita della natura nel
suo
complesso.
Entrambe
sono
creazione
continua,
autoproduzione.Lavita
psichica
è
uno
zampillare costante di
nuova, imprevedibile
spontaneità. Il suo
“slancio”èsolidalecon
l’impulsounicocheèla
vita in generale, che si
dissocianellesuevarie
forme
animali
e
vegetali,
subendo
arresti, deviazioni e
regressi, ma anche
cicatrizzando le sue
ferite e procedendo
sempreinavanti.Nella
Evoluzione
creatrice
(1907) l’accento cade,
più che sul recupero
del tempo perduto,
sullaproiezioneversoil
futuro, che è un caso
particolare della spinta
dell’universo
nella
direzione di continue
metamorfosi. Una sola
e identica avanzata,
indivisibile
e
ubiquitaria,
permea
tuttigliesseri.Bergson
la paragona a “una
carica travolgente” di
unimmensoesercito.A
proposito di questa
metafora militare, è
interessante notare –
per inciso – come gli
ufficiali
francesi,
educati all’Accademia
da
insegnanti
bergsoniani alla tattica
e
alla
strategia
dell’élan
vital,
morissero a migliaia,
nelprimoperiododella
Grande guerra, in
“cariche travolgenti”
contro
le
munite
trinceetedesche.
Alla luce di questa
teoria Proust appare
una specie di Bergson
capovolto, malinconico,
cheinverteladirezione
dello slancio vitale:
invecediindirizzarloin
avanti, verso il futuro
indefinito della carica
di
cavalleria
della
specie,
lo
ripiega
all’indietro nel tempo
perduto
individuale,
per ritrovarvi tuttavia
l’eterno. Lo slancio
vitale
bergsoniano
avanza
comunque
lungo le linee di una
evoluzione divergente,
che opera non per
addizione
o
associazione, ma per
sdoppiamento
e
dissociazione, e che
contiene
arresti,
deviazioni,
regressi,
atrofizzazioni
o
cicatrici di possibilità
inespresse, latenti o
bloccate. Nella vita
individuale,
dall’infanzia
alla
maturità, si perde
sempre qualcosa, si
restringe, col crescere,
l’areadelpossibile.Noi
siamoinfatticostrettia
mantenere la nostra
identità in una crescita
“a stelo”, potando
continuamente
le
possibili ramificazioni
della
nostra
personalità, gli io che
avremmo
voluto
diventare: “Ognuno di
noi, con un colpo
d’occhio retrospettivo
sulla
sua
storia,
constaterà che la sua
personalitàdibambino,
per quanto indivisibile,
riuniva in sé persone
diverse, che potevano
restar fuse insieme
perché erano allo stato
nascente:
questa
indecisione piena di
promesse è uno dei
maggiori
fascini
dell’infanzia. Ma le
personalità
che
si
compenetrano
divengono,
col
crescere, incompatibili
e, poiché ciascuno di
noi non vive che una
sola vita, è costretto a
fare una scelta. Noi
scegliamo, in realtà,
incessantemente,
e
incessantemente
abbandoniamo molte
cose. La strada che
percorriamo nel tempo
ècopertadellemacerie
di tutto ciò che
cominciavamoaessere,
di tutto ciò che
avremmo
potuto
diventare”.7
Immergendoci nella
durata
sentiamo
nuovamente
pulsare
unoslancioche,inuna
delle ultime opere
(Durata e simultaneità,
del 1922), diventa
cosmico,
coinvolge
l’intera realtà. Con i
“colpi di sonda della
durata
pura”
giungiamo a noi stessi,
diventiamo
liberi,
riusciamo a ricostruire
il senso della nostra
esistenza.
La seconda strategia
consiste nell’arroccarsi
all’interno dell’ultima
fortezza
della
coscienza individuale,
dove si è accumulato
quel che si è potuto
salvare
dalla
reificazione, dove si
celebra il corroborante
ritodirammentarsidel
proprio io e da cui si
spera, un giorno, di
poter compiere una
sortita per rendere
appena più complesso
e profondo lo spazio
esterno.
All’efficacia
delle
scienze
è
contrapposta la verità
della filosofia, custode
di una vita più intensa.
La
pratica
della
filosofia permette alla
coscienza individuale
di ricostituirsi in unità
dinamica,
di
ricongiungersi a se
stessa, al di là della
segmentazione e della
dissipazione imposta
da
un’esperienza
dissolvente
e
spersonalizzante. L’io
ha
bisogno
di
ricomporsi,
di
ristrutturarsi
continuamente e di
conservare,
nello
stesso
tempo,
la
propria
identità
e
integrità (partendo da
esigenze analoghe, con
soluzione
diversa
Nietzsche invocò il
volere
se
stessi
nell’eterno
ritorno
dell’uguale).
Il
conflitto
tra
l’individualità e la
disgregazione che la
minaccia
è
rappresentato,informa
drammatica,
come
agone tra fluidità e
congelamento,
tra
tempo e spazio, tra
neo-lamarckismo (per
cui
l’evoluzione
è
mossa da un bisogno
interno) e darwinismo
(per cui è mossa dalla
lotta
per
la
sopravvivenza).
Fluidità,
movimento,
bisogno
sono
le
categorie portanti del
pensiero di Bergson,
ma anche quelle che
provocano
più
resistenze
nella
coscienza
comune,
“tolemaica”: “Dinanzi
allo
spettacolo
di
questa
mobilità
universale, alcuni di
noi saranno presi da
vertigini. Il fatto è che
sono abituati alla terra
ferma; non possono
avvezzarsi al rollìo e al
beccheggio.
Hanno
bisogno di punti ‘fissi’
ai quali appendere il
pensiero e l’esistenza.
Essi credono che se
tutto passa, niente
esista;eche,seilreale
è mobilità, esso non è
giàpiùnelmomentoin
cui lo si pensa, è
sfuggito al pensiero. Il
mondo
materiale,
dicono,
viene
a
dissolversi e lo spirito
ad annegare nel flusso
torrentizio delle cose.
Si tranquillizzino! Se
consentiranno
a
guardarlo
direttamente,
senza
veli
interposti,
il
cambiamento apparirà
loro ben presto come
ciò che può esservi al
mondo
di
più
sostanziale e di più
durevole”.8
In questo universo in
perenne movimento, la
realtà va ridisegnata e
reinterpretata
di
continuo; il concetto di
“dati
sensibili”
rigidamente
positivistico va sciolto
(l’oggetto visibile si
complica in macchie di
colore, si dissolve in
linee e piani che non
obbediscono più ai
canoni della vecchia
geometriaproiettiva;le
tonalità musicali si
intrecciano, i suoni si
sfumano o gli accordi
diventano
audaci,
dapprima dissonanti o
urtanti);
anche
il
linguaggioeimodulidi
pensiero
devono
mutare, scombinarsi,
ricomporsi a livelli
diversi e asimmetrici,
acquistare
maggiore
plasticità ed elasticità,
per tener dietro a stati
di coscienza e a
progetti di intervento
su un mondo mutevole
che hanno un alto
coefficiente
di
obsolescenza; devono
andare sempre oltre la
capacità
media
di
ricezione del grosso
pubblico, che raffigura
il
ricostituirsi
del
momento inerziale, la
passività
e
la
reificazione
che
rapidamente
si
riproduceaogninuova
avanzata.
3.Periferiedellavita
Anche per Georg
Simmel
l’individuo
moderno è mobile,
fluido, plasmabile. Ma
nel senso di un
intreccio variabile di
realtà date e di
possibilità
costruite.
Esso è simile a una
cifra da cassaforte,
formata da elementi
comuni a tutti gli altri,
mescolatiperòinmodo
da
produrre
una
precisa
e
inconfondibile
combinazione.
Nel
passato l’uomo era
incapsulato dentro una
molteplicità di sfere
tendenzialmente
concentriche (famiglia,
stirpe,
corporazione,
Stato,
Chiesa).
Abbandonando
tale
ordine e ponendo il
singolo all’intersezione
di
circoli
sociali
eccentrici, la società
contemporanea avanza
invece
verso
una
accentuata
differenziazione.9
L’individuodiventacosì
tanto più se stesso,
quanto più ingloba
tratti di universalità
condivisi con altri e
quanto più allarga il
ventaglio
delle
combinazioni possibili.
Oscillando tra processi
di socializzazione e di
personalizzazione,
ciascuno
ha
ora
l’opportunità – non
sempre còlta, e non
sempre felice – di
“realizzarsi”.
Dare
senso
alla
propriavita,laddovela
centratura
dell’individuononèpiù
garantita
dalle
istituzioni, è tuttavia
un’impresa ardua. A
ogni accrescimento del
ruolo della soggettività
siproduceinfatti,come
contraccolpo,
una
dilatazione dell’ambito
dell’oggettività
(e
viceversa), nel senso,
ad esempio, in cui la
razionalità inserita in
unasemplicemacchina
da cucire (oggettività
priva di coscienza,
progettata
però
consapevolmente
da
uno o più uomini)
prende il posto della
coscienza, dell’abilità,
della
capacità,
dell’attenzione
della
donnacheconl’agoeil
filo eseguiva a mano le
medesime operazioni.
Simili
movimenti
risultano ora inglobati
nella
razionalità
internadellamacchina,
in cui lo spirito “è per
cosìdiretrapassato”.10
La diffusione delle
macchineesoneradalle
mansioni più pesanti o
cherichiedonomaggior
tempo,
ma
la
prestazione si paga,
persino nel campo dei
lavori domestici. Alla
donna di determinati
ceti si spalanca infatti,
all’improvviso,
un
inatteso
spazio
di
virtualità, di tempo
libero, di cui essa però
non ha ancora appreso
a godere. La nuova
condizione la mette
anzi in conflitto con il
proprio
ruolo
tradizionale, giacché il
matrimonio in quanto
istituzione
non
ha
progredito
con
la
stessa velocità dello
“spirito soggettivo” dei
coniugi
e
delle
innovazioni tecniche.
La liberazione dalle
fatiche non si traduce
così in una maggiore
soddisfazione
personale,
in
un
aumento sensato del
tempo di una vita
sensata:
“moltissime
donne della classe
borghese hanno visto
sfuggire il contenuto
attivo della vita senza
che con altrettanta
rapidità altre attività o
altre
mete
siano
subentrate nel posto
rimasto
vuoto:
la
frequente
‘insoddisfazione’ delle
donne
moderne,
l’inutilizzabilità delle
loro
forze
che
retroagendo provocano
tutta una serie di
turbamenti
e
di
distruzioni, la loro
ricerca,inpartesanae
in parte morbosa, di
conferme in un ambito
esterno alla casa, è il
risultato del fatto che
la tecnica nella sua
oggettivitàhapresoun
cammino proprio, più
rapido della possibilità
di
sviluppo
delle
persone”.11Quantopiù
la razionalità emigra
dalla
coscienza
soggettiva e si insedia
in
automatismi
e
supporti
materiali
(come il denaro), tanto
più il singolo rischia
dunque
di
venire
svuotato delle sue
precedentiprerogative.
La razionalità tende a
diventare
priva
di
senso e il senso privo
di
razionalità.
Il
trasferimento
della
spiritualità
entro
automatismioggettivie
acoscienziali
lascia
tuttavia agli individui
uno spazio sempre più
ampio di libertà e di
indeterminatezza. Essi
non si devono ora
preoccupare tanto di
sopravvivere,quantodi
non
“sotto-vivere”,
ossia di non restare al
di sotto delle proprie
possibilitàinespresse.
La pienezza e il
significato della vita si
ritrovanoperòintempi
e spazi virtuali, in un
altroveinsituabilenella
serie degli eventi e dei
luoghi in cui siamo
quotidianamente
collocati.
A
essi
giungiamo
in
un
movimento che solo
apparentemente va ad
ventura, verso le cose
future,eindirezionedi
paesi
esotici.
Li
scopriamo invece nel
presente e dentro di
noi,
in
zone
“endotiche” (osservate
dall’interno)
dell’esperienza.
Ciò
che
si
dimostra
dapprima estraneo o
stranieroègiàinnoi,è
anzi noi. Attraverso un
falso
movimento,
Simmel
scopre
l’essenziale
nell’inessenziale,
fissando il centro dei
nostri interessi nella
periferia della vita
consueta:
nel
marginale,
nell’eccentrico, nelle
possibilitànonsaturate
che
ci
vengono
incontro come un dono
o come il risultato di
un’attività
non
interamente
nostra,
noninteramentevoluta
(l’avventura, i sogni, le
opered’arte).
Attraversando spazi
logicamente
intransitabili, si varca
con il desiderio la
parete dello specchio
che separa il reale
dall’immaginario,
si
penetra in un mondo
senza spessore che
apparepiùsignificativo
di
quello
in
cui
tridimensionalmenteed
effettivamente viviamo.
Sistabilisceungiocodi
vicinanza
e
di
lontananza.
Siamo
sospintiversounazona
di irrealtà verace o di
derealizzazione
che
soddisfa,
verso
un’illusione più vera di
ogni realtà che ci
circonda (non vera in
senso percettivo o
logico, ma in quanto ci
sta maggiormente a
cuore,
perché
la
intuiamocomeluogodi
realizzazione
di
possibilità inattingibili
dal mondo). Si aprono
così
impreviste
e
improbabili finestre di
senso,
mondi
e
enclaves
extraterritoriali
alla
realtà e al tempo
cronologico,
che
alludono a un’altra
esistenza più degna di
essere vissuta, a una
gemma
incastonata
nella
banalità
del
quotidiano,
a
una
eternità come “cessare
delle
relazioni
temporali”.12
4.Sperareneltragico
Contro
Simmel,
Lukácsrifiutal’erranza
dell’avventura e del
marginale per trovare
il baricentro e la
verticalitàdellavitanel
carattere
definitivo
dell’attimo.
Occorre
poggiare su un punto
archimedeo che sia
sottratto
alla
mutazione, su una
necessità
tragica,
irrevocabile che non si
dissolvanuovamentein
possibilità: “Oggi noi
possiamo nuovamente
sperare l’avvento della
tragedia, perché mai
comeoggilanaturaeil
destino furono così
terribilmente
senz’anima, mai come
oggi le anime umane
percorrono in tanta
solitudine le strade
abbandonate;
è
possibile sperare in un
ritorno della tragedia,
quando
si
siano
dileguati del tutto gli
incerti fantasmi di un
ordine di comodo, che
la viltà dei nostri sogni
ha proiettato sulla
natura per crearsi
un’illusione
di
sicurezza”.
Non
l’avventura
conduce
dunque al centro della
vita, ma la tragedia.
L’avventura non fa che
amplificare
l’indeterminatezza
della vita moderna.
Esistenza e vita si
contrappongono come
il relativo e l’assoluto.
Il tragico ci pone
dinanzi alle profondità
dei “grandi istanti”.
Allorché
li
si
incontrano, si spalanca
dinanzi a noi “il vuoto
di abissi sempre più
bui”, e si avverte un
subitaneo
silenzio.
Soltanto
allora
riusciamo a dare un
indirizzo alla vita che
“rotola senza scopo”.
In questi attimi il
mutevole
diventa
infatti definitivo, il
casuale necessario. Il
temposiredimeeforse
si apre la possibilità di
cogliere, nella sua
caducità
stessa,
i
barlumi dell’eterno: “È
possibile far sì che i
colori, il profumo e il
polline
dei
nostri
istanti, i quali forse
domani non saranno
più, vengano sottratti
una volta di più al
deterioramento,
è
possibile
cogliere
l’intima sostanza di
questa
nondeteriorabilità – anche
se
ignota
a
noi
stessi?”.13
L’energia umana si
concentra
intensivamente
in
simili
momenti
privilegiati, rifiutando
la
dispersione
estensiva
e
la
ripetitività
del
quotidiano. Entriamo
con
essi
nell’“età
eroica
della
decadenza”,
quando
non è più lecito
precipitare
o
temporeggiare,
allorché
occorre
fermare
il
declino
accettandolo
virilmente, sbloccando
un’impasse:“Quandole
cause
che
originariamente
si
opponevano
al
sentimento vitale, i
fatti
sentiti
come
opposizionali e altri
sentimenti entrati in
contrasto inconciliabile
siingigantisconofinoa
resistere
con
pari
forza,
allora
sopraggiunge il reale
declino. In questo
modo ha inizio l’età
eroica della decadenza
in cui non è più
possibile
valutare
edonisticamente
la
virtù, vedere la vita in
modo che la virtù sia
ricompensa, la colpa
espiazione, e in cui,
tuttavia, nelle virtù
continua a resistere
l’energia
posizionale
della intensità infinita
della vecchia vita,
un’energia
che
è
incapace di scendere a
patti con la mutata
realtà e quindi è
destinata ad uscire
perdente [...] sono
tempiincui,perilfatto
di problematizzarsi, la
vita non esiste più
come valore centrale
per l’uomo etico”. Si
avverte “il declino
tragico della propria
esperienza”14esipone
il problema di come
salvarla
da
tale
equilibriocheparalizza
ledecisioniedissipale
energie, favorendo il
“chiaroscuro”
dell’esistenza. Certo,
gli uomini sono per lo
più ancora riluttanti al
tragico. Essi aspirano
simmelianamente alle
delizie
dell’indeterminato,
dell’ignoto
e
dell’avventura:
“Per
loro dietro ogni parete
di roccia che non
potranno mai superare
si
celano
paradisi
imprevedibili
ed
eternamente
irraggiungibili.Perloro
la vita è anelito e
speranza,
gli
sbarramenti
imposti
dal destino diventano
per loro, con grande
naturalezza,
arricchimento interiore
dell’anima.L’uomonon
apprende
mai
dall’esistenza la foce
dove sboccano i suoi
fiumi: laddove nulla
giunge a compimento,
tutto è possibile: il
compimento
è
il
miracolo”.
Nella
decisionetragica,inun
solo attimo, invece,
spogliato
di
temporalità,
si
concentra e prende
forma il senso della
vita. Allora ciascuno
incontra e ritrova se
stesso.
In
questa
Selbstbegegnung – in
questo“incontroconse
stessi”,
come
lo
chiameràErnstBloch–
il centro immobile,
atemporale
dell’esistere
si
intravede nella luce di
un
lampo
di
discontinuità rispetto
all’esistenza esperita
come vuoto scorrere.
La morte, il limite
divengono fattore di
cristallizzazione
definitiva,
danno
significato alla vita, la
rendono fissata una
volta per sempre. Ed è
propriol’esperienzadel
limite a risvegliare
l’anima
all’“egoità”,
all’autocoscienza,
a
impedire che evapori
nell’aria,
che
si
disperda in mille rivoli
che non hanno alcuna
focevisibile.
La tragedia strappa
dunque dai margini di
se stessi e conduce al
centro: “Nella vita
comune gli uomini
esperiscono solo la
periferia di se stessi”.
La tragedia costituisce
il
miracolo
che
permette al definitivo
di entrare nella vita,
che evita il dissolversi
di tutto in variazioni:
“Essa interviene nel
momento in cui delle
energie
misteriose
estraggono dall’uomo
la sua essenza, lo
costringono
all’essenzialità;
il
processo tragico si
svolge attraverso un
manifestarsi
sempre
maggiore di questo
unicoveroessere”.15
Nella tragedia il
culmine della vita si
toccanelladissoluzione
e nella morte. In essa
l’essenziale è “che una
vita acquisti la propria
espressione
nel
tramonto, nella rovina,
che il massimo della
vita sia raggiungibile
solo nella morte e che
questo momento sia
rappresentativo della
vita tipica [...]. La
tragedia
rende
consapevoli i processi
vitali, sicché si prova
una gioia inebriante
quando si riesce a
vederliintrasparenzae
a comprenderne la
necessità”.16 Contro la
speranza,
esplicitamente
rifiutata, la tragedia
riduce le aperture e le
indeterminatezze
dell’esistenza
a
univocità irrevocabile,
all’esperienza di un
limite invalicabile. È
necessario
saper
negare l’esistenza per
raggiungere la vita,
essere
capaci
di
ripudiare la realtà
empirica
per
conseguire quel che è
immutabile e recinto
entro i suoi limiti: “Ciò
che gli uomini amano
dell’esistenza è la sua
temperie,
la
sua
indeterminatezza,
il
suo costante oscillare
come un pendolo che
non tocca mai gli
estremi; amano la
grande
incertezza,
come una monotona,
soporifera ninna nanna
[...]. Gli uomini odiano
l’univocitàelatemono.
La loro debolezza e la
loroviltàcircuisceogni
impedimento che viene
dall’esterno,
ogni
ostacolo che impedisce
lelorostrade”.17
5.L’orroredella
stagnazione
Bergson, Simmel o il
giovane Lukács sono
inseriti in questo vasto
programma di ricerca
di nuovi linguaggi e,
indirettamente,
di
rivitalizzazione di una
civiltà. Sono vicini ai
Verlaine, ai Debussy o
all’art
nouveau,
condividono il plus
ultra
delle
avanguardie,
fanno
quadrato
attorno
all’individualità e alla
continuità
insidiate,
hanno un sintomatico
orrore
della
stagnazione, malattia
mortale
anche
di
un’economia che deve
avanzare
per
non
soccombere. Ma non
sono
i
soli
a
partecipare di questa
profondainquietudine.
Dopo gli anni della
Comune di Parigi e
della
“grande
depressione”, in molti
dei loro contemporanei
si fa strada l’idea che
l’auto-regolazione del
mercatosiafinitaeche
il governo della folla
stia per cominciare,
che si debba essere, in
circostanzeestremema
non
improbabili,
costretti a passare o
sotto le forche caudine
dellapiùrigidaecoatta
regolamentazione
o
sotto
quelle
dell’anarchia
economicaesociale.La
“mano nascosta”, di
smithiana
memoria,
sembra
stanca
di
intervenire sempre a
porre rimedio al mal
fatto, trasformando i
viziprivatiinpubbliche
virtù e l’egoismo in
beneficio collettivo. La
relativaspontaneitàdei
comportamenti
individualinonproduce
più automaticamente il
presunto
interesse
generale; non si dà più
armonia tra il “libero”
agiredeisingoliedelle
classieilprogressodel
“divenire sociale”. La
visibilitàdeiprocessisi
è
intorbidata:
tra
l’azione e il risultato
previsto si è incuneato
l’azzardo,
l’imprevedibile,
l’elevato quoziente di
rischio.
Solo
il
risultato, a cose fatte,
potrà stabilire se i
mezzi erano adatti allo
scopo.
L’efficienza
presuppone
una
convalida a posteriori.
Interminignoseologici:
tra il pensiero e i suoi
oggetti non c’è più
corrispondenza e la
“verità” non è più
concepibile
come
adaequatio della cosa
all’intelletto.
Conoscere
può
significare al massimo
dominare, manipolare,
organizzare il mondo a
finipratici,dicomando
o di sopravvivenza.
Morto anche Dio – per
larghi strati sociali –
viene a cessare la
necessità
di
una
teodicea,
di
una
giustificazione di Dio
mediante l’esibizione
dell’ordinedelmondo.
Che fare? Urgono
nuovi
modelli
progettuali. Si può
agire su due registri
(separatamente
o,
meglio,
in
combinazionefraloroo
con altre tecniche): 1)
aumentando l’asprezza
e la capillarità del
controllo sociale, della
disciplina esterna e
interna
(tramite
meccanismi
di
interiorizzazione etica,
politicaoterroristicadi
determinate regole e
obblighi);
2)
promuovendo
lo
sviluppo delle forze
produttive, mobilitando
le energie individuali
delle classi dirigenti e
richiamando alle armi
le
riserve
della
coscienza. Nel primo
casosidevericorrerea
una
pianificazione
occhiuta
e
spersonalizzante,
“spazializzante”,
nel
senso che si debbono
neutralizzare
le
coscienze devianti di
chi non ha interesse o
volontà di partecipare
a
questa
ristrutturazione.
Nel
secondo
caso,
la
coscienza che può
pensare a se stessa,
perduta la sua – in
parte
ideologica
–
spontaneità
sociale,
cerca in sé una
spontaneità
al
quadrato, uno sviluppo
esponenziale che parta
dal rinvenimento della
propria base identica.
Questa più potente
spontaneità, che è
creazione del nuovo,
trova il suo pendant in
un
campo
apparentemente
lontano,
ma
che
obbedisce alle stesse
linee di forza di un
progetto
sociale
complessivo:
nella
Teoria dello sviluppo
economico
di
Schumpeter, del 1911.
Opponendosi ai teorici
dell’equilibrio
economico
generale
(Walras, Pareto), egli
proclama la necessità
dello sviluppo, fondato
su
innovazioni
veicolate dalla volontà
di
successo,
dalla
combattività e dalla
“gioia di creare” di
grandiindividualità,gli
imprenditori, i capitani
d’industria.
Costoro
spezzano il “flusso
circolare”, la normale
routine economica, e a
esso sostituiscono la
dinamica
dello
sviluppo. Per lo più gli
uomini, allo scopo di
risparmiare
energia,
vivono inconsciamente
in un universo di
ripetitività,
di
abitudini: “Ciò deriva
dal fatto che [...] ogni
conoscenza ed ogni
abitudine, una volta
acquisite, rimangono
così solidamente ferme
in
noi
e
così
indiscernibilidaglialtri
elementi della nostra
persona quanto una
rotaiadellaferrovianel
terreno.
Esse
non
hanno bisogno ogni
volta
di
essere
rinnovate
e
rese
consapevoli
e
sprofondano
invece
negli
strati
del
subcosciente”.18
Gli
imprenditori
capovolgono
questo
atteggiamento.
Innovare per non
cadere
nella
stagnazione e nella
regressione; sviluppare
lacoscienza(almenodi
alcuni) e tenerla vigile
per
non
farsi
risucchiare nell’inerzia
e nella dispersione.
Queste sono le parole
d’ordine
per
esorcizzare il pericolo,
allora
sentito,
del
carattere precario di
quella “civiltà” e di
quella coscienza. Basta
infatti che la coscienza
siallentiperrivelarela
sua labilità. Nel sogno,
nellarêverie,neglistati
crepuscolari
e
patologici
si
può
osservare
la
sua
scomparsa, la sua
“superfluità”perlavita
organica. Essa è una
acquisizione
filogeneticamente più
recente, che non ha
tuttora messo salde
radici, che sfigura
dinanzi alla stabilità
degli
organismi
biologici
e
della
“memoria organica”.
Lacoscienzaelaciviltà
sono
fenomeni
intermittenti: possono
essere
temporaneamente
messe tra parentesi da
un disturbo psichico o
daunmortaleconflitto.
In questi termini si
esprimeràancheFreud
nelle
Considerazioni
attualisullaguerraela
morte
del
1915.
Avvertiamo
in
tali
affermazioni
la
percezione
storica
indiretta della crisi e
dell’equilibrio precario
non della civiltà in
generale, ma di quella
specifica forma, l’idea
che
l’obnubilamento
della coscienza sia già,
latente,
dentro
ciascuno di noi, al pari
diquellochepotremmo
definire il “cattivo
selvaggio”, il primitivo
rintanato nella caverna
della
coscienza
e
pronto a prendere il
sopravvento
non
appena abbassiamo la
guardia. Avvertiamo,
sempre
più
chiaramente e da più
parti, l’idea che una
ricaduta nella barbarie
è
possibile
o
addirittura imminente,
che il progresso e gli
abiti di razionalità
precedentemente
in
vigore non sono più
garantiti
e
forse
neppure
più
desiderabili.
Così Georges Sorel è
portato a riflettere sui
corsi e ricorsi vichiani
della
storia
e
a
ipotizzare – a causa
dell’impaludarsi della
lotta di classe nel
riformismo – il ritorno
all’ingens sylva della
società
capitalistica
morente. Senza l’uso
dei “miti”, che rialzino
artificialmente il livello
dello scontro, vi è però
stagnazione e non
transizione
a
una
civiltà superiore. Nella
“nuova
metafisica”
dell’età moderna, non
più
basata
sul
rispecchiamento delle
presunte
strutture
oggettive del mondo, il
mito è prodotto della
volontà di credere,
costituisce
una
macchinachecatturae
articola
in
combinazioni sempre
nuove
le
energie
inconsce e le emozioni
degli uomini in vista di
azioni o sommovimenti
sociali. Esso non è
ancorato ad alcuna
prova di realtà o di
coerenza logica, ma
solo alla coerenza
fantastica, al rispetto
dei desideri di riscatto,
delle passioni, delle
aspirazioniedellelotte
delle
moltitudini
nell’imminenza
di
radicalimutamenti:“gli
uominichepartecipano
ai grandi movimenti
sociali si raffigurano la
loro prossima azione
sotto
forma
di
battaglie, da cui uscirà
il trionfo della propria
causa [...] in questo
senso,
lo
sciopero
generale
dei
sindacalisti
e
la
rivoluzione catastrofica
diMarxsonomiti”.19
Il rafforzarsi del
Quarto
stato,
il
diffondersi
dell’alfabetizzazione e
l’aumentato
numero
degli “intellettuali”, la
volontà delle masse
emergenti
di
partecipare
attivamente
all’organizzazione
sociale
e
politica,
appaiono a molti un
nefasto
livellamento
degli
uomini,
lo
scatenarsi
dell’anarchia
senza
volto promossa dai
socialisti.AnchePareto
concepisce in questo
modo il ruolo degli
intellettuali
piccolo-
borghesi
che
costituiscono
l’apparato dei partiti
socialisti:
“Il
proletariato
intellettuale
degli
spostati, che in parte
hanno
origine
dall’istruzione
pubblica, malamente,
scioccamente ordinata
dalla borghesia, muove
alla conquista dello
Stato e dei beni della
borghesia”.20EcosìLe
Bon annuncia una
nuova era di disordini,
di
insicurezza:
“L’avvento delle folle
segneràforseunadelle
ultime tappe delle
civiltà occidentali, un
ritorno verso quei
periodi di confusa
anarchia
che
precedono il fiorire di
nuove civiltà”. Per
fortuna di chi le sa
guidare, le folle sono
manovrabili (Mussolini
dirà di aver letto
innumerevoli volte la
Psicologia delle folledi
Le Bon): esse “si
trovano pressappoco
nelle condizioni di un
dormiente,
le
cui
facoltà
razionali,
momentaneamente
sospese,
lasciano
nascere nella mente
immagini di estrema
intensità, che presto si
dissiperebbero
se
intervenisse
la
riflessione”.21 I capi, i
meneurs de foules,
hanno un segreto per
farsi seguire, anche se
sembrano
spacciare
unicamente illusioni e
menzogne.
Essi
vendono in realtà la
cosa più preziosa, la
speranza. Guardando
indietro alla propria
infanzia, Le Bon vi
ritrova l’origine delle
sue convinzioni sulla
superiorità
della
suggestione irrazionale
rispetto
alle
argomentazioni
razionali e al connesso
principio di realtà.
Quando era bambino
giunse infatti al suo
paese un imbonitore,
un mago coperto di
vesti scintillanti. Dava
a poco prezzo un
rimedio contro tutti i
mali, un elisir capace
per
giunta
di
assicurare la felicità
agli
acquirenti.
Il
farmacista locale –
uomo
“segaligno,
magroesevero”–ebbe
un bel dire che si
trattava di semplice
zucchero:
“Ma,
vi
prego,
che
valore
potevano
avere
le
dicerie
di
questo
bottegaio
geloso,
contro le affermazioni
di un mago coperto
d’oro,
dietro
cui
imponenti
guerrieri
suonavano i corni? [...]
Quel che il mago
vendeva era l’elemento
immateriale che guida
ilmondoechenonpuò
morire: la speranza. I
preti di tutti i culti, i
politici di tutti i tempi,
hanno mai venduto
qualcosa
di
diverso?”.22
Dalla manipolazione
delle cose si passa alla
manipolazione
“scientifica”
degli
uomini,all’utilizzazione
dell’energia libera e
potenzialmente
eversivadellamassa,in
vista di scopi che le
sono
estranei.
L’intelligenza,
la
volontà, la capacità di
organizzazione e di
previsione delle élites
deve
concentrarsi,
intensificarsi,perpoter
guidare
strumentalmente
questa
energia
di
legame ancora cieca
(forse non per molto);
deve mantenere un
distacco permanente
dalla cultura e le
acquisizioni
della
massa, affrettarsi. Il
progresso – qualora
venga sostenuto – lo è
in forma parossistica o
connesso
con
la
distruzione, la morte
rigeneratrice.Inqueste
vesti
appare,
estremizzato,
nei
velenosi ma rivelatori
elogi marinettiani della
velocità,
della
macchina
e
della
guerra. Diversamente
da Bergson, qui la
macchina non è il
prodotto
dell’intelligenza
ottundente,
ma
il
modello
dell’uomo
dell’avvenire
e
la
sensuale compagna del
presente: “Non avete
mai
osservato
un
macchinista
quando
lava amorevolmente il
gran corpo possente
della sua locomotiva?
Sono
le
tenerezze
minuziose e sapienti di
un
amante
che
accarezzi la sua donna
adorata. Si è potuto
constatare nel grande
sciopero dei ferrovieri
francesi,
che
gli
organizzatori
del
sabotaggio
non
riuscirono a indurre
nemmeno
un
solo
macchinista a sabotare
la sua locomotiva.
Questo
mi
pare
assolutamente
naturale. Come mai
uno di questi uomini
avrebbepotutoferireo
uccidere la sua grande
amica fedele e devota,
dal cuore ardente e
pronto: la sua bella
macchina d’acciaio che
tante
volte
aveva
brillato di voluttà sotto
la
sua
carezza
lubrificante?
[...]
Bisogna
dunque
preparare l’imminente
e
inevitabile
identificazione
dell’uomo col motore,
facilitando
e
perfezionando
uno
scambio
incessante
d’intuizione, di ritmo,
d’istinto e di disciplina
metallica,
assolutamenteignorato
dalla maggioranza e
soltanto
indovinato
dagli
spiriti
più
lucidi”.23
Nella
disciplina
metallica
e
nell’identificazione col
motore,dispensatoredi
energia,
la
classe
dominante ottiene una
nuova legittimazione.
Modernizzando
l’apologo di Menenio
Agrippa, si può dire
che allo “stomaco”
della
proprietà
fondiaria, che avrebbe
ridistribuito
il
nutrimento
alle
“braccia” della plebe,
si
sostituisce
il
“motore”
del
capitalismo industriale,
che
trasmette
il
movimento agli organi
meccanici
della
“maggioranza”.
L’innovazione
passa
attraverso il controllo
rigoroso,
l’annientamentodiquel
che viene giudicato
“vecchio”, compresa la
guerra, la lotta contro
la “possente morte,
atletica e spalmata di
tenebre”.24 Anche gli
oggetticomincianocosì
a
cambiar
forma.
Finiscono le sinuose
formeliberty; il mondo
vegetale, di cui amava
ricoprirsi
un
industrialismo
che
ancora si vergognava
di se stesso, si è
disseccato;loslanciosi
è corazzato, irrigidito
nelle
asciutte
geometriedeglioggetti
diserieedellearmi.
In parte convergente
con le posizioni su
esposte è in Italia la
filosofia di Giovanni
Gentile, che tanto peso
ha avuto anche per
motivi extra-teoretici.
Egli era partito da una
interpretazione
in
senso attivistico del
marxismo – prassi
come
produzione
soggettiva dell’uomo,
educazione
dell’educatore (da una
sua
interpretazione
dellaterzadelleTesisu
Feuerbach di Marx),
unità di maestro e di
discepolo
–
per
giungere
a
una
concezione, più neofichtiana che neohegeliana,
del
movimentospirituale,e
all’adesionealfascismo
quale
erede
del
Risorgimento
e
antagonista
dell’atomismo
individualistico
attribuito
al
liberalismo. In lui il
pensiero è un atto che
non
può
mai
completamente
oggettivarsi, che deve
incessantemente
inglobare
l’alterità,
consumando anche le
scorie empiriche e
individualistiche.
È
energiachesiscaricae
si degrada dopo ogni
sosta (qui, veramente,
“chi
si
ferma
è
perduto”: siamo in
piena
guerra
di
movimento)
e
che
tuttavia perennemente
risorge dalle proprie
ceneri.
Nell’estatedel1943–
dopo il 25 luglio e
primadell’8settembre,
tra la caduta di
Mussolinieilmomento
cruciale
del
disfacimento
delle
istituzioni – Gentile
esprime uno dei punti
più
alti
del
suo
pensiero in Genesi e
struttura della società.
Con il pathos di chi
vede allontanarsi la
realizzazione dei suoi
ideali, elabora ancora
una volta il tema dello
“Stato
etico”.
Lo
considera lo scopo
supremo a cui tende
una
comunità
e,
insieme, lo strumento
della fusione completa
e senza residui degli
individui in un tutto
organico, la solida rete
che
istituisce
e
mantiene i vincoli di
solidarietà
tra
i
cittadini
di
una
determinata nazione.
Nei
confronti
dell’individuo, lo Stato
assumeilruolocheper
Agostino aveva Dio
nell’anima di ciascuno,
di essere “più intimo a
me stesso di quanto io
lo sia alla parte più
intima di me” e “più
alto delle mie facoltà
più
alte”
(cfr.
Confessioni, iii, 6, 11).
Per questo – dice
Gentile – esso non si
realizza nel mero inter
homines esse, ma vive
anche e soprattutto in
interiore homine. Noi
siamo lo Stato. Esso
peròcontieneancheun
elemento di alterità, di
superiorità, con cui
devo
entrare
necessariamente
in
conflitto. La sua è
un’autorità che sembra
limitare
arbitrariamente la mia
libertà sinché, dopo la
lotta, non capisco il
nascosto legame per
cui
l’individuo
si
sviluppa
parallelamente
allo
Stato. “In fondo all’Io
c’èunNoi”:èquestoil
motivo costante, che si
dispiega in numerose
variazioni
e
modulazioni. Alla base
dell’Io si ritrova “una
sorta di originaria
socialità”,25 che lo
àncora e lo stabilizza
nella sua identità che
diversamente sarebbe
per assurdo incerta e
mobile (perché, anche
volendo,
l’individuo
non riuscirebbe mai a
essere “questo Io”,
singolo atomo isolato,
l’Unico nel senso di
Stirner). L’individuo è
parte della societas,
alla
cui
vita
contribuisce. Ognuno
ha in sé il proprio
sociuseognipensareè
un
dialogare,
simultaneamente, con
sé e con l’altro da sé
che non rappresenta
soltanto un nostro
ospite passeggero, che
non è soltanto in noi,
ma è Noi. Nella
concreta dialettica di
“particolare”
e
di
“universale”
(due
entità
astratte,
se
considerate
isolatamente),
il
singolo non è pura
libertà, così come lo
Stato non è pura
costrizione.
La
conclamata identità di
particolare
e
di
universale, di libertà e
di autorità, risulta
tuttavia, in Gentile,
dubbia.Lanaturadello
Stato etico consiste,
infatti, proprio nel non
concedere al soggetto,
all’Io, alcuna reale
autonomia rispetto allo
Stato.
L’autorità
soffocacosìlalibertà,il
Noi l’Io. Al singolo
viene anzi interdetta la
possibilità di effettiva
negazione,
di
innovazione, di lotta e
di decisione autonoma
fruttuosa: tutto viene
avocato, in ultima
istanza, alla maestà
delloStato.
1
M. Proust, Alla
ricerca
del
tempo
perduto. Dalla parte di
Swann, in Alla ricerca
del tempo perduto,
Mondadori,
Milano
1991-95,pp.8-9,468.
2 Cfr. Id., Albertine
scomparsa, in Alla
ricerca
del
tempo
perduto, cit., pp. 215-
216.
3 M. Proust, Sodoma
e Gomorra, in Alla
ricerca
del
tempo
perduto,cit.,p.190.
4M.Proust,Iltempo
ritrovato,
in
Alla
ricerca
del
tempo
perduto, cit., pp. 218219.
5
H.
Bergson,
L’évolution créatrice,
in Oeuvres, Presses
Universitaires
de
France, Paris 1959, p.
504.
6 H. Bergson, Essai
sur
les
données
immédiates
de
la
conscience,inOeuvres,
cit.,p.151.
7
H.
Bergson,
L’évolution créatrice,
cit.,pp.579-580.
8 H. Bergson, La
pensée et le mouvant,
in Oeuvres, cit., p.
1385.
9 G. Simmel, La
differenziazione
sociale,Laterza,RomaBari1982,pp.119sgg.
10Ivi,p.136.
11
G.
Simmel,
Filosofia del denaro,
Utet, Torino 1984, pp.
654-655 e cfr. Id.,
Cultura femminile, in
Lamodaealtrisaggidi
cultura
filosofica,
Longanesi,
Milano
1985.
12 G. Simmel, Il
paesaggio di Böcklin,
in Il volto e il ritratto.
Saggi
sull’arte,
il
Mulino, Bologna 1985,
p.86.
13
G.
Lukács,
L’anima e le forme
(1911),
SugarCo,
Milano 1963, pp. 309,
231,228,235.
14 G. Lukács, Il
dramma
moderno,
SugarCo, Milano 1976,
pp.56-58.
15
G.
Lukács,
L’animaeleforme,cit.,
pp. 307-308, 314, 311312.
16 Id., Il dramma
moderno, cit., pp. 63,
65.
17
G.
Lukács,
L’animaeleforme,cit.,
p.307.
18
J. Schumpeter,
Teoria dello sviluppo
economico,
Sansoni,
Firenze 1971, pp. 103,
94.
19
G.
Sorel,
Considerazioni
sulla
violenza, Laterza, Bari
1970,pp.73-74.
20
V.
Pareto,
Memento homo, in “Il
Regno”, I, 1904, 55, p.
532.
21 G. Le Bon, La
psicologia delle folle,
Longanesi,
Milano
1970,pp.40,98.
22 G. Le Bon, La
psychologie politique,
Flammarion,
Paris
1911,pp.134-135.
23
F.T. Marinetti,
L’uomomoltiplicatoeil
regno della macchina,
ora
in
Teoria
e
invenzione
futurista,
Mondadori,
Milano
1968,pp.255-256.
24Id.,Labattagliadi
Tripoli,
Edizioni
futuriste di “Poesia”,
Milano1912,p.10.
25 G. Gentile, Genesi
e
struttura
della
società,
Sansoni,
Firenze1955,p.32.
II.Versonuove
evidenze:filosofia
esapere
scientifico
1.Ilpensiero
matematico
Di fronte a questa
strategia teorica che
dissolve e sfuma il
mondo,
che
pone
l’accento sulla durata,
la velocità, l’atto puro,
che
privilegia
il
momento psicologico,
soggettivo,
costruttivistico,
si
colloca una strategia
complementare
e
coeva, basata sulla
descrizione tersa e
minuziosa
dei
fenomeni, considerati
nella loro struttura e
anche
nel
loro
manifestarsi spaziale o
sociale,
e
sulla
dipendenza
del
soggetto da “datità”
immobili
che
si
impongono
per
autoevidenza
o
costrizioneesterna.Per
capire
meglio
la
differenza tra queste
due linee si può
ricorrere
a
un
paragone: mentre la
prima insiste sulle
funzioni di movimento,
le
dissolvenze,
le
sovrapposizioni e tutti
gli
artifici
tecnici
soggettivi del film del
reale, la seconda si
sofferma
piuttosto
sull’analisi accurata di
ogni
singolo
fotogramma
e
si
interroga
sulle
procedure specifiche
della sua costituzione.
In quest’ultimo caso
abbiamo in sostanza
una ripresa a più alto
livello della tematica
dell’oggettività
del
conoscere, una messa
in rilievo del carattere
di cogenza posseduto
dacertidatiedacerte
relazioni nei confronti
del
soggetto.
Il
positivismo
ingenuo
aveva in precedenza
cercato di risolvere il
problema
dell’oggettivitàfacendo
perno sul concetto di
“dato”:idatisarebbero
squadernati davanti a
tutti e non si dovrebbe
fare
altro
che
raccoglierli
con
metodo,
ordinarli
adeguatamente
ed
esporli.
In
tale
processo il pensiero e
l’interpretazione
apparivano
come
additivi non consentiti,
suscettibili di alterare
la purezza cristallina
dei fatti, mentre la
storicità dei paradigmi
percettivi, linguistici e
teorici non veniva
neppure esaminata e
assumeva
semplicemente
un
aspetto
naturalisticamente
eterno. Il soggetto era
una
spugna
che
assorbiva il mondo.
Quando però ci si rese
conto che i dati e gli
oggettisonoilrisultato
di
operazioni
complesse;
che
la
percezione
sensibile
stessa è una modalità
di strutturazione; che
esistono
molteplici
ordini
possibili
di
organizzazionedeidati;
quando
anche
le
“scienze esatte” furono
costrette dalla loro
dinamica interna ad
abbandonare
il
richiamo all’intuizione
esiaccorserocheidati
erano subordinati ai
parametri dei sistemi
osservativiscelti,allora
sembrò che il sapere
avesse perduto ogni
aggancio con la realtà,
che ogni certezza ed
evidenza
immediata
fosserotramontate.
Persino le scienze,
come la geometria e
l’aritmetica, che in
millenni di storia non
solo avevano dato
“buonaprovadisé”ma
erano anche diventate
un
modello
riconosciuto per altre
branche del sapere,
apparivano in profonda
crisi di identità. Il loro
stesso rapido sviluppo
sembrava
quasi
frastornante,
dissipativo, non più
riconducibile a criteri
unitari di intellegibilità
(anchequiloslancioin
avanti comporta una
perdita di visibilità dei
fondamenti e richiede
uno
sforzo
per
riappropriarsene, per
ricongiungersi
alla
propria
origine
e
comprendereleproprie
mosse). Come già era
avvenuto per i numeri
immaginari,
si
constatava
ora
la
fecondità operativa di
determinate
costruzioni, senza però
potersi
rendere
pienamente conto dei
motivi del successo.
Così la negazione del
quinto postulato di
Euclide – “nel piano,
per un punto esterno
ad una retta r si può
condurre una e una
sola parallela a r” –
legittimava in maniera
sconcertante
altre
geometrie
“noneuclidee”,
tutte
perfettamente
funzionanti, in cui
l’intuizione
sensibile
normale veniva messa
fuori
gioco:
nelle
costruzioni
di
Lobacevskij e di Bolyai
per un punto esterno a
una retta data passano
infinite parallele, in
quella di Riemann,
nessuna. Non vi sono
ormai geometrie più
“vere”
delle
altre
(anche perché si è
potuto dimostrare che
lo spazio soggetto alle
leggi
fisiche
della
teoria
einsteiniana
della
relatività
generale
è
noneuclideo)
e
tutte
devono coesistere in
una realtà pluralistica.
Cade con ciò l’idea di
uno spazio naturale,
intuitivamente
rappresentabile,
isomorfo rispetto a
quello euclideo, e si
accresce normalmente
il distacco tra la
comune
esperienza
sensibile e la scienza,
che sembra decollare
verso
atmosfere
estremamente
rarefatteecostituirsiin
universi di regole retti
soltanto dalla coerenza
interna.L’evidenzanon
appare più offerta dal
riferimento
a
un
patrimonio collettivo di
modalità percettive e
argomentative, ma si
attesta a livelli più
profondi, presuppone
prima un distacco
traumatico da esso e
un salto in direzione di
linguaggi specializzati,
settoriali, discontinui,
in cui essa si mostra
infine agli iniziati.
Comeachientrainun
ordine monastico si
chiede di abbandonare
il mondo e di sentire e
pensare diversamente,
così ora a chi entra
nella scienza si chiede
il
sacrificio
dell’intuizione
immediataelarinuncia
agli
atteggiamenti
prima
naturali.
Si
domanda
quello
sguardo,chepenetraal
di là dei fenomeni
esteriori, che è così
efficacemente espresso
da un racconto taoista:
il Duca Mu di Chin
prega
Po
Lo
di
trovargli un cavallo
superlativo, ma questi,
ormai
vecchio,
raccomanda un amico,
Chiu-fang
Kao,
indicandolo come il
miglior conoscitore di
cavalli; passati tre
mesi,
Chiu-fang
annuncia
di
aver
trovato un destriero
superbo e di averlo
lasciato a Shach’iu:
“Che tipo di cavallo è?
–chieseilDuca.–Oh,è
una cavalla di color
brunogrigiastro,–fula
risposta.
E
invece
quando
si
mandò
qualcunoaprenderlosi
scoprì che l’animale
era uno stallone nero
come la notte! Molto
dispiaciuto il Duca
mandò a chiamare Po
Lo. – Quel tuo amico –
gli disse – che avevo
incaricato di ricercare
un
cavallo,
ha
combinato
un
bel
guaio. Ma se non sa
neppure distinguere il
colore o il sesso di un
animale! Cosa mai può
saperedeicavalli?–Po
Lo emise un sospiro di
soddisfazione. – Si è
veramente comportato
così? – gridò. – Eh,
allora è diecimila volte
più bravo di me. Non
c’è paragone tra me e
lui. Ciò che interessa
Kao è il meccanismo
spirituale.
Per
assicurarsi l’essenziale
dimenticaidettaglipiù
comuni; tutto intento
alle qualità interiori,
perde di vista le
esteriori. Egli vede ciò
che vuol vedere e non
ciò
che
non
gli
interessa. Egli guarda
le cose che si devono
guardare e tralascia
quelle che non hanno
alcunaimportanza.Kao
èuncosìbravogiudice
di cavalli che ha in sé
lequalitàpergiudicare
cose ancora migliori
che i cavalli. – Quando
il cavallo arrivò, non vi
fu più alcun dubbio,
era
proprio
eccezionale”.1
Il
percorso
dall’ignoranza
al
saperematematiconon
è
più
così
relativamente
piano
come
nel
Menone
platonico, dove anche
un giovane schiavo
incolto,
se
opportunamente
guidato, può giungere
adimostrareilteorema
della duplicazione del
quadrato.
Gli
enti
matematici si sono
moltiplicati e le loro
reciproche
relazioni
sonodivenuteintricate.
Si possono percorrere
diverse strade per
arrivareacomprendere
lanuovasituazione,ma
tutte presuppongono o
un rafforzamento dei
processi fondativi sul
piano logico o una
riformulazione
delle
nozioni di intuizione,
evidenza
e
datità
(talvolta
questi
percorsi si incrociano).
Sul
terreno
delle
matematiche in genere
si assiste quindi a
tentativi
altamente
complessidiricercadei
fondamenti
comuni
mediante
una
connessione
di
matematica e logica –
attribuendo un diverso
significato
all’oggettività
degli
enti matematici –,
mediante strategie di
formalizzazione
che
prescindono
dalla
“verità” oggettiva di
tali enti o mediante la
scoperta
di
nuovi
procedimentiintuitivi.
Nellaprimadirezione
si muovono Cantor,
Frege e il Russell del
periodo precedente il
1914, che avevano
sostenuto l’oggettività
deglientimatematici,il
loro
essere
platonicamente
indipendenti dal nostro
pensiero. Così nel
fondare una teoria
logica dell’aritmetica
(già considerata una
scienzasenzadifficoltà,
quella che si comincia
a
insegnare
ai
bambini),
Cantor
collega il suo concetto
di “insieme” con l’idea
platonica o con il
miktón (l’agglomerato,
il
composito)
del
Filebo.2 E Frege, in
polemica con i fautori
della
logica
psicologistica,
come
Benno Erdmann, può
dire: “Io riconosco un
campo dell’oggettivo
non reale, mentre i
logici della scuola
psicologica ritengono
cheilnonrealesiaper
ciò stesso soggettivo.
Eppure non si riesce a
vedere
per
qual
recondito motivo ciò
che ha consistenza
indipendente da chi
giudica, debba per
forza essere reale, e
debba
risultare
in
grado
di
agire
immediatamente
o
mediatamente
sul
senso”.3
Una
proposizione
matematica non cessa
di essere vera allorché
io non la penso più,
“comeilsolenoncessa
di esistere allorché
chiudo gli occhi”.4
Russell, che aveva
creduto, con Frege,
nella realtà dei numeri
che popolano “il regno
senza
tempo
dell’essere”,5
è
categorico
nell’affermare
l’esistenza
platonicamente reale
dei
numeri:
“L’aritmetica
deve
esserescopertaproprio
nello stesso senso in
cui Colombo scoprì le
Indie Occidentali e noi
non possiamo creare
numeri più di quanto
Colombo abbia creato
indiani”.6 Attraverso la
matematica
l’oggettività del sapere
si
salva
dalla
distruzione
della
certezza
sensibile
precedente
e
dell’arbitrio soggettivo
e convenzionalistico,
ma è costretta a
trasportarsi in una
regione in cui l’uomo
non ha più potere di
intervento, facoltà di
critica.Ilmatematicoè
lo scrivano fedele di
leggi non umane e
l’infinito
attuale
cantoriano non solo
viene dichiarato esente
dal “panteismo” di cui
fuaccusato,maèposto
in
relazione
con
l’infinitum
creatum
divino della tradizione
cristiana.7L’uomodeve
accettare queste verità
non sensibili e non
psicologiche che si
impongono da sé, al di
fuori
del
pensiero
concreto,
dell’esperienza e della
storia. Attraverso il
rinnovatoplatonismola
certezza indiscutibile
del “dato” positivistico
viene restaurata al
quadrato,
viene
sottrattaalmutamento.
Il voler fondare la
matematica su basi
logiche generò tuttavia
non poche difficoltà.
Caduto il riferimento
all’intuizione,
all’esperienza e alla
psicologia,
abbandonata alla sola
prova della coerenza
interna, la ragione
matematica
sembra
invischiarsi
in
paradossi
logici
insolubili, analoghi a
quello classico del
Mentitore di Eubulide
che dice “io mento”
(questa asserzione è
vera o falsa?). Già
Cantor si era accorto
nel 1895 che la sua
teoria degli insiemi
conteneva
una
antinomia,
ma
fu
Russell che individuò
nel quinto assioma dei
Grundgesetze di Frege
una
contraddizione
paralizzante,
la
cosiddettaantinomiadi
Russell, appunto, o
della classe di tutte le
classi che non sono
elementi di se stesse.
Tre anni dopo, nel
1905, Julius König
dimostrava la non
affidabilità della teoria
cantoriana
della
fusione in un aleph
della
considerazione
cardinale e ordinale
degliinsiemi.Lostesso
rapporto tra logica e
matematica rischiava
così di esser messo in
crisi.
Frege
si
consolava,nelposcritto
al secondo volume dei
Grundgesetze, notando
come la sua situazione
non fosse peggiore di
quella
degli
altri:
Solatium
miseris,
socios
habuisse
malorum.
Ma
la
riflessione
su
tale
strettoia non fu senza
risultati e condusse
Russell
alla
formulazione
della
“teoria
dei
tipi”
(perfezionatainseguito
con
la
“teoria
ramificata dei tipi”),
percui,ondeevitarele
antinomie
provocate
dall’autoriferimento o
“riflessività”
delle
proposizioni, occorre
una gerarchia degli
enti logici, tale che
ogni
funzione
proposizionale sia di
ordine logico superiore
ai suoi argomenti e
ogni classe di tipo
logicosuperioreaisuoi
elementi. Nei Principia
mathematica–scrittiin
collaborazione
con
Whiteheadtrail1910e
il1913–Russellgiunse
così a riunire in un
corpus
organico
i
principi
dell’intera
matematica.
Sul fronte di una
formalizzazione della
matematica si muove
anche David Hilbert.
Ma egli non crede,
come
Bolyai,
alla
“verginale verità” dei
suoi
enti,
né
li
ipostatizza in termini
realistici: è soddisfatto
della
“sicurezza”
offerta
da
sistemi
formali
non
autocontraddittori. Dai
Fondamenti
della
geometria del 1899
sino ai Fondamenti
della
matematica
(opera
composta
assiemeaPaulBernays
tra il 1934 e il 1939)
egli persegue lo scopo
di creare dei sistemi
assiomatici
non
contraddittori
(intendendo gli assiomi
come postulati che
stabiliscono il senso di
simboli
altrimenti
indefiniti),
che
permettono
la
derivazione meccanica
di formule, affiancati
da
una
metamatematica che
ha il compito di
provare
la
tenuta
logica di tutta la
matematica. Non si
trattatuttaviaperluidi
rinunciare
all’intuizione in quanto
tale–sipuòseguire,in
via subordinata, anche
questo metodo, come
insegna
la
sua
Geometria intuitiva del
1932 –, ma di pensare
con
consapevolezza,
senza
presupporre
spazi
naturali
o
corrispondenza
ontologicatraapparato
assiomatico e mondo:
“Procedere
assiomaticamente non
significa in questo
sensoaltrochepensare
con
consapevolezza.
Prima invece, quando
non usavano il metodo
assiomatico, gli uomini
credevano
ingenuamente in varie
connessioni
come
dogmi. L’assiomatica
elimina
questa
ingenuità, ma ci lascia
tutti i vantaggi della
credenza”.8
Contro
tutte
le
dottrine logistiche e
formalistiche si pone il
“neointuizionismo” di
Brouwer e di Heyting,
secondo i quali la
matematica è basata
sull’intuizione
del
tempo,“dell’unitànella
differenza,
della
persistenza
nel
mutamento”.
Non
sull’intuizione
sensibile,
dunque,
come
quella
dello
spazio, né sulle verità
logiche,
che
sono
piuttosto un prodotto
delle
pratiche
costruttivechepartono
dai dati intuitivi, ma
proprio
su
questo
immediato intuire lo
scorrere del continuo.
Brouwer
ammetteva
cheunsistemaformale
non potesse essere
definitivo,ecosìnonfu
messo nello stesso
imbarazzo di Hilbert
quando Gödel provò
l’esistenza di limiti
nella dimostrabilità del
carattere
non
contraddittorio
dei
sistemi assiomatici e la
possibilità idealmente
infinita di costruire
metamatematiche
di
ordine superiore a
quelle di volta in volta
esibite.
Gli sviluppi della
matematica sono stati
in seguito molto ricchi
sia nell’impostazione
che nell’apertura di
insospettati
terreni
d’indagine. Così un
gruppo di matematici
francesi (André Weil,
JeanDieudonnéealtri),
che prende il nome
collettivodiBourbakie
hainiziatoapubblicare
dei
volumi
in
collaborazione
a
partire dal 1939, è
riuscito ad aggirare
l’opposizione
tra
formalisti
e
intuizionisti, insistendo
sul
bisogno
di
sostituire le idee ai
calcoli e dichiarandosi
insoddisfatto della sola
esigenza del rigore.
“Se la logica,” afferma
Dieudonné, “è l’igiene
delmatematico,nongli
fornisce però alcun
cibo.” Anche per i suoi
effetti sulla riflessione
epistemologica, tra i
molti risultati degli
ultimi
decenni
si
possono
ricordare
l’estendersi
della
matematica pura nei
campideldiscontinuoe
della
complessità,
come nel caso della
teoria delle catastrofi
di René Thom, che
analizza l’improvviso
cedere di strutture di
equilibrio, o in quello
dello
studio
degli
oggetti frattali, figure
geometriche
molto
irregolari, proposto da
Bénoit
Mandelbrot.
Nell’ambito
invece
della
“matematica
applicata” o comunque
legata alla ricerca
extra-matematica
spicca la proliferazione
dinuovirami,dovutain
buona
parte
al
contraccolpo
tanto
dell’enorme sviluppo
dell’informatica
(termine che nasce
dalla contrazione, in
francese,
di
information
automatique), quanto
della
nascita
dell’intelligenza
artificiale
(disciplina
che si propone di
costruire
macchine
intelligenti in grado di
simulare i processi
cognitivi della mente
umana o anche, per
converso, di studiare il
pensiero umano in
analogiaalleprocedure
effettive, o algoritmi,
delle macchine stesse).
Senza
contare
numerosi
linguaggi
formali,
sono
così
sorte, ad esempio, la
teoriamatematicadella
comunicazione,
inaugurata da Claude
E. Shannon e legata al
calcolo
delle
probabilità, e quella
computazionale,cheha
incrinato il concetto
classico
di
dimostrazione.
L’incidenza
sulla
filosofia
e
sulle
dinamiche sociali degli
strumenti
di
elaborazione
dell’informazione e di
simulazione di facoltà
intellettuali
e
movimenti
corporei
umani è sotto gli occhi
di tutti e la loro azione
è
ben
lontana
dall’essersiesaurita.
2.Larelatività
Guardando
in
trasparenza a questi
sforzidellamatematica
perridefinireilproprio
statuto scientifico, si
riesce anche a vedere,
in forma stilizzata, il
profondo
travaglio
sociale
teso
a
ricostruire
differenti
sistemi di coordinate
per interpretare il
reale, reti di relazioni i
cui nodi sono costituiti
da
“evidenze”,
dall’identificazione di
punti
relativamente
stabili, di sosta, nella
ridda dei mutamenti.
Grammatiche
dello
sguardo, collegamenti
sintattici, campi di
designazione, abiti di
razionalità,
pratiche
lavorative si vengono
faticosamente
strutturando
in
maniera
nuova.
Tramonta
definitivamente
l’immagine di comodo
dell’esistenza di norme
fisse, naturali, a cui la
conoscenza
e
i
comportamenti umani
debbano far capo: il
mondo
sembra
all’improvviso
meno
coerente,
meno
riconducibile
a
standard di semplicità.
Il fatto è che anche le
precedenti
norme
eranoilprodottodiuno
sforzo di sistemazione
complesso della realtà,
ma di uno sforzo
prolungato, lento, tale
da
apparire
quasi
immobile al senso
comune, a chi non
aveva
pratica
del
mutamento
concettuale.Orainvece
i cambiamenti sono
macroscopici, sotto gli
occhi di tutti e la
scienza se ne fa carico
più
direttamente,
agisce, da posizioni
privilegiate,
nel
complicato gioco di
ridistribuzione e di
riqualificazione
dei
ruoli e delle funzioni
sociali. Essa trasmette
ai “non addetti ai
lavori” non solo i
risultati
semplificati
delle
proprie
operazioni,
ma
il
sentimento
stesso
dell’instabilità,
della
problematicità
del
reale. I vecchi poli di
convergenzametafisica
del tutto (Dio, uomo e
mondo),sottoiqualila
realtà
era
stata
rubricata, non tengono
più,
si
sfaldano
dall’interno.
I
meccanismi sociali di
focalizzazione e di
connessione delle cose
si sono in parte
inceppati,
sono
in
riparazione. La scienza
nel suo complesso, e
nonsololamatematica,
opera per metterli a
punto e per adattarli
alle nuove circostanze.
Così l’immagine del
mondo offerta dalla
fisica è sorprendente
perilsensocomune,ne
capovolge l’idea di un
universo
sempre
uguale a se stesso,
indipendente
dal
sistema di riferimento
scelto per inquadrarlo
e
dall’intervento
dell’osservatore.
Spesso è ritagliata
nella stoffa di altri
mondi possibili, che è
lecito pensare senza
contraddizione e che
servono a misurare la
relatività degli assunti
di partenza di ogni
indagine. Come in
questo
universo
ipotizzato da Poincaré:
“Immaginiamo,
per
esempio, un mondo
rinchiuso
in
una
grande
sfera
e
sottoposto alle leggi
seguenti:
la
temperatura,
non
uniforme,èmassimaal
centro, e diminuisce
manmanochecisene
allontana, per ridursi
allo
zero
assoluto
quando si attinge la
sfera
dove
questo
mondo è rinchiuso.
Preciso ora la legge
secondo
cui
varia
questa
temperatura.
Sia R il raggio della
sfera limite; sia r la
distanza del punto
considerato al centro
della
sfera.
La
temperatura assoluta
sarà proporzionale a
R2 – r2. Supporrò
inoltre che, in un
siffatto mondo, tutti i
corpi abbiano lo stesso
coefficiente
di
dilatazione, in maniera
che la lunghezza d’un
regolo qualunque sia
proporzionale alla sua
temperatura assoluta;
einfinecheunoggetto
trasportato
da
un
punto all’altro, la cui
temperatura
sia
differente, si metta
immediatamente
in
equilibrio termico col
suo nuovo ambiente.
Niente
in
questa
ipotesi
è
contraddittorio
o
inimmaginabile.
Un
oggetto
mobile
diventerà allora via via
più piccolo man mano
che si avvicinerà alla
sfera
limite.
Osserviamo anzitutto
che,sequestomondoè
limitato dal punto di
vista
della
nostra
geometria
abituale,
sembrerà però infinito
ai
suoi
abitanti.
Quando
questi,
in
effetti,
vogliono
avvicinarsi alla sfera
limite, si raffreddano e
divengono via via più
piccoli, sì che essi non
possono mai attingere
la
sfera
limite”.9
Quando, nel 1902,
Poincaré
formulava
questa teoria, essa
aveva solo un valore
ipotetico,
doveva
corroborare le sue tesi
convenzionalistiche (è
tuttavia errato ridurre,
secondo
le
volgarizzazioni di Le
Roy, l’epistemologia di
Poincaré
al
convenzionalismo: le
“ricette
scientifiche”
hanno
anche
un
significato teoretico, di
previsione, e poi la
convenzionalità
non
coincideconl’arbitrio).
Appenaqualcheanno
dopo, con le teorie
einsteiniane
della
relatività ristretta e
della
relatività
generale (del 1905 e
del
1916),
questi
mutamenti,
che
sembrano valere solo
per mondi immaginari,
vengono
applicati
anchealnostromondo.
I
concetti
di
contrazione
delle
lunghezze
e
di
dilatazione dei tempi
relativizzano l’idea di
unauniformitàassoluta
delle
misure
e
dell’esistenzadisistemi
di riferimento assoluti:
a
un
osservatore
solidaleconunsistema
di riferimento che si
muove a velocità V
rispetto a un altro che
si presume fermo, un
regolo apparirà più
corto e un orologio più
rallentato rispetto a
misurazioni analoghe
effettuate
dall’osservatore
solidale con l’altro
sistema. Non solo lo
spazio, ma anche il
tempo e la nozione di
“simultaneità”,
perdono il carattere di
assolutezza
che
avevano nella fisica
classica.
Tuttavia, già Galilei,
neiDialoghisopraidue
massimi sistemi del
mondo, per spiegare la
relatività
dei
movimenti,
porta
l’esempio di una nave
che da Venezia viaggia
verso
Aleppo.
Le
mercanzie – “balle,
casseedaltricolli”che
stanno nella stiva – si
muovono in direzione
della Siria rispetto al
porto di partenza, ma
non rispetto alla nave.
Nella
cosiddetta
“relatività galileiana”
ogni moto è quindi
relativo al sistema di
riferimentoadottato.Si
tratta però di una
concezione puramente
cinematica
e
non
dinamica
del
movimento.Essanonsi
interroga cioè sulle
cause che producono,
inibisconoomodificano
il moto. In Newton,
invece, il problema è
proprio
quello
di
determinare la natura
delle forze le quali, a
ogni
istante,
modificano il moto
inerziale (rettilineo e
uniforme) che ogni
corpo lasciato a se
stesso
avrebbe
spontaneamente.
La
forza
d’inerzia,
associata a concetti di
spazio e di tempo
assoluti,èdunquequel
che caratterizza la
fisica newtoniana. In
essa lo spazio agisce
sugli oggetti, ma non
viceversa, ed esiste
indipendentemente da
essi.Iltempoverum et
mathematicum misura
in maniera assoluta
tutti
gli
eventi
stabilendone
la
simultaneità
o
la
successione.
Mach
aveva considerato la
posizione di Newton
sul tempo assoluto
puramente metafisica:
“si ha l’impressione
che Newton sia ancora
sotto l’influenza della
filosofia medioevale”.
Affermare infatti che
qualcosa muta col
tempo
significa
semplicemente
“dire
cheglistatidiunacosa
A dipendono dagli stati
di un’altra cosa B”.
Dato
però
che
possiamo scegliere il
sistema di riferimento,
si produce l’“illusione
errata”
che
il
riferimento stesso sia
inessenziale.
Sorge
così l’idea del tempo
assoluto e si scambia
un’astrazione
metafisica
con
la
realtà: “Non siamo in
grado di misurare i
mutamenti delle cose
rapportandolialtempo.
Al contrario il tempo è
un’astrazione,
alla
qualearriviamoproprio
attraverso
la
constatazione
del
mutamento, grazie al
fatto che per la
dipendenza reciproca
delle cose non siamo
costretti a servirci di
una
determinata
misura”.10
Lateoriaeinsteiniana
non
si
distingue
dunque dalle teorie
classiche per aver
introdotto l’idea di
relatività,
ma
per
averla generalizzata,
resa più complessa,
inserita in dispositivi
concettuali in grado di
unificare campi del
sapere prima separati.
Le grandi intuizioni di
Einstein sono state
quelle di dimostrare
come
inerzia
e
gravitazionecoincidano
e come si possa (e si
debba) fare a meno
delle nozioni di spazio
e tempo assoluti. La
teoria della relatività,
come tutti i modelli
scientifici, è in effetti
unateoriadiinvarianti.
Quale
costante
naturale, valida per
qualsiasi sistema di
riferimento, resta solo
la velocità della luce
nel vuoto, secondo le
equazioni formulate da
Maxwell nel 1873.
Questo
assunto
contrasta con le leggi
della
meccanica
classica, per cui le
velocità di due corpi
che si muovono in
direzione opposta si
sommano, dimodoché
la luce proveniente da
stelleversocuilaTerra
si avvicina dovrebbe
possedere una velocità
maggiore di quella di
stelledacuilaTerrasi
allontana.
Se
la
velocità della luce è
costante,variabilisono,
dunque,
i
sistemi
metrici. Come in certi
quadri di Dalì, dove
orologi
e
regoli
appaiono deformabili,
molli,“squagliati”.
Alla
teoria
della
relatività
ristretta,
Hermann Minkowski
applicherà poco dopo
(1908) il cosiddetto
“cronotopo”,
uno
spazio quasi-euclideo,
quadridimensionale,
costituito dalla totalità
degli eventi (un evento
che si verifica in un
tempo t nel punto P
dello spazio avente le
coordinate cartesiane
[x,
y,
z]
viene
rappresentato,
considerando il tempo
quale
quarta
dimensione
dello
spazio, mediante le
coordinate
cronotopiche [x, y, z,
t]). Nella teoria della
relatività
generale,
Einstein combinerà il
sistema
cronotopico
con
lo
spazio
riemanniano. Anche la
differenza tra materia
ed energia tende a
sfumare in Einstein
nella variazione tra
diverse “densità di
campo”.
La
teoria
della
relatività, assieme alla
meccanica quantistica,
rappresenta una delle
vette del pensiero
scientifico
del
Novecento (e, per gli
effetti di ricaduta,
anche
di
quello
filosofico). A Einstein,
tuttavia,il“principiodi
indeterminazione”
formulato da Werner
Heisenberg non poteva
piacere,
perché
sembrava mettere in
gioco
la
perfetta
calcolabilità
dell’universo fisico. In
realtà,
esso
nega
soltanto il “fantasma
euristico”
di
un
modellostaticoerigido
delmondofisico,diuna
descrizione esauriente
della realtà da cui
l’osservatore
venga
escluso al fine di
enucleare la verità in
sé. Tale principio si
limita
invece
ad
affermare che bisogna
scegliere il modo della
descrizione.
Heisenberg stabilisce
infatti l’impossibilità di
determinare
–
rigorosamente e nello
stesso tempo – la
posizione
di
una
particellasubatomicae
lasuaquantitàdimoto.
Osideterminalaprima
(e resta indeterminata
la seconda) o si
determina la seconda
(e resta indeterminata
la
prima).
L’osservatore perturba
necessariamente,
anche se di poco,
l’oggetto
su
cui
conduce
un
esperimento o una
misurazione.
Per
ricorrere a un esempio
da manuale, è come se
volessimo stabilire con
totale precisione la
temperatura dell’acqua
calda in una vasca da
bagno. Non avremmo
mododifarlo,perchéil
termometro
sottrae
calore,
e
quindi
modifica – per quanto
impercettibilmente – la
temperatura
della
massa d’acqua. Ciò,
tuttavia, non implica
affatto che le leggi
fisiche
divengano
incerte,
che
si
introduca quindi nella
cittadella della scienza
il cavallo di Troia
dell’irrazionalità. Vuol
dire, semplicemente,
che
le
imprese
conoscitive sono più
complesse di quel che
si era abituati a
credere.
Di
questa
complessità si è reso
interprete, in anni più
recenti, Ilya Prigogine.
In riferimento alla
dinamica irreversibile
delle teorie classiche e
quantistiche, egli ha
mostrato come anche
l’universo abbia una
storia e come il tempo
del mondo condivida
con il tempo dell’uomo
l’elemento
fondamentale
dell’irreversibilità.
I
fenomeni irreversibili –
come quelli studiati
dallatermodinamica,in
particolare dalla sua
seconda legge – non
conducono
però
necessariamente
all’aumento
dell’entropia,
del
disordine,
alla
cosiddetta “morte per
freddo dell’universo”.
Non si svolgono infatti
in un sistema chiuso
(che non assorbe cioè
energiadall’esterno,né
la cede), ma in un
sistema
aperto,
“dissipativo”.
Le
fluttuazioni al suo
interno, le violazioni
dell’equilibrio,
producono così nuovo
ordine, imprevedibile
ma
rigorosamente
analizzabile, che sorge
proprio dal disordine.
Tale
impostazione
segna la fine del
determinismo,
del
trionfo della necessità,
come
era
stato
suggerito
nell’Ottocento
da
Laplace. Non è vero
che, se conoscessimo
perfettamente lo stato
del mondo in un
momento
dato,
saremmo poi in grado
di predire con assoluto
rigoreancheisuoistati
futuri:
“Nella
concezione classica il
determinismo
era
fondamentale e la
probabilità
era
un’approssimazione
alla
descrizione
deterministica. Oggi è
l’inverso: le strutture
della
natura
ci
costringono
a
introdurre
la
probabilità
indipendentemente
dall’informazione che
possediamo.
La
descrizione
deterministica non si
applica infatti che a
delle
situazioni
semplici, idealizzate,
che
non
sono
rappresentative della
realtà fisica che ci
circonda”.11
La
distanzatralapresunta
inesorabile fissità delle
leggi della natura e
l’inafferrabile
mutevolezzadelmondo
umano tende così a
ridursi.
In
gradi
diversi, l’instabilità e
l’emergere
dell’imprevisto
è
comune a entrambe.
Risulta,
di
conseguenza,
percorribile – seppure
in prospettiva – la
strada di una “nuova
alleanza” tra natura e
uomo,
fisica
e
metafisica: “Forse ci
orientiamo verso una
nuova disciplina che
erediterà dalla fisica la
preoccupazione
del
mondo,
della
descrizione
quantitativa, e dalla
metafisica
classica
l’ambizione di una
immagine
coerente
globale
che
la
includa”.12
3.Lospaziointeriore
Soggetto e oggetto
non si fronteggiano
più, come nella fisica e
nella
metafisica
classiche, quali entità
compatte
che
si
sfidano.Questiduepoli
tradizionali
si
articolano invece su
schemi di massima
complessità e mobilità,
in cui gli scontri sono
meno lineari e gli
antagonisti cambiano
continuamente
fisionomia e posizione:
si
moltiplicano,
si
deformano,
si
mascherano,
abbandonanoingenere
la semplicità operativa
di quelle che Sartre
chiama
“filosofie
alimentari”, in cui il
soggetto
divora
l’oggettooviceversa.E
questo non riguarda,
naturalmente, solo il
versante dell’oggetto
che abbiamo prima
considerato,
la
struttura del mondo
fisico,
del
“cielo
stellato” sopra di noi,
ma anche ciò che sta
“dentro” di noi e che
viene ora scandagliato
nei suoi aspetti più
perturbanti
dalla
psicoanalisi e dalla
nuovapsichiatria.Nella
psicoanalisi freudiana,
anzi (almeno sino al
1924, all’articolo su Il
problema economico
del masochismo), la
differenza
tra
il
soggetto e l’oggetto
nell’uomo,
tra
res
cogitans e res extensa,
psiche e corpo, è
fortemente attenuata,
non soltanto per la
somatizzazione
dei
conflitti psichici, al
livello dei sintomi o,
poniamo, delle isterie
di conversione, ma per
il motivo assai più
rilevante che l’intero
apparato psichico è
visto in termini fisici,
energetici.
Applicando
alla
psiche
umana
il
modello helmoltziano
del “sistema chiuso”,
Freudritienechevisia
una quantità fissa di
energiapsichicache,in
situazioni ottimali, è
distribuita in modo
equilibrato
e
può
circolare
facilmente,
ma
che,
talvolta,
quando
il
suo
movimento
è
imbrigliato, bloccato,
squilibrato, ingorgato,
si fissa o si concentra
in
alcune
zone
provocando sofferenza
o
fenomeni
“patologici”.
Poiché,
appunto, tale eccesso
dipressionenonsipuò
scaricare
verso
l’esterno,
bisogna
distribuire le cariche
energetiche in maniera
diversa, dirottarle in
altre
regioni,
per
alleggerire i punti più
provati. Le pulsioni,
che non si possono
cancellare, subiscono
così
delle
“vicissitudini”
(rimozione,
sublimazione,
negazione ecc.), che,
sotto
il
profilo
energetico,
sono
spostamenti di cariche.
Per questo la terapia
psicoanalitica
non
agisce solo fornendo al
paziente
la
mera
consapevolezza
sull’origine dei suoi
mali, ma producendo
anche una dislocazione
di energia, eliminando
quelle
pressioni
energetiche–informa,
ad
esempio,
di
rimozione
–
che
impediscono
la
trasparenza dei propri
conflitti. All’inizio della
cura, piuttosto che
essere
d’aiuto,
il
sapereèanziunafonte
di angoscia, l’inizio di
una
battaglia
che
mobilita
tutte
le
resistenze:
“È
un
concetto da lungo
tempo superato (anche
se a prima vista
sembra corrispondere
alla
realtà)
quello
secondo
il
quale
l’ammalato soffrirebbe
in forza di una specie
di ignoranza, e per cui
se si elimina questa
ignoranza
informandolo
(sulla
connessione
causale
della sua malattia con
la sua vita, sugli
avvenimenti della sua
infanzia
ecc.)
egli
dovrebbe guarire. Non
un tale ‘non sapere’ è
per
se
stesso
il
momentopatogeno,ma
laradicediquesto‘non
sapere’ posto nelle
resistenze interiori, le
quali in un primo
tempohannoprovocato
il ‘non sapere’ e lo
mantengono
ancora
adesso.
La
comunicazione
di
quanto l’ammalato non
saperchéloharimosso
èsoltantounodeiprimi
mezzi necessari per la
terapia.
Se
la
conoscenza
dell’inconscio
fosse
tanto efficace quanto
ritiene chi è inesperto
di
psicoanalisi,
basterebbe
per
la
guarigione
che
l’ammalato ascoltasse
delle lezioni o leggesse
dei libri. Ma l’efficacia
di tali cose sui sintomi
è analoga a quella che
potrebbe
avere
in
tempo di carestia,
sopra un affamato, la
lettura di liste di
vivande. E il paragone
può essere esteso oltre
il
suo
primitivo
significato: giacché le
comunicazioni relative
all’inconscioproducono
in
genere
sull’ammalato l’effetto
che il conflitto in lui si
accentua e i disturbi
aumentano”.13
Per
interpretare
questi
conflitti
e
cercare di risolverli, la
psicoanalisi
deve
prendere
atto
dell’esistenza
di
logicheespaziinteriori
diversi nella struttura
psichica: l’Es della
seconda topica non
conosce né il tempo né
la
negazione
(il
pensiero
è
reso
possibile unicamente
dal “no”, rivelato nella
Verneinigung,
ossia
nell’accettazione solo
intellettuale
del
rimosso da parte del
paziente che rimane
sul
terreno
del
semplice
“sapere”).
L’assenza
della
dimensione temporale
nell’Inconscio (e in
seguitonell’Es)implica
la
tendenza
delle
pulsioni
all’immortalità,
la
coazione a ripetere, il
congelarsi di un tempo
privilegiato nell’età dei
primi conflitti infantili,
che scavano l’alveo sul
quale scorrono quelli
successivi.
Il
nostro
tempo
psichico è in effetti
complesso e pieno di
dislivelli e ibridazioni
temporali perché in
esso coesistono – in
tensione–duemodalità
del
tempo:
l’atemporalità dell’Es e
la temporalità della
coscienza,
la
coesistenza
e
la
successione.
Nella
tradizione
filosofica
queste due dimensioni
sono separate. Se si
prende una posizione
esemplare, quella di
Leibniz, vedremo nella
maniera più chiara
comeinluiiltemposia
l’ordine
della
successione, mentre lo
spazio l’ordine della
coesistenza. In Freud,
invece, il tempo ha,
insieme,
le
caratteristiche
del
tempo e dello spazio:
“la
successione
comporta anche una
coesistenza”.14Ilprimo
risultato di rilievo è
che, in tal modo, il
passato convive con il
presente; il già stato,
l’immobile, con ciò che
fluisce, così che il
tempo
psichico
è
coesistenza
di
coesistenza
e
di
successione, di passato
che non passa e di
presente che passa
proiettandosi verso il
futuro
o
sedimentandosi,
coesistenzacioèdiquel
che persiste e di quel
che diviene. Il secondo
risultato è che nel
tempo
vi
è
compresenza
di
sviluppo
e
di
conservazione,
di
evoluzione
e
di
immobilità.
Questo
spiega la possibilità
della regressione. Nel
suo
divenire
si
conserva virtualmente
tutto.Cisirendeconto
che“nellavitapsichica
nulla può perire una
volta formatosi e che
tutto in qualche modo
si conserva e che, in
circostanze opportune,
[...] ogni cosa può
essere riportata alla
luce”.15Sel’organismo
non è malato, tutte le
tracce mnestiche si
conservano, anche se
sottoposte a continua
rielaborazione
e
reinterpretazione,
trascritte
o
“traslitterate”
nel
vocabolario e nella
sintassi
dell’“epoca
della vita” in cui ci si
trova.
All’interno
dell’apparato psichico
abbiamo quindi uno
scontro
e
una
intersezione
di
meccaniche pulsionali
e di piani logici
differenti, con tutte le
torsioni,
i
parallelogrammi
di
forzaelezoned’ombra
chenederivano.Anche
nell’uomo, per così
dire, esistono spazi
non-euclidei
accanto
alle
più
visibili
superfici
euclidee,
spazidell’Esstrutturati
secondoassiomidiversi
da quelli dell’Io e del
Super-io, per quanto
l’Io–equistal’aspetto
nuovo della seconda
topica rispetto alla
prima – sia anch’esso
in parte inconscio, non
possegga affatto la
purezza cristallina del
cogito che da Cartesio
a Husserl gli si
attribuisce. E questo
vale per tutti gli
uomini, non solo per i
malati: vi è una
“psicopatologia della
vita quotidiana” che è
indicativa
dei
microconflitti operanti
in ciascuno e dello
sforzo individuale e
sociale
teso
alla
perpetuazione
della
“normalità” o della
quantità di energia
costantemente
impiegata per tenere a
bada il rimosso e
promuovere
la
“civiltà”. Ha fine l’idea
di una normalità rigida
e naturale, così come
in altri campi abbiamo
visto tramontare il
concetto di “norma”. Il
patologico attraversa
ora il normale; il
conflitto e l’eccezione
permeano la norma, in
un incrocio di codici
linguistici
e
comportamentali
complesso,
nell’opposizione
tra
pubblico e privato, ciò
che si può rivelare e
ciò
che
si
deve
nascondere.
La
normalità
è
una
conquista
continua,
unostatomaigarantito
perché il patologico è
dentrodinoi.
Se Freud non crede
alla
possibilità
di
raggiungere
una
appagantevitapsichica
(si passa per lui, al
massimo,
da
una
infelicità patologica a
una
“infelicità
normale”), Carl Gustav
Jung tenta invece di
percorrere
questa
strada.
Mediante
un’ardita costruzione
teorica, egli illustra i
gradini attraverso cui
si articola il processo
idealediindividuazione
che culmina nel Sé,
nella
riuscita
conquista, al vertice
della piramide, di una
consapevolezza delle
proprie forze e dei
propri limiti. Alla base
di questo maestoso
edificio si trova però
l’“inconscio collettivo”,
con i suoi affascinanti
ma anche minacciosi
“archetipi”. Essi hanno
carattere universale e
ubiquo, si ritrovano
pressotuttiipopoliein
tutte le epoche, nei
sani e nei malati. Sono
esaltanti e pericolosi
nello stesso tempo, in
quanto, da un lato,
potenziano l’individuo,
ma,dall’altro,rischiano
di
annientarlo,
risucchiandolo nel loro
anonimato
e
producendo
“l’inflazione
dell’io”.
Jungriconoscelorouna
radice
organica,
giacchénonvièniente
di strano nel fatto che
certe
funzioni
psichiche
si
trasmettano anch’esse
lungo l’asse del tempo
evolutivo: “Come il
nostro corpo conserva
ancorainmoltiorganii
residui
di
antiche
funzioni e di antiche
condizioni,
così
il
nostrospirito,chepure
nel suo sviluppo ha
sorpassato
apparentemente quelle
tendenze
arcaiche
istintive,portaancorai
segni
caratteristici
dell’evoluzione
percorsa e ripete il
remoto passato almeno
nei sogni e nelle
fantasie”.16 In tale
prospettiva, l’archetipo
non costituisce una
rappresentazione
ereditata, perché si
trasmettono
non
i
contenuti, bensì la
capacità
stessa
di
rappresentare.
Esso
segue piuttosto “certi
cammini
ereditati,
dunque il modo innato
in cui un pulcino esce
dall’uovo, gli uccelli
costruisconoiloronidi,
certe vespe colpiscono
col
pungiglione
il
ganglio motorio del
bruco e le anguille
trovano la loro via
verso le Bermude”.17
Questo
però
è
l’archetipo biologico,
diversodaquellodicui
si occupa la psicologia,
cheloconsiderainvece
quale forma a priori
(analoga alle categorie
kantiane),
stampo
vuoto in grado di
organizzare
l’esperienza
e
di
ordinare
le
rappresentazioni.18
Esso si riempie così di
dati
forniti
dall’esistenza
individuale,
che
assumono tuttavia al
suo
interno
un
carattere mitico e
“numinoso”,
di
rivelazione di qualcosa
di immenso, divino o
demoniaco che sia.
Sebbene pericolosa, la
visione degli archetipi
certamente
apre
all’individuo spiragli di
premonizione e di
emozione, in quanto
mobilita, nello stesso
tempo, il pensiero e i
sentimenti. Lo si nota
nelleopered’arteonei
“grandi sogni” (dove
più che una freudiana
“soddisfazione
allucinatoria
del
desiderio” si assiste a
una consultazione di
ciascuno con le parti
piùoscuredisestesso,
che,
per
quanto
comunichino
con
linguaggio oracolare,
ne sanno però sempre
più della coscienza):
“Ogni relazione con
l’archetipo, vissuta o
semplicemente
espressa,
è
‘commovente’,
cioè
essa agisce poiché
sprigiona in noi una
voce più potente della
nostra. Colui che parla
con
immagini
primordiali, è come se
parlasseconmillevoci;
egliafferraedomina,e
al tempo stesso eleva,
ciò che ha designato
dallo stato di caducità
alla sfera delle cose
eterne; egli innalza il
destino personale a
destino dell’umanità e
al tempo stesso libera
innoituttequelleforze
soccorritrici,
che
sempre hanno reso
possibile all’umanità di
sfuggire
ad
ogni
pericolo
e
di
sopravvivere persino
nelle
notti
più
lunghe”.19
Altre
direzioni
imbocca
invece
la
nuova psichiatria postpositivistica, aperta da
Jaspersnel1913conla
Psicopatologia
generale, quando –
staccandosi dal suo
maestro Max Weber –
afferma
che
ogni
azione e ogni pensiero
sono dotati di senso.
Constatata
l’impossibilità
di
scoprire un “bacillo
della follia” o lesioni
organiche
per
le
psicosi endogene (e in
particolare
per
il
gruppo di quelle che
Bleuler ha definito
“schizofrenie”),
considerata l’inutilità
della
visione
oggettivante che tende
a
catalogare,
a
entomologizzare
i
diversi
disturbi,
riconducendoliafattori
organici e a etichette,
comincia
ora
l’accostamento
da
parte della psichiatria
alle
filosofie
più
recenti, a Dilthey, a
Bergson,
a
Max
Scheler, così come più
tardi ci si riferirà a
Husserl,aHeideggero
a
Sartre.
Jaspers,
contemporaneamente
psichiatra e filosofo, è
unafiguraemblematica
di questa svolta. La
visione oggettivante è
fortemente riduttiva,
tende a riportare i
fenomeni a una base
naturale,
organica,
sostanzialmente
immobile,
credendo
con ciò di averne dato
una
spiegazione
“scientifica”: trasforma
un sorriso in una
semplicecontrazionedi
muscoli. Interpreta la
follia e il delirio come
una negazione secca
della ragione e del
discorso sensato, come
alterità impenetrabile.
La nuova psichiatria
invece,
portandosi
anche sul terreno delle
scienze dello spirito,
considera
l’incomprensibilità del
malato
mentale
all’interno dei rapporti
interpersonali come la
nostra
stessa
incomprensibilità
e
opacità reciproca a un
grado più alto, e cerca
di sondarne non la sua
assoluta estraneità, ma
il progetto di esistenza
di cui è portatore.
Penetrare in questi
mondi orrorosi della
pazzia,osservarelesue
lancinanti figure o le
barocche costruzioni
deldelirio,èunviaggio
di
scoperta
nelle
pieghe della ragione
stessa,
una
esplorazione delle sue
regionipiùimpervie.Al
paridiuncristalloche,
cadendo e sfaldandosi
secondo determinate
leggi, manifesta i piani
di
frattura
latenti
anche
nei
cristalli
ancora integri, il folle
rivela
in
forma
conclamata l’esistenza
scissadiquelmomento
progettualeeproiettivo
– di progetto che
coinvolge non solo la
ragione, ma anche la
percezione sensibile e
la tonalità affettiva –
che è presente in tutti,
piùomenoincorporato
nei suoi contenuti
“reali”.
Il
malato
mentale rivela così con
maggiore evidenza il
carattere
di
costruzione
secondo
progetti fondamentali
che ogni vita possiede
edesibisce,ingigantite,
le lacerazioni presenti
intutti,lepossibilitàdi
fallimento latenti in
ogni esistenza (per
questo la sua vista e il
suo
contatto
sono
perturbanti, fonte di
angoscia
e
di
insicurezza:
la
“normalità” si preserva
nascondendo
e
isolando
le
“eccezioni”). Ma al
margine dei precari
equilibritrailmomento
“pubblico”,
l’appartenenza a un
mondo
e
a
un
linguaggiocomune,eil
momento “privato”, lo
sganciarsi del progetto
fondamentale di una
vita
dalla
rete
percettiva
e
comunicativacomune–
equilibri
che
costituisconolagamma
della “normalità” –, vi
sono
le
irruzioni
magmatiche
dell’elemento
proiettivo
resosi
autonomo, disturbato
nella sintonizzazione
con la realtà e con gli
altri: è allora che si
sentono delle voci che
nessun altro sente, che
si vedono delle cose
che nessun altro vede,
che si sottraggono i
discorsiaglischemipiù
ordinari, pubblici, di
decifrazione. E non
solo la ragione è
colpita, ma c’è anche,
si direbbe, una follia
dei sensi: il tempo
tende così a congelarsi
o invertire la sua
direzione, lo spazio a
contrarsi, il mondo a
raggomitolarsi in se
stesso.
Eugène Minkowski –
sviluppando qui la
filosofia di Bergson –
considera la psicosi
come uno sbarramento
del
futuro
vissuto
dall’individuo,
la
flessione permanente
dello slancio verso il
domani, la sofferenza
per una realtà che gli
appare come bloccata.
Allora
il
tempo
percettivamente
si
solidifica o l’ammalato
vede
le
freccette
dell’orologio muoversi
all’indietro. Oppure lo
spazio
percettivo,
analogamente
allo
spazio
interiore
sbarrato,sirestringe,e
il soggetto psicotico
portato
all’aperto
compie
ossessivamente,
con
stereotipie
motorie,
solo pochi passi in
avantieall’indietroosi
rannicchiainsestesso,
assumendo
un
ingombro
spaziale
minimo, quasi volesse
annullarsi. Si direbbe
anzi che la ragione
resti integra in queste
torsioni percettive e in
questa impossibilità di
declinarsi al futuro, e
che esprima e descriva
con
precisione
il
paesaggio
devastato
percepito
interiormente
ed
esteriormente: un’idea
delirante “non è altro
insomma
che
il
tentativo del pensiero,
rimasto intatto, di
stabilire
un
nesso
logico tra le diverse
pietre dell’edificio in
rovina”.20
I deliri hanno quindi
senso, se si è capaci di
ricostruire la genesi e
la struttura di tali
paesaggi interiori e
percettivi,sesiriescea
tradurre nuovamente
queste
forme
di
privatizzazione
linguistica
ed
esperienziale
nei
termini di una logica e
di una concezione del
mondo più vasta e
complessa. La nuova
psichiatria, a tinte
esistenziali, acquista
un
alto
valore
simbolico a livello
sociale
e
politico
perché, in luogo di
mostrare i “devianti”, i
pazzi-delinquenti
lontani dalla norma
(come faceva in Italia,
ad
esempio,
Lombroso),
tende
piuttosto a far vedere
la
devianza
come
intimamentecostitutiva
della norma stessa e il
malato mentale come
l’estremo di una vita
deterioratachetutti,in
diversi
gradi,
subiscono.
1
Citato in J.M.
Lotman, Il problema
delsegnoedelsistema
segnico, in Aa.Vv.,
Ricerche semiotiche.
Nuove tendenze delle
scienze
umane
nell’Urss,acuradiJ.M.
Lotman
e
B.A.
Uspenskij,
Einaudi,
Torino1973,pp.48-49.
2
G.
Cantor,
Grundlagen
einer
allgemeinen
Mannigfaltigkeitslehre,
Teubner, Leipzig 1883,
p.165.
3
G.
Frege,
Aritmetica e logica,
Boringhieri,
Torino
1965,p.265.
4Ivi,p.23.
5
B. Russell, I
principi
della
matematica,
Longanesi,
Milano
1951,p.14.
6Ivi,§427.
7
G.
Cantor,
Gesammelte
Abhandlungen
mathematischen und
philosophischen
Inhalts,
Springer,
Berlin1932,p.400.
8
D.
Hilbert,
Neubegründung
der
Mathematik,
in
“Abhandlungen
aus
dem mathematischen
Seminar
der
Hamburgischen
Universität”,1922,I,p.
157.
9 H. Poincaré, La
scienza e l’ipotesi, La
Nuova Italia, Firenze
1950,pp.72-73.
10 E. Mach, La
meccanica nel suo
sviluppo storico-critico,
Boringhieri,
Torino
1977,p.241.
11 I. Prigogine, La
nascita del tempo,
Bompiani,
Milano
1991,p.52.
12 Id., La nuova
alleanza
(1979),
Longanesi,
Milano
1981,p.180.
13
S.
Freud,
Psicoanalisi selvaggia
(1910),
in
Opere,
Boringhieri,
Torino
1966-1978, VI, p. 329
(trad.diC.Musatti).
14
S.
Freud,
Considerazioni attuali
sulla guerra e la morte
(1915), in Opere, cit.,
VIII,p.133.
15Id.,Ildisagiodella
civiltà,inOpere,cit.,X,
p.562.
16 C.G. Jung, Simboli
della
trasformazione
(1911),
in
Opere,
Boringhieri,
Torino
1967 sgg., V, 1970, p.
41.
17
C.G.
Jung,
Introduzione
a
E.
Harding,
FrauenMysterien,
Rascher,
Zürich1949,p.VIII.
18Cfr.Id.,Riflessioni
teoriche sull’essenza
della psiche (19471954), in Opere, cit.,
IX,1980,1,p.247.
19 Id., Il problema
dell’inconscio
nella
psicologia
moderna
(1932), Einaudi, Torino
1971,p.50.
20 E. Minkowski,
Studio psicologico e
analisi fenomenologica
di
un
caso
di
melancolia
schizofrenica(1923),in
E. Minkowski, V.E. von
Gebsattel,
E.W.
Strauss,Antropologiae
psicopatologia,
Bompiani,
Milano
1967,p.31.
III.Ilpathos
dell’oggettivazione
1.DurkheimeWeber
Se la psichiatria e la
psicologia
non-
oggettivanti
corrodevanoilconcetto
di norma e di legalità
rigida dei fenomeni, se
ponevanocioèinrilievo
più
le
varianti
soggettive
e
la
molteplicità
dei
progetti individuali, al
limite irripetibili e
incommensurabili, che
non
la
loro
riconducibilità a regole
generali,
non
per
questo
nelle
altre
“scienze umane” si
poteva rinunciare a
delle leggi. Così in
Durkheimlasociologia,
che ha mantenuto
stretti legami con le
sue
matrici
positivistiche, delimita
comeunargineesterno
l’area di validità della
psicologiaeristabilisce
l’esigenza
di
una
oggettività
non
sottomessa a rifrazioni
edistorsioniindividuali
(assolve, dal di fuori, a
quella stessa funzione
di
garanzia
dell’oggettività dinanzi
aisingolisoggetticheil
“realismo”
di
tipo
platonico aveva avuto
all’interno
delle
matematiche).
Gli
individui
possono
soggettivamente agire
perimotivipiùdiversi,
ma il risultato dei loro
atti, il fatto sociale,
obbedisce
a
una
propria
logica,
possiede una specifica
cogenza: “È un fatto
sociale qualsiasi modo
di fare, più o meno
fissato,
capace
di
esercitare
una
costrizione esterna o
anche
che
è
in
generale all’interno di
una data società, in
quanto ha la sua
propria
esistenza,
indipendentemente
dalle
sue
manifestazioni
individuali”.1
Ciò
significa
che
il
movimento di questi
atomi sociali, che sono
gliindividui,nonècosì
completamente irrelato
o
indefinitamente
differenziato
come
appare dal versante
psicologico,
ma
è
sottoposto a una forma
appena attenuata di
necessità, come quella
che
struttura
la
limatura di ferro lungo
le linee di forza di un
campomagneticooche
plasma secondo regole
l’agire
singolo,
dimodoché
i
fatti
sociali “sono in un
certo senso gli stampi
in cui siamo costretti a
versare
le
nostre
azioni”.2
La
sfera
sociale tende pertanto
ad
assumere
uno
statuto diverso da
quella psicologica –
deve essere studiata,
per Durkheim, come
collezione di “cose”,
noninfluidità,quindi–
ed è questa la spia di
un allentarsi delle
mediazioni
tra
individuo e collettività.
Da
un
lato
l’individualità, respinta
nella sua solitudine e
insignificanza sociale
in un mondo sempre
più organizzato in cui
ciascuno
è
intercambiabile,
riscopre la propria
complessità e i larghi
margini
di
incompatibilità, di non
assorbibilità
nell’insieme sociale, ed
enfatizza
di
conseguenza
l’insostituibilitàdelsuo
ruolo e il valore
propulsivo
della
diversità
e
della
violazione della norma;
dall’altro,lasocietànel
suo
complesso
si
proclama indipendente
dall’apporto dei singoli
individui, quelli più
esigenti, e afferma di
essere autonoma e di
avere, essa e non gli
individui, gli strumenti
di coercizione, e di
essere il tutto che
guida le parti, non
viceversa. Per quanto
concezioni analoghe di
separazione
della
totalità sociale dai
singoli
siano
poi
sfociate in ideologie
totalitarie
o
“statolatriche”,
in
Durkheim (come in
Croce o in Weber) non
sitrattadiannientareil
contributo
dell’individualità,madi
disciplinarlo, di venire
a patti con le nuove
individualità complesse
che
si
vanno
costituendo.
Sotto
questo
profilo,
la
sociologiapuòapparire
nei confronti della
psicologia come il
convesso rispetto al
concavo dello stesso
insieme,
come
complementarità
nell’analisi
delle
funzioni
sociali
e
individuali,
come
distribuzionedeicampi
di indagine. E, in
Durkheim,
come
accentuazione
dell’elemento
cooperativofondatosia
sulla divisione del
lavoro,
sia,
più
intimamente,
sul
carattere sociale, di
“rappresentazione
collettiva”, che hanno i
concetti. Il pensiero,
l’organo della più alta
comunicazione fra gli
uomini, non è un
prodotto
individuale
che
reagisce
chimicamente su altri
prodotti
individuali,
altripensieri,maè,nel
suo nascere, elemento
socialedicuiisingolisi
impadroniscono e che
adattano, traducono,
incrementano (ed è
soloaquestopuntoche
la psicologia riacquista
i suoi diritti nel
conoscere
tali
processi).
Circola nella cultura
europea di questi anni
– in troppi ambienti
geograficiedisciplinari
per essere un puro
caso – l’esigenza di
combattere il vitalismo
psicologistico
ancorando l’individuo
all’azione, al fatto
sociale, al momento in
cui cioè si oggettiva, si
coniuga operosamente
col mondo e produce
degli
effetti
constatabili. È così
l’agireumanochedàin
Weber senso a un
universocheinséneè
privo, assegnando alla
realtà dei “valori”,
oggetto degli scopi
umani, e costruendo
degli strumenti, dei
mezzi per conseguire
questi fini. L’unica
scienza possibile è
quella dei mezzi, non
dei valori, fra i quali si
registraunconflitto,un
“politeismo”,
incomponibile.
Delle
diverse forme di agire
dotato
di
senso
(razionale rispetto allo
scopo,
razionale
rispetto
al
valore,
passionale-emotiva,
tradizionale),
il
capitalismo
sviluppa
pienamente soltanto la
prima,
respingendo
nella sfera privata e
penalizzando tutte le
altre. La razionalità
capitalistica
è
puramente
strumentale,
basata
sull’efficienza,
sulla
distruzione
delle
certezze
frenanti
tradizionali,
sul
controllo
e
il
raffreddamento
dell’emotività,
sulla
messafraparentesidel
significato
generale
degli altri valori. Lo
Stato e la società sono
organizzati con gli
stessi
criteri
dell’azienda
capitalisticaeilmondo
è stato disincantato,
privato
dei
suoi
sottofondi magici, reso
più sicuro, ordinato,
calcolabile
e
scientificamente
comprensibile.
La
religione – che è stato
ilprimopotenteorgano
di donazione di senso
al mondo e che, nelle
sue vesti calvinistiche,
ha generato lo spirito
del
capitalismo
–
esaurita
la
sua
missione civilizzatrice,
sembra essersi ritirata
a vita privata, divenuta
strumento di torbida
consolazione. La realtà
capitalistica è infatti
molto dura, ma, per
Weber, non se ne può
uscire,èuna“gabbiadi
acciaio”:civuolemolto
coraggio per accettare
di vivere dentro le sue
sbarre, per contentarsi
della sobria vocazione
del
lavoro,
della
professione(Beruf).
Ma il pathos di cui
egli carica i momenti
dell’oggettività
e
dell’operare
fecondo
nondevefarperderedi
vista
il
risvolto
soggettivo, l’etica – di
provenienza
neokantiana
–
della
responsabilità
del
singolo,
oggi
tremendamente
solo
nello sforzo di far
coincidere la massima
delproprioagireconla
“legislazione
universale”.
Contrariamente
a
quanto si potrebbe
pensare, il peso della
soggettività
non
diminuisce in questo
mondo
ferreamente
strutturato
dalla
ragione formale, dalla
scienza, dalla fabbrica,
dalla burocrazia, ma
cresce parallelamente
a esso. Ognuno deve
scegliere, deve seguire
“il demone che tiene i
filidellasuavita”3(non
il “capo carismatico”,
dunque),
senza
adagiarsi
in
un
relativismo
scettico
(magari quello di uno
storicismo
invertebrato), sentirsi
al di sopra della
mischia o rifugiarsi
nelle
braccia
misericordiose
delle
vecchie Chiese. Contro
il
relativismo,
il
lassismo
e
il
misticismo,
Weber
insiste nel mostrare –
accanto ad argomenti
di ordine etico – il
carattere
nonindeterministico
del
nostro conoscere e
agire nel mondo. Gli
“idealtipi”, i concetti
concuiinterpretiamoil
reale
ponendone
unilateralmente
in
evidenza solo alcuni
aspetti,sonoilfruttodi
drastiche
scelte,
costruzioni
irreali,
“quadrifantastici”,utili
per
conoscere
e
dominare (non per
rispecchiare!)
il
mondo, produzione di
strutture normative di
natura logica, slegate
dai “giudizi di valore”.
Ma non sono arbitrari,
sono anzi oggettivi in
quanto intersoggettivi
e
funzionano
scientificamente
in
quanto
operano
mediante nessi causali.
In polemica con i
deterministi,
Weber
nega certo l’esistenza
di
una
causalità
assoluta,
di
una
concatenazione rigida
difatti,tipicadialcune
concezioni
positivistiche o del
determinismo
economico di certi
esponenti
della
Seconda
Internazionale, ma allo
stesso modo e con la
stessa forza egli rifiuta
l’indeterminismo
assoluto di un Eduard
Meyer, che assegna un
ruolo preponderante al
caso, all’imprevedibile,
alla
decisione
individuale
e
alla
libertà dell’azione. Tra
caso e necessità esiste
un largo spazio di
gradazione
del
possibile.
Appoggiandosi
ai
modelli del calcolo
delle probabilità, in
particolare a quelli di
Johannes von Kries,
Weber elabora una
teoria della storia e
dell’azione umana, che
si può chiarire con
l’esempio da lui stesso
scelto: se lanciamo un
dado
un
numero
sufficientementealtodi
volte, è assolutamente
impossibile sapere con
certezza quale dei sei
numeri uscirà a ogni
lancio; le possibilità
sono
equamente
distribuite
nella
frequenza di 1/6 per
ciascunadellefaccedel
dado. Ma se spostiamo
il baricentro del dado,
se usiamo un dado
“truccato”,
allora
potremo favorire, più o
meno, l’uscita di un
certo
numero.
Lo
spostamentodelcentro
di gravità del dado è
quindi
la
“causa
adeguata”
per
il
passaggio
dalla
casualità assoluta alla
prevedibilità, al senso.
Anche l’agire umano
dotato di senso è una
analoga modificazione
del
caso.
Per
comprendereun’azione
individualeounevento
storico
dobbiamo
perciò procedere a
delle
imputazioni
causali, smontare i
fenomenieimmaginarli
con o senza alcune
premesse, utilizzando
l’irrealtà dei “se” e dei
“ma” per spiegare il
reale, per stabilire il
grado
di
favoreggiamento che
un
elemento
ha
sull’insieme.
2.DaCroceaGramsci
Contrariamente
a
Weber, i “se” e i “ma”
non costituiscono per
Croce
il
criterio
dell’interpretazione
storica. Proprio perché
in lui è forte il pathos
per
il
momento
dell’oggettivazione,
dell’incorporarsi
determinato
delle
nostre
azioni
nel
mondo,
è
ozioso
domandarsi
cosa
sarebbe accaduto se i
fatti si fossero svolti
altrimenti.
Tale
domanda
è
un
“giocherello
che
usiamo fare dentro noi
stessi, nei momenti di
ozio o di pigrizia,
fantasticando intorno
all’andamento
che
avrebbepresolanostra
vita se non avessimo
incontrato una persona
che
abbiamo
incontrato,
o
non
avessimo
commesso
uno
sbaglio
che
abbiamo
commesso;
nel che con molta
disinvoltura trattiamo
noi
stessi
come
l’elemento costante e
necessario,
e
non
pensiamo a cangiare
mentalmente
anche
questonoistessi,cheè
quel che è in questo
momento, con le sue
esperienze,
i
suoi
rimpianti e le sue
fantasticherie, appunto
per aver incontrato
allora
quella
data
persona e commesso
quello
sbaglio:
senonché,reintegrando
la realtà del fatto, il
giocherello
s’interromperebbe
senz’altro
e
svanirebbe”.4
L’impossibilità
di
formulare
previsioni
per il futuro, la fine
dichiarata
di
ogni
teleologismo e di ogni
filosofia della storia
(intesa come storia a
disegno),ilrispettoper
la durezza dei fatti e
per l’agire di potenze
immani
e
transindividuali,
il
precipitareeildivenire
irrevocabile dell’azione
del singolo nei grandi
torrenti
degli
accadimenti del Tutto,
lasciano spazio solo al
riconoscimento
del
passato. Ma ciò non
significa accettare la
necessità ineluttabile
delcorsostoricoanche
per il presente e il
futuro. Anzi: spinti da
bisogni pratici sempre
nuovi e continuamente
insorgenti,
dal
desiderio di eliminare
le oscurità e i fantasmi
che si frappongono
all’azione, di toglierci
dallespallelaservitùe
il peso del passato, noi
lo interroghiamo e lo
rendiamo
vivo,
contemporaneo, “quasi
almodochesinarradi
certeimmaginidiCristi
e Madonne, le quali,
ferite dalle parole e
dagli atti di qualche
blasfematore
e
peccatore,
spicciano
rossosangue”.5
Attraverso
la
riflessione,lafilosofia–
che è “metodologia
della
storiografia”,
conoscenza
di
quell’“universale
concreto”
che
è
presente in ciascun
evento – riusciamo a
capire qual è il senso
della ricerca storica,
del
riconoscimento
oggettivo, mediato da
documenti
e
testimonianze, di ciò
che è stato. L’indagine
storica degli storici e
quella che ciascuno
compie per ricostruire
il
significato
del
propriocomportamento
spianano la strada
della libertà, intesa
come coscienza della
necessità, cognizione
delle possibilità reali
dell’agire, che esclude
quindi sia la passiva
accettazione
degli
eventi, sia il desiderio
di
saltare,
senza
affrontarli,
oltre
i
condizionamenti e le
barriere del reale.
Convertendo il passato
in
conoscenza,
comprendendo quanto
oscuramentesiagitain
noienelmondo,siamo
pronti a realizzarci, a
diventare ciascuno un
creatore di storia, in
una “religione delle
opere” che ricorda
l’etica weberiana della
vocazione, del Beruf.
Solo
ciò
che
si
oggettiva, che entra in
relazione con l’attività
degli altri lasciando un
qualche segno, ha
valore
permanente:
non i conati impotenti,
dunque,
non
le
millanterie, non le
diverse
forme
di
“paralisi della volontà”
che fiaccano gli animi,
nonlechiacchiere.
Per questo l’arte
deve
essere
“espressione”,
non
rivendicazione di una
nebulosa
interiorità
che sarebbe troppo
nobile e profonda per
tradursi in linguaggio;
deve
essere
comunicazione,
conoscenza, e non
torbido sensualismo o
strumento
di
propaganda politica e
religiosa. Per questo la
filosofia deve essere
effettiva
conoscenza
dell’universale
concretoenonraccolta
di astrazioni utili, di
etichette,comeCroceè
portato a ritenere,
semplificando
le
posizioni
convenzionalistiche
correnti anche fra gli
scienziati. Per questo
gli atti “economici”
devono essere eseguiti
con buona coscienza,
senza
mescolarvi
pregiudizi morali (la
categoria dell’“utile” e
del “vitale”, questa
“verde”forzaincuiegli
sistema l’eredità di
Machiavelli, di Marx,
dei marginalisti e della
Machtpolitik
del
tempo, sarà quella che
piùcostringeràCrocea
modificare
i
suoi
schemi
teorici,
l’elemento
destabilizzatore
e
ctonio che insidierà
l’Olimpo
dello
“Spirito”, la dottrina
dell’equilibrio generale
dei “distinti”). Per
questo,infine,leazioni
morali non sono atti
disincarnati,
eterei,
altruismo puro che ha
di mira un mondo
diverso dal nostro e
superiore, ma volizione
dell’universale che ha
come presupposto la
volizione
dell’individuale, ossia
azioni
volte
all’interesse generale,
dicuibeneficiaciascun
singolo,
ma
che
presuppongono
l’abbandono
temporaneo del pur
lecito
egoismo
individuale. La vita
dello
“Spirito”
è
appunto
questo
realizzarsi incessante
del movimento del
Tutto attraverso le
opere dei singoli, i
quali sono soltanto
funzioni subordinate di
questa
totalità
e
divengono “immortali”
in senso laico e hanno
valore
solo
se
accettano
consapevolmente
di
essere materiale da
costruzione di una
storia che si innalza al
di sopra delle loro
teste,aldilàdelleloro
intenzioni (sono qui
chiaramente
visibili
l’antipsicologismo
di
Croce e il carattere di
un liberalismo non
certo individualistico):
“ogni
nostro
atto,
appena compiuto, si
stacca da noi e vive
vita immortale, e noi
stessi
(i
quali
realmente non siamo
altro che il processo
dei nostri atti) siamo
immortali, perché aver
vissuto
è
vivere
sempre”.6 Noi siamo
veicoli, “faville”, di
questaenormepotenza
del Tutto, la cui
direzionecisfugge,che
non
possiamo
giudicare, ma che
dobbiamo ricevere “a
guisa di mistero”.7
Siamo circondati da
organismi mostruosi a
cui siamo obbligati a
piegarci,
“a
quei
Leviatani
che
si
chiamano Stati, a quei
colossali esseri viventi
dallevisceredibronzo,
ai quali abbiamo il
dovere di servire e di
obbedire, ed essi da
partelorohannobuone
e profonde ragioni di
guardarsi in cagnesco,
di
addentarsi,
di
sbranarsi, di divorarsi,
visto e considerato che
solo così si è mossa
finora,
e
così
sostanzialmente
si
moverà sempre, la
storiadelmondo”.8
Maquestoèilnostro
unico mondo, in cui
soffriamo, magari, ma
in cui ci sono gli
oggetti
di
ogni
desiderio,
passione,
interesse, conoscenza.
In realtà non ne
vorremmo un altro,
quello che promettono
le religioni: noi siamo
indissolubilmente
legati
a
questa
“terrestrità”, a questa
immanenza (tale è il
significato
dell’espressione
“storicismo assoluto” e
tale è uno dei motivi
che Gramsci trarrà da
Croce).
Dobbiamo
coraggiosamente
immergerci in esso,
accettare il rischio, la
possibilità
della
sofferenza, le delusioni
e le amarezze: “Mette
contodivivere,quando
si è costretti a tastarsi
aogniistanteilpolsoe
a
circondarsi
di
pannicelli caldi e a
evitare ogni soffio
d’aria per paura dei
malanni? Mette conto
di amare, pensando e
provvedendo sempre
all’igiene dell’amore,
graduandone le dosi,
moderandole,provando
a volta a volta di
astenersene
per
esercizio di astinenza,
timorosi di troppo forti
scosse e dilacerazioni
nelfuturo?”.9Inquesta
prospettiva anche il
male perde il suo
aspetto
sostanziale.
Non già che se ne
abolisca la coscienza o
che, vichianamente, la
filosofia
salvi
dall’angoscia per “le
mogli che infantano” o
per i “figliuoli che nei
morbilanguiscono”,ma
essononhaesistenzae
potere
autonomo,
separatodalpositivo.Il
male, o è sentito come
tale, e allora non lo
compiamo, oppure non
lo è, e allora si attua il
bene: “Il giuocatore
dell’esempio,
nel
momento in cui sa di
danneggiarsi
economicamente non
giuoca: la sua mano è
fermata, ed è fermata
perchésapere(insenso
pratico) equivale a
volere, e sapere il
danno
del
giuoco
significa saperlo come
danno, cioè ripugnare
al giuoco. Se la mano
riprende i dadi o le
carte,
ciò
accade
perchéinluisioblitera
quelsapere,valeadire
perché egli cangia
volere;einquestocaso
il giuoco non è più
avvertito come danno,
ossiaèvoluto,ossia,in
quell’istante, ridiventa
per lui bene perché
soddisfa
un
suo
bisogno”.10
La filosofia crociana
è eminentemente una
pedagogia politica, il
tentativo di educare
una classe dirigente
italiana all’altezza dei
suoi compiti, di farle
assumere un respiro
europeo. Il suo invito
alla
sobrietà,
all’operosità,
alla
serietà è politicamente
l’invitoadabbandonare
i velleitari sogni di
gloria nazionalistici e
colonialistici,
a
sacrificare gli aspetti
bolsamenteretoricieil
trasformismo spicciolo
chequestaborghesiasi
trascina da secoli, a
eliminare le scorie
coscienzialistiche
deteriori,
le
chiacchiere
e
le
chiusure locali per
immergersi
attivamente nel fiume
degli eventi mondiali,
ad accogliere in forma
subordinata
alcune
esigenze
del
movimento
operaio,
purché – beninteso – si
adegui alla razionalità
borghese.
Il
proletariato “se vuole
imitare davvero la
borghesia
nell’abbattere
una
vecchia società, deve
avere la forza e la
capacità di imitarla
altresì
nei
metodi
severi
dell’abbattimento
e
della
riedificazione.
Tali condizioni pone la
storia,
e
con
l’osservanza di esse il
socialismoètantopoco
pauroso quanto è poco
pauroso ciò che è
necessario”.11
Il
proletariato attraversa
invece ancora una fase
passionale grezza della
suavitapolitica,madel
resto la politica è nella
sua essenza passione,
razionalizzazione
“economica”
di
interessi settoriali, che
prescinde
da
ogni
supremo valore morale
e
ha
la
propria
giustificazione in se
stessa. La previsione
marxiana di una lotta
di classe che si
conclude
con
la
scomparsa di tutte le
classi è quindi per
Croce
un’utopia
morale, soggiace alle
“alcinesche” seduzioni
della dea Giustizia. Il
modello filosofico dei
“distinti”
intende
invece mantenere un
equilibriofraleclassie
i blocchi di interessi
contrapposti, evitare
rovesciamenti drastici
eviolenti.L’ideadiuna
“libertà” – egemonia
senzadittaturapalese–
come garanzia che
nessuna
classe
prevarràsullealtrecon
la violenza favorisce
evidentemente,
in
termini gramsciani, la
“rivoluzione passiva”,
la
semplice
razionalizzazione del
dominio esistente e il
compromessoconforze
addirittura
preborghesi,
quali
la
Chiesa. Con essa vi è
una sorta di tacita
divisione delle sfere
d’influenza: le élites
allo Stato laico e
liberale, che le forgerà
in modo austero ed
efficace,lemasseauna
religione che è forma
inferiore,passionale,di
filosofia, che manterrà
il
“popolo”
nell’obbedienza e nella
passività. Vi è qui
un’implicita
dichiarazione
di
incapacitàacontrollare
larghi strati sociali e a
farlipartecipare,anche
in tempi lunghi, a
un’attività storica più
vasta.
In
quanto
interlocutore di Croce,
Gramsci cercherà di
rovesciare
questo
schema, di porre il
problema
e
di
preparareglistrumenti
per permettere a tutti
di
partecipare
da
protagonisti
alla
costruzionedellastoria
e
delle
istituzioni.
Soprattutto dopo il
1917, la borghesia
attraversa un periodo
di crisi profonda di
egemonia: i rapporti di
forza si sono spostati a
favore della classe
operaia, che non è più
costretta alla passività
fatalistica
o
al
ribellismo
senza
sbocchi, come quando
subiva l’iniziativa del
blocco
storico
dominante. Ora essa è
in grado di dirigere le
forze produttive e di
guidare gli Stati: è
politicamente
maggiorenne. Occorre
una compatta “volontà
collettiva” per operare
la transizione e un
“nuovo senso comune”
per innalzare le grandi
masse al livello della
scienzaedelleformedi
vita moderne. E ciò è
tanto più necessario in
quanto in Occidente,
dove la “società civile”
è
estremamente
articolata a protezione
dello “Stato politico”,
lalottasaràlunga,sarà
una snervante “guerra
di
posizione”.
Per
resistere all’offensiva
proletariaeperovviare
alla caduta tendenziale
del saggio di profitto,
gli
Stati
si
riorganizzano, tentano
di
coinvolgere
direttamente tutti i
cittadini nella difesa
del sistema vigente,
catturandone
o
estorcendone con la
forza
il
consenso.
Bisogna
apprendere
tutti i metodi più
elaborati
dagli
avversari, non farsi
cogliere impreparati o
arretrati in questa
rivoluzione che cuoce
“a
fuoco
lento”,
abbandonare
il
primitivismo
economico
e
meccanicistico
precedente
e
sviluppare le capacità
diprevisioneediguida
degli
eventi,
chiamando anche gli
intellettuali
a
collaborare
a
tale
impresa
storica
e
colmando
continuamente
le
distanzechesiformano
tra le linee strategiche
deiverticielacapacità
di comprensione e di
recezionedellabase.
Lo
storicismo
gramsciano
vuole
essere
l’armatura
teorica per affrontare
quella
situazione
storica determinata di
lotta e di transizione,
irta di squilibri, di
tensioni,
di
punte
avanzateedisacchedi
arretratezza (in cui si
devono, ad esempio,
mediare
il
Nord
industriale e il Sud
contadino,
l’alta
culturadellatradizione
borgheseelecredenze
magiche o il folklore
dei ceti subalterni, la
filosofia e il mito, lo
sviluppo delle forze
produttive,
anche
attraverso
l’applicazione
di
sistemi tayloristi, e gli
ostacoli frapposti da
rapporti di produzione
arretrati o arcaici). Ma
non si tratta di uno
storicismo “soffice” o,
come si è detto, da
“sinistra crociana”, per
quanto Gramsci molto
abbiatradottodaCroce
(e da Gentile), come
Marx
da
Hegel:
mediante gli squilibri,
l’attenzione
per
il
concreto
svolgersi
degli eventi, lo sforzo
per
eliminare
la
divisione tra dominanti
e dominati, la storia
deve
essere
trasformatasecondoun
progetto
di
emancipazione
collettiva,
non
contemplata e adorata
come
un
mistero
imperscrutabile
e
crudele
nella
sua
incomprensibile
ed
eterna essenza. Il suo
storicismo
è
così
radicale e immanente
che quel che oggi, in
questa
precisa
situazione di cogenza
storica, è vero potrà
diventare falso e ciò
che è falso potrà, in
qualche
misura
almeno,diventarevero:
“Si
può
persino
giungere ad affermare
che mentre tutto il
sistema della filosofia
della
prassi
può
diventare caduco in un
mondo unificato, molte
concezioni idealistiche,
oalmenoalcuniaspetti
di esse, che sono
utopistiche durante il
regno della necessità,
potrebbero diventare
‘verità’
dopo
il
passaggioecc.”.12
Lo
storicismo
–
interpretato
da
Togliatti – ha svolto
una funzione rilevante
nella cultura italiana
del
secondo
dopoguerra.
Ha
costituito il ponte che
ha permesso il transito
dall’idealismoauntipo
di marxismo che in
Italia aveva dovuto
saltare
una
generazione.
Contro
ogni
“astrazione
giacobina”, ha posto in
evidenza
gli
sbarramenti, i blocchi,
la
specificità,
la
concretezza di ogni
situazione storica, la
necessità di tarare il
pensierosullarealtà,di
tener
conto
dei
rapporti
di
forza
impostidallasituazione
internazionale.Ilvalore
quasi “neo-realistico”
della concretezza, del
legame
con
le
situazioni storiche ed
economiche
determinate, diventa
centrale.
Bisogna
riconoscereidirittiele
durezze del proprio
tempo, evitando di
rifugiarsi dentro il
chiuso ammuffito della
propria coscienza o
dimensione
privata.
Contro l’idealismo e lo
spiritualismo e contro
la retorica fascista, si
intende
ora
far
ridiscendere di nuovo
la filosofia dal cielo
delle idee pure nelle
case e nella vita degli
uomini.
In questa marcia
verso una sorta di “via
italiana
alla
razionalità” si cercò in
effetti – sotto l’egida
della politica – un
intreccio tra storia e
utopia. Una storia
dinamizzata,vertebrata
e innervata da un fine
utopico
(quello
dell’emancipazione)
avrebbe
dovuto
coniugarsi a un’utopia
frenata, che doveva
tenerecontodeivincoli
edellepossibilità,delle
barriere e dei varchi
per forzarle. Sono
proprio questi due
elementi che si sono
andati
in
seguito
progressivamente
dissociando,sottraendo
alla storia il suo scopo
nellefilosofiedel“postmoderno” e all’utopia
la sua zavorra di
condizionamenti
storici, così da farla
tendenzialmente
tornare a essere un
genereletterario.
1 E. Durkheim, Le
regole del metodo
sociologico. Sociologia
e filosofia, Comunità,
Milano1963,p.33.
2Ivi,p.45.
3
M. Weber, La
scienza
come
professione,inIllavoro
intellettuale
come
professione, Einaudi,
Torino1966,p.43.
4 B. Croce, La storia
come pensiero e come
azione (1938), Laterza,
Bari1973,p.19.
5Ivi,p.10.
6 B. Croce, Religione
e
serenità,
in
Frammentidietica,ora
anche in Etica e
politica, Laterza, Bari
1973,p.23.
7 Id., L’utopia come
forma morale perfetta,
inTerzepaginesparse,
Laterza,Bari1955,I,p.
97.
8 B. Croce, Per la
serietà del sentimento
politico
(1916),
in
Pagine sulla guerra,
Laterza, Bari 1928, p.
166.
9 Id., Amore per le
cose, in Frammenti di
etica,cit.,p.19.
10 Id., Filosofia della
pratica(1908),Laterza,
Bari1963,pp.135-136.
11
B.
Croce,
Conversazioni critiche,
Laterza, Bari 1924, I,
pp.312-313.
12
A.
Gramsci,
Quaderni del carcere,
Einaudi, Torino 1975,
p.1490.
IV.Idislivelli
dellastoria
1.Lostoricismodi
Dilthey
Bendiversoerastato
l’impianto teorico dello
storicismo di Dilthey,
che aveva stimolato le
riflessioni e le critiche
sia di Weber che di
Croce.
Anche
qui
l’accento
cade
sull’oggettivarsi delle
opere dei singoli in un
mondoumanodotatodi
senso,cheèilprodotto
delloroagirema,nello
stessotempo,ancheciò
che li plasma e
all’interno del quale
essi
divengono
comprensibili.
Tutto
quanto
sorge
dall’attività spirituale
porta il marchio della
storicità:
“Dalla
partizione degli alberi
inunparco,dall’ordine
delle case in una
strada,dallostrumento
del lavoratore manuale
fino alla sentenza in
tribunale,
tutto
è
intorno a noi, a ogni
ora,
storicamente
divenuto. Ciò che lo
spirito immette oggi
del suo carattere nella
propria manifestazione
di vita, è domani,
quando sta davanti,
storia. Mentre il tempo
procede, noi siamo
attorniati dalle rovine
di Roma, da cattedrali,
da
castelli
indipendenti. La storia
non è nulla di separato
dalla vita, nulla di
distinto dal presente
per la sua distanza
temporale”.1 Noi ci
nutriamo di questo
“spirito oggettivo”, di
questa storicità, sin
dall’infanzia,
ancor
prima di imparare a
parlare: assorbiamo i
costumi della famiglia
e
della
comunità,
l’ordine delle cose, i
segni e le espressioni
del volto. E poi,
procedendo in avanti
negli anni, una volta
impadronitici
del
linguaggio, inteso il
significato di molti
atteggiamenti,
pensieri,
istituzioni,
riusciamo a orientarci
in questo mondo che è
diventato il nostro e a
cui noi contribuiamo,
ma che è il frutto di
tuttelegenerazioniche
si sono succedute sino
a ora. Per questo
motivo
–
per
la
“comunanza”
che
esiste e che unisce chi
ha espresso qualcosa e
chi la può intendere –
la storia e le altre
“scienze dello spirito”
hanno uno statuto
speciale
che
le
distingue dalle scienze
della natura. La natura
ci è estranea, non
l’abbiamo fatta noi, è
qualcosa di esterno a
cui si applica la
spiegazione causale; la
storia è opera nostra,
in essa il soggetto del
sapereèidenticoalsuo
oggetto,enoipossiamo
“comprendere”
in
“connessioni
dinamiche”,
in
rapporto a scopi e a
valori, il senso dei suoi
eventi,
attraverso
l’esperienza interiore
che li rivive, l’Erlebnis,
e l’interpretazione che
li
decifra
e
li
ricostruisce. Non ha
importanza se noi
abbiamo
vissuto
direttamente o meno
l’esperienza
o
l’emozionechesitratta
di comprendere. Anzi,
la storia e le altre
scienze dello spirito ci
arricchiscono
e
ci
universalizzano perché
ci rendono partecipi di
quelle
infinite
esperienze
e
combinazioni che gli
inevitabili limiti della
vita
individuale
rendonopersonalmente
inaccessibili:“Siapreil
palcoscenico: appare
Riccardo, e un animo
penetrante
può,
seguendolesueparole,
i suoi gesti e i suoi
movimenti,
rivivere
qualcosa che sta al di
fuori di ogni possibilità
della sua vita reale. Il
bosco fantastico in
Come vi pare ci
trasferisce
in
una
disposizione interiore,
la quale ci consente di
riprodurre
ogni
eccentricità.
E
in
questo rivivere sta una
parte
importante
dell’acquisto di cose
spirituali, di cui siamo
debitoriallostoricoeal
poeta. Il corso della
vita produce in ogni
uomo una costante
determinazione, in cui
vengono limitate le
possibilità che vi sono
contenute
[...].
L’intendere gli apre un
ampio
campo
di
possibilità,lequalinon
esistevano
nella
determinazione della
sua vita reale. La
possibilità di vivere
immediatamente nella
mia esistenza degli
statireligiosi,èperme
come per la maggior
parte degli uomini
d’oggi assai ristretta.
Maquandoioscorrole
lettere e gli scritti di
Lutero, i racconti dei
suoicontemporanei,gli
atti delle conferenze
religiose e dei concili
come
della
sua
narrazione ufficiale, io
vivo
un
processo
religioso di tale forza
eruttiva,
di
tale
energia, che nella vita
e nella morte esso sta
al di là di ogni
possibilità di Erlebnis
per ogni uomo dei
nostrigiorni”.2
Dilthey
è
preoccupato
dell’irrigidimento
e
dellapietrificazionedel
mondo storico, teme
che i contesti di senso
nonpossanopiùessere
decifrati dal singolo e
chel’esperienzastorica
tendaadiventarecosa,
passato
incomprensibile.
Rimaneunoggettoche
non ha senso per noi,
che è indifferente. Il
carattere di fissità gli
fa perdere la sua
dimensione cangiante
in base a ragioni
dimostrabili. La storia
deve
servire
al
potenziamento
della
vita,
ricostruire
artificialmente
la
tradizione.
Essa
sembra
dovere
assumere anche un
compito
terapeutico,
quello di rivitalizzare
un’esperienza
avvizzita,
di
dare
respiro
a
una
individualità che si
sente soffocata dai
meccanismi oggettivi
della produzione di
senso
e
dalla
complessità, ma che
nello stesso tempo non
crede più alle filosofie
della
storia
che
promettono un corso
dellecosechesostenga
l’avanzamento
del
soggetto sulla sua
cresta
d’onda.
L’impetuoso sviluppo
attraverso
le
contraddizioni
presentato
dalla
dialettica
si
è
derubricato
a
evoluzione.
La
continuità
e
la
vischiosità
del
movimento storico, la
sua mancanza di tagli
netti
sono
state
accettate. Ormai si
tratta
di
far
intervenire,
con
il
premio di seduzione
offerto
da
un
potenziamento
dell’Erlebnis,
l’individuo
al
mantenimento in vita e
alla riproduzione degli
universi simbolici e di
senso e, nello stesso
tempo,
alla
conservazione
della
vitalità sociale. Lo
spirito oggettivo deve
essere messo a frutto
nel doppio interesse
dell’individuo e della
comunità.Attraversola
mediazione
della
storia,
il
presente
acquista una tonalità
vitale più intensa. Ciò
che appare in universi
simbolici inerti va
riattivato mediante il
comprendere tipico del
“circolo ermeneutico”,
il Verstehen (trattato
nel saggio del 1900
intitolato
appunto
Ermeneutica).
Esso
consiste nel gioco
aperto di anticipazione
del senso globale di un
determinato problema,
che
ritorna
però
continuamente su se
stesso e rettifica, di
volta in volta, la
comprensione
mediante
un
riposizionamento e un
riesamedelleparti.
Mediante
il
Verstehen
ciascuno
può vivere altre vite
parallele
alla
sua,
immaginarsi fornito di
più biografie possibili,
che ne moltiplicano le
possibilità. L’io non è
infattimonolitico,maè
come
un
tessuto
compostodimillefili:è
tanto
più
robusto
quanto più fili (o senso
tratto da altri) riesce a
inglobare. La storia
nonhaormaipiùilsolo
compito di stabilire
quel che veramente è
accaduto,
ma
di
schiudere gli universi
di senso che rischiano
di
restare
muti
nell’ambito
dello
“spirito
oggettivo”.
Essa
costituisce
il
rimedio
sia
alle
limitazioni casuali che
a quelle necessarie
dellavita.Fariviveree
attiva dei germi che
vivevano già in noi
dispersi e apre la vita
ai
possibili,
allargandolaoltreisuoi
limiti
angusti.
Il
comprendere
è
l’antidoto nei confronti
della
chiusura
e
dell’isolamento
degli
individui.Lastoria(ma
anche l’arte) è il
principalestrumentodi
universalizzazione del
singolo che non ne
cancella
però
l’individualità.
Diltheyvuoleevitare,
da un lato, il vitalismo,
l’isolamento
dell’Erlebnis
dalla
mediazione
storica,
dall’altrolastoriacome
oggettività, inesorabile
movimento oggettivo
non mediato dalla
coscienza
e
dalla
donazione
e
decrittazione del senso
individuale. Per questo
egli non rinuncia al
legametrapsicologiae
storia, tra soggettività
e
oggettività,
tra
individualità
e
universalità.
La
psicologiaindividualeè
ilpuntodipartenzaeil
punto di arrivo del
processo
di
“comprensione”:
la
conoscenza storica è
conoscenza
dell’individualità,
anche se (come appare
dal Contributo allo
studio
dell’individualità) per
giungere a essa è
necessario
passare
attraverso
generalizzazioni,
tipizzazioni. A sua
volta, l’individuo è il
crocevia del mondo
storico,
l’unico
portatore e creatore
vivente
di
questi
rapporti fluidi che
costituiscono la storia.
L’ideale di Dilthey è
espresso
nel
suo
costante
riferimento
allaculturatedescadel
periodo che precede il
1848
(a
Schleiermacher,
a
Hölderlin, a Goethe, a
Hegel),aquellafasein
cui si cercava un
equilibrio tra individuo
e Stato, soggettività e
oggettività,eincuinon
si esaltavano ancora e
nonsiimponevanocosì
duramente
i
“Leviatani”,
come
avverrà invece in età
bismarckiana
e
guglielmina anche con
Treitschke, Weber o
Meinecke. Lo “spirito
oggettivo”,
prodotto
dalla lunga azione
modellatrice
delle
soggettività
umane,
non si presenta come
un’entità
a
esse
estraneaeostile:vièla
possibilità
di
riappropriarsene,
di
impedire attraverso la
“comprensione” il suo
autonomizzarsi
ed
ergersi
in
forme
minacciose.
Dilthey
traccia le linee di un
progetto
di
disalienazione e di
fluidificazione
delle
concrezioni e delle
reificazioni sociali –
analogo,neisuoiscopi,
a quello ideato da
Bergson – che non
passa attraverso la
modificazione
collettiva,
politica,
delle istituzioni, ma
attraverso miriadi di
iniziative
individuali
tese a rivitalizzare e a
dar senso a una civiltà
che va irrigidendosi in
forme
di
organizzazionestatuale
ed economica sempre
piùintegrateecogenti.
La sua filosofia è nello
stesso
tempo
un
campanello d’allarme e
un
programma
di
contro-tendenza:
un
tentativo di modificare
quella
rotta
di
collisione fra gli Stati
europei che porterà
all’agostodel1914.
La
crescente
importanza,
anche
politica,
della
conoscenza dell’uomo
nella sua vita singola e
in quella di relazione,
accanto alla “crisi dei
fondamenti”
delle
scienze
naturali,
conduce all’emergenza
delle “scienze dello
spirito”
(Geisteswissenschaften),
di cui occorre stabilire
i caratteri differenziali.
Per
governare
gli
uomini, così come per
sottrarsi al dominio,
bisogna
conoscerli,
vederli
non
come
essenza
eterna,
naturale, ma come
esseri continuamente
modificati dalla storia,
ossia da se stessi.
L’uomo è “creatura del
tempo”, di se stesso: il
suo
operare
è
intellegibile
solo
all’internodiunmondo
storico specifico che lo
circoscrive e di cui
bisogna conoscere le
regole.
Il
riconoscimento della
dimensione
storica,
oltre a rivelare il
desiderio di riprendere
in mano le redini di un
processo che appare
guidato
da
forze
distanti e oscure, ha
per Dilthey anche un
significato
emancipatorio.
Una
volta
mostrata
la
relatività e la caducità
di ogni espressione
della vita storica, di
ognistrutturasocialeo
di ogni valore, si è
compiuto
“l’ultimo
passo
verso
la
liberazione
dell’uomo”.3 Ma quel
che rimane in tale
relativismo storicistico
è solo “la continuità
della forza creatrice
come elemento storico
essenziale”.Lastoriasi
presenta così come un
grandecantiereaperto,
in cui non esistono
veritàprecostituite,ma
– appunto – verum
ipsum factum. Ognuno
può
partecipare
creativamente
all’impresa collettiva
secondo le sue forze.
Sotto questo profilo, lo
storicismo è anche una
forma di mobilitazione
di massa, un appello
per dire che la storia è
aperta a tutti, che ha
cessato di essere un
privilegio dei potenti
dellaTerra.
Di nuovo, al pari di
Bergson,
tutto
si
traduce
in
indeterminata
forza
creatrice:
resta
la
perennità
del
mutamento, ma non se
ne individuano né il
verso, né gli agenti, né
la dinamica specifica.
Del resto, è proprio su
questa creatività del
movimento storico in
contrasto
con
la
regolarità ciclica e
ripetitiva della natura
(perlomeno in tempi
nonlunghissimi),chesi
fonda la divisione fra
scienze dello spirito e
scienze della natura,
fra “comprendere” e
“spiegare”,
fra
“connessione
dinamica” e causalità.
Nel rivendicare contro
il
positivismo
l’autonomiaeladignità
delle
Geisteswissenschaften
rispetto alle sue più
fortunate sorelle, nel
far loro abbandonare
un ormai radicato
complesso
di
inferiorità,
Dilthey
contribuisce a fissare
la separazione tra le
“due culture” in un
momento in cui, fra
l’altro,
le
scienze
naturali rinunciano al
concetto classico di
causalità rigida e le
scienze dello spirito
(con Weber, Durkheim
o Freud) si staccano
dal vitalismo o dallo
psicologismo
dell’Erlebnis
per
riallacciarsi ad un
concetto di causalità
piùsottileedelaborato.
È vero che in Dilthey
non c’è iattanza né
spirito revanscista nei
confronti
delle
difficoltà che allora
attraversavano
le
scienzedellanatura.Di
fronte
all’insinuante
sospetto
che
esse
avessero perduto la
loro
infallibilità
e
fossero
state
precipitate dal proprio
trono fra la plebe delle
altre
forme
di
conoscenza incerte e
congetturali, costrette,
come la filosofia, a
ridiscutere
in
apparenza sempre gli
stessi problemi, egli
non prova il malcelato
compiacimento di altri
filosofi che, ignorando
il momento di crescita
di tale crisi, avevano
ritenuto che fosse
giunto il tempo di
passarealcontrattacco
e di proclamare la
restaurazione
della
filosofia come “regina
delle scienze” (essa
sola infatti potrebbe
legittimamente
governare
in
tale
situazione di disordine,
in
quanto
per
tradizione
ha
familiarità
con
l’instabile
dominio
delle
costruzioni
concettuali,neconosce
la
dinamica
delle
trasformazioni ed è
avvezza ai “tempi di
povertà”). Dilthey si
limita a spartire il
regnodellaconoscenza
e, a differenza di
Croce, concede un
significato teoretico, e
non economico-pratico,
alle
scienze
della
natura.
La
sua
concezione di fondo è
anzi che esse abbiano
un
contenuto
più
costante di verità,
dovendo misurarsi con
unarealtàmenomobile
emutabileneltempodi
quellaconoscibiledalle
scienzedellospirito.
2.Leumanitàaltre:
filosofia
dell’antropologia
Se lo storicismo
fornisce alla cultura
europea la penetrante
consapevolezza di aver
tagliato il cordone
ombelicale
con
la
natura e di aver reso
l’uomo figlio della
propria storia; se esso
relativizza nel tempo e
in
zone
comparativamente
ristrette
quel
mutamento di valori e
di esperienze di cui ci
si deve impadronire, la
nuova etnologia tende
a
verificare
la
molteplicità
degli
intrecci tra natura e
cultura (a sottolineare,
indirettamente,
la
presenza della natura
anche nella storia dei
“paesi civili”) e a
relativizzare
nello
spazio i valori e le
esperienze.
Come
Freud aveva proceduto
alla conquista e alla
bonifica
di
quell’“interno
paese
straniero”
che
è
l’inconscio, così, tra
oscillazioni
e
sbandamenti,
l’etnologiaprocedealla
scoperta
e
all’assorbimento
di
quella umanità altra
che
aveva
in
precedenza meritato la
qualificadi“selvaggia”,
buona o cattiva che
fosse. In un mondo
sempre
più
interdipendente,inuna
storia che si allarga
sino a raggiungere
stabilmente – e non
episodicamente – la
scala
planetaria,
l’etnocentrismo
occidentale si dimostra
ristretto, miope, e il
comprendere l’alterità
si
traduce
nel
comprendere se stessi.
Sotto la crosta della
civiltà,
sotto
lo
spessore della storia, è
pur sempre presente
nell’uomo
europeo
quell’elemento
“selvaggio” che era
stato esorcizzato nei
tempi della precedente
dominazione coloniale.
Ora si comincia ad
avvertiresialacarenza
dello
schema
unilineare risalente ad
Adam Ferguson (per
cui tutti i popoli
dovrebbero percorrere
itrescalinidellostadio
selvaggio, barbarico e
civile),
sia
l’inadeguatezza
e
l’ambiguità
dello
schemaevoluzionistico,
in
vario
modo
sostenuto da Spencer,
Tylor e Frazer (per cui
esisterebbe sviluppo,
dal più semplice al più
complesso, di uno
“spirito
umano”
uniforme a tutte le
latitudini).
Ora
l’attenzione
è
indirizzata verso il
rapporto differenziale
tra la cultura e il
razionalismo europeo e
la varietà, la pluralità,
l’irriducibilità a un
sistema unitario delle
civiltà “altre”. L’analisi
comparativa
dello
statuto del “pensiero
selvaggio”,
pur
concludendosi
in
genere
con
la
riaffermazione
della
superiorità di quello
civilizzato, intacca e
relativizza
insensibilmente la fede
nell’eternità
metastorica
e
nell’ubiquità
della
nostra logica. Croce
riteneva
inutile
studiare il pensiero dei
selvaggi, dei bambini o
dei pazzi, dal momento
che ci si poteva
dedicare a quello di un
Kant. Il fatto è che
proprio la ricerca di
queste alterità rimosse
esprimeva il bisogno di
rifondaredalbassouna
nuovaculturaglobalee
nuove
forme
di
pensiero
che
accogliessero
e
attivassero ciò che
primacieraestraneoe
che ora, dilatandosi gli
orizzonti geografici e
mentali,devediventare
patrimonio
comune.
Uno sviluppo per linee
interne dei punti più
alti già raggiunti dal
pensiero
europeo
(poniamo di un Kant,
appunto) si rivelava
insufficiente.
In questa querelle
sulla relazione tra
pensiero occidentale e
pensiero “altro” – non
soloselvaggio,nonsolo
in senso etnologico:
pensiamo, per fare un
solo
esempio,
alla
logica
del
ragionamento infantile
in Piaget – un ruolo
determinante gioca la
categoria di causa, che
in
tale
confronto
subisce
ulteriori
torsioni.
Questo
concetto fondamentale
del
razionalismo
europeo,
orgogliosamentelegato
ai progressi delle sue
scienze, non è quasi
mai attribuito in senso
pieno ai selvaggi o alle
pur evolute società
asiatiche.PerFrazerla
magia,
“sorella
bastarda
della
scienza”,
fase
primordiale
della
mentalità umana, a cui
i primitivi sono ancora
legati,
applica
scorrettamente quegli
stessi
principi
associativiche,sebene
applicati, conducono al
sapere per cause. I
selvaggi si servono
infatti di due principi:
“primo, che il simile
produceilsimile,oche
l’effetto
rassomiglia
alla causa; secondo,
che le cose che siano
state una volta a
contatto,continuanoad
agire l’una sull’altra, a
distanza, dopo che il
contatto
fisico
sia
cessato.
Il
primo
principiopuòchiamarsi
legge di similarità, il
secondo
legge
di
contattoocontagio”.4I
primitivi,
i
senza
scienza,
vivono
secondo
Frazer
nell’errore e in un
universo
fantasmagorico,lontani
dal progresso e dalla
chiarezza
raggiunta
dalle
menti
degli
uomini
civili:
“È
dunque una verità
evidente, e quasi una
tautologia, il dire che
tuttaquantalamagiaè
per necessità falsa e
sterile,
perché
se
divenisse
vera
e
fruttuosa non sarebbe
più
magia
ma
scienza”.5
Lucien Lévy-Bruhl,
per
quanto
abbia
inizialmente
accentuato il carattere
“prelogico”
della
mentalità
primitiva,
non pretende affatto di
dimostrarne
l’inferiorità. Egli vuole
invece produrre un
“effetto
di
straneamento”,
bloccare la proiezione
spontanea della nostra
mentalitàedellenostre
abitudini sulle altre.
Neisuoimeccanismidi
fondo, la mentalità dei
primitivi non è diversa
dalla nostra: solo i
presupposti e i bisogni
specifici
sono
differenti, ed è solo
all’interno di questo
blocco di relazioni fra
ambiente, bisogni e
rappresentazioni
collettive che la si può
intendere.
In
tale
maniera,
“l’attività
mentale dei primitivi
non
sarà
più
interpretata
in
partenza come una
forma
rudimentale
della nostra, come
infantile
e
quasi
patologica.
Apparirà
anzi come normale
nelle condizioni in cui
essa si esercita, come
complessa e a suo
modo sviluppata”.6 Il
primitivo segue le
regole inconsce della
“partecipazione
mistica”,
vive
un’esperienza
di
insicurezza e di allerta
dinanzi ai pericoli e
agli incantamenti del
mondo, mentre noi – si
può
legittimamente
dire
in
linguaggio
weberiano – viviamo in
un
universo
disincantato,
nella
fiducia sulla stabilità
delnostroordinamento
intellettuale,
anche
quando esso è posto
momentaneamente in
crisi: “Noi abbiamo un
senso
continuo
di
sicurezza intellettuale
così saldo che non
vediamo come possa
essere scosso; poiché
anche
supponendo
l’apparizione
improvvisa
di
un
fenomeno del tutto
misterioso e le cui
cause ci sfuggissero
interamente agli inizi,
non
saremmo
per
questo meno persuasi
chelanostraignoranza
è solo provvisoria, che
questecauseesistonoe
che presto o tardi
potranno
essere
determinate. Così, la
natura in seno alla
quale viviamo è, per
così
dire,
intellettualizzata
in
anticipo. Essa è ordine
e ragione, come la
mente che la pensa e
che vi si muove. La
nostra
attività
quotidiana, fin nei suoi
più umili particolari,
implicaunatranquillae
perfetta
fiducia
nell’invariabilità delle
leggi naturali. Ben
diverso
è
l’atteggiamento
mentale del primitivo.
La natura in seno alla
quale egli vive gli si
presenta in tutt’altro
aspetto.
Tutti
gli
oggettietuttigliesseri
sono implicati in una
retedipartecipazionie
di esclusioni mistiche:
esse
anzi
ne
costituiscono
il
contestoel’ordine.Son
dunque esse che si
imporranno prima di
tutto
alla
sua
attenzione,edessesole
la tratterranno. Se è
interessato
da
un
fenomeno, e se non si
limita a percepirlo, per
così dire passivamente
e senza reagire, egli
penserà subito, come
per una specie di
riflesso mentale, a una
potenza
occulta
e
invisibile di cui questo
fenomeno
è
una
manifestazione”.7
In questa simbiosi
mistica con le forze
occulte,
le
rappresentazioni
del
primitivo possono non
obbedire alle nostre
categorie logiche, ai
principi classici di
identità e di noncontraddizione.
Esse
possono nello stesso
tempo rivestire qualità
opposte,
condensare
entità diverse. Solo
quando il pericolo
rappresentato da una
natura troppo potente
si attenua, solo allora,
sembrerebbe,
la
coesione
delle
rappresentazioni
sociali,
che
lega
strettamente
l’individuo
al
suo
gruppo, si attenua a
sua volta e la logica e
la contraddizione si
aprono la strada nelle
rappresentazioni che si
trasformano
in
concetti. Così infatti
Lévy-Bruhl si esprime
in Le funzioni mentali
nelle società inferiori
(Paris
1910):
“La
mentalità
collettiva
senteevivelaveritàin
virtù di ciò che io ho
chiamato
simbiosi
mistica.
Ma
ove
l’intensità di questo
sentimento viene meno
nelle rappresentazioni
collettive, subito la
difficoltà
logica
comincerà
a
farsi
sentire [...]. Quando i
caratteri
obiettivi
essenziali della pietra
si sono, per così dire,
fissati nel concetto di
pietra, il quale a sua
volta è inquadrato in
altri concetti di oggetti
naturali diversi dalla
pietra per proprietà
non meno costanti
delle
sue,
diventa
inconcepibile che le
pietre parlino, le rose
si
muovano
volontariamente
e
generino uomini [...].
Più i concetti si
determinano,
si
fissano, si ordinano in
classi,
più
le
affermazioni
non
tengono alcun conto di
questi rapporti ed
appaiono
contraddittorie”.
Dopo Lévy-Bruhl la
magia o la mentalità
primitiva
cessano
fondamentalmente di
rappresentare
fenomeni
misteriosi.
Vivendo maggiormente
a contatto con i
“selvaggi”, eliminando
per quanto è possibile
gli
intermediari,
usando
il
metodo
dell’“osservazione
partecipante”,
è
possibile per alcuni
rilevare la profonda
coerenza
dei
loro
sistemi
di
rappresentazione
e
notareanchecomeessi
non
vivano
continuamente
in
un’atmosfera
di
stupore magico. Esiste
anzi una vastissima
sfera
profana
nel
pensiero dei primitivi:
come
constaterà
Malinowski, solo nel
casoincuinonsianoin
gradodipadroneggiare
completamente
un
processo, rispunta la
magia. Per Marcel
Mauss,poi,cherisente
l’influsso
dell’idea
durkheimiana
di
contrainte sociale, la
magiadeiprimitivinon
è il frutto di una loro
mentalità (inferiore o
diversa),
ma
del
bisognodistabilireuna
comunicazione
tra
l’individuo
e
la
collettività. Il mago è
un emissario della
società, costretto a
sentirsi e a rimanere
“altro”
mediante
apposite pratiche, che
catalizzano in intensi
sforzi
psichici
le
ansietà e le aspettative
del villaggio: egli è
come una specie di
funzionario,
socialmenteinvestitodi
un’autoritàallaqualeè
impegnato a credere
lui stesso.8 Perché un
individuo creda nella
magia, è necessario
che tutta la società vi
creda. Del resto ogni
aspetto
della
vita
comunitaria è regolato
da obblighi e da
esclusioni di rapporti,
dauncodicediscambi,
che coinvolge persone
e
oggetti
e
che
determina
gli
atteggiamenti
psicologici di ciascuno.
Nel Saggio sul dono,
Mauss
mostra,
attraverso il modello
delpotlàc–dell’obbligo
di ricambiare i doni in
una sorta di gara che
può
condurre
alla
rovinaeconomicaoalla
morte dei partecipanti
– che lo scambio
primitivo,
contrariamente
a
quanto pensavano i
padri
dell’economia
politica classica, non è
costituito dal baratto
fra individui di oggetti
adatti a soddisfare
bisogni
elementari,
bensìdalloscambiofra
gruppi organizzati “di
cortesie, di banchetti,
di riti, di prestazioni
militari, di donne, di
bambini, di danze, di
feste,
di
fiere”.
L’alternativa sottintesa
a questo obbligo di
scambiare, a questo
meccanismo
di
socializzazione, è la
guerra, lo scambio
distruttivo. Lo scambio
non
è
quindi
considerato
(da
Malinowski a Mauss, a
Godelier, dal kula, al
potlàc, alla “moneta di
sale”)
come
un
semplice
rapporto
economico separabile
dal contesto sociale o
rappresentativo,
ma
come un fenomeno
complesso
che
coinvolge
bisogni,
istituzioni, prestigio e
lotta.
Taleimpostazionedei
rapporti sociali come
comunicazione
all’interno
di
un
sistema
determinato
troverà in Lévi-Strauss
uno dei più acuti
indagatori.
Egli,
applicando
alla
etnologiaimodulidella
linguistica
e
della
matematica, cercherà
di stabilire i principi
formali dello scambio
(delle donne, come
nelle
Strutture
elementari
della
parentela)oilvaloredi
posizione
di
certe
credenze e miti in
culture
e
ambiti
geografici lontanissimi
(bellissima,
ad
esempio,
la
ricostruzione in Razza
e storia della credenza
in “Babbo Natale”).
Rifiutando
l’opposizione
assiologica tra popoli
provvisti di storia e
popoli senza storia,
respingendo
il
privilegio
della
spiegazione temporale
delle situazioni umane,
Lévi-Strauss
pone
l’accento
sulle
strutture sistematiche,
sulla solidarietà che
lega sincronicamente i
loro componenti, sui
tempi lunghi e i larghi
spazi, sulle risonanze
fra codici diversi e
sulla
permanenza,
anche nella nostra
cultura, del “pensiero
selvaggio”. Esso non
significa
infatti
pensiero dei primitivi,
ma pensiero allo stato
selvaggio, “distinto dal
pensiero educato o
coltivato proprio in
vista
di
un
rendimento”. E tale
pensierobradocoesiste
con quello coltivato in
molti
dei
nostri
atteggiamenti mentali
o
dei
nostri
comportamenti:
nell’arte,
nella
produzione di miti,
nelle associazioni di
immagini,disapori,nel
modo di camminare o
di
mangiare.
Per
intendere il pensiero
selvaggio
non
è
necessariofarricorsoa
facoltà ormai sepolte
sotto il nostro essere
civilizzato o a forme di
straordinaria e ferina
sensibilità: “L’indiano
americano che decifra
una pista mediante
impercettibili
indizi,
l’australiano che senza
esitazione identifica le
impronte dei passi
lasciate
da
uno
qualsiasi
dei
componenti del suo
gruppo (Meggitt), non
si
comportano
diversamente da come
facciamo noi stessi
quando
guidiamo
un’automobile e a
colpo d’occhio, da un
leggero orientamento
delle ruote, da una
variazione del regime
del motore, o persino
dall’intenzione
supposta
in
uno
sguardo, decidiamo se
è il momento di
superare o di scansare
una macchina. Per
quantopossasembrare
incongruente, questo
paragone è ricco di
insegnamenti; ciò che
infattiacuiscelenostre
facoltà, che stimola la
nostrapercezione,edà
sicurezza ai nostri
giudizi, è in parte il
fatto che gli strumenti
di cui disponiamo e i
rischi che corriamo
sono
incomparabilmente
aumentati
dalla
potenza meccanica del
motore, e in parte il
fatto che la tensione
derivante
dal
sentimento di questa
forza incorporata si
traduce in una serie di
dialoghi
con
altri
guidatori
le
cui
intenzioni, simili alla
nostra, si trasformano
in
segni
che
ci
studiamo di decifrare
perché appunto sono
segni che sollecitano
l’intellezione”.9
Il pensiero selvaggio
è inserito in questo
sistema di segni in cui
uomo e mondo si
integrano a vicenda e
in cui l’esperienza
viene ordinata secondo
tassonomie
non
arbitrarie, per quanto
apparentemente
bizzarre. È vero che il
pensiero selvaggio non
distingue il momento
dell’osservazione
da
quello
dell’interpretazione dei
segni, ma ciò non vuol
direcheessononcolga
la realtà e non sia, nel
proprio
ambito,
efficace.
Anche il cosiddetto
pensiero magico non è
l’opposto del pensiero
scientifico,
ma
il
presentimento
della
“verità
del
determinismo”, l’erede
diunalungatradizione
di osservazioni, di
esperienze,
di
percezione
di
regolarità
e
di
incompatibilità. Certo
le
tassonomie
del
pensiero magico sono
talvolta sorprendenti e
assai incomprensibili
pernoi.Maaunesame
più attento rivelano la
loro legalità e ragion
d’essere analogica: “La
ciliegia selvatica, la
cannella,lavanigliaeil
vino di Xeres formano
un gruppo che non è
più soltanto sensibile
maintellegibile,perché
tutti
contengono
aldeide; mentre gli
odorigemellideltèdel
Canada (wintergreen),
della lavanda e della
banana, si spiegano
con la presenza di
esteri.
La
sola
intuizione
ci
indurrebbe a includere
inunostessogruppola
cipolla,
l’aglio,
il
cavolo, il ravizzone, il
ravanello e la senape,
benché la botanica
separi le liliacee dalle
crucifere; la chimica
convalida
la
testimonianza
della
sensibilità e prova che
questefamiglietraloro
estranee si collegano
su un altro piano:
contengono zolfo (K.,
W.). Un filosofo o un
poeta, ispirandosi a
considerazioni che non
hanno nulla a che
vedereconlachimicao
con qualsiasi altra
forma
di
scienza,
avrebbepotutooperare
questiraggruppamenti:
la
letteratura
etnografica ne rivela
un buon numero, il cui
valore empirico ed
estetico non è peraltro
minore”.10
Il pensiero magico
non procede solo a
organizzazioni
orientative del sapere,
ma possiede anche
efficacia operativa e
terapeutica,
come
mostra in maniera
esemplare
l’incantesimo che lo
sciamano della tribù
dei Cuna, nella zona di
Panama, usa nel caso
di parti difficili. Ogni
momento del travaglio
vieneseguitoetradotto
interminimitici(lefasi
di contrazione e di
dilatazione
corrispondono
al
passaggio di animali
scavatori
come
l’armadillo,
al
presentarsi
di
un
popolo di arcieri e così
via).
Lo
sciamano
fornisce
alla
partoriente
un
linguaggio mediante il
qualelasuaesperienza
diventa
esprimibile
verbalmente,
da
anarchicamente
ineffabile che era, e
così “ne provoca lo
sbloccarsi del processo
fisiologico, ossia della
riorganizzazione, in un
senso favorevole, della
sequenza
di
cui
l’ammalata subisce lo
svolgimento”. La cura
dello sciamano diventa
così
qualcosa
di
intermedio
tra
la
nostra
medicina
organica e la terapia
psicoanalitica,
in
quanto la conoscenza
dei processi rende
possibile ordinare i
conflitti e dominarli
meglio:
“La
cura
consisterebbe quindi
nel rendere pensabile
una situazione che in
partenza si presenta in
termini affettivi e nel
rendereaccettabilealla
mente dolori che il
corpo si rifiuta di
tollerare.
Che
la
mitologia
dello
sciamano
non
corrisponda a una
realtà oggettiva è un
fatto
privo
di
importanza:l’ammalata
ci crede, ed è un
membro di una società
checicrede”.11
Da
diversa
prospettiva,
risulta
possibile, anche per
l’altro
grande
antropologo
contemporaneo,
Clifford
Geertz,
comprendere
e
tradurre nel proprio
vocabolario – entro
limiti variabili – le
esperienze
fondamentali
delle
umanità altre. E non vi
è alcun bisogno di
ricorrere
alle
misteriose forme di
intuizione di cui gli
antropologi sarebbero
dotati. È infatti falso il
“mitodellostudiososul
campo
simile
al
camaleonte,
perfettamente
in
sintonia con l’ambiente
esoticochelocirconda,
un miracolo vivente di
empatia,
tatto,
pazienza
e
cosmopolitismo”.
È
sufficiente, per capire,
riferirsi
ai
sistemi
simbolici (linguaggio,
immagini,
comportamenti,
istituzioni) utilizzati da
culture diverse dalla
nostraparagonandoliai
nostri e inserendoli in
schemi di raggio più
ampio.
Unendo
l’autocomprensione
alla conoscenza degli
altri, si giunge a
descrivere
e
a
ricostruire il senso di
civiltà a noi estranee,
senza
bisogno
di
annullare noi stessi
nell’Altro
o
di
mantenere
una
distanza
incolmabile
nei suoi confronti.
Seguendo
dichiaratamente
il
modello diltheyano del
“circolo ermeneutico”,
del “moto perpetuo
intellettuale”,
ogni
fenomeno
parziale
rinvia per Geertz alla
comprensione globale,
la quale a sua volta
ricevesensosolodaun
incessante
ritornare
sulle parti, mediante
una sorta di loro
commento reciproco.
Nonsipuòsaperecosa
sia un guantone da
baseball se non si sa
che cosa è il baseball,
ma l’uso del guantone
o della mazza, una
volta meglio compresi,
gettano luce sull’intera
dinamica del gioco.
Analogamente
un
rituale strano riceve il
suo pieno significato
solo in un contesto
simbolico generale su
cui poi getta luce. La
“conoscenza
locale”
rinvia a quella globale
e viceversa, così come
la conoscenza di noi
stessi a quella degli
altri:
“La
doppia
percezione
che
la
nostraèunavocetrale
altre e che, dato che è
l’unica che abbiamo,
dobbiamo parlare con
essa, è molto difficile
da
mantenere”.
L’incommensurabilità
completa tra le culture
umane non esiste, così
comenonesistelaloro
identità e completa
sovrapponibilità o una
verità separata da chi
comprende
e
interpreta.
Avendo
trascorso
moltianninelcentrodi
Giava, a Bali e in una
cittadina del Marocco,
Geertz si serve della
sua esperienza per
offrire un esempio
illuminante. A nessuna
cultura, dice, manca la
comprensione
dei
propri componenti in
quanto persone, entità
cioè
differenti
da
pietre, animali o dèi.
Pur
essendo
lontanissime
dalla
concezione occidentale
di individuo quale
“centro dinamico di
consapevolezza,
emotività, giudizio”, le
loro
corrispondenti
nozioni risultano alla
fine
interpretabili,
riconducibili
entro
l’orizzonte
della
propriacultura.Sivede
così che a Giava la
“persona” viene intesa
in base all’opposizione
tra batir (vita emotiva
“interiore”, fluire dei
sentimenti nella loro
immediatezza) e lair
(comportamenti
e
azioni
“esteriori”,
osservabili)
e
che
l’ideale
socialmente
perseguito da ciascuno
èdiesserealus,“puro”
oeducato,aentrambii
livelli, appianando “le
colline e le vallate”
delle
passioni
e
tenendo sempre una
condotta controllata,
non volgare. A Bali
invece gli individui
devono stilizzare la
propria
casuale
e
transitoria
esistenza
secondo
schemi
teatrali, e sono quindi
portati
a
rappresentarsi
mantenendo fede alla
propria parte: “Ma le
maschere
che
indossano,
il
palcoscenico
che
occupano, le parti che
recitano,
e,
più
importante,
lo
spettacolo che mettono
in scena, rimangono, e
costituiscono non la
facciatamalasostanza
delle cose, non meno
che
del
sé”.
In
Marocco, infine, gli
individui
vengono
compresi
contestualmente, sulla
base della relazione
associativa
o
“ascrittiva”, nisba, che
li definisce a seconda
della caratteristica di
volta in volta ritenuta
determinante
(tribù,
luogo
di
nascita,
professione). In tale
modello
sociale
l’identità delle persone
è data “in termini di
categorie
il
cui
significato è quasi
puramente posizionale,
del posto occupato nel
mosaico generale”.12
Questo schema libero,
costituitodacoordinate
che variano a seconda
dei luoghi – mercati,
campi,bagnipubblici–
lascia largo spazio
all’“iperindividualismo”,
inquantoilsingolopuò
mutare se stesso nei
diversi contesti, essere
“una volpe tra le volpi,
un coccodrillo tra i
coccodrilli”,
senza
timore di perdere la
propriaidentità.
Questa “antropologia
interpretativa”
è
volutamente
sempre
costruita
“dopo
il
fatto”, non solo nel
senso che considera i
fenomeniexpost,dalle
tracce
che
hanno
lasciato(perchédevono
essere vissuti prima
che compresi), ma
anche nel senso che
essi sono fabbricati
(non vengono attinti a
posteriori
da
una
incontaminata riserva
di verità oggettive o
trovati
“belli
luccicanti”
sulla
spiaggia).
Geertz
illustra il metodo della
propria
disciplina
medianteunaparabola:
“Un saggio è seduto
accovacciato davanti a
unelefanteincarneed
ossa che sta proprio di
fronte a lui. Il saggio
dice: ‘Questo non è un
elefante’. Solo più
tardi,quandol’elefante
si è girato e ha
cominciato
ad
allontanarsi
muovendosi
pesantemente,ilsaggio
cominciaachiedersise
dopotutto non poteva
esserci in giro un
elefante. Alla fine,
quando l’elefante è
ormai completamente
scomparso dalla sua
vista, il saggio osserva
leormedeipiedichela
bestia si è lasciate
dietro e dichiara con
certezza: ‘Un elefante
eraqui’”.13
Un comportamento
involontariamente
simile aveva tenuto
Ernesto De Martino,
registrando nell’Italia
meridionaleletraccedi
fenomeni magici e
religiosi in via di
scomparsa.
Senza
bisogno
di
uscire
dall’“Europa
civile”,
aveva trovato i suoi
“selvaggi” non lontano
da casa, così come,
recentemente,
Marc
Augé li ha rinvenuti
nelle
grandi
città
dell’Occidente, mentre
si aggirano frettolosi o
sperduti, ignorandosi
reciprocamente,
nei
“non luoghi” delle
stazioni,degliaeroporti
o
delle
metropolitane.14 Con
una serie di saggi
pubblicati in vita – Il
mondo magico, del
1948, Morte e pianto
rituale
nel
mondo
antico,del1958,Sude
magia, del 1959, La
terra del rimorso, del
1961econlagrandee
incompiuta
opera
postuma La fine del
mondo, del 1977 –, De
Martino ha dimostrato
come le credenze e le
pratiche
magiche
convivano ancora nel
Meridione accanto a
forme di religione
ufficiale.
Esse
rispondono al bisogno
diproteggerelafragile
coscienza umana, la
“presenza”, dalle forze
naturaliesocialichela
minacciano.
Costituiscono corazze
che le impediscono di
dissolversi
nell’angoscia dinanzi
all’incertezza
quotidianaealcontatto
con lo sconosciuto e il
nuovo. La ripetizione
rituale di gesti, attività
e formule nell’ambito
di una comunità (il
pianto delle prefiche
dinanzi al cadavere di
un defunto o le danze
dei
“tarantolati”,
persone morsicate da
un
animale
immaginario)
sottopone l’individuo a
una
disciplina
del
corpo e dell’anima
capace di reintegrarlo
nella storia e di
rassicurarlo.
La
distanza tra questo
mondo
magicocomunitario e quello
razionalizzato
della
storia non può tuttavia
venire superata se
l’esistenza di queste
masse
contadine,
esposte al capriccio
degli elementi naturali
e alla precarietà delle
condizioni economiche,
non viene cambiata, se
la quasi permanente
“crisi della presenza”
nonvienesuperata.
3.Ilpensiero
rivoluzionario
Se
il
pensiero
selvaggio esiste anche
fra i popoli civilizzati e
le
pratiche
terapeutiche
o
tassonomicheefficacisi
trovano anche fra i
primitivi, il modello di
uno sviluppo storico
lineare che ha alla sua
base i popoli che si
trovano
agli
stadi
iniziali dello sviluppo,
ossia i Naturvölker, e
alsuoverticelenazioni
civili egemoni, non
regge più. Il mondo,
sconvolto da guerre
planetarie
e
da
rivoluzioni
che
cambiano
incessantemente
i
colori
delle
carte
geograficheeirapporti
di potere, non è più
comprensibile
attraverso
schemi
semplici
di
monodominanza e di
soggezione
sostanzialmente
rinunciataria a forze
stabili.Intericontinenti
vengono ora trascinati
in un processo globale
di mutamento e civiltà
plurimillenarie
(già
intaccatedallaseconda
ondata di colonialismo,
quella guidata dagli
Stati, in cui “la
bandiera precede il
capitale”)
sono
sottoposte
alla
pressione di forme di
acculturazionerapidae
violenta
provenienti
dall’esterno. Anche la
natura delle guerre di
massa – che non
risparmia
la
popolazionecivileeche
provoca indirettamente
l’immissione
delle
donne
nell’attività
produttiva a pieno
regime,
il
loro
abbandonodellacasae
della vita privata come
centro esclusivo, con il
conseguente ulteriore
indebolimento
della
famiglia patriarcale –
crea
modificazioni
profonde e conflitti
privati nell’esistenza e
nella psicologia di
milioni di persone, che
sperimentano su se
stesse la potenza e
l’incidenza degli eventi
collettivi.
Con la Rivoluzione
d’Ottobre,
poi,
il
processo storico si
complicaancoradipiù.
Lenin ha dimostrato
praticamente che esso
non è necessariamente
lineare,checertetappe
dello sviluppo, come il
dominio
capitalistico
dispiegato
in
una
determinatanazione,si
possono saltare, che
gruppi relativamente
ristrettidirivoluzionari
di professione, che
agiscono
come
“avanguardia esterna”
del
proletariato,
possono innescare un
movimento
che
coinvolge
e
rende
protagonisti milioni di
uomini. Dopo il 1917 il
marxismo, nato quale
teoria
scientifica
complessa, oltre che
come arma politica del
proletariato,
si
accultura velocemente
nell’Unione Sovietica,
dove si cerca di
produrre
anche
a
posteriori
quella
maturazione generale
della
coscienza
di
classe che lo svolgersi
della storia russa non
aveva consentito prima
e dove esso tende a
diventare,
in
età
staliniana, una sorta di
religione di Stato, una
ideologia che mira a
sradicare le vecchie
concezioni religiose e
“magiche” della Russia
contadina.Ilcompitodi
Lenin come teorico e
politico di questa fase
di
costruzione
del
potere
sovietico
è
immenso: le polemiche
di Materialismo ed
empiriocriticismo del
1909 contro Bogdanov
e gli altri “machisti”
russieinfavorediuna
conoscenza oggettiva,
diunaapprossimazione
continua alla verità,
della rivendicazione di
una realtà materiale
esterna
che
noi
riflettiamo, sono ormai
lontane e inattuali; il
confronto con Hegel e
la dialettica, operato
tra il 1914 e il 1915
durantel’esiliobernese
e consegnato a quei
Quaderni filosofici che
saranno
pubblicati
postumi nel 1933,
agisce
in
forma
mediataincorporandosi
nell’analisi a caldo
degli avvenimenti. Il
problema che ora più
urgentementesiponeè
invece
quello
di
coordinare le punte
avanzate
della
coscienza di classe e
dello
sviluppo
industriale
con
l’“arretratezza” della
mentalità contadina e
dell’economia
delle
campagne (e tutto ciò
in un periodo in cui la
guerra
civile
e
l’accerchiamento
internazionale mettono
in forse la semplice
sopravvivenza fisica e
politica dello Stato
sovietico).
Avanzare
trascinando il peso del
passato pre-borghese,
coniugando
tempi
storici
differenti,
assorbendo
dagli
avversari di classe le
scienze e le tecniche e
l’eredità culturale più
sviluppate: questo il
messaggiodiLeninche
sarà colto, in diverse
forme e misure, da
Bloch,daGramscieda
Lukács.
In
questa
lotta,
tuttavia, gli organismi
di democrazia di base
perdono
progressivamente
il
loro potere reale e
tratti
autoritari
e
burocratici si fanno
inevitabilmente strada.
La
durezza
dello
scontro provoca dei
contraccolpi ed esige
anche, per dirla con
Gramsci,
“taglie
mostruose”.
La
democrazia
e
il
socialismo sono solo
agli inizi e l’ardore
rivoluzionario tende in
partearaffreddarsiper
le
esigenze
di
quotidiana
organizzazione
e
progettazione
della
società
nuova.
Le
masse
popolari,
perdendo in parte gli
strumenti
di
autogoverno, i soviet,
cominciano a essere
segnate da forme di
passività. Per Rosa
Luxemburg,
la
dittatura del partito
rivoluzionario e le
limitazioni della libertà
nuocciono
alla
rivoluzione,
fermano
l’operosa attività di
quel
laboratorio
politico collettivo che
aveva cominciato a
funzionare: “La libertà
solo per i seguaci del
governo, solo per i
membri di un partito –
per
numerosi
che
possano essere – non è
libertà. La libertà è
sempre
unicamente
libertà di chi la pensa
diversamente. Non per
fanatismo di ‘giustizia’,
bensì perché tutto ciò
che
di
educatore,
salutare e purificatore
deriva dalla libertà
politica, dipende da
questa convinzione, e
perde ogni efficacia,
quando la libertà si fa
privilegio”.
Il
socialismo
non
si
costruisce per decreto,
ma deve nascere dalla
scuola
stessa
dell’esperienza di tutti:
“Il
negativo,
la
demolizione, li si può
decretare;
la
costruzione, il positivo,
no.Terravergine.Mille
problemi.
Solo
l’esperienza è in grado
di correggere e di
aprire nuove strade.
Solo
una
vita
fermentante
senza
impedimenti immagina
mille nuove forme,
improvvisa, emana una
forza
creatrice,
corregge
spontaneamente tutti i
granchi.
Perciò
appunto
la
vita
pubblicadegliStaticon
libertà limitata è così
deficiente, così povera,
così schematica, così
sterile,
perché
escludendo
la
democrazia ci si rifiuta
alla viva fonte di ogni
spirituale ricchezza e
progresso (Prova: gli
anni 1905 e i mesi
febbraio-ottobre 1917).
Come è politicamente,
così è economicamente
e socialmente. Tutta la
massa del popolo vi
deve prendere parte.
Altrimenti il socialismo
viene
decretato,
autorizzato dal tavolo
di una dozzina di
intellettuali.
È
incondizionatamente
necessariouncontrollo
pubblico. Altrimenti lo
scambio di esperienze
stagna nel cerchio
chiuso dei funzionari
[...].Laprassisocialista
esige una completa
trasformazione
spirituale nelle masse
degradate da secoli di
dominio
di
classe
borghese.Istintisociali
al posto di quelli
egoistici,
iniziativa
delle masse al posto di
ignavia, idealismo che
elevi
sopra
ogni
sofferenza ecc. ecc.
Nessuno lo sa meglio,
lo descrive con più
efficacia, lo ripete più
caparbiamente
di
Lenin. Solo che egli si
inganna
completamente
sui
mezzi. Decreti, potere
dittatoriale
degli
ispettori di fabbrica,
penedraconiane,regno
del terrore, sono tutti
palliativi. L’unica via
della rinascita è la
scuola
della
vita
pubblica stessa, della
più illimitata e larga
democrazia, opinione
pubblica.
È
per
l’appunto il regno del
terrore
a
demoralizzare”.15
DalpensierodiLenin
e della Luxemburg
prende le mosse il
“marxismo utopico” di
Ernst
Bloch,
che
constata nel periodo
staliniano un prevalere
della“correntefredda”,
dell’economicismo
e
della Realpolitik, sulla
“corrente calda” dello
slancio
verso
una
società senza classi.
Pur avendo a suo
tempo giustificato le
“purghe” di Stalin,
Bloch
sottolinea
l’aspetto creativo del
marxismo,
che
è
l’erede di tutti i
tentativi
di
emancipazione
della
storia umana, di tutti
gli sforzi per attribuire
“dignità”
all’uomo.
Personalmente – come
amavaspessoricordare
–, la sua esperienza è
stata profondamente
segnata, ancor prima
che
da
Marx,
dall’esempio
dell’insurrezione
dei
contadini
contro
i
principi tedeschi, nel
1525: “C’è un’antica
canzone che mi ritorna
ancora
sempre
in
mente, che io già
spesso per così dire ho
ripetuto
in
modo
invisibile
o
impercettibile tra me,
intendo dire che ho
ripetuto nel mio modo
di filosofare. L’antica
canzone,
che
i
contadini
tedeschi
battuti cantavano dopo
la
battaglia
di
Frankenhausen,
quando la miseria
antica ricadde su di
loromoltiplicata.Quelli
che
ancora
sopravvivevano, i cui
occhi non erano stati
ancora cavati e le cui
lingue non erano state
ancora
strappate,
cantavano
questa
canzone:
‘Battuti
ritorniamo a casa. I
nostri
nipoti
condurranno a miglior
fine la lotta’ ”.16 Il
marxismo eretico di
Bloch, inteso come
“scienza
della
speranza”, tende a
riscattare, anche dopo
la
Rivoluzione
d’Ottobre,
quanto
nell’uomo è sempre
stato
represso,
mutilato,
umiliato.
Recupera e riattiva i
residui incoercibili di
aspirazioni a una vita
migliore che non siano
stati assorbiti e resi
funzionali ai poteri
vigenti, quel vasto
mondo sotterraneo di
desideri, di progetti e
di lotte che è stato
finora sconfitto o non
ha
trovato
un
sufficiente
riconoscimento. Quel
che deve orientare la
ricerca del nuovo è
l’intero
passato
irredento che urge
verso il futuro, le
speranzedeivinti,tutto
ciò a cui l’umanità ha
rinunciato in nome di
una
realtà
caratterizzata
dallo
sfruttamento,
dalla
divisione in classi e
dall’asservimento della
natura.
Le
attese
messianiche dei profeti
dell’AnticoTestamento,
le visioni di Gioacchino
da Fiore, le rivolte di
tutti gli oppressi sono
stazioni di un lungo e
accidentato cammino
che condurrà a una
società senza classi,
sono
momenti
del
“sognodiunacosa”.
Nel passato è stata
soprattutto la religione
a fornire all’uomo il
significato
globale
dell’esistenza,
l’immagine di una vita
più degna e più piena.
Questospaziooccupato
dalla religione deve
essere conquistato e
bonificato, eliminando
glielementifantasticie
retrogradi.
Il
permanere
della
religione anche dopo
che il suo carattere di
illusione proiettiva è
stato svelato, è indice
del fatto che i bisogni
che spingevano a essa
non
hanno
potuto
trovare
un
appagamento più alto.
Annientare la religione
significa realizzarla nel
mondo. In tal senso
solounateopuòessere
un buon cristiano. In
queste riflessioni, il
pensiero di Bloch si
intrecciaconquellodei
maggioriteologidelXX
secolo. Con il Karl
Barth dell’Epistola ai
Romani egli condivide
infatti
la
lotta
all’immagine
banalizzante di un
Cristo “umano, troppo
umano”
come
lo
intendeva la “teologia
liberale”; con Rudolf
Bultmann l’idea di una
religione demitizzata,
la
volontà
di
rinnovamento e la
percezione
che
l’“eventoescatologico”,
la rivelazione delle
“cose ultime”, non si
situa in un lontano
avvenire, ma è già
presente,quieora;con
Jürgen
Moltmann,
infine, l’immagine di
Diocome“promessa”e
“potenza del futuro”.
Ma, se per Bloch il
cristianesimo si invera
soltanto
entro
l’orizzonte del mondo
(lasciando tuttavia un
grande
punto
interrogativo
sulla
trascendenza),
lo
stessosipuòaffermare
degli ideali borghesi di
liberté,
égalité,
fraternité.
La
Rivoluzione francese li
ha proclamati ma non
attuati. Essi potranno
realizzarsi
solo
a
condizione
che
si
considerino,
rispettivamente:
la
libertà come fine della
costrizione sociale e
naturale
non
strettamente
necessaria
e
riconoscibile;
l’eguaglianzanoncome
piatta
parificazione
degli individui ma
come
ricchezza
variamente dispiegata
delle facoltà umane; la
fraternità
come
solidarietà
non
offuscata
dagli
antagonismi di una
societàincuigliuomini
sono
separati
dal
bisogno e da interessi
inconciliabili.
La
rivoluzione proletaria
prolunga, sotto questo
profilo, la linea di
tendenza democratica
ed
emancipatoria
presente
nelle
rivoluzioni
borghesi:
“Non c’è democrazia
senza socialismo, non
c’è socialismo senza
democrazia”.
Bloch,
sensibileallalezionedi
RosaLuxemburg,èper
un marxismo come
sperimentazione
continua,
experimentum mundi,
coinvolgimento di tutti
nella costruzione del
comunismo. L’utopia
rappresenta l’antidoto
contro l’irrigidimento
burocratico degli Stati
socialisti, così come la
ripresa del concetto
giusnaturalistico
di
“dignità
umana”
dovrebbe
rappresentare
l’antidotocontroleloro
deviazionipolizieschee
controlostrapoteredel
partito dai mille occhi.
Ma la religione, gli
ideali di libertà, di
eguaglianza,
di
fraternità, di dignità
umana non sono che
province
del
“continente speranza”,
l’estensionedituttociò
che è in divenire, che
tende
a
incarnare
l’utopia.
Non occorre però
dare
al
termine
“speranza”
un
significato psicologico
o
semplicemente
teologico. Il “principio
speranza”contieneuna
logicadeldesiderioche
non interseca solo il
piano razionale, ma
anche quello dei sogni
a occhi aperti. Il
pericolo
della
reificazione lo si evita
anche mediante lo
slancio
in
questa
dimensione psichica.
Poiché la speranza non
è
necessariamente
legata
a
scenari
grandiosi, Bloch non
svaluta i desideri della
societàdimassa(avere
denti bianchi, corpo
snello e atletico, bei
vestiti).Nonmostranei
loro confronti né il
sospetto
di
inautenticità
denunciato
da
Heidegger,
né
lo
“snobismo” di Adorno.
Il
desiderio
rappresenta la scorza,
la
“corteccia
provvisoria”
che
racchiude
le
potenzialità reali o
realizzabili
degli
individui: “I desideri
non fanno nulla, ma
dipingonoeconservano
con particolare fedeltà
ciò
che
dovrebbe
essere
fatto.
La
ragazza che vorrebbe
sentirsi brillante e
corteggiata,l’uomoche
sogna
di
imprese
future, sopportano la
povertà
o
la
quotidianità come una
corteccia provvisoria”.
Guai a reprimere i
desideri, perché essi,
una
volta
rimossi,
marciscono sia nel
nostro inconscio che
nella nostra coscienza.
Guai a disprezzarli,
perché
anche
attraverso i desideri in
apparenza più futili si
nasconde la possibilità
di incontrare se stessi:
“Rossetto,
trucco,
piumaggialtruiaiutano
percosìdireilsognodi
sestessiadusciredalla
caverna”.17
Questi
desideri, al loro livello,
sono
non
soltanto
legittimi, ma capaci di
estrarre da noi le
migliori potenzialità. A
chi mostra ambizioni
talmente ridotte non
possono
imputarsi
colpe soggettive. Il suo
atteggiamento rinvia al
fatto che noi tutti (la
politica, la società, la
storia) non siamo stati
in grado di offrire loro
qualcosa di meglio. In
questa
rivalutazione
della rêverie, Bloch si
avvicina–perinciso–a
Gaston Bachelard, che
vede nella perdita
temporanea
della
presenza piena a se
stessi, della lucidità e
continuità
della
coscienza, un gioioso
ampliamentodelraggio
dell’esperienza
significativa. In essa ci
spogliamodelprincipio
di individuazione, a cui
per comodità la nostra
vita
di
adulti,
determinandosi,
ha
dovuto
obbedire.
Ritorniamo ai molti
possibili
io
che
avremmopotutoessere
echealeggiavanonella
nostra
infanzia:
“Quando, sognando a
lungo nella solitudine,
ci allontaniamo dal
presente, per rivivere i
tempi della nostra vita,
ci vengono incontro
numerosi visi infantili.
Noi fummo molti nella
nostra vita già vissuta,
nei nostri primi anni di
vita e solo attraverso il
racconto degli altri
abbiamo cominciato a
conoscere la nostra
unità. Sul filo della
nostra
storia
raccontata dagli altri,
finiamo,annoperanno,
a
somigliarci.
Raccogliamo tutti i
nostri esseri attorno
all’unità del nostro
nome”.18 La rêverie
rappresenta uno stato
intermedio,
di
oscillazione
e
indecisione,
tra
il
percepire
e
l’immaginare, il sentire
eilricordare,tralogica
deglisvegliequelladei
dormienti.
È
un
“inframondo”
tra
coscienza e inconscio,
lo scintillio vagante, il
barlume, che introduce
a
una
realtà
depotenziata:
“un
menod’esseresisforza
verso l’essere”. Per
propiziarelarêverie,la
fiamma d’una candela
appare
come
un
“operatore
di
immagini” e di trame
psichiche di enorme
efficacia.
Essa
“distacca dal mondo e
ingrandisce il mondo
del
fantasticatore”,
trasformandolo
–
secondo
la
terminologia
di
Paracelso – in una
exaltatio
utriusque
mundi.
I
pensieri
perdono, in questa
sfera magica di luce
circondata da zone
d’ombra sempre più
spesse,
i
loro
rivestimenti successivi,
le “tuniche” dai cui
strati erano avvolti.19
Non malgrado, ma
grazie a tale perdita,
essi
moltiplicano
paradossalmente
i
significati
che
racchiudevano
e
comprimevano,
creando attorno a sé
campi
gravitazionali
capaci di catturare a
lunga distanza quanto
di remoto passa loro
accanto.Sirinnovacosì
la freschezza della
immaginazione, che è
toujoursjeune.
Per Bloch tuttavia il
desiderio utopico si
prolunga ben oltre i
sogni a occhi aperti,
estendendosi
dai
progetti di società
perfettaall’impensabile
vittoria sulla morte. La
speranza è, da un lato,
come l’aria: inodora,
insapora, invisibile e
impalpabile. Senza di
essa, tuttavia, noi non
potremmo
respirare.
Simile alla “candida
colomba” kantiana che
crede di volare meglio
qualora non incontri la
resistenza
dell’aria,
consente alla nostra
ragione di avanzare
proprio
perché
sostenuta dalla sua
corrente ascensionale.
Dall’altro lato, essa è
anche proteiforme e
può assumere ruoli
perversi, come accade
nel nazionalsocialismo
in cui il bisogno di
patria, di identità e di
sicurezzasiintrecciano
con più arcaiche e
barbariche concezioni.
Il tempo storico non è
infatti concepito da
Bloch, al pari del
tempo
cronologico,
quale
unica
linea,
divisibile
in
parti
eguali,
ma
come
contrappunto di tempi
diversi, multiversum di
dislivelli (fra individui,
classi, popoli), che
rende
la
storia
complessa,
elastica,
deformabile, al pari
dello
spazio
riemanniano,
sotto
l’azionedeglieventi.In
questo universo denso
ditorsioniediaperture
al nuovo, la materia
stessa non è quantità
pura
o
estensione
inerte, ma “essente in
possibilità”, movimento
in avanti, con il quale
l’uomo è chiamato a
collaborare,dimodoché
il comunismo – in
quanto,
marxianamente,
“naturalizzazione
dell’uomo”
e
“umanizzazione della
natura” – appare a
Blochlasintesipiùalta
tra natura e società,
l’“utopia concreta” che
orienta la storia. Il
nazionalsocialismo
invece, su cui Bloch si
soffermaneiprimianni
dell’esilio in alcuni
penetranti saggi di
Eredità del nostro
tempo, è frutto anche
degli
squilibri
temporali, della non-
contemporaneità
nel
tempo
storico
(Ungleichzeitigkeit)
delle classi sociali in
Germania. In essa
infatti,accantoalledue
classifondamentaliche
vivonoallivellopiùalto
del presente storico, vi
sono
larghi
strati
contadini e piccolo
borghesi
arretrati,
tagliati fuori da un
presente di cui non
riescono
a
capire
razionalmente
la
dinamica
e
la
direzione. In mancanza
di una comprensione
razionale, lontani dal
motore dello sviluppo
economico,
frustrati
nelle loro aspettative e
disorientati sino alla
disperazionedaitorbidi
delprimodopoguerrae
dall’inflazione
selvaggia,essivivonoil
loro rapporto con la
politica sotto forma di
mito,
sognando
rivincite, restaurazioni
autoritarie, drastiche
limitazioni del potere
della classe operaia,
superiorità
della
nazionetedescaedella
razza
ariana.
Il
nazionalsocialismo
così,
in
quanto
“giacobinismo
del
mito”,
riesce
a
trasformarli in massa
dimanovraeainserirli
organicamente in un
largo
fronte
di
interessi,
che
comprende la grande
industria, l’esercito, la
burocrazia, sotto il
controllo del partito e
del suo capo. Tratti
ancora feudali, che
rispecchiano il tempo
storicooleimmaginidi
restaurazione di ceti
attardati (il mito), si
fondono in tal modo
con
l’efficienza
tecnocratica
e
la
razionalità
formale
degli
apparati
industriali, militari e
burocratici e insieme
costituiscono il volto
multiforme
del
fenomeno
nazionalsocialista.
4.Mitoeragione
strumentalenel
nazionalsocialismo
Ma di ben altri
squilibri
l’ideologia
nazionalsocialista si fa
carico
nel
suo
naturalismo
e
darwinismo sociale e
nella sua lotta contro i
principi di libertà,
eguaglianza
e
fraternità. La scienza e
la natura vengono
chiamate
a
testimoniare in favore
della gerarchia sociale,
dei salutari squilibri, e
contro la presunta
stagnazione
delle
facoltà umane e delle
nazioni,
quando
domina l’egualitarismo
democratico
e
socialista. Non è forse
veroche(nell’idraulica,
nella termodinamica,
nell’elettricità) non vi
sarebbe
alcun
movimento,
alcuna
erogazione di energia,
senza un dislivello tra
le
masse
d’acqua,
senzaunadifferenzadi
calore e di potenziale?
Cheifiumi,iliquidinei
vasi comunicanti, le
locomotive e i fluidi
elettrici
non
si
muoverebbero senza
queste
benefiche
disuguaglianze?
Lo
stesso – si aggiunge –
accadeperlecomunità
umane: se prevarranno
i fiacchi predicatori di
eguaglianza
e
di
compassione per i
deboli, l’umanità è
destinata a spegnersi.
Lo
spettro
dell’aumento
dell’entropia
dell’universofisico,che
porterà
a
una
degradazione
dell’energia e a un
progressivo
raffreddamento
del
cosmo, continua ad
agitarsi (e non solo nei
suoi primitivi panni
tardo-positivistici)
davanti
al
mondo
sociale,concepitocome
un sistema chiuso.
Immagazzinare
energia,
utilizzare
strumentalmente l’alto
potenziale delle masse,
intensificando, a sua
volta,lacaricadelpolo
ulteriormente
distanziato delle élites:
questa è una delle più
frequenti risposte e
modalità di autodifesa
per
una
struttura
sociale che si sente
minacciata
dalla
stagnazione
e
dall’avanzare
delle
“folle”.
Già Nietzsche (per
altri
versi
così
radicalmente
critico
dell’esistente e certo
non responsabile di
tutte le suggestioni e
applicazioni unilaterali
del
suo
pensiero)
ritiene
necessario
l’allungamento
della
scala
gerarchica,
ottenibile
persino
attraverso
una
preliminare diffusione
della democrazia tra il
gregge umano, e il
mantenimento in tutta
la sua durezza della
moderna schiavitù del
lavoro salariato. Per
giunta il segreto dello
sfruttamento non va
divulgato fra la classe
operaia.Quanti,comei
socialisti, hanno osato
infrangere
questa
barriera di silenzio
sono dei corruttori,
seminatori di infelicità
tra coloro stessi che
volevano
difendere:
“Disgraziati seduttori,
chehannodistruttocon
il frutto dell’albero
della conoscenza lo
statodiinnocenzadello
schiavo!”.20Ilsaperee
la
consapevolezza
devonoaccrescersisolo
dal
lato
di
chi
comanda,
mentre
devono relativamente
diminuire dal lato di
chi ubbidisce. Essendo
ormai
impossibile
tenere grandi masse
nell’ignoranza,
non
restacheunavarietàdi
combinazioni
tra
“disciplina metallica” e
controllo
dell’istruzione,
della
cultura,
dell’informazione
e
dell’intera
società.
Quest’ultimo compito è
favoritodalladifficoltà,
e non solo per i più, di
avere
un
quadro
globale di quel che
succedeediprocurarsi
accesso ai linguaggi
scientifici.
La
connessione
degli
eventi ha raggiunto
unascalaplanetaria;la
complessità
e
l’interdipendenza dei
dati più diversi, una
dimensione
quasi
incommensurabile con
le
capacità
di
impadronirsene e di
elaborarli da parte di
un
individuo;
la
coscienza
comune
stenta a orientarsi
nello sviluppo rapido,
accidentatoedisuguale
delle singole scienze,
che, con le loro
formulazioni intricate,
discontinue, irte di
tecnicismi,latengonoa
rispettosa distanza. Gli
arcana imperi e il
sapere
operativo
tendono
così
a
diventarepatrimoniodi
ristrette oligarchie, le
quali, coadiuvate da
unostuoloditecnicifra
iqualièpropagatauna
concezioneneutraledel
proprio
agire,
ricompongono a livello
politico e statale i
singoli spezzoni delle
scienze, delle tecniche
edellepratichesociali.
Per poter mantenere
contemporaneamente
lo sviluppo tecnico
produttivoeilcontrollo
delle folle, la scienza
deve coesistere con il
mito, la tecnica con il
vitalismo, il weberiano
mondo senza magia,
l’Entzauberung,
col
misterioso e magico
carismadeicapi.
Nel
nazionalsocialismo,
appunto,
l’autentica
sapienza si trova solo
nel
capo,
che
distribuisce
le
consapevoli bugie dei
mitisocialieteorizzala
dottrina della doppia
verità, della funzione
strumentale
di
determinate idee. Così
Hitlerstessodichiaraa
Rauschning di non
credereal“mitodelXX
secolo”, alla razza: “So
bene anch’io come i
vostri intellettuali, i
vostri pozzi di scienza,
che non esistono razze
nel
significato
scientifico della parola.
Ma voi, che siete un
agricoltore
e
un
allevatore,
voi
certamente
siete
costretto a basarvi
sulla nozione di razza,
senza la quale ogni
allevamento
sarebbe
impossibile. Ebbene, io
che sono un uomo
politico, ho necessità
anch’io di una nozione
che mi consenta di
infrangere un ordine
radicatonelmondoedi
contrapporreallastoria
la distruzione della
storia. Capite quel che
intendo dire? Bisogna
che io liberi il mondo
dal suo storico passato
[...]. Con la nozione di
razza
il
nazionalsocialismo
spingerà
la
sua
rivoluzione fino alla
fissazione di un ordine
nuovonelmondo”.21
Le masse, del resto,
vengono
costitutivamente
giudicatenonpensanti:
“È una bella fortuna
per gli uomini di
governo che le masse
non pensino! Si pensa
soltanto quando si
tratta di impartire un
ordine o di assicurarne
l’esecuzione. Se fosse
diversamentelasocietà
umana non potrebbe
sussistere”.
Non
potendo
impartire
ordini, ma soltanto
riceverli, le folle non
corrono il rischio di
pensare. Per questo la
critica incisiva e il
pensiero
non
regolamentato
sono
destabilizzanti, mentre
restano
leciti
ed
esaltati
i
discorsi
puramente
tecnici,
settoriali.
È
anzi
predicata
una
“entusiastica
intolleranza”controchi
dimostra
troppa
volontà di sapere, di
cogliere
il
frutto
dell’albero
della
conoscenza, chi viene
raffigurato come uno
squallido malato di
ipertrofia
intellettualistica. Per
questo
vengono
sollecitati
i
comportamenti
gregari, sia mistici che
tecnici, le virtù dei
sottoposti nei confronti
del padrone, virtù
condensate nel motto
delle SS (“Il mio onore
si chiama fedeltà”) e,
nell’ambito
del
fascismo italiano, nella
parola
d’ordine
“Credere, obbedire e
combattere”.
Attraverso
l’intensificazione dello
sfruttamento
della
forza-lavoro interna e
poi straniera, della
violenza,
dell’utilizzazione
dei
nuovi
mezzi
di
comunicazione
di
massa, prende corpo
un gigantesco progetto
diingegneriaumana,di
modificazione
antropologica
e
genetica
collettiva.
Spezzati i legami di
solidarietà di classe, di
amicizia, di famiglia,
collocato e isolato
l’individuo entro la
stretta
maglia
di
sguardi incrociati e
ravvicinati (da quello
del capo-caseggiato a
quello degli stessi
familiari), viene poi sin
dall’infanzia offerto il
rassicuranterifugiodel
cameratismo,
il
sentimento
“eroico”
dell’appartenenza a un
nobile popolo e a una
guida illuminata, la
qualerifulgedituttele
qualità di cui i singoli
sono stati privati e che
oraricevonocomeluce
riflessa nelle sfilate,
nelle adunanze, alla
radio. Non avendo
l’etere
linee
privilegiate, la radio
abolisce in linea di
principio la distinzione
tra centro e periferia,
fracittàecampagna;la
sua voce penetra fra i
gruppi più chiusi e nei
luoghi più sperduti,
mobilitando i ceti in
precedenza
più
refrattariallapoliticao
più inerti. La radio, il
cinema, l’oratoria dei
capi acculturano a
tappe forzate zone
dellasocietàguidatein
precedenza solo dal
costume
o
da
convinzioni incoerenti,
fanno
leva
sugli
elementi regressivi del
messaggio trasmesso:
l’emotività, la densità
delle immagini e delle
figure retoriche, il
pathos razionalistico, il
sangue e la terra, un
surrogato di vita dal
forte aroma e una
ribellione mimata e
sorvegliata contro le
privazioni, l’ubbidienza
e la meticolosità dello
sfruttamento.
D’altronde
(e
lo
dimostrerebbe
la
natura,“crudeleregina
di ogni saggezza”)
l’esistenza è in se
stessa durissima: “Un
essere beve il sangue
dell’altro. Uno trova
nutrimento della morte
dell’altro.
Inutile
blaterare di umanità
[...].Lalottarimane”.22
Lo spessore della
“secondanatura”,della
civiltà, su cui si era
fondata la “ragione”
dell’Illuminismo
e
quella
dell’Idealismo
classico tedesco, si è
assottigliatofinquasia
sparire. È la prima
natura ora, nelle sue
manifestazioni
più
spietate, la “saggezza”
degli animali, a offrire
il
modello
della
seconda
natura,
giustificandone
i
misfatti. Quasi come
una consolazione viene
offerto
il
viatico
dell’incoscienza e della
spersonalizzazione. “Io
non ho coscienza,” era
solito dire Göring, “la
mia coscienza è il
Führer.” La vista della
realtà divenuta per
molti
insopportabile
spinge la mente ad
anestetizzarsi,
a
demandare
la
comprensione
delle
cose a chi ha capacità
sovrumane. A ciascuno
viene assegnata la sua
quota
di
consapevolezza e di
cultura con una specie
di “legge bronzea”
dellacoscienza,quanto
basta per svolgere
efficacemente il ruolo
assegnatogli. Più si è
subordinati, meno si
deve sapere, come
risulta evidente dal
programmadiHimmler
per
i
popoli
assoggettati
dell’Europa orientale:
“Perlapopolazionenon
tedesca
dell’Europa
orientale non ci deve
essere nessuna scuola
che vada oltre quella
elementare di quattro
anni. Scopo di tale
scuolaelementaredeve
essere
solo
di
insegnareafardiconto
al massimo fino a 500,
la scrittura del proprio
nome e cognome, e
infine di insegnare che
è un comandamento
divino
quello
di
obbedire ai tedeschi e
di
essere
onesti,
diligenti e sinceri. Non
ritengo indispensabile
insegnarealeggere”.23
1
W. Dilthey, La
costruzione del mondo
storico nelle scienze
dello spirito, in Critica
della ragione storica,
Einaudi, Torino 1954,
p.236.
2 W. Dilthey, Nuovi
studi sulla costruzione
delmondostoriconelle
scienze dello spirito,in
Critica della ragione
storica, cit., pp. 324325.
3 W. Dilthey, Nuovi
studi sulla costruzione
del mondo storico, cit.,
p.383.
4J.G.Frazer,Ilramo
d’oro,
Boringhieri,
Torino1965,I,p.23.
5Ivi,p.83.
6 L. Lévy-Bruhl, La
mentalità
primitiva,
Einaudi, Torino 1966,
p.19.
7Ivi,p.20.
8 Cfr. M. Mauss,
Saggio di una teoria
generale della magia,
inTeoriageneraledella
magia e altri saggi,
Einaudi, Torino 1965,
pp.142sgg.
9 C. Lévi-Strauss, Il
pensiero selvaggio, il
Saggiatore,
Milano
1964,pp.242-243.
10Ivi,pp.25-26.
11 C. Lévi-Strauss,
Antropologia
strutturale,
Saggiatore,
1966,p.221.
il
Milano
12
C.
Geertz,
Antropologia
interpretativa,
il
Mulino, Bologna 1988,
pp.71,297,80,87.
13 C. Geertz, Oltre i
fatti.
Due
paesi,
quattro decenni, un
antropologo, il Mulino,
Bologna 1995, pp. 76,
200.
14Cfr.M.Augé,Non
luoghi,
Eleuthera,
Milano1993.
15 R. Luxemburg, La
rivoluzione russa, in
Scritti scelti, Einaudi,
Torino 1975, pp. 599,
600-601.
16 E. Bloch, Hegel
come “novum”,
in
Aa.Vv.,
Enciclopedia
’72,
Istituto
dell’Enciclopedia
Italiana,Roma1971,p.
338.
17E.Bloch,Principio
speranza
(1959),
Garzanti, Milano 1994,
3voll.,I,pp.58,397.
18 G. Bachelard, La
poetica della rêverie,
Dedalo, Bari 1972, p.
109.
19 G. Bachelard, La
fiamma di una candela
(1961), Editori Riuniti,
Roma1981.
20 F. Nietzsche, Lo
statogreco,inOpere,a
cura di G. Colli e M.
Montinari,
Adelphi,
Milano1964sgg.,III,2
(1973),p.224.
21
H. Rauschning,
Hitler mi ha detto,
Mondadori,
Milano
1945, pp. 255-256.
Questa testimonianza
sembra però doversi
considerare
con
qualchecautela.
22 A. Hitler, La mia
vita, Bompiani, Milano
1949, p. 143 e Adolf
Hitler in Franken,
[Nürnberg] 1939, p.
144.
23
H.
Himmler,
Denkschrift Himmlers
über die Behandlung
der FremdVölker in
Osten (maggio 1940),
in “Vierteljahreshefte
für
Zeitgeschichte”,
1957,V,p.197.
V.L’incontro
dellefilosofieela
nuova
epistemologia
1.“Daspondaa
sponda”
L’avvento
del
nazionalsocialismo in
Germania e le crisi
politiche
ed
economiche di alcune
nazioni
europee
provocano uno dei più
significativi fenomeni
di osmosi culturale fra
aree
di
diversa
tradizione, ma sempre
all’interno dei paesi
“sviluppati”.
Le
persecuzioni razziali e
politichespingonosulla
strada dell’esilio molte
migliaia di intellettuali
(per più della metà
tedeschieperdueterzi
di origine ebraica), di
cui
parecchi
di
altissimo livello. È una
nuova diaspora, un
processo
di
impollinazione
culturale che produce
effettiforsemaggioridi
quelli imputabili alla
fuga in Italia dei dotti
tardo-bizantini dopo la
caduta
di
Costantinopoli.
In
funzione delle loro
inclinazioni politiche o
delle opportunità di
ricercaedilavoro,essi
si distribuiscono in
tutti gli angoli della
Terra: dal Giappone
(Löwith)
ai
paesi
scandinavi (Brecht e
Korsch nei primi anni
dell’emigrazione),
dall’Unione Sovietica
(Lukács) alla Francia
(Benjamin). Ma è negli
Stati Uniti che essi
giungono più numerosi
e
in
gruppi
più
compatti.Equil’elenco
sarebbe lungo: basti
ricordare i nomi di
Einstein,
Thomas
Mann,
Adorno,
Horkheimer, Marcuse,
Erikson,
Fermi,
Salvemini,
Lang,
SchönbergeNeumann.
Questi
intellettuali
riescono a dare un
contributo
fondamentale
e
caratterizzante
soprattutto in alcuni
settoricomelafisica,la
sociologia,
la
psicoanalisieilcinema.
Talvolta isolati e
diffidenti
l’uno
dell’altro – si legga il
Diario di lavoro di
Brecht –, difficilmente
si
integrano
o
desiderano integrarsi
nella
società
americana. Gli eredi
della raffinata cultura
mitteleuropea trovano
gli indigeni “barbari di
buonaindole”,secondo
la
definizione
di
Thomas Mann, ma in
particolare
restano
colpiti
dalla
standardizzazione
dell’esistenza,
dall’impoverimento dei
rapporti umani sotto il
manto
della
“desublimizzazione
repressiva”,
dalla
manipolazione
e
reificazione
della
coscienza, dal grande
formato
delle
esperienze cercate, dal
gusto del colossale e
dalla ingenua fede nei
“fatti” e nell’empiria.
La società di massa, il
“mondo amministrato”
attraversoglistrumenti
più
leggeri
del
conformismo
e
dell’industria culturale,
la “folla solitaria” delle
grandi città, turbavano
chi si era sottratto al
più
pesante
e
sanguinoso
totalitarismo
nazionalsocialista e gli
davano l’impressione
che dovunque si fosse
in presenza di una
“realtà bloccata”, di
unaenormeprigionein
cui gli uomini avevano
per la maggior parte
perduto la speranza in
una vita migliore e si
eranoadattatiepiegati
a un dominio dal volto
anonimo, a una nuova
barbarie
che
si
manifesta
in
vesti
“razionali” e pretende
obbedienza a ciò che
spaccia
come
inesorabili
leggi
oggettive;
in
cui
persino
la
classe
operaia – la marxiana
promessadiliberazione
da ogni sfruttamento –
o era, in America,
venuta a patti col
potere vigente e da
esso inglobata, o era
stata
stretta
e
frantumata in Europa
dalladuplicemorsadel
nazionalsocialismo
e
dellostalinismo.
Il
processo
di
reificazione
e
di
ottundimento
della
coscienza,
di
esaltazione
della
“cattiva realtà” e di
irrisione nei confronti
dei
tentativi
di
emancipazione o di
pensiero
non
conformista
(bollati
come utopici, bizzarri,
inutili)
è
quindi
operante
a
livello
mondiale, ma è negli
Stati Uniti che diversi
intellettuali europei ne
divengono consapevoli.
Ed è in questo scarto
tra
ideologia
democratica
e
situazione effettiva, in
questo “cameratismo a
base di spintoni”, che
sirivelaallosguardodi
Adorno
e
di
Horkheimer
tutto
l’orrore della “vita
deteriorata”,
l’ingabbiamento
dei
singoli
entro
una
mentalità
rigida
e
passiva, incapace di
esperienza
e
di
pensiero
spontanei,
vittima
della
manipolazione sociale,
una mentalità che
viene
emblematicamente
espressa da questo
piccolo episodio in cui
Adorno racconta il suo
primo impatto con il
mondoamericano:“Tra
i vari collaboratori che
lavoravano
transitoriamente con
me
nel
‘Princeton
Project’, c’era una
giovane signora. Dopo
un paio di giorni ella
prese confidenza con
me, e mi chiese con
perfetta
gentilezza:
‘Dr.Adorno,ledispiace
se le faccio una
domanda personale?’.
Io dissi: ‘Dipende dalla
domanda, ma dica
pure’, e lei continuò:
‘Midica,perfavore:lei
è
estroverso
o
introverso?’ ”.1 In
questo
universo
concettuale
standardizzato
la
soggettività
e
l’oggettività si sono
completamente
capovolte:“Oggettivoè
l’aspetto
non
controverso
del
fenomeno, il cliché
accettato
senza
discutere, la facciata
composta
di
dati
classificati: e cioè il
soggettivo;
e
soggettivo è ciò che
spezza quella facciata,
ciò che penetra nella
specifica
esperienza
dell’oggetto, si libera
dai
pregiudizi
convenuti e colloca il
rapporto con l’oggetto
al
posto
della
risoluzione
di
maggioranza di coloro
che, nonché pensarlo,
non lo vedono neppure
–ecioèl’oggettivo”.2
Questo
è
il
comportamento
diffuso,
massificato,
che Adorno ritrova fra
la “gente” e che
descrive nella sua
fenomenologia
della
vita deteriorata. Ma
quali
posizioni
filosofiche hanno presa
sulla cultura quando
egli giunge negli Stati
Uniti, e sino a che
puntoessehannoagito
oagisconoancorasulla
coscienzacomune?
2.Lafilosofia
americana
La
filosofia
americana – dichiarata
inesistente
da
Tocqueville nel 1840 –
si
ricollega
tra
Ottocento e Novecento
a tradizioni europee:
all’empirismo inglese,
alla filosofia scozzese
del senso comune,
all’idealismo classico
tedescoealpositivismo
evoluzionistico
di
Spencer.
Ma
con
Peirce, James e Dewey
si crea una tradizione
autoctona, fortemente
caratterizzata dal suo
costante rapporto con
ilsensocomune,lavita
pratica, l’azione, le
tecniche, e segnata
dalla riflessione sul
potere delle credenze,
della fede, e dalla
volontà di elaborare
abiti di razionalità e di
condotta per le nuove
élites che in uno Stato
avviato
verso
una
rapida
e
intensa
industrializzazione si
staccavano dal credo
religioso
ma
chiedevano
di
surrogarlo, almeno in
parte,
con
altre
certezze. Quel che essi
offrono
non
sono
tuttavia le certezze
della
metafisica,
dell’idealismo o del
materialismo europei,
ma delle costruzioni
teoriche che accettano
ed esorcizzano nello
stesso tempo il rischio,
la precarietà, l’errore,
che
cercano
di
inglobare
progressivamente
i
metodi delle pratiche
scientifiche nel senso
comune.
Così
Peirce,
accentuando
il
momentoprobabilistico
dei
procedimenti
scientifici
e
con
l’ausilio di sistemi
simbolici,
di
un’“algebra
logica”,
cerca di comprendere
la
funzione
del
pensiero nel produrre
“abitudini
d’azione”.
Rendere
chiare
le
nostre idee significa
formulare ipotesi sugli
effetti pratici che esse
potranno
avere
e
passare
dalla
irrequietezza
e
dall’insoddisfazione
che accompagna la
confusionementaleela
congiunta indecisione
della
volontà,
alla
fissazione
di
una
credenza
che
ci
soddisfa e che è
controllabile all’interno
delcircuitoconoscitivo.
Dai saggi raccolti in
Caso,amoreelogicaai
monumentali Collected
Papers, la produzione
di
Peirce
è
eminentemente
incentrata su questo
nodo tra pensiero,
azione e credenza. Il
vantaggiodellascienza
e dei modelli di
comportamento che a
essa si ispirano è di
saper riconoscere la
propria fallibilità e di
procederepercontinue
autocorrezioni, senza
perdere
la
fiducia
nell’avanzare e senza
scosse
traumatiche,
inserendosi
nella
corrente stessa di quel
tendere alla verità che
è parte della natura
dell’uomo. La verità è
quindi una conquista
provvisoria nei suoi
singoli risultati, ma
permanente nel suo
farsi,nonessendoaltro
che il processo pratico
di verifica che mette
fine a uno stato di
dubbio, tranne poi
ripristinarlo su un
piano diverso e più
alto.
Con William James
viene
posto
in
discussione il nesso
credenza-verità, ma in
lui sono pressoché
scomparse
le
procedure conoscitive
di controllo e di
verifica delle credenze.
La verità ha infatti un
carattere progettuale,
è l’eventuale risposta
alla fede in un’ipotesi,
non si misura nel
presente ma nel suo
slancio verso il futuro
(edèsuquestoterreno
che
Bergson
si
riconoscenellafilosofia
di James). Si potrebbe
dire,
parafrasando
Stendhal, che la fede è
unapromessadiverità.
Il pragmatismo non è
unasempliceriedizione
dell’utilitarismo: vero è
uguale a utile, ma non
sempreutileèugualea
vero. La verità è
caratterizzata nel suo
possesso
da
un
sentiment
of
rationality, dal sentirci
a nostro agio, a casa,
dalfamiliarizzareconil
mondo. E questo deve
bastarci.Nonpossiamo
trasformare
la
complessitàdellavitae
dell’esperienza in idee
astratte, in pensiero
puro, che è per noi
dannoso: “Noi siamo
come
pesci
che
nuotano nel mare del
senso, limitati verso
l’alto
dall’elemento
superiore, ma incapaci
di respirarlo puro o di
penetrare in esso”.3
L’eccessiva quantità di
ossigeno del pensiero
astratto, la volontà di
eliminare senza residui
l’opacità del vivere, ci
sarebbe fatale. La fede
delrestononsioppone
alla verità. Senza di
essa
non
ci
risolveremmo
mai
all’azione, resteremmo
paralizzati. In ogni
importante momento
della vita dobbiamo
infatti “spiccare un
salto nel buio” e non
c’è alcuna “compagnia
di assicurazione” che
possa garantirci per i
rischi che corriamo.
Solo la fede, mossa da
“ipotesi viventi”, ci
permettediaccettareil
rischio“aocchiaperti”,
chiedendo
la
collaborazione
dell’intelletto:
fides
quaerens intellectum,
appunto.
D’altra
parte,
il
“pluriverso” in cui
viviamo non forma
alcuna compatta unità
a cui possiamo riferirci
come modello. Non
esiste
infatti,
per
James, una “realtà”,
bensì molteplici “subuniversi di realtà”. Il
nostro mondo di mondi
è infatti costruito a
grappolo.Èfruttodella
continua selezione tra
numerose maniere di
strutturarlo
secondo
esigenze e strutture
d’ordine differenti ma
finite:quelladellecose
sensibili, della scienza,
delle relazioni ideali di
tipo matematico o
metafisico,
delle
illusioni, dei sistemi
religiosi e mitici, dei
sogni, della follia o
delleopered’arte.Ogni
sub-universodirealtàè
dotato di criteri di
rilevanza e persino di
parametri
temporali
differenti
e
incommensurabili: per
questo il mondo del
sogno non è una pura
copia del mondo della
veglia o i criteri di
spiegazione del mito
non coincidono con
quelli della ragione
filosofica.Noientriamo
e
usciamo
continuamente
da
questi
settori
qualitativamente
differenti e dobbiamo
imparare a vivere in
tutti.
Ciascuno di noi è, a
sua volta, un mondo di
mondi
selezionati.
L’esperienza
si
manifesta perciò come
flusso della vita che
offre
contemporaneamentee
serialmente materiale
diverso alla riflessione,
trasformando così la
mente in teatro di
possibilitàsimultaneee
successive. Anche per
questi
motivi
alla
filosofia è affidata la
missione di restaurare
ediaccreditareilruolo
che l’“indeterminato”
svolgenellanostravita
psichica, un “buon
terzo” della quale è
percorsa
da
“premonitorie, rapide
viste prospettiche di
schemidipensiero,non
ancora
articolati”.
Come non si dà in
assoluto
un
solo
mondo, così non esiste
alcun io identico a se
stessoinsensoproprio.
Esso
varia
incessantemente, pur
mantenendo in genere
una vaga percezione
della
propria
continuità: “Un’‘idea’ o
Vorstellung
permanente
che
compaia alla coscienza
a intervalli periodici, è
un’entitàmitologicadel
genere
‘Fante
di
picche’ ”. I vari Io che
sono in noi, al pari dei
differenti sub-universi
di
realtà
che
frequentiamo,
ci
appartengono
in
quanto
appaiono
contraddistinti da un
semplice“marchio”eli
riconosciamo
come
nostri
solo
se
conservano il “calore”
cheviabbiamolasciato
in precedenza. Tale
teoria
viene
incisivamente espressa
da James mediante
l’accorpamento di due
immagini. La prima,
molto americana e
addirittura
western,
dipinge una scena
all’aria
aperta;
la
seconda rinvia invece
alraccoglimentodiuna
pratica religiosa: “Dal
gregge lasciato libero
durante l’inverno in
qualche larga prateria,
quando
viene
primavera
il
proprietario sceglie ed
assortisce
quegli
animali in cui trova
impresso il proprio
marchio.Ilmarchiodel
greggeè,perlediverse
partidelpensiero,quel
certo calore animale a
cuiabbiamoaccennato.
Questo
calore
le
pervade tutte, come il
filo corre attraverso il
rosario, e ne fa un
tutto, che trattiamo
come un’unità, per
quanto queste parti
possano
differire
grandemente tra loro.
Si aggiunge a questo
carattere l’altro, che i
diversi Io ci appaiono
come se fossero stati
per lunghi tratti di
tempocontinuifraloro,
e i più recenti di essi
continui col nostro Io
del
momento
presente”.4
In
un
“universo pluralistico”,
aperto
al
caso,
all’indeterminato, ma
anche
alla
libertà
umana, noi dobbiamo
abituarci al rischio,
immunizzarci nei suoi
confronti,
farlo
diventare per noi una
secondanatura.
È questo il filo
melodico, il messaggio,
che percorre l’opera di
James.Lesuetraccesi
rinvengono
–
parzialmente
e
in
forma scientificamente
più elaborata, organica
e riflessiva – in John
Dewey,
dalla
cui
filosofia cadono molti
degli
elementi
vitalisticiefideisticidel
pensiero
jamesiano.
Dewey,cheingioventù
ha studiato a fondo
Hegel, conserva del
filosofotedescoilgusto
per
le
costruzioni
teoriche
fortemente
strutturate in senso
anti-meccanicistico, in
cui ogni elemento è in
rapporto
di
“interazione” con gli
altri e in cui ogni
equilibrio raggiunto si
dimostra precario e,
provocando
nel
soggetto
situazioni
“disturbate,
penose,
ambigue,
confuse,
piene
di
tendenze
contrastanti,
oscure
ecc.”,
spinge
l’esperienza
e
la
ricercaversopiùaltee
soddisfacenti soluzioni.
In
Logica,
teoria
dell’indagine,del1938,
quando Dewey aveva
ben settantanove anni,
è tracciato il percorso
della
conoscenza,
dall’esperienza grezza,
immediata,
alla
posizione
di
un
problema,
alla
formulazione di idee o
previsioni “di ciò che
capiterà, ove certe
operazioni
vengano
eseguite in preciso
rapporto
con
le
condizioni osservate”,5
al ragionamento, come
sviluppo delle ipotesi o
delle
possibilità,
all’esperimentoeinfine
al giudizio con cui
l’imbarazzo
iniziale
viene
risolto.
L’esperienza,
che
costituiscel’interazione
tra un essere vivente e
il
suo
ambiente
naturale e sociale, ha
un raggio più ampio
della sola conoscenza.
La ragione ha un
carattere strumentale,
risolve le difficoltà,
rettifica l’esperienza e
gli squilibri, trasforma
ilmondoepromuovela
convivenza umana, si
situa nella linea di
continuità tra natura e
uomo,
biologico
e
mentale, oggettivo e
soggettivo. Essa non è
mai
astrattamente
determinata,mamossa
da
interessi,
da
bisogni, da richieste di
chiarimento
che
sorgono dall’esistenza
individuale e sociale.
Per
questo
anche
nell’educazione si deve
ricostruire il raccordo
tra
conoscenza
e
interesse, tra logica e
natura,
tra
lavoro
intellettuale e lavoro
manuale, sviluppando i
germi
di
socialità
presenti nei singoli e
mostrando
loro
il
legameinscindibileche
esiste tra ricerca della
verità e democrazia,
traincrementocreativo
dell’individualità
e
progresso
sociale.
Anche il linguaggio ha
verità
unicamente
all’interno del suo
contesto biologico e
sociale, afferma Dewey
inpolemicaconCarnap
e i neo-positivisti, che
non solo considerano
gli enunciati linguistici
come forniti di verità
intrinseca al di fuori
della loro inscrizione
sociale, ma dichiarano
anche
veri
esclusivamente quelli
empiricamente
controllabili
o
tautologici, definendo
indecidibili o privi di
senso
quelli
che
trattano dei valori, di
argomenti politici e
morali, quelli cioè che
per Dewey è più
urgente conoscere e
sottoporreacontrollo.
3.L’epistemologiadel
neo-positivismoela
suacritica
Nella
filosofia
americana lo statuto
del dato osservativo è
dunque meno rigido e
ingenuo di quanto non
appaia ad Adorno al
livello
del
senso
comune.
Ma
se
guardiamo meglio, ciò
che egli combatte a
livello teorico non è
unafilosofiaamericana
(che
sembra
anzi
ignorare), ma una
filosofia della vecchia
Europa
trapiantata
negli Stati Uniti, dove
ha trovato in quegli
anni
un
clima
favorevole che l’ha
fatta lussureggiare: il
neo-positivismo
osteggiato anche da
Dewey. Esso nasce in
paesi di lingua tedesca
alla fine degli anni
venti e si dirama nei
due circoli: di Vienna
(Schlick,
Carnap,
Gödel,
Waismann,
Frank) e di Berlino
(Reichenbach, Hempel,
von Mises), unificati
culturalmente
dalla
rivista
“Erkenntnis”,
diretta dal 1930 al
1938 da Carnap e
Reichenbach.IlWiener
Kreis, che ha qui per
noi
una
maggiore
rilevanza, si richiama
nel manifesto della sua
fondazione
all’insegnamento
di
Peano, Frege, Russell,
Whitehead e Mach, ma
è noto che i suoi
studiosi, in particolare
Schlick
e
Carnap,
furono influenzati dalle
dottrine del Tractatus
logico-philosophicus e
dapocheconversazioni
con
Wittgenstein.
Caratteristica di tale
empirismo logico è la
distinzione tra giudizi
analitici
e
giudizi
sintetici,
tra
proposizioni
che
concernonoidee(eche
sono
fondamentalmente
riconducibili
a
tautologie)
e
proposizioni
che
concernono fatti e che
sono
verificabili
mediante il ricorso ai
dati
osservativi
elementari. Al di fuori
di questi due generi di
enunciati, che hanno
valore scientifico, vi
sono le insensatezze
della
metafisica,
imputabili a un uso
improprio
del
linguaggio, all’uso di
parole prive di senso o
alla
congiunzione
sintatticamente
erronea
di
parole
dotate singolarmente
di
senso.
In
Il
superamento
della
metafisica attraverso
l’analisi logica del
linguaggio,
Carnap
mostrerà in Heidegger
un esempio da non
imitare
di
uso
improprio
del
linguaggio.
Il
modello
neo-
positivistico di teoria
scientifica
è
stato
rappresentato
come
una
piramide
di
enunciati,
con
al
vertice
quelli
più
generali
e
non
dimostrati,
nelle
sezioni
intermedie
quelli
deducibili
logicamente
dai
precedenti, e alla base
quelli con generalità
minima,
che
si
riferiscono
a
osservazioni
particolari.L’aspettodi
assiomatizzazione e il
ricorso
ai
dati
osservativi fanno parte
della stessa immagine
della scienza. Ma la
sistemazione
teorica
delmodellovariamolto
fra i diversi autori e,
spesso,all’internodello
stesso
autore.
Prendiamo il caso di
Carnap. Nel 1928,
nella
Costruzione
logica del mondo, non
si fa riferimento, come
in
Mach,
alla
sensazione quale dato
irriducibile
(la
psicologia della forma
ha infatti dimostrato
che le sensazioni sono
già il risultato di
processi astrattivi), ma
ai “vissuti elementari”,
agli
Elementarerlebnisse, a
momentipsicologicipoi
connessi da “relazioni”
di ordine logico. Il
programma di Carnap
contemplaallora,daun
lato, la “ricostruzione
razionale” dei concetti
scientifici sulla base
del
riferimento
all’immediatamente
dato,
dall’altro
la
messa in rilievo delle
relazioni strutturali in
grado di articolare i
dati. Ma già nella
Sintassi logica del
linguaggio del 1934 i
“vissuti elementari”, di
natura psicologica e
inverificabili,
sono
sostituiti
con
i
“protocolliosservativi”,
di natura linguistica e
controllabile. Carnap
procede sempre più
verso
l’esame
di
linguaggi
altamente
formalizzati,
convenzionali, espressi
dal
“principio
di
tolleranza”, per cui
“ciascunopuòcostruire
come vuole la sua
logica, cioè la sua
forma di linguaggio”.
Sotto
l’influsso
di
Hilbert e del logico
polacco Tarski, egli
delinea
un
“metalinguaggio” con
cui
analizzare
il
linguaggio-oggetto
delle
proposizioni
scientifiche, tracciare
cioè i lineamenti di un
sistema
deduttivo
assiomatico. La verità
analitica, definita ora
in termini sintattici,
acquisterà più tardi
anche
un
aspetto
designativo, semantico
(nell’Introduction
to
Semantics del 1942), e
illinguaggio,d’accordo
con Charles Morris –
assieme al quale, e a
Neurath, Carnap aveva
dato vita nel 1938 alla
Enciclopedia
della
scienza unificata –
verrà studiato anche
sotto
il
profilo
pragmatico,
in
rapporto
ai
comportamenti da esso
indotti.
Contemporaneamente,
il
rigido
verificazionismo sarà
abbandonato e Carnap
dovrà ripiegare sulla
semplice“conferma”di
unenunciatoinbaseal
suo
grado
di
probabilità.
A un altro emigrato,
stavolta in Inghilterra,
spetterà
la
critica
dell’impostazione neopositivistica: a Karl
Raimund Popper. Egli
si allontana sempre di
più dalle impostazioni
del Circolo di Vienna,
da un modello di
scienzafondatocioèsu
protocolli osservativi e
su un sistema di
enunciati
certi
e
definitivi. I problemi
scientificinonsonoper
luiriducibilialcorretto
uso linguistico o alla
costruzionedi“intricati
modelli in miniatura,
[di] vasti sistemi di
minuscoli
meccanismi”,6
come
invece
avviene
in
Carnap. La scienza
tende a risolvere, per
prove ed errori, gli
“enigmi” del mondo ed
è
qualcosa
di
imperfetto, seppur di
continuamente
perfezionabile. È un
aggregato
di
congetture,
di
pregiudizi,
di
anticipazioni
prematureedi“ipotesi
azzardate”, che sono
per
fortuna
costantemente
sottoponibili
al
controllo
della
comunità
scientifica.
La conoscenza non
deve perseguire più
l’idolo deleterio della
conoscenza
assolutamente certa,
oggettiva,
definitiva:
“Perché la venerazione
che
tributiamo
a
quest’idolo
è
d’impedimento
non
soltanto all’arditezza
delle nostre questioni
ma anche al rigore dei
nostri controlli. La
concezione sbagliata
dellascienzasitradisce
proprio per il suo
smodato desiderio di
essere quella giusta.
Perché non il possesso
della conoscenza, della
verità irrefutabile, fa
l’uomo di scienza, ma
la
ricerca
critica,
persistente e inquieta
dellaverità”.7
È
sbagliato
considerare le scienze
come caratterizzate da
una base osservativa e
la metafisica come
librantesisullealidella
speculazione. In primo
luogo,perchélegrandi
teorie scientifiche, ad
esempio quella della
relatività, sono ben
poco poggianti su dati
empirici e, in secondo
luogo,
perché
la
metafisica, lungi dal
ridursi a puro nonsenso, come volevano i
neo-positivisti, orienta
l’impresa
scientifica
stessa (fu infatti la
“metafisica influente”
del culto della luce, di
origine neoplatonica, a
spingere
Copernico
verso la formulazione
delle
sue
ipotesi
astronomiche).Lalinea
di demarcazione tra
scienza e metafisica o
tra scienza e pseudoscienzapassanonsullo
spartiacque senso/non-
senso, ma su quello
“falsificabile”/“nonfalsificabile”.
Una
teoria scientifica cioè
non
può
essere
corroborata mediante
verifiche, accumulando
prove
tali
da
confermarla,
ricorrendo
all’induzione. Nessuna
regola può garantire
che
una
generalizzazione
inferitadaosservazioni
vere, per quanto a
lungo ripetute, sia
vera.
C’è
però
un’asimmetria
tra
verificabilità
e
falsificabilità,inquanto
le asserzioni universali
della
scienza
non
possono mai essere
derivate da asserzioni
singolari, ma possono
tuttavia
essere
contraddette da esse.
Gli asserti di base
potranno
quindi
falsificare una teoria,
non
fondarla.
È
scientificaunateoriala
cui forma logica è
falsificabile mediante
asserzioni empiriche,
mediante
un
experimentum crucis,
mentre è metafisica e
pseudo-scientifica una
teoria che non può
essere per principio
confutabile.
Tale aspetto hanno,
secondo Popper, la
psicoanalisi
e
il
marxismo, così come
egli li aveva conosciuti
sin dalla gioventù in
quanto pretendono di
dare
spiegazioni
onnicomprensive
e
chiare
(mentre
la
spiegazione scientifica
è“lariduzionedelnoto
all’ignoto”, a livelli
maggiori di generalità)
e di trovare continue
verifiche
alle
loro
proposizioni:
“Un
marxista non poteva
aprire un giornale
senza trovarvi in ogni
pagina
una
testimonianza in grado
di confermare la sua
interpretazione della
storia [...]. Gli analisti
freudiani
sottolineavano che le
loro
teorie
erano
costantemente
verificate dalle loro
‘osservazioni cliniche’
”.8 Ma proprio perché
queste dottrine non
sono il risultato di
previsioni
rischiose,
non
precludono
l’accadimento di certi
eventi, si servono di
assunzioniausiliariead
hoc e si sottraggono a
ogni
confutazione,
esse, per l’appunto,
non sono scientifiche.
Lo
statuto
di
scientificitàlopossiede
invece, ad esempio, la
teoria
einsteiniana
della
gravitazione,
perché
è
passata
indenne attraverso il
crucialeesperimentodi
Eddington, sotto il
quale
poteva
soccombere: “La teoria
einsteiniana
della
gravitazione
aveva
portato
alla
conclusionechelaluce
doveva essere attratta
dai corpi pesanti come
il sole, nello stesso
modo in cui erano
attratti
i
corpi
materiali.
Di
conseguenza, si poteva
calcolare che la luce
proveniente da una
lontana stella fissa, la
cuiposizioneapparente
fosse prossima al sole,
avrebbe raggiunto la
terra da una direzione
taledafareapparirela
stella
leggermente
allontanata dal sole; o,
in altre parole, si
poteva calcolare che le
stelle vicine al sole
sarebbero
apparse
come se si fossero
scostate un poco dal
sole ed anche fra loro.
Sitrattadiunfattoche
non può normalmente
essere
osservato,
poiché quelle stelle
sono rese invisibili
durante
il
giorno
dall’eccessivo
splendore del sole: nel
corso di un’eclissi è
tuttavia
possibile
fotografarle. Se si
fotografa la stessa
costellazionedinotte,è
possibile misurare le
distanze sulle due
fotografie,econtrollare
cosìl’effettoprevisto”.9
Il marxismo non può
essere per Popper una
teoria scientifica anche
perché poggia su due
presupposti falsi: lo
storicismo
e
la
dialettica.
Per
“storicismo”
egli
intende una “antica
superstizione” per cui
esisterebbero
forze
irresistibili
che
ci
spingono in avanti e
che legittimano delle
profezie travestite da
previsioni scientifiche,
degli ottativi travestiti
da indicativo futuro.
Questo
significa
divinizzare la Storia,
trasformarla
in
tribunale del mondo,
giustificare
ogni
totalitarismo. Hegel e
Marx, questi “falsi
profeti”,
hanno
generato,
rispettivamente, Hitler
e Stalin, e sono stati i
più accaniti fautori di
uncollettivismotribale,
chiuso; sono stati i
nemici della “società
aperta”, in cui esiste
critica,
dibattito,
possibilità
di
“falsificare”leposizioni
altrui, di dissentire
liberamente (i limiti
ideologici e anche
filologici
di
tale
interpretazione
del
pensiero di Hegel e di
Marx
non
hanno
bisogno
di
essere
sottolineati).Lasocietà
aperta o, più tardi, la
democrazia, non è
certo
perfetta:
è
semplicemente
quel
regime in cui il potere
politico – sottoposto al
più stretto controllo,
onde
evitare
la
tirannide – provoca
danni
minori.
Strettamente connessa
allo storicismo è la
dialettica, in quanto le
contraddizioni
vi
vengonoesaltatesinoa
diventare il motore
della storia. Ma la
scienza
non
può
rassegnarsi
alle
contraddizioni,
deve
eliminarle, ed è questa
lasolaforzachespinge
innanzi lo sviluppo
dialettico: “Ciò che
promuove lo sviluppo
non è una forza
misteriosa, interna a
queste due idee [tesi e
antitesi],
né
una
fantomatica tensione
fra esse: è unicamente
la
nostra
risoluta
decisione
di
non
ammettere
le
contraddizioni
a
indurci a ricercare
attentamente un nuovo
punto di vista, che ci
consentadievitarle”.10
Nelle più recenti
discussioni
sull’epistemologia
le
tesi
falsificazioniste
sono state precisate e
rettificate dallo stesso
Popper e dai suoi
seguaci
Agassi
e
Watkins.Masonostate
messe in forse, per
diversi aspetti, da
Kuhn,
Lakatos
e
Feyerabend.
Kuhn
ritiene che Popper
abbia
scambiato
l’intero corso della
scienza con i suoi rari
momenti rivoluzionari.
Nei periodi di “scienza
normale”,
infatti,
l’atteggiamento critico
efalsificazionistanonè
affatto diffuso. Solo
nellefasipotentemente
innovative,
quando
mutarepentinamenteil
paradigma
di
una
teoria scientifica e le
vecchie impostazioni
vengono squalificate,
solo allora la ricerca
procede
secondo
moduli assimilabili a
quelli
di
Popper.
Lakatos (uno studioso
ungherese emigrato in
Inghilterra dopo il
1956, formatosi sulle
filosofie di Hegel, di
Marx, di Lenin e di
Lukács e diventato poi
un
popperiano
eterodosso)
pone
invece in evidenza –
andando
oltre
un’intuizione di Popper
– come il carattere di
scientificità o meno
non sia imputabile a
una singola teoria, ma
a una successione di
teorie,
a
un
“programma
di
ricerca”, che è per
giunta determinato nel
suo nucleo stesso da
assunzioni
preanalitiche
di
tipo
metafisico,
e
di
conseguenza
non
falsificabili.
Per
Feyerabend,
infine,
sostenitore
di
un’epistemologia già
“anarchica”econtrario
a
ogni
regolamentazione
rigida, a ogni metodo
della
ricerca
scientifica, la pratica
della
scienza
è
imprevedibile, ricca di
inventive,
di
stratagemmi,
non
legataadalcun“codice
d’onore”, astuta come
loèlastoriaperHegel
eperLenin.Lascienza
non funziona secondo i
criteri polizieschi di
“legge e ordine”, bensì
grazie alla sistematica
violazione di tutte le
regole stabilite e di
tutte le regole e di
tutte le teorie, persino
diquellechesembrano
confermate da risultati
sperimentali
ben
stabiliti. Vale il criterio
dell’anything goes, del
“tuttopuòandarbene”,
anche perché esso
permette
la
proliferazione
delle
teorie,
con
la
conseguente
liberazione di energie
intellettuali
e
immaginative
altrimenti destinate a
rimanere compresse o
inerti. È interessante
osservare come negli
studi
degli
anni
settanta, di fronte ai
problemi posti dal
mutamento
concettuale,
dal
susseguirsi delle teorie
scientifiche,
che
avanzano
per
inclusione e insieme
per negazione delle
precedenti, la filosofia
hegeliana
e
la
dialettica,
così
disprezzate dai neopositivisti e da Popper,
siano con Lakatos,
Feyerabend e altri
tornate in auge quale
modellodastudiareper
comprendere il nesso
fra
continuità
e
discontinuità
nella
formadell’Aufhebungo
“superamento”. Da un
lato si rifiuta la
concezionetradizionale
per cui la scienza
avrebbe un carattere
cumulativo,
continuistico,
passerebbe
di
conquista in conquista,
dall’altro si tende a
restringere
il
discontinuismo
forte
quale
appare
in
Bachelard o nel Kuhn
de La struttura delle
rivoluzioni scientifiche.
Accanto
alle
suggestioni dialettiche
si
cerca
contemporaneamente
(ad esempio attraverso
i modelli formali di
Sneed e Stegmüller o
attraverso
la
concezione
della
razionalità “locale” e
“reticolare” di Larry
Laudan) di salvare il
concetto di progresso
nel corso del pensiero
scientifico e di offrire
un’immagine di come
la
scienza
possa
crescere su se stessa
negando, di volta in
volta,iproprilimiti.
Sul
versante
americano – dopo un
dominio incontrastato
delle
posizioni
di
Carnap,
Neurath,
Tarski e, più tardi, dei
teorici della filosofia
del
linguaggio
ordinario – il congedo
dalla filosofia analitica
è lento. L’insidia più
radicale
alla
sua
egemonia è giunta in
questi ultimi quindiciventi
anni
dalla
“filosofia continentale”
di Foucault, Derrida,
Gadamer o Habermas,
penetrati inizialmente
attraverso
i
dipartimenti
di
francese
o
di
letteratura comparata
della Costa Est e della
California.Ipiùprecoci
segni di ribellione
interna
al
neopositivismo
possono
tuttavia farsi risalire
all’inizio degli anni
cinquanta,
allorché
Willard van Orman
Quine scrive nel 1951
l’articolo Due dogmi
dell’empirismo. In esso
affermal’insostenibilità
della distinzione tra
enunciati
analitici
(tautologici, del tipo
“scapolo significa non
sposato”,chesibasano
sul
significato
dei
termini
e
valgono
indipendentemente dai
datidell’esperienza)ed
enunciati
sintetici
(empirici,
non
deducibili dal puro
ragionamento,
ma
dall’osservazione
contingente), tra verità
di ragione e verità di
fatto. I primi si
avvitano su se stessi in
un circolo vizioso di
inestricabili
rimandi
reciproci tra sinonimi,
nella
fattispecie
“scapolo”
e
“non
sposato”; i secondi non
possono
essere
interpretati attraverso
unrinviodirettoaipuri
dati percettivi. Nessun
enunciato, infatti, è
suscettibile di essere
confermato
singolarmente, al di
fuori del suo contesto
globale,
“olistico”.
Cade così sia la
possibilità di ridurre
tutti
gli
enunciati
significanti
all’esperienza
immediata,
sia
la
nozione di “significato”
(in quanto concetto
rigidochesiriferiscea
qualcosa di esterno, a
un nudo fatto muto e
non interpretato). Tale
posizione
apre
la
strada all’idea che
esistano
più
“paradigmi”, in quanto
ogni osservazione è
carica di teoria, o più
“versioni del mondo”,
in quanto differenti
schemi
concettuali
generano modi diversi
dicostruirelarealtà.Si
chiede, ad esempio,
Norwood
Russell
Hanson: “Keplero e
Tycho Brahe vedevano
la
medesima
cosa
quando osservavano il
sorgere del Sole?”,11
ossia quando l’uno lo
vedeva fermo con la
Terracheruotaattorno
a esso e l’altro girare
attorno
al
nostro
pianeta? E, poi, nel
senso
di
Nelson
Goodman,senonesiste
più alcun vincolo tra i
nostri enunciati e la
realtà percettiva non
sarà allora possibile
alla scienza fabbricare
una pluralità di mondi,
dotati di una loro
interna
consistenza,
alla maniera in cui li
fabbrical’arte?12
Il
pluralismo
di
paradigmi o di versioni
del
mondo
viene
confutatosiadallogico
SaulKripke(checontro
ogni
atteggiamento
“kantiano”diunmondo
sconosciuto
da
interpretare presenta
realisticamente l’idea
del battezzare le cose
attraverso
nomi
o
designatori rigidi), sia,
soprattutto, da Donald
Davidson, il quale
mostracomenonabbia
sensocontrapporrealla
realtà
molteplici
schemi
concettuali,
incommensurabili
e
rivali tra loro, che
organizzerebbero
l’esperienza.Èinfattila
nozione
stessa
di
“schemaconcettuale”a
essere impraticabile,
tanto al singolare che
al plurale. Non si dà
alcuna realtà bruta,
preesistente alla rete
degli schemi con cui
cercheremmo
di
catturarla, e non esiste
neppure un’alternativa
secca
tra
l’intraducibilità
completa dei nostri
schemi(olinguaggiche
li esprimono) e una
loro
perfetta
convergenza,
che
consentirebbel’accesso
a un unico mondo
condiviso. Abolito il
dualismo tra schema e
contenuto, considerato
come “terzo dogma
dell’empirismo” (così
come il suo collega di
Harvard,
Hilary
Putnam,
abolisce
quello tra fatti e
valori),
Davidson
ammette unicamente
traduzioni di enunciati
daparagonaretraloro,
per trovare così il
senso di ciò di cui si
parla in relazione a
eventi extra-linguistici,
comuni al “consorzio”
umano. Se affermiamo
la
diversità
degli
schemi
concettuali,
dovremmo
però
dimostrare la loro
intraducibilità. Eppure,
anche volendo, non
siamo affatto capaci di
farlo,néperilinguaggi
parzialmente
intraducibili, né per
quelli completamente
intraducibili. Malgrado
il “principio di carità”,
checiinvitaascegliere
l’interpretazione
più
coerente e sensata
delle asserzioni altrui
manifestate in una
lingua sconosciuta, di
esse potremmo sempre
dare
ulteriori
interpretazioni, senza
riuscire tuttavia a
fissarne
il
preciso
significato. Nel caso
inoltre di assoluta
incomprensibilità,
diventa
legittimo
persino il dubbio se
esse costituiscano un
linguaggio,
se
corrispondano a un
comportamento
linguistico, nel senso
che vi sono “dietro” di
esse stati mentali di
soggetti intenzionati a
comunicare. In effetti,
“tantol’accordoquanto
il disaccordo risultano
intellegibili solo contro
losfondodiunaccordo
consolidato
e
diffuso”.13
1
Th.W. Adorno,
Esperienze scientifiche
in America, in Parole
chiave. Modelli critici
(1969),
SugarCo,
Milano1974,p.175.
2Id.,Minimamoralia
(1951), Einaudi, Torino
1954,p.64.
3
W.
James,
Pragmatism. A New
Name for Some Old
Ways of Thinking,
Longmans, Green and
Co., New York-LondonToronto1949,p.128.
4 W. James, Principi
di psicologia (1890),
Fratelli Bocca, RomaMilano-Napoli 19093,
cap. xxi, in particolare
pp.199,187,243.
5 J. Dewey, Logica,
teoria
dell’indagine,
Einaudi, Torino 1949,
pp.137,141.
6K.R.Popper,Logica
della
scoperta
scientifica
(1934),
Prefazione alla prima
edizione
inglese
(1959), Einaudi, Torino
1995,p.XL.
7Ivi,p.311.
8
K.R.
Popper,
Congetture
e
confutazioni,
in
Congetture
e
confutazioni, il Mulino,
Bologna1972,p.64.
9Ivi,pp.65-66.
10 K.R. Popper, Che
cos’è la dialettica?, in
Congetture
e
confutazioni, cit., p.
539.
11 N.R. Hanson, I
modelli della scoperta
scientifica
(1958),
Feltrinelli,
Milano
1978,p.14.
12 Cfr. N. Goodman,
Vedere e costruire il
mondo(1978),Laterza,
Roma-Bari1988.
13
D.
Davidson,
Interpretazione
radicale (1973), ora in
Verità
e
interpretazione (1984),
il Mulino, Bologna
1994, p. 137. Di
Davidsonsivedaanche
Azioniedeventi(1980),
il Mulino, Bologna
1992.
VI.Ilpensiero
dialettico
1.Coscienzaetotalità
La
filosofia
hegeliana, con i suoi
connessi concetti di
dialettica e di totalità,
aveva però già dato
molto prima i suoi
frutti con uno dei
maestri di Lakatos,
György
Lukács,
anch’egli costretto nel
1919,dopoilfallimento
della Repubblica dei
consigli di Béla Kun, a
prendere
la
via
dell’esilio:
Vienna,
Berlino e Mosca, dove
ha la possibilità per
circa dodici anni di
osservare da vicino il
regime staliniano. La
figura di Hegel (che,
chiuso
un
lungo
periodo di latenza, era
tornataaproiettarsisu
diverse filosofie del
Novecento, da Dilthey
all’“esistenzialismo”,
da Adorno a Lakatos,
dovunque
si
combattesse
la
“reificazione” sociale,
burocratica,scientifica)
trova in Lukács non
solo uno dei suoi più
attenti interpreti ma
anche un teorico che,
attraverso
il
suo
accostamento a Marx,
la fa rientrare nel vivo
del dibattito politico
degli ultimi decenni.
Con il venir meno, nel
primo
dopoguerra,
delle
speranze
rivoluzionarie
nell’Europa
occidentale,
il
marxismo si divise in
due
tronconi,
che
segnavano la diversa
esperienza tra chi era
all’opposizione e chi
era al potere – anche
se
essa
non
si
presentava più come
distinzione tra Chiesa
militante e Chiesa
trionfante –, oltre che
risalire
a
diverse
matrici
storiche
e
nazionali.
Mentre
nell’UnioneSovieticala
durezza della lotta
politica in corso e gli
sforzipercostruireuna
base economica solida
al socialismo fanno
cadere l’accento sui
momenti di necessità,
sul
realismo,
sull’oggettività,
in
Occidente, dove il
fascismo comincia in
alcuni
paesi
a
governare e dove il
periodo di transizione
si prefigura lungo, la
riflessione
marxista
tendeadassumeretoni
più
utopistici
o
“estremistici”,
a
recuperare
una
dimensione
antieconomicista,
progettuale, filosofica,
che faccia leva sulla
presadicoscienzadelle
difficoltà e dei punti
morti da superare. A
questo
scopo
è
dedicato
Storia
e
coscienzadiclasse,del
1923.
Lukács, che aveva
assorbitoingioventùle
ideedellostoricismodi
Dilthey, della filosofia
dei valori, di Simmel e
di Weber, presuppone
ancora nei saggi che
costituiscono
questo
volume la distinzione
diltheyana tra scienze
della natura e scienze
dello spirito, nonché
l’analisi
che
della
reificazione
e
del
capitalismo
avevano
dato la Filosofia del
denaro di Simmel e gli
scritti
di
Weber
(compresi quelli editi
postumi, di cui Lukács
conosceva in parte il
contenuto,
avendo
frequentato
a
Heidelberg la casa di
Max
Weber).
La
dialettica non può per
lui
applicarsi
alla
natura, che è retta da
quelle
leggi
di
uniformitàmetastorica,
di eternizzazione e
isolamento dei dati, di
calcolabilità
e
quantificabilità
delle
scienze naturali che il
capitalismopretendedi
applicare anche alle
società umane (proprio
mentre
le
scienze
cambiavano
aspetto,
Lukács continua ad
averne una visione più
arcaica di Dilthey).
Capitalismo e scienze
della
natura
sono
dunque solidali: viene
presa
sul
serio
l’affermazione
di
Weber per cui “la
scienzaèilsolopartito
della borghesia”. Ma
anche capitalismo e
reificazione
sono
solidali: nel mondo
delle merci, anche
l’uomo tende a essere
guardato e trattato
come una cosa, a
essere ridotto a mera
appendice
della
produzione. Ciò che
contrasta
vittoriosamente
tale
reificazione
e
l’ideologia
che
la
giustificaèladialettica
con la sua idea di
totalità,cheristabilisce
i nessi viventi e
processuali
della
realtà,
immette
la
storia nei “dati”, lega
teoria e pratica nella
comprensione
e
trasformazione
del
mondo, connette il
soggetto con l’oggetto,
permette una visione
globale in un’epoca di
variazioni continue e
spesso
impercettibili
dell’assetto
dell’insieme in uno
scacchiere mondiale.
La conoscenza della
totalità
non
autocontraddittoria è
possibile
solo
alla
coscienza di classe del
proletariato.
In
precedenza, nelle età
precapitalistiche,
la
divisioneincasteeceti
(Stände)
rendeva
invisibile la totalità
sociale
e,
di
conseguenza,
impossibile
la
previsione,
la
progettazione
e
il
controllo
della
dinamica storica. Con
l’avvento
della
borghesia,
con
il
formarsi delle classi
moderne
e
l’autonomizzazione
della sfera economica,
le visioni del mondo e
la
percezione
dei
conflitti di interesse
divengono totali e “la
coscienza di classe è
entratanellafaseincui
può
diventare
cosciente”.1
La
borghesia (a differenza
dei contadini o della
sua
frazione
più
disgregata, la piccola
borghesia) ha bensì
una visione dialettica
della realtà, ma essa è
tragica
e
contraddittoria: sulla
coscienza
borghese,
come sui personaggi
che
Lukács
aveva
studiato ne L’anima e
le forme e nella Storia
dello
sviluppo
del
dramma
moderno,
“pesa
una
tragica
maledizione che la
costringe, non appena
è giunta al punto più
altodelsuosviluppo,a
cadere
in
una
insolubile
contraddizione con se
stessa
e,
di
conseguenza,
ad
autosopprimersi.
Questa
situazione
tragica della borghesia
si
rispecchia
storicamente nel fatto
che essa è ancora
impegnata
a
schiacciare il proprio
predecessore,
il
feudalesimo,
quando
apparegiàilsuonuovo
nemico,
il
proletariato”.2
La
borghesia non può
sopportare la vista
della
totalità,
che
include quella dei suoi
stessi limiti e della sua
fatale scomparsa; essa
è quindi costretta a
staresulladifensivaea
disturbareasestessae
agli altri la percezione
globale
dei
nessi
storici.
La
classe
operaia, invece, che
gode del vantaggio di
considerarelasocietàa
partire
dal
suo
“centro”, dal motore
della produzione, non
solononhapauradella
totalità sociale, ma ha
anzitutto l’interesse a
conoscerla, per poter
guidare il processo di
transizioneeabolirese
stessa in una società
senzaclassi.Moltianni
dopo, nella Prefazione
alla traduzione italiana
del
1967,
Lukács
riconoscerà di aver
commesso
diversi
errori in Storia e
coscienza di classe: di
aver
confuso
l’“oggettivazione”,
ineliminabile in ogni
attività umana, con
l’“estraneazione”,cheè
storicamente
revocabile; di aver
fatto perdere al lavoro
la caratteristica che
Marx
gli
aveva
attribuito
in
ogni
società, di assicurare
cioè
il
ricambio
organico della società
con la natura, e di
essere
incorso,
in
particolare, in “un
eccesso
(hegeliano)
contrapponendo
alla
priorità della sfera
economicalacentralità
metodologica
della
totalità”.3
L’importanza
di
Hegel,delladialetticae
della
categoria
di
totalità, non verranno
però mai ripudiate
nell’intera produzione
di
Lukács.
Anzi,
soprattutto dopo che
Stalin inaugura la
politica
dei
fronti
popolari, egli elabora
apertamente una linea
strategica di grande
respiro che prevede,
come
corollario
dell’alleanza
tra
borghesia progressista
e
proletariato,
il
ricongiungersi
alla
grande
stagione
culturale
della
borghesia progressiva,
primadelsuodefinitivo
votarsi
all’“irrazionalismo”. I
nomi di Hegel, di
Goethe e di Ricardo
costituiscono i punti di
riferimento e l’eredità
più sana e dialettica
della
tradizione
borghese:
essi
rappresentano quelle
individualità plastiche
che il proletariato si
sforza di produrre in
ciascun
uomo.
L’irrazionalismo ha in
seguito avvelenato la
filosofia,
l’arte
e
l’economia
politica
borghese (sfugge a
Lukács, nella giusta
polemica contro la
culturachehacondotto
al nazionalsocialismo e
alla guerra, quanta
conoscenza
ci
sia
anche
nella
“decadenza”,
quali
antidoti alla crisi si
mischino alle tossine:
da qui la liquidazione
sommaria
di
tanti
autorinellaDistruzione
della ragione). Queste
ideediLukácsavranno
in Italia un peso
rilevante (tra gli anni
cinquanta e sessanta,
nell’età
della
“sprovincializzazione”),
quandosiinnesteranno
sul
preesistente
storicismo marxista e
sulla
prospettiva
politica di un’alleanza
tra classe operaia e
ceti medi democratici:
contribuiranno allora
alla formazione di un
“umanesimo marxista”,
non privo di elementi
classicheggianti,
“a
tutto
tondo”,
armonicisticamente
composti. Un’incidenza
minore, e non solo in
Italia, avranno invece
le ultime e più mature
riflessioni del filosofo
ungherese,
dalla
monumentale Estetica
all’Ontologia
dell’essere
sociale,
dove si affrontano
organicamente
i
problemi
del
rispecchiamento nella
vita quotidiana (un
tema
che
sarà
trasmesso
all’allieva
AgnésHeller),nell’arte
–nellapeculiaritàdella
sua mimesi e dei suoi
metodi
di
“segnalazione” –, e
della
conoscenza
diretta di un “essente
in sé” stratificato in
diversi livelli mediati
dallavoroeresipernoi
intellegibilidallastoria.
2.Ladialettica
negativa
A questa concezione
di
una
dialettica
robustamente
compositiva, armonica
anche attraverso le
contraddizioni
più
laceranti,
e
all’immagine di una
totalità raggiunta si
oppongono Adorno e
Benjamin,
che,
in
connessione
all’impianto
tragico
delle
filosofie
di
Kierkegaard
e
di
Rosenzweig e all’idea
neo-kantiana
dell’incommensurabilità
dellaparteconiltutto,
della totalità come
semplice
focus
immaginarius,
rivalutano
quella
“logica
della
disgregazione” che si
esprime nell’arte e nei
concetti
delle
avanguardie
del
Novecento.
Bisogna
per Adorno vivere sino
in fondo le lacerazioni
di
questo
periodo
storico, in cui, con
l’avanzare
della
socializzazione,
la
totalità è diventata
totalitarismo, sistema
in cui vige la legge
dell’unità,
dell’eliminazione
del
diverso,
del
non
compatibile
con
il
dominio. Non si deve
allora cercare – come
farebbe Lukács – una
“conciliazione forzata”,
trasfigurare la cattiva
realtà del presente in
forme
solo
apparentemente
pacificate.
Vanno
inveceportateallaluce
della
coscienza
le
mutilazioni, le scissioni
e la degradazione che
la vita subisce e che la
grande arte di un
Kafka, di un Trakl, di
un Picasso o di uno
Schönberg
rappresentano.
La
conciliazione si può
concepire solo “al
marginedellapazzia”,4
in ciò che oggi è
schiacciato, oppresso,
impotente, individuale,
inutile,nonfungibilein
un
mondo
retto
dall’intercambiabilità,
dal
principio
di
equivalenza,
di
identità. In tutto quel
che è respinto alberga
la speranza che il
potere e la forza delle
cose, il destino di
quest’epoca,
non
abbiano per sempre il
sopravvento.
Solo
attraverso
questo
cumulo
di
dolore,
proiettandoci verso un
tempo che non è il
nostro,
potremo
intravedere
la
scomparsa
della
totalità antagonistica,
la redenzione della
particolarità, la pace
come “stato di una
differenziazione senza
potere, nel quale ciò
che è differenziato
reciprocamente
partecipa dell’altro”.5
Unicamentealloraavrà
fine
la
marxiana
“preistoria”
dell’umanità. Ma per
far questo bisogna
sottrarsi
alla
suggestione
dell’esistente,
stravolgerlo nella sua
ovvietà, mettere in
moto
la
“fantasia
esatta” che recuperi
quanto sino a oggi è
stato rimosso e tenuto
ai margini; sostituire
alla lotta di classe, che
si è interiorizzata, la
resistenzaaldominiodi
piccole
minoranze;
attivare,insostanza,la
ragionedialetticacheè
“l’irragionevolezza di
fronte alla ragione
dominante”6 e che –
dice
Adorno
in
polemica con Popper e
gli “scientisti” – non è
né
chiusa
olisticamente,
né
estranea
all’oggetto.
Anzi,
nella
sua
negatività, che non
accogliepassivamentei
dati sensoriali o le
tautologie come la
verità stessa, essa è
molto più rispettosa
della vita e delle
contraddizioni
dell’oggetto di quanto
non
lo
siano
le
concezioni
neopositivistiche
o
scientistiche,
disprezzate
dalla
dialettica, ma che, a
loro volta, considerano
la dialettica una serie
di
futili
svolazzi
retorici: “In un certo
senso
la
logica
dialettica
è
più
positivistica
del
positivismo, da lei
disprezzato:
essa
rispetta,
come
pensiero, quel che si
deve
pensare,
l’oggetto, anche dove
esso non segue le
regole del pensiero. La
sua analisi tocca le
regole del pensiero. Il
pensiero
non
è
costretto a contentarsi
della
propria
normatività; è in grado
di pensare contro se
stesso,
senza
rinunciare a se stesso.
Se fosse possibile una
definizione
della
dialettica si dovrebbe
proporre questa”.7 Il
pensiero
dialettico
cerca di pensare la
“storia congelata nelle
cose”, quel nocciolo
temporale del divenire
che gli scientisti si
nascondono e che
filtra, al di là di ogni
ideologia, nell’arte e
nel
pensiero
non
regolamentati,
procedenti
“per
intermittenze”,
tesi
versoil“nonancora”.
Tale congelamento
non è, appunto, un
destino: “Come la fine,
anche l’origine della
musicavaoltreilregno
delle intenzioni, ed è
imparentata al gesto,
strettamente affine al
pianto. Il gesto dello
sciogliere: la tensione
della
muscolatura
facciale cede, quella
tensione
che,
nel
volgere il viso verso
l’ambiente in vista
dell’azione, lo isola al
tempo
stesso
da
questo.
Musica
e
pianto schiudono le
labbraelascianolibero
l’uomo
che
trattenevano... L’uomo
chesilasciadefluirein
pianto e in una musica
che non gli assomiglia
più in nulla, lascia
contemporaneamente
rifluire
in
sé
la
correntediciòcheegli
non è e che aveva
ristagnato dietro lo
sbarramento
del
mondo degli oggetti
concreti.Colsuopianto
e il suo canto egli
penetra nella realtà
alienata”.8
Per
Adorno,
la
musica,alparidell’arte
in genere e delle
grandi filosofie, fa
parlare ciò che il
dominio e l’ideologia
nascondono sotto la
corazza dell’identità o
espungono
come
irrilevante e nocivo.
Per
la
necessità
dell’autoconservazione
l’umanità ha infatti
dovuto, ai suoi inizi,
resistere al richiamo
del diverso e al
carattere panico e
indistinto della natura.
Al canto delle Sirene,
Odisseo
reagisce
ordinando
ai
suoi
compagniditapparsile
orecchie con la cera e
diremarealacremente,
dopoessersilegato,lui,
libero
di
udire,
all’albero della nave.
Questa è la “preistoria
del soggetto”, che si
costituisce attraverso
una
separazione
traumaticadallanatura
interna ed esterna e
attraverso
la
fondazione di un polo
centralizzato
di
controllo in se stesso e
nella società, ma che
avverte pur sempre la
nostalgia per lo stadio
iniziale, il desiderio di
ritornare
a
esso:
“L’umanità ha dovuto
sottoporsi
a
un
trattamento
spaventoso,
perché
nascesse
e
si
consolidasse il Sé, il
carattere
identico,
pratico,
virile
dell’uomo, e qualcosa
di tutto ciò si ripete in
ogniinfanzia.Losforzo
di tenere insieme l’io
appartieneall’iointutti
i suoi stadi, e la
tentazione di perderlo
è
sempre
stata
congiunta alla cieca
decisione
di
conservarlo
[...].
L’angosciadiperdereil
Sé, e di annullare, con
il Sé, il confine tra se
stessi e il resto della
vita, la paura della
morte
e
della
distinzione,
è
strettamente congiunta
ad una promessa di
felicità da cui la civiltà
è stata minacciata in
ogniistante”.9
Più l’io è debole, più
tendeasottometterela
naturalità;eilpensiero
e il primato logico
dell’identità altro non
sono che il correlato
della
subordinazione
che la totalità sociale
esige
da
ciascun
individuo. La durezza
della lotta contro una
natura
ostile
e
strapotente
ha
richiesto sino a oggi
l’attribuzionealgenere
di
un
potere
di
coercizione
e
di
coesione che sacrifica
inevitabilmente
la
singolarità.
La
compattezza
della
totalità sociale e il
rafforzamento
dell’identità personale
assicurano
la
sopravvivenza
della
specie e degli individui
in un mondo ancora
conflittuale, al prezzo
però di una “vita
deteriorata” e della
rinuncia alla felicità
integrale,chebalugina,
come surrogato, nella
fantasia e nell’arte. La
pienezza della vita
possibile al di là dei
meccanismi
di
perpetuazionesocialee
di
dominio
viene
concessaapattochela
si dichiari ineffettuale,
pura illusione senza
pretesa di turbare la
serietàdelreale.
Vièstatounperiodo,
a
partire
dal
Rinascimento e per
tutta
l’epoca
del
capitalismo
di
concorrenza, in cui
l’individuo
si
è
parzialmente sottratto
al
comando
della
totalità identica, o
meglio:incuilatotalità
stessa del sociale,
spezzato a suo favore
l’equilibrio
con
la
natura,
ha
potuto
tollerare dentro di sé
un più accentuato
conflitto e legittimarlo.
Al culmine di questa
stagione
storica
abbiamo, sul terreno
pratico, lo sviluppo
della “piccola azienda
psicologica”
dell’individuo
e
lo
slancio delle forze
produttive
e,
sul
terreno teorico, la
dialettica di Hegel e di
Marx e la grande arte
dell’Ottocento. Ma poi,
con il sorgere del
capitalismo
monopolistico, dovuto
all’accrescersi
delle
tensioni economiche,
politiche e sociali, la
totalità si irrigidisce
nuovamente, penalizza
le
deviazioni
del
diverso,
cerca
di
cancellare
l’avviato
processo
di
individuazione,
nella
speranzadiconseguire,
mediante l’abolizione
della spontaneità del
comportamento
dei
singoli,
il
rafforzamento
delle
strategie anti-crisi. La
“piccola
azienda
psicologica” fallisce e
viene sostituita dal
“grande
magazzino”
della
coscienza
manipolata10 e quegli
stessi
valori
che
avevano
fornito
il
propellente
indispensabile
al
decollo del capitalismo
di
concorrenza
(individuazione,
autodeterminazione,
libertà di pensiero,
conflittualità) sono ora
condannati come un
lusso
antiquato
e
dannoso. Dal soggetto
autocosciente,
propugnato
dall’idealismo classico
tedesco, si ritorna così
alla sostanza amorfa,
alla
comunità
conformistica
americana,
alla
Gleichschaltung, ossia
al livellamento coatto
nazionalsocialista o al
partito dai mille occhi
dibrechtianamemoria.
In ogni caso, con le
catene della paura o
con quelle dei bisogni,
l’essere sociale viene
indissolubilmente
legato alla coscienza.
La “struttura” penetra
e
pervade
la
“sovrastruttura”,
facendocadere,dauna
parte,
l’apparenza
residua di una zona
autonoma rispetto alla
sfera economica, ma
appiattendo,insieme,il
singolo
a
mero
portatore
dei
meccanismi economici,
così da inceppare in
esso
il
motore
soggettivo
del
mutamento, che aveva
iniziato a operare a
basso
regime
con
l’individuazione. Una
volta
lacerati
gli
involucri
protettivi
dell’individuo
–
autonomia soggettiva,
famiglia,
amore,
amicizia, solidarietà di
classe – questi viene
ancora una volta a
trovarsi
a
diretto
contatto
con
la
primordiale
totalità,
chepiegailparticolare
al “cattivo” universale.
La
parabola
del
“rischiaramento”
(Aufklärung) porta da
unabarbarieaun’altra,
dalla rozzezza naturale
a quella pianificata. E
nel clima della dotta
barbarie del presente
la
rivoluzione
è
aggiornata a una data
daprecisare.
Solo
piccole
minoranze
possono
contrastare
l’oppressione vigente,
con una resistenza
quantitativamente
debole, ma certo ben
più che simbolica. Al
concetto di lotta di
classe
Adorno
contrappone quello di
resistenza al dominio;
alla lotta collettiva e
organizzata,
quella
singola o di ristretti
gruppi; alla guerra di
movimento,
per
servirci
della
terminologia
gramsciana, quella di
posizione, in trincee
sparse.
La
“realtà
bloccata” può essere
lentamente fluidificata
solo
dall’opera
di
pochi, dei reietti, degli
eretici,deiperseguitati
da questo ordine: “I
deboli, gli impotenti,
chelastoriahagettato
in
un
canto
e
annientato secondo il
verdetto di Spengler,
personificano
negativamente, nella
negatività
di
tale
civiltà,
ciò
che
permette
sia
pur
debolmente
di
spezzarne l’imperio e
dimetterfineall’orrore
della preistoria. Nella
loro protesta vi è
l’unica speranza che
destino e potere non
abbiano
l’ultima
parola”.11
Il soggetto storico
dell’emancipazione, il
proletariato,
sembra
essere
divenuto
incapace, in quanto
tale, di opporsi alla
potenza dell’esistente,
compresso com’è tra
socialismo burocratico,
enfatizzazione
dei
consumi e terrore
fascista. Del resto, la
degradazione della vita
si manifesta in mille
modie“malata”appare
spesso anche “ogni
cosa che diviene”,
perché il nuovo si fa
strada a fatica tra
vincoli,
sbarramenti,
arretramenti e sentieri
che non conducono da
nessuna parte. In una
impietosa e insieme
commossa
fenomenologia
dell’esistenza
quotidiana,
si
squadernano dinanzi
agli occhi di Adorno
tutte le miserie e i
vuoti mascherati da
maggiore libertà e
immediatezza che la
logica
“capitalistica”
dell’identità (in quanto
scambio di equivalenti
in cui la sottrazione di
plus-valore
viene
cancellata)promuovee
fa penetrare sino alle
più
intime
manifestazioni
della
coscienza individuale e
del
comportamento
sociale: gli uomini
disapprendono l’arte
del dono, giacché “c’è
qualcosa di assurdo e
di incredibile nella
violazione del principio
di scambio; spesso
anche
i
bambini
squadrano diffidenti il
donatore, come se il
regalononfossecheun
truccopervendereloro
spazzole e sapone”. La
ricerca
di
una
maggiore comunione
traindividuipriviormai
di spontaneità e di
legami
affettivi
profondi
avviene
attraverso la falsa
vicinanza
di
un
“cameratismoabasedi
spintoni”, il quale “non
è che un altro segno
della
crescente
impossibilità
della
convivenza
umana
nelle
attuali
circostanze”.12
Contro la scomparsa
virtuale
e
l’ottundimento
dell’esperienza,
la
filosofia
e
l’arte
possonocostituiredegli
antidoti,
la
prima
mitridatizzando
gli
uomini nei confronti
della“strapotenzadella
suggestione”
che
l’esistente emana, la
seconda presentandosi
come il “luogotenente”
del soggetto collettivo
autentico
ma
non
ancora
apparso.
Filosofia e arte devono
stravolgere l’apparente
ovvietà e immutabilità
del reale, indicare
soprattuttolesuelinee
di frattura latenti e
visibili, il suo essere
solcato
da
contraddizioni per il
momento
incomponibili. Fin da
giovane Adorno ha
affermato
di
aver
utilizzato un’idea per
lui
fondamentale,
quella di una “logica
della disgregazione”,
che egli ebbe modo di
vedere all’opera non
solo nelle avanguardie
musicali viennesi, nelle
tecniche
dodecafoniche,
ma
anche nelle filosofie
“atonali”
di
un
BenjaminodiunBloch
o nella pittura di un
Picasso. La “dialettica
negativa”, che rinuncia
alla
conciliazione
attuale,
è
di
conseguenza
lo
strumento
per
scardinare la presunta
impenetrabilità
e
intrasformabilità
del
reale, per svelare –
purtroppo ancora a
pochi–comeilgigante
del dominio abbia i
piedi d’argilla e la sua
durata
dipenda
dall’assenso
involontario o estorto
degli
oppressi.
Teoricamente essa è la
“coscienza
conseguente della non
identità”,
ma
la
“speranza
della
conciliazione
accompagnailpensiero
inconciliabile”.
La
dialettica
negativa
deve risarcire il nonidentico per la sua
eliminazione
dalla
totalità vigente, deve
far leva su quanto
ancora resiste nella
periferia della realtà o
combatte contro di
essa,sull’“aconcettuale
individuale
e
particolare”
per
esprimere
così
la
“storia congelata delle
cose”,
sciogliendo
l’identità, la totalità e
la reificazione sociale
con l’acido corrosivo
delle contraddizioni. I
residui
dell’attuale
società sono il lievito
della società futura,
non la sua completa
configurazione. E la
lotta
per
il
suo
concreto albeggiare è
fattiva,nonbanalmente
utopica,
non
inevitabilmente votata
allasconfitta.
1 G. Lukács, Storia e
coscienza di classe,
SugarCo, Milano 1967,
p.77.
2Ivi,p.80.
3Ivi,p.XXI.
4
Th.W. Adorno,
Filosofia della musica
moderna
(1949),
Einaudi, Torino 1959,
p.130.
5
Id., Epilegomeni
dialettici, in Parole
chiave. Modelli critici,
cit.,p.214.
6
Id.,
Minima
moralia‚cit.,p.68.
7
Th.W. Adorno,
Dialettica
negativa
(1966), Einaudi, Torino
1970,p.126.
8 Id., Filosofia della
musica moderna‚ cit.,
pp.129-130.
9
Th.W. Adorno,
Dialettica
negativa‚
cit.,p.165.
10
Cfr.
M.
Horkheimer,
Th.W.
Adorno,
Dialettica
dell’illuminismo(1947),
Einaudi, Torino 1972,
p.216.
11
Th.W. Adorno,
Prismi. Saggi sulla
critica della cultura
(1955), Einaudi, Torino
1972,p.63.
12 Th.W. Adorno,
Minima moralia‚ cit.,
pp.32,27.
VII.Ilmondoelo
sguardo
1.Husserl:lavisione
dellacosa
Compiamo
ora
un
passo
indietro
nel
tempopervederecome
i “filosofi puri” hanno
affrontato il rapporto
soggetto-oggetto – lo
sguardo e la cosa – e
tentato di fondare
nuove
certezze.
Ripartiamo da Husserl,
in cui il superamento
dello psicologismo, del
relativismo storicistico
e della opposizione
soggetto-oggetto
è
ottenuto grazie a una
complessa
strategia
conoscitiva
che
introduce la coscienza
comune
al
sapere
scientifico, la guida
verso punti di vista più
alti, strappandola, non
senza violenza, al suo
spontaneo
atteggiamento
naturalistico per cui la
realtàèsemplicemente
davanti a noi e non si
deve far altro che
rifletterla. Ma “una
realtà assoluta vale
quanto un quadrato
rotondo.
Realtà
e
mondo sono per noi
titoli di determinate
unità
di
‘senso’,
relative a determinati
nessi significativi della
coscienza pura, i quali
conferiscono appunto
questo senso e non un
altro e ne mostrano la
validità”.1 Questo non
significa cadere in un
idealismo
di
tipo
berkeleyano
o
dichiarare il mondo
prodotto
della
coscienza. Vuol dire
soltanto
che
la
coscienza
è
“intenzionalità”,
è
sempre coscienza di
qualcosa, dimodoché
nonesistedaunlatola
coscienzaedall’altrola
cosa, da una parte il
soggetto e dall’altra
l’oggetto, ma sempre
un legame bipolare
inscindibile
e
costitutivo. E noi non
abbiamo soltanto la
percezione sensibile di
dati individuali, ma
anche la percezione
direttadegliuniversali,
la
visione
delle
“essenze”, degli eide,
che
riceviamo
nel
pensare. Nell’atto del
pensare siamo quindi
passivi,
non
partecipiamo
alla
costruzione
dei
concetti della logica
pura,maneaccettiamo
ladatità.
Adorno ha visto in
tale impostazione una
forma di terrorismo e
di“assolutismologico”,
per cui la verità
diventa qualcosa di
sovrumano
che
si
impone alla coscienza
con una evidenza priva
di
mediazioni,
il
congelamento
in
essenze eterne del
movimentodellecosee
dellastoria,cheriflette
l’avvenuta abdicazione
della
soggettività
borgheseaunapotente
totalità
sociale
anonima. La visione
delle
essenze
e
l’epoché
(ossia
la
tematizzazione
dell’indagine
attraverso la messa tra
parentesi
dell’atteggiamento
naturale) sono per
Adorno la negazione
della dialettica e il
prevalere
della
staticità:
“Pari
al
fotografo di vecchio
stampo,
il
fenomenologo
si
ammanta col panno
nero della sua epoché,
scongiuraglioggettidi
restare immobili e
immutati e alla fine
realizza passivamente,
senza la spontaneità
del
soggetto
conoscente, ritratti di
famiglia, come quello
della madre, ‘che posa
lo sguardo affettuoso
sulla schiera dei suoi
piccoli’ ”.2 Ma in
Husserl c’è dell’altro:
si tratta di vedere, di
lasciarsi
impregnare
dal
mondo,
sospendendo
il
giudizio,
dando
nuovamente
voce
all’oggetto,
riscoprendo il senso e
l’ordine delle cose, che
il modificarsi continuo
dei
sistemi
di
riferimento
e
di
appoggio
ha
reso
incerti e problematici.
L’analisi
eidetica
riproduce a un più alto
livello di intellegibilità
quell’ordine
che
l’epoché
aveva
sospeso. Il metodo
fenomenologico
si
presentacosìcomeuna
continua donazione di
senso a un’esperienza
muta o che tende a
diventar tale nella
coscienza
comune.
Quest’ultimapuò,come
Orfeo, salire dagli
Inferi del “vissuto”
versoilluminosoregno
delle
essenze,
del
sapere, solo se è
capace di non voltarsi
indietro,
di
non
ripiombare
nell’atteggiamento
naturale. In tal modo,
compiendo uno sforzo
per disancorarsi dalla
spontaneità
delle
abitudini, le risulterà
evidentecheglioggetti
non
esistono
per
natura, che sono unità
intenzionali,
punti
nodali della rete di
coordinate con cui il
mondo
viene
strutturato. Ma come
orientarsi in esso?
Come
separare
l’intenzione conoscitiva
(che non ha per la
maggior parte degli
uomini una particolare
eccellenza o costanza)
dalle altre modalità di
riferimento al mondo?
E come ritrovare, al di
sotto
delle
stratificazioni culturali
e storiche, il sostrato
materiale della “cosa”?
Ilmondocircostanteha
diverse valenze, anche
pratiche: “Esso mi è
costantemente
‘alla
mano’, ed io stesso
sonounsuomembro.E
mi è dinanzi non
soltanto
come
un
mondodicose,ma,con
la
medesima
immediatezza, anche
come un mondo di
valori, mondo di beni,
mondopratico.Davanti
a me trovo le cose
fornite di caratteri di
valore,
come
le
proprietà fisiche, belle
e brutte, piacevoli e
spiacevoli, gradite e
sgraditeecc.Lecosesi
presentano
immediatamente come
oggetti
d’uso,
la
‘tavola’ con i suoi
‘libri’, il ‘bicchiere’, il
‘vaso’, il ‘pianoforte’
ecc.
Anche
questi
caratteri assiologici e
pratici appartengono
costitutivamente agli
oggetti come tali, che
io presti o non presti
attenzione ad essi e
agli oggetti. E, come
per le mere cose, ciò
vale
naturalmente
anche per gli uomini e
gli animali che mi
circondano e riguardo
al
loro
carattere
sociale. Essi sono miei
‘amici’ o ‘nemici’, miei
‘inferiori’ o ‘superiori’,
‘estranei’ o ‘parenti’
ecc.”3;
“L’uomo,
essendo un ‘corpo
vivo’, è anche soggetto
di bisogni, è immerso
in un sistema di
dipendenze che lo fa
agire in vista del
conseguimento di uno
scopo, è circondato da
oggetti utili che hanno
il carattere di ‘merce’
”.4
Ma se io voglio
conoscere
la
costituzione materiale
della cosa (impresa a
cui Husserl si dedica
già nella Lezione sulla
cosa del 1907 e nelle
IdeeII)devopenetrare
al di sotto di queste
valenze individuali e
sociali sino a coglierne
lo strato di materialità
che la distingue dal
puro fantasma, cioè
dalla“datitàprivadello
strato di apprensione
della
materialità”.
Prendiamo l’esempio
del colore, affrontato,
oltre che nelle Idee II,
anche
in
un
manoscritto in parte
ancora inedito del
1910, Fantasma e
cosa,5 e poniamoci la
semplice domanda di
sapere qual è il colore
di un oggetto. Intanto,
ladistinzionetraforma
e colore di una cosa si
trasforma
fenomenologicamente
nella differenza tra
“colore”
e
“colorazione”, ossia tra
il colore e la sua
estensione. In secondo
luogo, poiché il colore
si dà soltanto in
presenza di una fonte
luminosa, il colore
dipenderà dalla sua
illuminazione
e
si
presenterà, col suo
variare,
in
“adombramenti”
sempre diversi. Ma noi
attribuiamoalcorpoun
colore oggettivo, le cui
modificazioni vengono
imputate a elementi di
disturbo. Una cosa
avrebbe così sempre
uno stesso colore, sia
nel buio di un armadio
che in una luce fioca e
inpienosole.Inrealtà,
però,
il
colore
oggettivo attribuito a
una cosa è una norma,
è un pensato e non un
visto. Noi stabiliamo
delle
condizioni
ottimali e normali che
determinano il colore
dell’oggetto:
“Così
certe
condizioni
risultano essere le
condizioni ‘normali’: la
visione nelle condizioni
costituitedallalucedel
sole e da un cielo
chiaro,
senza
l’intervento di altri
corpi capaci di influire
sul
colore
dell’apparizione.
L’‘optimum’ che viene
cosìottenutovalecome
il colore stesso, a
differenza per esempio
del rosso di sera che
‘soffoca’ tutti i colori
propri del corpo. Tutti
gli altri colori della
qualità
sono
un
‘aspetto
di’,
‘apparizioni di’ questo
privilegiato
colore
dell’apparizione”.6
La“cosa”sipresenta
così
come
unità
normativa che rimane
uguale in tutte le sue
modificazioni
(che
possono sempre essere
eliminate ripristinando
lecondizioniottimali)e
che, a differenza del
“fantasma”,
produce
intreccicausali,agisce.
Ilnonavercapito,da
parte delle scienze
naturali, il carattere
costitutivo delle cose,
l’averle
intese
naturalisticamente, ha
portato
a
un
oscuramento del senso
della
razionalità
europea. La crisi delle
scienze europee (libro
composto tra il 1935 e
il 1937, ma uscito solo
nel 1954) descrive
appunto
questo
smarrimento,laperdita
dello
slancio
teleologico.
In
quest’epoca tragica, in
cui
i
totalitarismi
dilagano
e
la
razionalità
sembra
servire solo a fini
distruttivi o essersi
postaadisposizionedel
potere,lascienzahale
sue responsabilità, in
quantohacontribuitoa
trattare anche l’uomo
come cosa. I filosofi,
questi
“funzionari
dell’umanità”,7 devono
comprendere il perché
dellacrisiecontribuire
alla sua soluzione,
indicando nel “mondo
dellavita”(Lebenswelt)
il
fondamento
dimenticato
delle
scienze, l’origine delle
loro domande. Ora la
filosofia non è più
considerata da Husserl
come una “scienza
rigorosa”, ma come
oltrepassamento
pratico
del
naturalismo.8
Nel 1917, quando
Husserl
conia
il
neologismo
Lebenswelt,essohagià
assunto il carattere di
sintomo. Rivela infatti
laprofondafratturatra
l’atteggiamento teorico
di chi si rivolge al
“mondo”, alla totalità
del reale, e di chi
invece si situa nel
“mondo della vita”, al
centro cioè di un
“orizzonte di cose che
non sono meri corpi,
bensì
oggetti
di
valore”.
La
prima
attitudine espunge il
soggetto,
considerandolo
con
distaccounoggettotra
gli altri; la seconda
ritesse
incessantemente
la
fitta rete di rapporti
conoscitivi e affettivi
entro cui il soggetto è
di fatto impigliato nel
mondo. L’una si fonda
sulla
categoria
di
“causa” e si sforza di
assegnare un senso
preciso
ai
singoli
fenomeni; l’altra si
appoggia sul criterio
della “motivazione” e
interroga i fattori che
inducono il soggetto
stesso “a pensare, a
valutare, a desiderare,
ad agire”. La condotta
di quanti operano sul
piano
dell’oggettivazione del
mondo
tende
a
racchiudere ogni ente
ed
“essenza”
nell’ambito
dell’univocità;quelladi
coloro che si sentono
inseriti
nella
Lebensweltmirainvece
a
conservare
una
tollerante apertura nei
confrontidellapluralità
di
significati
dell’esperienza,
dei
diversi livelli di realtà.
I soggetti capaci di
comunicare
informalmente senza
porsi troppi problemi
ma
anche
senza
trincerarsi
nella
dimensione
dell’ineffabile,
gli
uomini che patiscono e
agiscono a diretto
contatto con il loro
mutevole
ambiente
sono in genere gli
stessi
che
–
in
determinate culture e
circostanze–indossano
i “paraocchi abituali”
dello
scientismo
naturalistico, credendo
così di elevare il loro
pensiero al di sopra
dell’opacità
dell’esperienza
irriflessa.
Una
domanda appare in
Husserl
sin
d’ora
abbozzata:
l’atteggiamento
teoretico oggettivante
è l’unico consentito al
sapere della specie
umana o si può
ipotizzare un tipo di
conoscenza altrettanto
efficace, che non sia
riconducibile, da un
lato, all’oggettivazione
e,
dall’altro,
alle
torbide intuizioni del
vitalismo
indistinti
soggettivi
o
agli
barlumi
dell’Erlebnis?9Chetale
ardua impresa sia
destinata anch’essa a
rimanereincompiutalo
dimostrano tanto il
lungo percorso che
conduce Husserl alla
Crisi delle scienze
europee (e oltre, sino
alle
ultime
conversazionitrascritte
dalla sorella), quanto il
privilegio accordato al
termine
stesso
di
Lebenswelt. Prima di
ricevere pieni diritti di
cittadinanza
linguistica, il vocabolo
dovevaapparireamolti
un ibrido mostruoso,
un
“centauro
concettuale”, composto
daWelt,chealludealla
totalità
compatta,
durevole, corposa del
“mondo” e da Leben,
che
rinvia
alla
multiforme,
fragile,
caduca finitezza della
“vita”.
Rinunciando
provvisoriamente
ai
vantaggi
garantiti
dall’ordinato universo
delle scienze, Husserl
rischia di cadere o nel
relativismo o nelle
nebulose
filosofie
dell’intuizione,
in
quelle
forme
di
pensiero che ha cioè
sempre aborrito. In
esse
ogni
cultura
umana – secondo le
dottrine di Spengler o
di Toynbee –, isolata
dalle altre, accampa le
medesime pretese di
legittimazione.
Qualsiasi canone per
misurare il grado di
attendibilità
di
pregiudizi, opinioni e
valori o per discutere
idee, costumi, stati
d’animo
risulta
pertanto infondato. Se
il coinvolgimento della
filosofia nel mondo
della vita superasse
dunque – nella Crisi
dellescienzeeuropee–
un determinato livello,
tuttociòchecostituisce
il lato di contingenza e
di
arbitrarietà
del
vissuto riacquisterebbe
quella forza e quel
prestigiochelascienza
moderna è riuscita a
strappargli dopo dure
lotte. In questo caso,
l’universalità
della
“coscienza
trascendentale”
–
l’irriducibilità
della
coscienza a oggetto,
che accomuna tutti gli
uomini – verrebbe
distrutta a beneficio
della
molteplicità
empirica di soggetti
psicologici irrelati e di
civiltà
che
si
proclamano
sovranamente
incommensurabili.
Il
discorso
e
la
comunicazione
sarebbero
consentiti
solo grazie al fatto di
condividere
determinati vissuti e
specifiche tradizioni,
spontanee o indotte.
Diventerebbero
una
mera questione di
appartenenza e di
omogeneitàculturaleai
differenti
gruppi
umani. Lo strumento
della
“riduzione
fenomenologica”
permette comunque a
Husserl
una
via
d’uscita da queste
difficoltà.Glilasciauna
ragionevole speranza,
chesimanifestainuna
parafrasi del detto
evangelico “chi perde
la propria vita, la
salverà”.Laperditadel
mondodellavita–ossia
la sua messa tra
parentesi
attraverso
l’epoché – diventa in
effetti la premessa
della sua riconquista.
Grazie al patrimonio di
universalità
accumulato
dal
“soggetto
trascendentale”
che
rifletteradicalmentesu
se stesso ed esibisce
cosìleformeeleviedi
donazione del senso,
anche il mondo della
vita è riscattato e
illuminato.
Sospendendo
provvisoriamente
il
giudizio
si
rende
problematica l’ovvietà.
Si
inibiscono
simultaneamente tanto
la
prevaricazione
soggettivistica,
che
tende a proiettare
abitudinariamente
e
fantasmaticamente
sulla “cosa” schemi
percettivi,
pensieri
consolidati e interessi
provenienti dal mondo
della vita, quanto la
tentazione
oggettivistica che (al
fine di conservarle lo
strato di apprensione
della materialità) le
sottrae
poi
la
complessità
delle
dimensioni e la varietà
degli approcci per
privilegiare
come
normativo un solo
atteggiamento
e
squalificare
di
conseguenza tutti gli
altri.
L’epoché
consente di ascoltare
nuovamente l’intreccio
divocichevengonodal
polo della cosa e da
quello del soggetto, di
rinegoziare il senso al
di fuori dell’obbligo
dell’ovvietà.
2.Schütz:migrazionidi
senso
Nel
sociologo
e
filosofo
austriaco
Alfred
Schütz
l’indistinto e unitario
mondo
della
vita
husserliano (rimasto,
peraltro, in Husserl
sostanzialmente
inesplorato nella sua
concretacartografia)si
articola e si specifica.
Non assume l’aspetto
di “sub-universi di
realtà”,
come
in
William James, ma di
“province finite di
significato”, ciascuna
dotata di una sua
autonomia. Ognuna è
un universo simbolico,
virtualmente
autosufficiente,entroil
quale si resta, sino a
quando un trauma, un
passaggio brusco e
discontinuo, un “salto
kierkegaardiano”, non
induca a varcarne i
confini: “Vi sono tanti
innumerevoli generi di
esperienzetraumatiche
quante sono le diverse
province
finite
di
significatosullequaliio
posso porre l’accento
della
realtà.
Ecco
alcuni
esempi:
il
trauma
di
addormentarsi
come
salto nel mondo dei
sogni;
la
trasformazione
interiore cui noi siamo
sottoposti quando si
alza il sipario come
transizione nel mondo
del palcoscenico; il
mutamentoradicaledel
nostro atteggiamento
se, dinanzi a un
quadro, facciamo in
modo che il nostro
campo visivo si limiti a
ciò che è dentro la
cornice,
come
passaggio nel mondo
pittorico; il nostro
imbarazzo,
che
si
rilassa nel ridere, se,
nel dare ascolto a una
storiascherzosa,siamo
per
un
momento
disposti ad accettare il
suo mondo fittizio
come una realtà in
relazione a cui il
mondodellanostravita
quotidiana assume un
carattere di assurdità;
il volgersi del bambino
verso il suo giocattolo
come passaggio al
mondo del gioco e così
via”.10
All’interno di ciascun
mondo
tutte
le
esperienze sono di per
se stesse coerenti e
compatibili fra loro.
L’epoché
segna
il
confine fra le diverse
province:
noi
emigriamo
continuamente
e
rientriamo da questi
altri mondi. Dividiamo
l’esperienza secondo
zone di significato, per
cuiidiversimondisono
costituiti
da
agglomeratidisenso,e
nondaunamolteplicità
di elementi eterogenei
raggruppati a caso la
cui sintesi spetta all’io.
La società stessa –
come mostrano gli
articoli
di
sapore
simmeliano
Lo
straniero: saggio di
psicologia sociale e Il
reduce – è infatti già
virtualmente
in
possessodegli“stampi”
di riproduzione dei
mondi psicologici e
istituzionali deputati a
filtrare gli eventi. Ciò
avvienesecondoregole
che
catturano
la
ricchezza di significati
spalancata
dalla
moltiplicazione
delle
sfere di realtà. Solo il
mondo
vitale
del
quotidiano
(che
Husserl peraltro non
distingueva dal mondo
della vita) riesce a
esercitare un dominio
sulle altre province di
senso, proclamando la
sua “suprema realtà” o
paramount reality. La
scienza è per Schütz
una
delle
tante
province di significato,
che non ha una
superiorità
assoluta
sullealtre,maacuisiè
richiamati dal variare
degli interessi, dei
“criteri di rilevanza”. Il
passaggio dai vari
mondi
vitali
alla
dimensione
della
scienza non è un
passaggio dal noto al
conosciuto, dal senso
alla
verità,
bensì
un’apertura da ciò che
è più o meno familiare
a ciò che non lo è, ma
chepuòdiventarlo:“La
familiarità[...]indicala
possibilità di riferire
nuove esperienze, per
quel che riguarda la
loro tipicità, al mio
fondo
abituale
di
conoscenza
già
acquisita. [...] Ogni
esperienza
che
è
entrata a far parte del
nostro
possesso
abituale (e perciò ci è
familiare) porta seco
l’anticipazione che, in
linea
di
principio,
riconosceremo
certe
futureesperienzecome
riferentesi ai medesimi
oggetti
precedentemente
esperiti, o almeno ad
oggetti
che
sono
identici o tipicamente
simili”.11
L’“accento
della
realtà” si sposta e si
ritira da una provincia
finita di significato
all’altra.Ogniprovincia
finita di significato ha
ora la sua specifica
tensione
della
coscienza,
la
sua
specificaepoché,lasua
specifica modalità di
percepire il Sé, la sua
specifica socialità e la
sua
specifica
temporalità
che
stabilisce
la
successione
o
la
simultaneità
dei
fenomeni. La recente
ripresa
di
tali
tematiche conduce a
unasdrammatizzazione
del transito attraverso
le varie “province di
significato”. Così in
PeterBerger,sociologo
tedesco
trapiantato
negliStatiUniti,nonvi
èpiùbisognoditraumi
per passare da un
mondovitaleaunaltro.
Inunasocietàmoderna
e urbanizzata, noi
siamo già, da subito,
all’interno della loro
molteplicità e nell’area
delle loro intersezioni,
inquantoimondivitali
non appaiono così
separati e compatti
come accadeva nelle
società
tradizionali.
Sono semmai diventati
tra loro estranei o
indifferenti. La nostra
attuale
esistenza,
specie nelle metropoli,
ci
introduce
incessantemente
e
ormai
quasi
impercettibilmente in
piùmondi,lecuisoglie
oltrepassiamo
continuamente e che
continuamente
intersechiamo (più che
unarotta,sidirebbeun
sistema
di
scambi
ferroviari). Non esiste
più
alcun
mondo
autentico,
non
manipolato,
da
contrapporre al mondo
non
autentico:
la
coscienza è costituita
da un assemblaggio di
“pacchetti” (packages)
di consapevolezza preconfezionati, forniti dai
mondi
vitali
di
appartenza, che non
abbiamo il tempo, la
voglia o la competenza
peraprireecontrollare
criticamente, essendo
già un’impresa faticosa
imparare
saperi
formalizzati, pratiche e
professioni.12
Essi
vengono tenuti insieme
sino a quando le
dissonanze cognitive o
morali non diventano
troppo
stridenti,
impedendo
un
fruttuoso “accesso alla
realtà”.
Si scoprono nelle
società occidentali i
vantaggi
e
gli
svantaggi
della
modernità: da un lato
la
coscienza
componenziale,
dall’altro la coscienza
aperta, che non si
sente più legata alla
sua collocazione nella
paramount reality del
mondo
quotidiano.
Possiamo
pensarci
come
forniti
di
biografie
differenti,
immaginare
come
potremmo essere o
diventare,
distanziandoci
dall’identitàodalruolo
attualmente ricoperti e
scoprendo o attivando
molti io potenziali
attraverso
un
più
accentuato
dispiegamento delle if
attitudes
(dell’immaginare
i
“se...”). È necessario
un Io componenziale,
smontabile,
che
permetta
simmetricamente
la
transizione “morbida”
da un mondo vitale
all’altro, evitando le
crisididisadattamento.
Dobbiamo trovarci “a
casa” in più mondi
possibili,
il
che
equivaleadirechenon
dobbiamo avere una
casa,
che
siamo
homeless.
Da
tale
punto di vista, la
moltiplicazione
delle
sfere di realtà sembra
spostare i problemi
invece di risolverli.
Frantumata in una
pluralitàdimondivitali
coesistenti
e
compossibili,
l’husserliana
Lebenswelt
conduce
alla fine a mondi
divergenti
e
incongruenti,
“ingovernabili”.
La
casa diventa però un
edificio a più stanze e
la
“provincia
dell’uomo” si estende
sino a trasformarsi in
un
mappamondo
colorato che ingloba
tuttiiterritoriseparati.
InBergerimondivitali
–
diversamente
dall’accento posto da
Husserl e da Schütz
sulla
loro
relativa
stabilità – subiscono in
effetti
incessanti
trasformazioni,
molecolari
o
catastrofiche,
che
ritraducono
e
riqualificano i loro
contenuti e le loro
forme.
Siamo,
di
conseguenza,
circondati non solo da
innovazioni
e
ibridazioni, ma anche
da
simboli
morti,
soggetti
a
depotenziamento e a
declassamento,
che
sopravvivono
incapsulatinellepieghe
dei nostri mondi vitali.
Questi risultano, a loro
volta,
percorsi
da
continui
flussi
di
investimento
e
disinvestimento
di
senso, da atti di
significazione e da fasi
di oblio, attraversati o
punteggiati da spazi o
enti contigui ma non
comunicanti.
Sotto
questo
profilo,
l’esperienzasipresenta
anche come un viaggio
entro i diversi mondi
della
vita
del
quotidiano e dell’extraquotidiano,
una
migrazione tra sfere di
senso
talvolta
dissonanti
che
inducono l’individuo a
comporredasé,conun
margine sempre più
ampio
di
discrezionalità,
il
proprio “piano di vita”
come
integrazione
continuadisegmentidi
mondi
vitali
e
costruzione di una
identità
mobile,
disincantata o tragica.
Al
pari
dell’eroe
omerico o del moderno
protagonista
dell’Ulysses di Joyce,
esperire
significa
acquistare
la
competenza necessaria
a
distinguere,
a
penetrareeacapiregli
innumerevoli
mondi
della vita (presenti e
vicini, scomparsi e
lontani,
“reali”
o
“immaginari”)
che
vengono
percorsi
rispettivamenteindieci
anni di peregrinazioni
per mari e terre
sconosciute o nell’arco
di ventiquattro ore,
negli anfratti o nei
luoghi aperti della
propria
città.
Analogamente
ai
personaggi di Beckett,
in cui “il soggetto
muore prima di aver
raggiunto il verbo”,13
nel duplice senso che
rimane
sempre
incompiuto (in quanto
non raggiunge mai il
verbo per eccellenza,
l’essere, o l’azione) e
che non riesce mai a
completare una frase
sensata,
a
dire
qualcosa che valga la
pena di esser detto: si
rischia di morire senza
memoria
e
senza
coscienza,inunmondo
della vita in cui
l’assurdo e l’ovvio
scambiano i loro ruoli,
in cui si aggirano
uominiridottialarve,a
“non-io”, Not-Me, felici
soltanto
nell’oblio
inebetito
e
nella
negazione del mondo e
deisuoirapporti(come
in Murphy o ne
L’Ultimo nastro di
Krapp).
La teoria dei mondi
vitali
pone
indirettamente
problemi filosofici di
importanzadecisiva.Se
si
nega
infatti
l’esistenza di un’unica
realtà e si sostiene
invece che ne esistono
molte, ciascuna delle
quali
occupa
una
diversa e specifica
provincia di senso, si
incrinano ipotesi e
soluzioni che a lungo
hanno legittimato i più
diffusi modi di pensare
e le più svariate
pratiche politiche e
religiose. Quando il
mondo
cessa
di
rappresentare un tutto
coerente,
che
si
articola secondo un
ordine mirabile, dotato
di intrinseca bellezza e
razionalità
(quando
perde cioè gli attributi
che lo costituivano
quale
kosmos
o
mundus), anche le
opposizioni canoniche
di natura e artificio,
verità
come
adeguamento
a
strutture
oggettivamente
vincolanti e verità
come costruzione della
mente, finiscono per
perdere la propria
ragion
d’essere.
L’alternativa non è
inoltrepiùquellasecca
tra pluralità dei mondi
e mondo al singolare,
tra vite parallele e vita
unica, tra identità
assoluta
e
“uno,
nessuno e centomila”,
tra realismo e utopia.
Tutto
diventa
incomparabile,
incommensurabile.
Senza un’unica realtà
da
rispettare,
rispecchiare
e
trascendere, il solo
movimento
possibile
risulta il passaggio
“orizzontale” da un
mondo vitale all’altro.
Questo transito rende
superflua la fatica di
chi intende dimostrare
che il mondo nel suo
complesso
procede
verso una determinata
direzione,
squalificando
indirettamente
ogni
ricerca di autenticità e
persino la risposta –
con il vocabolario di
Simone Weil – al
déracinement,
allo
“sradicamento”,
mediante un nuovo
enracinement
o
“radicamento”.
La
ricerca delle radici si
presenta come un
rimedio patetico alla
dilagante impressione
di perdita di un
articolato e perspicuo
mondo della vita, della
propriadimora,perdita
avvertita – di volta in
volta
–
nichilisticamente come
luttuosaoserenamente
comeinevitabile.
Tanto
Husserl
quanto, in maggior
misura, Schütz non
procedono
nella
direzione
di
un
“reincantamento” del
mondo, di un salto
nello straordinario o di
una
creazione
di
nicchie protette come
quelle descritte dalla
più attenta sociologia
contemporanea,
allorché individua, ad
esempio, nello spazio
concavo e protettivo
dei bar della grande
metropoli un vero e
proprio
microcosmo,
un piccolo mondo della
vita,inquantoluogodi
distensione
e
di
conflitto, di attività
lecita
e
illecita,
surrogatodellacasaed
evasione
da
essa.
All’interno di questo
“sub-universo”direaltà
valgonoregoleecriteri
dirilevanzachealtrove
sarebbero impensabili:
si parla più facilmente
con degli sconosciuti,
ci si lascia trasportare
dalla casualità degli
incontri, si abbordano
donne e uomini, si
raccontano
storie
incontrollabili
sulla
propria
esistenza,
leggende
come
proiezione
di
desiderio.14
Ma
Husserl o Schütz non
mostrano
neppure
atteggiamenti
di
disprezzo,
di
commiserazione o di
sufficienza
per
la
quotidianità,
come
accade
invece
nell’analisi
che
Heidegger compie del
“si”
(Man),
dell’adeguarsi
cioè,
nella
“chiacchiera”,
dell’individuo
all’impersonale
pensare e agire di
“tuttienessuno”(come
nelle locuzioni “si dice
così...”, “si fa così...”).
Essi
non
temono
l’“americanizzazione
del mondo”, il dominio
della società di massa,
sebbene
–
per
contrasto – non siano
però in grado di
avvertire l’ambigua e
disperata
protesta
dell’individualità, del
“se-stesso” autentico
che non si rassegna al
suo tramonto nella
sfera dell’anonimato.
Non contrappongono
l’“autenticità”
dell’extra-quotidiano
alla
banalità
dell’esistenza di tutti i
giorni, né cercano di
nobilitare
e
riconsacrare la vita
attraverso
una
immersione
nella
tonalità
affettiva
dell’“angoscia” o della
“chiamata”
(voce
inarticolata
della
coscienza che, nel
silenzio,
intima
la
sceltadeldefinitivo).In
essa
la
coscienza
risveglia il “se-stesso”
del singolo dalla sua
perdita nel si: “La
chiamata non è mai
progettata
né
preparata
né
volutamente effettuata
da
noi
stessi.
‘Qualcuno’
chiama
contro la nostra attesa
e contro la nostra
volontà. D’altra parte
la
chiamata
non
proviene
certamente
da un altro che sia nel
mondo insieme a noi.
La chiamata viene da
me e tuttavia da sopra
di me”. Questa voce
inarticolata
non
appartiene a un altro
essere che ne sia il
“possessore”.
È
il
Dasein, o “Esserci”, la
realtà dell’uomo, che
chiama se stesso in
maniera inarticolata,
senza
parole,
attraverso la tonalità
emotivadell’angosciae
che si ritrova soltanto
nella prospettiva della
distruzione
finale
dell’individualità:
“il
Chi del chiamante non
è determinabile che
come nulla. Esso è
infatti l’Esserci nel suo
spaesamento,
cioè
l’originario e gettato
essere-nel-mondocome
non-sentirsi-a-casapropria, il nudo ‘che’
nelnulladelmondo”.15
L’oggetto
del
mio
desiderio – il non voler
essere,
pirandellianamente,
“nessuno”, ma “uno” e
autentico – può essere
conseguito non nel
ricollegarmi al filo del
passato,
ma
nell’ekstasis
dell’“essere-per-lamorte”,
della
proiezione verso un
futuro che annienterà
inesorabilmente il mio
io. Ossia: proprio ciò
che cerco lo trovo in
quanto – pur nella
permanenza
dell’Essere
e
nel
variare
degli
enti,
persone e cose – è
destinatoasprofondare
nell’abissodelnulla.
3.Heidegger:il
disvelamento
dell’Essere
In Heidegger, e in
particolare
nel
“secondo Heidegger”,
la conoscenza della
cosa non si presenta
più come visione o
giustezza della visione,
quale era apparsa alla
“metafisica
occidentale” sin da
Platone, la cui teoria
prelude al più tardo
trasformarsidelmondo
in
immagine
e
dell’uomo in soggetto
costituente
e
producente.
Nel
periodoaureodellavita
greca, che si riscopre
nel
pensiero
dei
presocratici,
quando
ancora la metafisica
nonènata,“èpiuttosto
l’uomo
ad
essere
guardato dall’ente cioè
dall’autoaprentesi
all’esser-presente
in
essoraccolto.Guardato
dall’ente, sorretto da
esso, coinvolto nei suoi
contrasti e segnato dal
suo
dissidio:
ecco
l’essenza dell’uomo nel
periodo
della
grandezza greca [...].
L’uomo greco è [ist] in
quanto
percepisce
l’ente; di conseguenza
in Grecia il mondo non
puòdivenireimmagine.
Per contro il fatto che
in
Platone
l’entità
dell’ente si definisca
come eidos (aspetto,
veduta),
è
il
presupposto
storico
remoto, operante una
lunga
e
nascosta
mediazione, perché il
mondo
divenga
immagine”.16
La metafisica è in
realtà una fisica, un
errare fra gli enti,
dimenticandol’esseree
la verità, che non è
esattezza
del
rappresentare, calcolo
e dominio degli enti,
come nell’era della
tecnica,
ma
disvelamento
(aletheia),
e
aprirsi
dell’essereattraversoil
linguaggio a quell’ente
diverso
che
può
comprenderel’esseree
che è l’uomo. Il
linguaggio è la “casa
dell’essere”,17 il luogo
dovel’esseresirivelaa
chi gli si abbandona e
verso cui da sempre
“siamo in cammino”, il
rapporto di tutti i
rapportichenonèsolo
comunicazione:
“Il
linguaggio è il recinto
(templum),cioèlacasa
dell’essere. L’essenza
del linguaggio non si
esaurisce
nel
significare,
né
è
qualcosa di connesso
esclusivamente a segni
e a cifre. Essendo il
linguaggio la casa
dell’essere, possiamo
accedere all’ente solo
passando
costantemente
per
questa
casa.
Se
andiamo alla fontana,
se attraversiamo un
bosco, attraversiamo
già sempre la parola
“fontana”, la parola
“bosco”, anche se non
pronunciamo
queste
parole
e
non
ci
riferiamo a nulla di
linguistico [...]. Se mai
in qualche luogo, è
unicamente in questa
regione
che
potrà
avvenire
quel
rivolgimento
del
dominio degli oggetti e
della
loro
rappresentazione nel
più
interiore
del
cuore”.18
Dal predominio del
vedere della metafisica
classica si passa, nel
pensiero
“ultrametafisico”, che
comincia ad aprirsi
faticosamente
un
sentiero e di cui
Heidegger si fa il
banditore,
al
predominio del sentire
edelparlare(sicompie
a ritroso, si direbbe,
quel passaggio dalla
prevalenza del senso
dell’uditoaquellodella
vista che molti studiosi
hannoesaminatoperla
fase di transizione in
Grecia dalla cultura
orale alla civiltà della
scrittura). Il trapasso
dalla
metafisica,
dall’obliodell’essere,al
pensiero successivo –
che avviene spezzando
i nessi sintattici del
linguaggio, rendendolo
più sensibile alla voce
dell’essere, frugando
nelle sue pieghe e
rivelandone
le
stratificazioni – non è
breve. Il riappropriarsi
nel linguaggio del
senso dell’essere, dei
significati,
durerà
quanto la metafisica
stessa (un tempo assai
lungo, visto che la
metafisica
copre
l’epoca fra Platone e
Nietzsche)esaràopera
dell’essere:
“La
metafisicanonsilascia
metter da parte come
una opinione. Non si
può lasciarsela alle
spalle
come
una
dottrina a cui non si
crede e che non si
sostiene più. Il fatto
che l’uomo si trovi,
come animal rationale
– e cioè, ora, come
l’essere vivente che
lavora – a errare
attraverso i deserti
della
devastazione
della terra potrebbe
essere un segno che la
metafisica accade a
partire
dall’essere
stesso,
e
che
l’oltrepassamento della
metafisicaaccadecome
accettazioneapprofondimento
(Verwindung)
dell’essere [...]. Se è
così non possiamo
immaginarci di esser
fuori dalla metafisica
solo sulla base di un
presentimento del suo
trapasso. La metafisica
oltrepassata
non
scompare. Essa ritorna
sotto forma diversa e
mantiene
il
suo
dominio
come
permanentedistinzione
dell’essere
rispetto
all’essente. Tramonto
della verità dell’essere
significa:
l’evidenza
(Offenbarkeit)
dell’essente e solo
dell’essente
perde
l’esclusività con cui
finora si imponeva
comecriteriobase”.19
In questa seconda
fase della filosofia
heideggeriana,
successivaalla“svolta”
diHölderlinel’essenza
della poesia, l’essere
diventa il centro delle
sue
meditazioni,
mentre
l’“esserci”,
l’uomo, è solo il suo
“pastore” (è da tali
posizioni
che
si
svilupperà in Francia
nel
secondo
dopoguerra,
in
consonanza con temi
strutturalistici, l’antiumanismo di Lacan,
Althusser e Foucault).
Le analisi di Essere e
tempo sull’angoscia, la
deiezione, l’esistenza
inautentica e quella
autentica,
la
quotidianità
e
il
conformismo
vissuti
come
rifugio
che
ottunde dinanzi alla
scelta
significante
dell’essere-per-lamorte, la finitezza e la
temporalitàdell’esserci
(che influiranno invece
in
maniera
determinante
su
Sartre,Binswangerele
varie
correnti
“esistenzialistiche”):
tutto
ciò
sembra
completamente
dimenticato o agire
debolmente.
Viene
invece ulteriormente
approfondito
un
problema toccato in
Essere e tempo, quello
della
manipolazione
delle
cose,
della
tecnica e dell’essenza
delle scienze della
natura. La tecnica
moderna, che sorge
appunto
nell’“epoca
dell’immagine
del
mondo”,nonèsoltanto
un semplice sapere
strumentale, ma un
modoincuilaveritàsi
disvela, una forma di
manifestazione
dell’essere in cui le
risorse e le energie
naturali
vengono
piegate
all’utilità
umana:
“Il
disvelamento che vige
nella tecnica moderna
è una provocazione
(Herausforderung) la
quale pretende dalla
natura
che
essa
fornisca energia che
possa come tale essere
estratta
(herausgefördert)
e
accumulata. Ma questo
non vale anche per
l’antico
mulino
a
vento? No. Le sue ali
girano sì spinte dal
vento, e rimangono
dipendenti dal suo
soffio. Ma il mulino a
vento non ci mette a
disposizione le energie
delle correnti aeree
perché
le
accumuliamo”.20
Il fine è la massima
utilizzazione al minimo
costo delle energie
dellanaturamesseallo
scoperto, trasformate,
immagazzinate,
ripartite,
commutate
(tutti
modi
del
disvelamento).
La
natura
stessa
è
finalizzata
a
un
progetto umano e in
esso
inserita:
“La
centrale idroelettrica
non è costruita nel
Reno come l’antico
ponte di legno che da
secoli unisce una riva
all’altra.Quièilfiume,
invece,
che
è
incorporato
nella
costruzione
della
centrale”.21
Nel
sussumere la natura
entro le finalità umane
si forma una grande
corrente
di
interdipendenze
che
coinvolge uomini e
cose:
“La
guardia
forestale che nel bosco
misuraillegnamedegli
alberi abbattuti e che
apparentemente segue
nello stesso modo di
suo nonno gli stessi
sentieri
è
oggi
impiegata
dall’industria
del
legname, che lo sappia
o no. Egli è impiegato
al fine di assicurare
l’impiegabilità
della
cellulosa, la quale a
sua volta è provocata
dalla domanda di carta
destinata ai giornali e
alle riviste illustrate.
Questi, a loro volta,
spingono (stellen) il
pubblico ad assorbire
le cose stampate, in
modo
da
divenire
‘impiegabile’ per la
costruzione
della
‘pubblica
opinione’
costruita
su
commissione
(bestellte)”.22
Ma
la
tecnica
moderna, in quanto
disvelamento
della
verità, non è tuttavia
un operare meramente
umano. È l’essere che
manifesta all’uomo la
natura come “insieme
diforzecalcolabili”.
L’essere si rivela
però anche in altre
forme e il pericolo
consiste
nello
spacciare la tecnica
come l’unico modo del
disvelamento e nel non
intendere
la
sua
essenza, che non ha
nulla di tecnico. Il
volere, espresso nella
tecnica e nelle sue
necessarie
conseguenze (lo “Stato
totalitario”,
la
separazione dell’uomo
in quanto soggetto e
del mondo in quanto
oggetto, la formazione
diunmercatomondiale
che“tienmercatonella
stessa
essenza
dell’essere”), dispone
integralmente
della
natura e dell’uomo:
“Per questo volere,
tutto
diviene
forzatamente – sin
dall’inizio e quindi in
seguito – materiale
della
produzione
autoimponentesi.
La
Terra
e
la
sua
atmosfera divengono
materie prime. L’uomo
stesso
diviene
materiale
umano,
impiegato
secondo
scopi
prestabiliti.
L’organizzazione
incondizionata
dell’imposizione
integrale
della
produzione progettata
dituttosecondoivoleri
dell’uomo
è
un
processochescaturisce
dall’essenza
ancora
nascosta
della
tecnica”.23
Nonc’èinHeidegger
solo la nostalgia per il
mondo contadino o per
i suoi boschi della
Selva
Nera,
il
rimpianto per quelle
“cose,
un
tempo
cresciute nella calma”
e che oggi scompaiono
rapidamente sostituite,
per una sorta di legge
di
Gresham,
da
“pseudo-cose, aggeggi
per vivere”, ma la
consapevolezza
(comune a tutta la
cultura tedesca di
quest’epoca, compresi
gli
avversari
di
Heidegger, come il
Lukács di Storia e
coscienza di classe,
Bloch e Adorno) che
una civiltà basata sullo
sfruttamento
della
natura e dell’uomo, in
cui la tecnica è al
servizio di un potere
manipolante, non può
essere tollerata ancora
a lungo. C’è, in
sostanza,ilrifiutodella
weberiana “gabbia di
acciaio”eiltentativodi
uscirne
mediante
l’indebolimento
dell’essenza
del
pensiero tecnico e
metafisico
e
l’attivazione di un
“pensiero
rammemorante”,
filosofico-poetico, che
passa attraverso la
ricerca
di
un
supplemento di senso
nella
densità
del
linguaggio.Intalmodo,
anche ciò che è più
semplice e ovvio, le
cosechecicircondano,
comincia a parlare
diversamente.
Consideriamo
(dice
Heidegger,
riprendendo
un
esempio di Cartesio, di
Simmel e di Bloch)24
una brocca. Essa si
presenta fisicamente
comeunrecipientecon
un fondo, una parete e
un’ansa.Perilpensiero
tecnico scientifico, che
pretende di cogliere le
cose prima e meglio di
ogni altra esperienza,
la brocca è il risultato
della produzione di un
vasaio e il suo vuoto è
pieno d’aria. E così – a
prescinderedapossibili
misurazioni o analisi
della forma e del
materiale – si crede di
aver
esaurito
l’argomento. Ma il
vuotodellabroccaèun
contenere quanto si
deve
versare
(schenken), è un dono
e
un’offerta
(Geschenk). In essa si
condensa il “quadrato”
del mondo (cielo e
terra, uomini e dèi: è
un concetto platonico,
cfr. Platone, Gorgia,
507-508): “Nell’acqua
che
viene
offerta
permane (weilt) la
sorgente.
Nella
sorgente permane la
roccia, e in questa il
pesante sonnecchiare
della terra, che riceve
la pioggia e la rugiada
del cielo. Nell’acqua
della
sorgente
permangonolenozzedi
cielo e terra. Questo
sposalizio permane nel
vino, che ci è dato dal
frutto della vite, nel
quale la forza nutritiva
della terra e il sole del
cielo si alleano e si
congiungono
[...].
L’offertadelversaredà
dabereaimortali.Essa
calma la loro sete.
Anima il loro riposo.
Rallegra
le
loro
riunioni. Ma l’offerta
della brocca viene
talvolta offerta anche
in consacrazione. Se il
versare ha questo
sensodiconsacrazione,
esso non calma una
sete. Esso quieta la
festosità della festa
solennizzandola.
In
questo caso, l’offerta
delversarenonavviene
in una osteria, né
l’offerta è una bevanda
perimortali.Ciòcheè
versato è la bevanda
offerta
agli
dèi
immortali”.25
A prescindere da
alcuni fastidiosi giochi
linguistici
e
concettuali,
il
significato del discorso
heideggeriano è che le
cose
hanno
una
pluralità
di
sensi,
incorporano relazioni
sociali
e
naturali,
assorbono una patina
mitica,
un
valore
simbolico che non è
riducibile al valore
d’uso o a schemi
conoscitivi.Nellabruna
broccadiFranconia,su
cui è rappresentato un
uomo barbuto, Bloch
aveva cercato il segno
della storia e della
tradizione popolare: vi
aveva
individuato
l’immagine
delle
brocche romane di
poco prezzo usate dai
legionari, soldatesche,
rese poi nordicamente
rozze,26 le insegne
delleosterie(quelledei
vivi e quelle, secondo
lefavole,deimorti)con
il selvaggio barbuto.
Heidegger invece – al
pari del Bachelard
della Psicoanalisi del
fuoco o de La fiamma
di una candela – cerca
nelle cose che ci sono
familiari i significati
rimossi dall’incalzare
del pensiero tecnicoscientifico e che si
conservano, latenti e
indeboliti, nel mito (i
valori simbolici del
fuoco, il piacere di
guardarlo,ilsuocalore
diverso rispetto al
termosifone). Non si
tratta però di ritrovare
gli oggetti così come
essi
appaiono
nell’oblio, quali oggetti
desueti,
ormai
inservibili,
non
funzionali,
com’è
l’Odradek di Kafka
nell’interpretazione di
Walter
Benjamin27:
Odradek, che a tutta
prima “si presenta
come un rocchetto
piatto, a forma di
stella, e sembra avere
intorno del filo”, che
può stare “a seconda
deicasi,insoffitta,per
le scale, nei corridoi,
nell’andito”,cheavolte
“si rende invisibile per
mesi,forseèpassatoin
altre
case;
ma
invariabilmente torna
da noi”, è ciò che ha
perduto il suo senso
eppure resiste ancora,
ha una sua testarda
durata (è la figura
stessa del “padre di
famiglia” per Kafka?):
“Invano mi domando
cosa sarà di lui. Può
morire? Tutto quello
che muore, ha avuto
uno scopo, una attività
che l’hanno logorato;
ma non è il caso di
Odradek. O non dovrà,
per caso, un giorno
rotolare ancora dalla
scala, dinanzi ai piedi
dei miei figli e dei figli
dei
miei
figli,
trascinando
un
pezzetto di filo? È
evidentechenonnuoce
a nessuno: eppure
quasimifamale,l’idea
che
mi
debba
sopravvivere”.28
Per
Heidegger bisogna, al
contrario, sottrarre le
cose dall’oblio della
metafisica, farle aprire
nuovamente
a
un
dialogo, dar voce alla
loroalterità,rifondarne
il senso, renderle,
attraverso
il
linguaggio, crocevia di
relazioni, supporti di
una diversa possibile
esperienza
non
manipolata.
4.Wittgenstein:il
linguaggioeilmondo
Al pari delle ultime
ricerche di Heidegger,
tutta la filosofia di
Wittgenstein ruota sul
linguaggio
e
sul
rapporto
linguaggiomondo. Nel Tractatus
logico-philosophicus(in
cui confluiscono in
modo
originale
i
risultatidelleriflessioni
sull’opera di Frege, di
Russell, di Whitehead,
di Moore) il mondo è
“la totalità dei fatti”,
che sono costituiti da
altri fatti elementari o
“stati di cose”, i quali,
a loro volta, son
formatidaoggetti,enti,
cose,
non
ulteriormente
scomponibili.
Il
linguaggio è la totalità
delle proposizioni e la
proposizione
è
la
raffigurazione di uno
stato di cose che –
qualoralaproposizione
siasensataenonabbia
esclusivamente
un
caratterelogico–hain
comune con lo stato di
cose
la
relazione
strutturale, una delle
possibili
forme
di
combinazione
degli
oggetti. Esiste quindi
un isomorfismo tra
linguaggio e mondo e
la
forma
persiste
attraverso
possibili
trasformazioni
e
proiezioni: “Il disco
fonografico, il pensiero
musicale, la notazione
musicale,
le
onde
sonore, tutti stan l’uno
all’altro
in
quella
interna relazione di
raffigurazione
che
sussiste tra linguaggio
e mondo. A essi tutti è
comune la struttura
logica [...]. Nell’esservi
una regola generale –
mediante la quale il
musicista può ricavare
dalla
partitura
la
sinfonia; mediante la
quale si può derivare
dal solco del disco la
sinfonia e di nuovo,
secondo
la
prima
regola, la partitura –
appunto in ciò consiste
l’ulteriore somiglianza
di
queste
conformazioni,
apparentemente tanto
diverse.
E
questa
regola è la legge della
proiezione,laleggeche
proietta la sinfonia nel
linguaggio delle note.
Essa è la regola della
traduzione delle note
nellinguaggiodeldisco
fonografico”.29
Illinguaggioèquindi
simile a una “grafia
geroglifica,
che
raffigura i fatti che
descrive”30 e che si
conserva tale, in senso
raffigurativo,
anche
quando
diventa
alfabetica.Leimmagini
però non sono la copia
diunfatto,maunfatto
essestesse.Ifattisono
indipendenti
l’uno
dall’altro, per cui non
solo ogni induzione è
impossibile, ma anche
“la credenza nel nesso
causale
è
la
superstizione”.31 Dalla
sfera dei fatti, della
mera
esistenza,
a
quella della logica non
c’è
passaggio.
Le
proposizioni
della
logica,
così
come
quelle
della
matematica,sonobensì
necessarie – mentre
“fuoridellalogicatutto
è accidente” –,32 ma
solo
perché
sono
tautologiche,
non
dicono
nulla
del
mondo.
L’enunciato
“Piove o non piove” è
incondizionatamente
vero,
mentre
un
enunciato che contiene
una
contraddizione
logica (ad esempio:
“Tutti gli scapoli sono
sposati”)
è
incondizionatamente
falso. Ma né la forma
logica del linguaggio,
né il suo isomorfismo
con il mondo sono
esprimibili. È possibile
solo mostrarli, quali
condizioniformalmente
necessarie al nostro
linguaggio,
un
linguaggio di cui non
possiamo trascendere i
limiti. Esiste quindi
l’ineffabile,il“mistico”,
ciò che va al di là dei
fatti (che riguardano
unicamente come il
mondoè):“Noncomeil
mondo è, è il mistico,
ma che esso è”.33 Di
questo non si può dir
nulla e, secondo la
famosa
proposizione
conclusiva
del
Tractatus, “Su ciò, di
cui non si può parlare,
si deve tacere”. Ma al
diquadel“mistico”noi
abbiamo non solo il
dovere di parlare, ma
di
parlare
correttamente. Invece
succede
che
ci
impigliamonelleregole
del
nostro
stesso
linguaggio,
ci
confondiamo
e
formuliamo
proposizioni che non
sonosignificanti.Ossia,
afferma Wittgenstein
(che sviluppa qui una
distinzione
tradizionale: tra verità
di ragione e verità di
fatto in Leibniz, tra
relazioni fra idee e
relazioni fra fatti in
Hume e tra giudizi
analitici
e
giudizi
sintetici
in
Kant),
proposizioni che non
sono né tautologiche,
né
empiricamente
verificabili. La filosofia
diventa, in queste
condizioni, un’attività
che ha per compito
quello di perimetrare
l’area del linguaggio
significante
e
di
chiarificare la logica
del
pensiero,
eliminando
le
espressioni confuse e
senzasenso.
Dopo
la
pubblicazione
del
Tractatus,Wittgenstein
– che credeva di non
averpiùnientedadire,
di aver attinto i confini
delsuolinguaggioedel
suo mondo – si chiuse
coerentemente in un
lungo
silenzio
filosofico,
lavorando
per anni come maestro
elementare, architetto
e, per alcuni mesi,
anche come aiutogiardiniere
in
un
convento. Ma, poi,
proprio la sua attività
fra i bambini e le
discussioniconillogico
inglese Ramsey lo
convinsero
a
modificare
il
suo
precedente
impianto
teorico di spiegazione
dellinguaggioedelsuo
rapporto con il mondo.
L’insegnamento in una
scuola elementare lo
indusse a riscoprire il
linguaggio
ordinario
nei suoi più semplici
meccanismi
d’apprendimento
e
d’uso,
mentre
le
innumerevoli
conversazioni
con
Ramsey gli rivelarono
come il linguaggio
fosse pragmaticamente
connesso a contesti
extra-linguistici
di
comportamento,
di
credenze,
di
aspettative. A partire
dalle
Osservazioni
filosofichedel1929-30,
Wittgensteinsganciala
suaanalisidallaricerca
di un linguaggio in se
stesso perfettamente
significativoesirivolge
allo studio dei “giochi
linguistici”,
delle
diverse
pratiche
linguistiche, apprese
per consuetudine o
addestramento
e
organizzate
secondo
regole flessibili, che
conservano attorno a
sé
un
alone
di
indeterminatezza, ma
che sono declinabili in
un
numero
virtualmente infinito di
modi. Nelle Ricerche
filosofiche,
in
particolare, egli cerca
di distinguere i diversi
giochi linguistici (ad
esempio:
“Elaborare
un’ipotesi e metterla
alla
prova
–
Rappresentare
i
risultati
di
un
esperimento mediante
tabelle e diagrammi –
Inventare una storia; e
leggerla – Recitare in
teatro – Cantare in
girotondo – Sciogliere
indovinelli – Fare una
battuta; raccontarla –
Risolvere un problema
di aritmetica applicata
– Tradurre da una
lingua in un’altra –
Chiedere, ringraziare,
imprecare,
salutare,
pregare”)34
senza
ridurli a una mitica
unità, ma vedendoli
come semplicemente
legati da somiglianze:
“Invece di mostrare
quello che è comune a
tutto
ciò
che
chiamiamo linguaggio,
io dico che questi
fenomeni non hanno
affatto
in
comune
qualcosa, in base alla
quale impieghiamo per
tutti la stessa parola, –
ma
che
sono
imparentati l’uno con
l’altro in molti modi
differenti. E grazie a
questa parentela, o a
queste parentele, li
chiamiamo
tutti
‘linguaggi’”.35
Attraverso
un’indagine
volutamente
circoscritta
nell’ambito
umile,
spesso
del
quotidiano, nell’esame
delle
situazioni
concrete della vita
associata, Wittgenstein
rifiuta l’esistenza di
una logica rigida ed
esatta,
quasi
un
distillato del nostro
linguaggioounaregola
di tutte le regole, un
“superordine” capace
di sussumere tutti gli
ordini. Se il linguaggio
non è infatti un tutto
omogeneo; e se il
denominare–“quasiun
battesimo
dell’oggetto”36 – non è
una
sua
funzione
esclusiva;
se
il
significato
non
è
naturalisticamente
e
occultamente
inchiodato al segno, né
esprime
l’essenza
dell’oggetto (ma è in
relazione con un gioco
linguistico, una pratica
sociale, una “forma di
vita”), allora la logica
non è qualcosa che si
nasconda dietro il
linguaggio,
il
suo
fondamento, quasi la
piattaforma di questo
continente, ma una
serie di paradigmi, di
modelli grammaticali
fra loro imparentati e
immanenti ai giochi
linguistici. Per questo
nella logica non c’è
niente da costruire, né
niente di nuovo da
apprendere,
perché
tutto è già davanti ai
nostri occhi (anche
Hegel
diceva,
con
tutt’altra prospettiva,
chesitrattavaappunto
di conoscere quel che
era noto). Ma senza
una logica compatta
ogni ragionamento non
perde forse il suo
rigore? No, perché
quello della “purezza
cristallina” della logica
è un pregiudizio che
“può essere eliminato
soltantofacendorotare
tutte quante le nostre
considerazioni.
(Si
potrebbe
dire:
La
considerazione
dev’essere rotata, ma
attorno al perno del
nostro
reale
bisogno)”.37Eilnostro
realebisognovariacon
le nostre esigenze,
secondoloscopocheci
prefiggiamo. Possiamo
così
normalmente
accontentarci di un
certo
margine
di
incertezza, ma vi sono
situazioni in cui si
richiede
maggior
precisione e allora
nasce
l’esigenza
dell’esattezza,
della
precisione,dellalogica.
Ma: “ ‘Inesatto’ è
propriamente
un
rimprovero, ed ‘esatto’
unalode.Equestovuol
dire: ciò che è inesatto
non raggiunge il suo
scopo
così
perfettamentecomeciò
che è più esatto.
Dunque tutto dipende
da ciò che chiamiamo
‘loscopo’”.38
Spingendoci troppo
avanti
in
questa
esigenza di rigore, di
esattezza,
feticizzandola,
giungiamo alla logica
pura, essenzialistica,
quella che incanta il
nostro intelletto e lo
induce
in
errore:
“Siamo finiti su una
lastra di ghiaccio dove
mancal’attritoeperciò
le condizioni sono in
certo senso ideali, ma
appunto per questo
non
possiamo
muoverci.
Vogliamo
camminare;
dunque
abbiamo
bisogno
dell’attrito. Torniamo
sul terreno scabro!”.39
Se la logica non è più
separabile dalle regole
di una molteplicità di
giochi linguistici, se il
linguaggio
ordinario
non
è
principio
separato da quello
scientifico, neppure i
dati osservativi sono
divisibili dal pensiero.
Attraverso
una
suggestiva riflessione
su temi gestaltistici
(che sarà appunto
ripresa in funzione
anti-neopositivistica da
Hanson e Toulmin),
Wittgenstein
mostra
come non esista una
“immacolata
percezione”, neutra e
puramente
passiva,
comelarelazionefrala
cosa e lo sguardo non
sia cioè analoga a
quella fra l’originale e
la copia, ma come nel
percepire ci sia un
“pensierocheecheggia
nel
vedere”,40
un
vedere sempre carico
diteoria.
5.Sartre:losguardo
dell’altro
In Sartre la tematica
psicologistica francese
(daRibotaJanetsinoa
Bergson) e gli apporti
della
fenomenologia
husserlianaedelprimo
Heidegger,
incontrandosi con le
filosofie di Hegel e di
Marx, danno luogo a
uno
degli
innesti
culturali
più
rappresentativi
di
questo
secolo.
La
scoperta di Husserl
della coscienza come
“residuo” irriducibile,
trascendente,
non
reificabile,
viene
relativizzata.
Sartre,
che ha seguito a Parigi
le lezioni di Kojève
sulla
Fenomenologia
dello spirito di Hegel –
in particolare sulla
“lotta
per
il
riconoscimento” e sul
rapporto
signoriaservitù –, introduce
nell’ambito
della
coscienza
e
della
visione un elemento
conflittuale.
Solo
un’altra coscienza, lo
sguardo di un altro
individuo, può reificare
la
coscienza,
può
solidificarneilflusso.
Pur
senza
aver
seguito i corsi di
Kojève, una posizione
analoga
ma
più
radicale avrà Simone
Weil. L’Iliade ovvero il
poema della forza è un
saggioesemplareincui
si esamina, da un’altra
angolatura, il tema in
lei
ricorrente
del
dominiodellanecessità
e dell’oppressione che
rende la libertà umana
prigioniera
di
insormontabili
condizionamenti.Quale
protagonista
senza
volto
degli
eventi
narrati,
Omero
–
equanime nei confronti
dei vincitori e dei vinti
– mette appunto in
scena la forza stessa,
“ciòchefadichiunque
le sia sottomesso una
cosa”. Ma alla fine tra
chi è in grado di
infliggere la morte agli
altri, credendosi con
ciò libero, e chi invece
subisce
la
morte,
trasformandosiincosa,
in cadavere, non vi è
differenza. Achille (che
“sgozza
dodici
adolescenti
troiani
sulla pira di Patroclo,
tanto
naturalmente
come si recidono i fiori
per una tomba”) non
sfuggirà al destino
comune della morte,
unica e inesorabilie
vincitrice. Sebbene ci
si
illuda
di
maneggiarla,laforzasi
può infatti soltanto
subire.Ildestinodichi
uccide è di essere
ucciso a sua volta.
L’uomo si trova così
sospeso
tra
la
prospettiva reale di
soccombere
alla
necessità biologica e il
desiderio, destinato a
fallire, di ergersi verso
la
libertà.
Nell’intercapedine tra
queste due condizioni,
testimoniinvolontari,si
trovano coloro che
conoscono l’esperienza
della sventura, quanti
“senza morire sono
diventatidellecoseper
tutto il corso della loro
vita”.41 Al pari di tutti
gli sventurati della
storia, simili in ciò agli
operai delle moderne
fabbriche, i Troiani
sconfitti e avviati alla
servitù
conoscono
l’essenza della forza e
si
rendono
conto
dell’impossibilità
di
sfuggirle. Simone Weil,
che ha voluto vivere di
fatto
l’esistenza
anonima
degli
sfortunati, sa per loro
tramite che “il grande
enigma
della
vita
umana non è la
sofferenza,
è
la
sventura. Non c’è da
stupirsi
che
degli
innocenti siano stati
uccisi,
torturati,
cacciati dal proprio
paese,ridottiinmiseria
oinschiavitù,chiusiin
campo
di
concentramento o in
carcere, dal momento
cheesistonoicriminali
capaci di compiere tali
azioni”.42
In Sartre il dominio
delle cose è meno
tragico, ha esiti meno
letali. Nel guardare il
mondo
io
mi
abbandono a esso, mi
lascio assorbire dalle
cose “come l’inchiostro
dalla
carta
assorbente”. Ma ecco
che, all’improvviso, lo
sguardo dell’altro mi
deruba del mio mondo:
io posso cogliere il
verde dell’erba che
vedo, ma non vedo il
verde quale appare a
un altro. Qualcosa mi
sfugge, qualcosa di
inquietante che limita
la mia libertà. Sembra
“che il mondo abbia
come un foro di
scarico, al centro del
suo essere, e che esso
scoli continuamente in
questo buco”.43 L’altro
è vissuto in Sartre
sempre
come
antagonista, simbolo di
pericolo,
l’inferno,
colui
che,
oggettivandomi a me
stesso, mi rimanda a
me stesso: “Ciò che
provo quando sento
scricchiolare i rami
dietrodime,nonèche
visiaqualcuno,mache
iosonovulnerabile,che
ho un corpo che può
essere
ferito,
che
occupo uno spazio e
che non posso, in
nessun caso, evadere
dallospazioincuisono
senza difesa, in breve,
che sono visto. Così lo
sguardo è prima di
tutto un intermediario
che mi rimanda da me
a me stesso”.44 Se
immagino di essermi
messo per gelosia,
interesse o vizio a
guardare dal “buco di
una serratura” e un
altro mi sorprende, mi
fa
vergognare,
ritornare in me, allora
lo sguardo dell’altro
non è che “la mia
trascendenza
trascesa”.45
Si
rispecchia
in
Sartre l’esperienza di
vita quotidiana delle
metropoli, con i suoi
metrò, i suoi autobus,
le
condotte
di
solitudine
degli
individui nella folla, la
disintegrazione
del
singoloacceleratanegli
anni fra le due guerre,
il
suo
essere
“abbandonato
sotto
milioni di sguardi”. Si
potrebbe dire, come
unodeiprotagonistidel
romanzo Il rinvio, che
lo sguardo dell’altro,
oltre che perturbante,
è la garanzia della mia
esistenza,
la
testimonianza che non
sono una nullità, che
conto pure qualcosa:
“Tu hai certamente
provato, nel metrò, nel
ridotto di un teatro, in
treno,
quella
sensazione improvvisa
e
insopportabile
d’essere spiato alle
spalle. Ti volti, ma già
il
curioso
ha
riabbassato il naso sul
suo libro [...]. Dirti che
cosasiaquellosguardo
m’è cosa facilissima:
perché non è nulla, è
un’assenza;
ecco,
immagina la notte più
oscurachesiapossibile
immaginare. È la notte
che ti guarda. Ma una
notte abbacinante; la
notte in piena luce; la
notte
segreta
del
chiarore diurno. Io
sono irrorato di luce
nera[...].Cheangoscia
scoprire a un tratto
quello sguardo come
un centro universale
dal quale non posso
evadere.
Ma
che
riposo,anche!Soinfine
di essere. Trasformo a
miousoeperlatuapiù
grande indignazione la
parola imbecille e
criminosa del vostro
profeta, quel ‘penso,
dunquesono’chemiha
fatto tanto soffrire –
perché più pensavo,
meno mi sembrava di
essere – e dico: mi si
vede, dunque sono.
Non
ho
più
da
sopportare
la
responsabilità del mio
vischioso dissolvermi:
coluichemivedemifa
essere; sono come egli
mivede”.46
Più tardi, nel Santo
Genet, commediante e
martire
(1952),
la
tematica dello sguardo
assumerà
una
dimensione
più
direttamente sociale e
politica e si preciserà
come attribuzione di
ruoli
e
funzione
colpevolizzante che la
società si assegna.
Genet, il futuro ladro e
scrittore, è figlio di
N.N.,vienerinchiusoin
orfanotrofio
e
poi
adottato
da
una
famiglia di contadini.
Egli non è nessuno e
cerca,quasitrasognato
e in gioco, di essere
attraverso l’avere: “Il
bambino giocava in
cucina; tutto ad un
trattosièaccortodella
propria solitudine e
l’angoscia lo ha colto,
comedisolito.Allorasi
è‘assentato’.Unavolta
di più; si è immerso in
una sorta di estasi.
Adesso non c’è più
nessuno nella stanza:
una
coscienza
abbandonata
riflette
degli arnesi. Ecco che
uncassettosiapre;una
manina si protende…
Preso con le mani nel
sacco:
è
entrato
qualcuno e lo guarda.
Sottoquestosguardoil
bambino torna in sé.
Non
era
ancora
nessuno,
diventa
improvvisamente Jean
Genet [...]. Una voce
dichiara
pubblicamente: ‘Tu sei
un ladro’. Ha dieci
anni”.47 La società lo
ha
oggettivato
e
catalogato,
trasformando
un
bambinoinmostro.
Complementare allo
sguardo,
alla
percezione
oggettivante, è il tema
dell’immaginazione.
L’immagine non è un
piccolo simulacro della
cosa percepita, ma è
husserlianamente un
modo
diverso
di
intenzionare lo stesso
oggetto
della
percezione. In quale
aspetto
se
ne
differenzia,allora?
“Consideriamo
questo foglio di carta,
posatosultavolo.Piùlo
guardiamo,piùcirivela
le sue particolarità.
Ogni
orientamento
nuovo
della
mia
attenzione, della mia
analisi, mi fa scoprire
un particolare nuovo:
l’orlo superiore del
foglio è leggermente
rialzato;allaterzariga,
lalineacontinuafinisce
con l’essere soltanto
punteggiata…ecc.Ora,
io posso tenere sotto il
mio
sguardo
un’immagine per tutto
il tempo che voglio:
non potrò mai trovarvi
altrochequelcheviho
messo.”48
L’oggetto
percepito si presenta
inoltreinunainfinitàdi
scorci,
mentre
l’immagine è unica e
povera.
L’atto
dell’immaginazione
partedaun’assenza,da
una
lacuna
reale
avvertita nel mondo,
che cerca di colmare
attraverso
un’operazione magica,
di evocazione: “È un
incantesimodestinatoa
far apparire l’oggetto
pensato,
la
cosa
desiderata, in modo
che se ne possa
prender possesso. In
tale atto, c’è sempre
qualcosadiimperiosoe
di infantile, un rifiuto
di tener conto della
distanza,
delle
difficoltà.Cosìilbimbo,
dalsuoletto,agiscesul
mondo per mezzo di
ordiniedipreghiere.A
questi ordini della
coscienza gli oggetti
obbediscono:
appaiono”.49
Attraverso
l’immaginazione
introduco il nulla nel
mondo:
il
mondo
dell’immaginario è un
nulla
posto
come
essere o un essere
posto
come
nulla.
L’immaginazione non è
una
ricucitura
di
brandelli tratti dalla
realtà percettiva, ma
unaregioneincuivedo
le falle del reale e
cerco di chiuderle
mediante il desiderio:
“l’apparizione di un
amico morto come
reale avviene sullo
sfondo d’apprensione
affettivadelrealecome
mondo vuoto di questo
punto
di
vista”.50
L’immaginario mi apre
quindi
spiragli
di
libertà, mi permette di
vedere i vuoti sullo
sfondo della pienezza
del
reale,
di
individuare
le
possibilità
di
cambiarlo. Mi pone di
fronte
all’angoscia
della mia libertà come
autodeterminazione e
mancanza
di
fondamentoontologico.
Nel
periodo
“esistenzialistico” della
produzione di Sartre,
l’individuo
è
solo
dinanzi alle sue scelte,
isolato in un universo
sociale essenzialmente
ostile.
In
seguito,
quando
l’impegno
politicosifapiùdiretto
(con l’opposizione allo
stalinismo
e
al
colonialismo) e più
deciso l’accostamento
al pensiero di Marx,
Sartre tenterà una
mediazione
tra
individuo e società,
senza
tuttavia
presupporre soluzioni
armoniche. Con Stalin
il marxismo si è
irrigidito e pietrificato,
èdiventatoburocratico
e oppressivo nella
praticaecatechisticoe
volontaristico
nella
teoria.
Nel
suo
idealismo,
che
pretendediadeguarea
priori la realtà a uno
schema dottrinale, lo
stalinismo è violenza
sulla
verità
e
sull’esperienza
concreta:
“La
metropolitana
di
Budapest era reale
nellatestadiRákosi;se
il
sottosuolo
di
Budapest
non
permetteva
di
costruirla,
ciò
significava
che
il
sottosuolo di Budapest
era
controrivoluzionario
[...].
Per
anni
l’intellettuale marxista
ha creduto di servire il
proprio
partito
violando l’esperienza,
trascurando
i
particolari
imbarazzanti,
semplificando
grossolanamente i dati
e
soprattutto
concettualizzando
l’avvenimento prima di
averlo studiato”.51 In
quest’ottica
la
concretezza
e
l’individualità
reale
viene dissolta in un
“bagno
di
acido
solforico” e quel che
rimane, l’universalità
vuota, viene spacciata
per
marxismo
ortodosso.
Ma
il
marxismo non è morto.
Anzi,
poiché
hegelianamente
una
sola filosofia è viva in
ciascuna epoca, oggi è
il
marxismo
a
rappresentare per il
Sartre
degli
anni
cinquanta e sessanta
l’orizzonte di massima
intellegibilità
dei
problemi
contemporanei.Maper
diventare
veramente
vitale, per eliminare le
incrostazioni staliniste,
esso deve misurarsi
nuovamente
col
concreto e con la
dinamica
innovativa
della
soggettività;
deve, in altri termini,
inglobare
l’esistenzialismo,
espungendone così le
chiusure
esasperatamente
individualistiche
e
privatistiche. È quindi
necessaria
una
ricognizione
delle
forme di vita del
presente, dell’intreccio
fra attività umana e
materia,
della
“penuria”
che
condiziona l’esistenza
dituttieimpediscealla
maggior parte del
genere
umano
di
soddisfare
i
più
elementari bisogni di
cibo e di salute, della
compresenza esteriore
o della solidarietà
sostanziale
che
si
forma tra i singoli
partecipanti a una
stessaesperienza,della
“controfinalità” per cui
un
determinato
progetto
produce
effetti opposti a quelli
previstiecc.
Anche
qui
c’è,
all’interno di un più
vasto impianto teorico
e
storico,
una
penetrante
fenomenologia
della
vita quotidiana, in
particolaredellegrandi
città. L’attività umana
si materializza sempre
in cose, in istituzioni,
che a loro volta
retroagiscono
sugli
individui
raggruppandoli,
dividendoli,
aggiungendo
o
togliendo loro potere,
sottoponendoliaregole
oapressioni:“Mibasta
aprire la finestra: vedo
una chiesa, una banca,
un caffè: ecco tre
collettivi;
questo
biglietto
da
mille
franchi è un altro
collettivo; un altro
ancora il giornale che
ho
appena
comperato”.52Nonviè
praxis che non si
oggettivi, né relazione
umana che non venga
filtrata
dalla
materialità,
che
talvoltacontagiaconla
sua inerzia, col peso di
tutto il passato di
azioni
altrui
ivi
rappreso,
ogni
individuo (anche se
questo non vuol dire,
come appare dalla
minuziosa
ricostruzione della vita
edell’operadiFlaubert
ne
L’idiota
della
famiglia, che il singolo
sia
da
essa
meccanicamente
determinato).
Gli
oggetti,
socialmente
mediati, ad esempio
l’“autobus delle 7 e
49”, riuniscono una
serie
di
individui,
estranei gli uni agli
altri, radunati soltanto
dalla
funzione
materializzata,
in
questo caso dall’attesa
della “vettura che
apparirà all’angolo del
boulevard”.53
Unicamente
in
situazioni eccezionali,
come nella presa della
Bastiglia o nell’assalto
al Palazzo d’Inverno,
gli uomini ritrovano
insieme la capacità di
cambiare e di sottrarsi
all’inerzia, ritrovano la
solidarietà e diventano
“gruppo”. Ma questi
momenti “al calor
bianco”, questi attimi
di creazione collettiva
di storia, non durano a
lungo
e
l’inerzia
riprende
il
sopravvento:
la
burocrazia si insedia
sulle
conquiste
rivoluzionarie e le
masse, spossate e
private del potere,
ritornano passive: il
gruppo si degrada
nuovamenteaserie.
6.LaingeBateson:gli
inestricabilinodi
Tutti questi temi
sartriani hanno avuto
risonanza anche al di
fuori
dell’ambito
filosofico:neIlnegroe
l’altro di Frantz Fanon
e ne Il caso di Peter
(contenuto ne L’io
diviso) di Laing, per
quanto
riguarda
l’oggettivazione
attraverso lo sguardo;
in
Laing,
Cooper,
Esterson, e in generale
nel
movimento
dell’“anti-psichiatria”
anglosassone
per
quanto
riguarda
l’eziologia
familiare
della schizofrenia (e,
più in generale, il
carattere
patogeno
delleistituzionisociali),
in cui giocano le
categorie sartriane di
“identità
alterata”,
“malafede”,
“serializzazione”
e
“gruppo
familiare”
(Laing e Cooper hanno
d’altronde scritto un
libro
su
Sartre,
Ragione e violenza). È
interessante
notare
come la problematica
esistenzialistica,
che
aveva
acuminato
l’intelligenza più desta
negli anni fra le due
guerre
e
nell’immediatosecondo
dopoguerra, fornisca
ora strumenti alla
politica dei paesi excoloniali
e
alla
psichiatria,
continuando cioè ad
agiredovel’uomoèpiù
devastato.
È,
appunto,
il
concetto di “identità
alterata” a fornire a
Laing e a Esterson la
chiave principale per
interpretare
la
schizofrenia.L’Altro,di
cui
interiorizzo
il
giudizio, incrina l’asse
su cui imposto la mia
identità,
l’immagine
“portante” che ho di
me stesso e che mi
sostiene
nel
mio
proprio progetto di
esistenza, per lo più
implicito.54 Qualora il
disorientamento
prodotto
dall’alterazione
dell’identità sia così
squilibrante
da
costringermiadubitare
radicalmente di me
stesso, da introdurre
un cuneo tra i miei
pensieri,
percezioni,
sentimenti e quelli che
gli
altri
mi
attribuiscono, ecco che
può sorgere la follia.
Prendiamounesempio,
tra i tanti analizzati.
All’interno
della
famiglia Danzig, la
giovane Sara – a
partire
dall’età
di
diciasette
anni
–
comincia a dare segni
distranezza:statuttoil
giorno a letto, per poi
leggere
la
Bibbia
durante la notte. Tale
atteggiamento,
in
apparenza
incomprensibile
e
assurdo, svela alla fine
il
significato
dei
sintomi,
ossia
l’espressione della sua
combattuta ostilità nei
confronti del padre, in
precedenza idealizzato.
La dichiarata scoperta
che egli non è affatto
l’uomo di specchiata e
scrupolosa onestà in
cui aveva creduto,
provoca
la
colpevolizzazione della
ragazza da parte dei
familiari, che possono
invece, impunemente e
senza rimorsi, dire
male di lui. Il fratello
John
è
anzi
incoraggiato
dalla
madre a vedere il
padre “come è in
realtà”
(ossia
a
criticarlo aspramente),
mentre a Sara questo
comportamento viene
rigorosamente
interdetto. La ragazza
è caduta, senza sapere
piùcomeuscirne,nella
vischiosa ragnatela di
perverse
alleanze
familiari, di astiose
recriminazioni
reciproche, restando
peròcomunqueisolata,
esclusa da tutte le
combinazioni,
contraddetta,
fuori
gioco. Cercando di
dare un senso alla sua
“sconcertante”
situazione
–
alla
scoperta che i familiari
osservano una “doppia
morale” e considerano
ufficialmentefalsoquel
che sostengono poi, in
privato, essere vero –,
si smarrisce e si perde
nellamalattia.
Lafolliaèunafugain
cercadisoluzioni,è“la
strategia speciale che
una persona inventa
allo scopo di vivere in
una situazione in cui
non può vivere”. Il
malato mentale appare
così come un “esule
dall’Essere”,55
un
viaggiatore che si è
inoltrato più a fondo di
altri
in
territori
inesplorati,dacuimolti
si
ritraggono
con
paura.
Perché
generalmente ci si
nasconde che la vita
può essere tremenda,
crudele, senza senso,
ineffabilmente
dolorosa.Laing,cheha
lavorato a lungo negli
ospedali, porta alcune
testimonianze
sconvolgenti delle sue
esperienze cliniche. La
prima
illustra
la
fragilità
di
una
esistenza
indifesa,
assalita da cieca e
divorante
forza
distruttiva:
“Aveva
dieci anni ed era
affetto da idrocefalia,
dovuta a un tumore
inoperabile
delle
dimensioni
di
un
minuscolo
pisellino,
proprio al posto giusto
per
arrestare
il
deflusso dalla testa del
liquidocerebro-spinale,
il che è come dire che
aveva dell’acqua nel
cervello che gli faceva
scoppiare la testa,
tanto che il cervello si
riduceva sempre più a
un
sottile
strato
esterno,eciòaccadeva
anche delle ossa del
cranio. Soffriva senza
rimedio [...]. Aveva
cominciato a leggere Il
circolo Pickwick. Mi
disse che tutto quello
che chiedeva a Dio era
cheglifosseconsentito
di finire questo libro
prima di morire. Morì
prima di arrivare a
metà”.56
La seconda tocca il
puro orrore del vivere:
“Stavamo assistendo
alla nascita di un
bambino e le cose si
protrassero per sedici
ore.
Finalmente
incominciò a venire
fuori, grigio, freddo...
uscì...
un
grosso
ranocchio umano, un
mostro anencefalico,
senza collo, senza
testa, con occhi, naso,
bocca di rana, lunghe
braccia...
Lo
avvolgemmoincartadi
giornale...econquesto
involto sotto il braccio,
per
portarlo
al
laboratorio
di
patologia,
che
sembrava
invocare
tutte
le
possibili
domande che mi ero
posto,dueorepiùtardi
camminavo per O’
Connell Street. Avevo
bisogno
di
bere
qualcosa. Entrai in un
bar
e
appoggiai
l’involto sul banco. E
improvvisamente
mi
venne il desiderio di
toglierlo dalla carta, di
tenerlo alto perché
tutti lo vedessero,
spaventosa testa di
Gorgonedapietrificare
ilmondo”.57
Da questo abisso,
quasi per dimenticarlo,
sorgono le modalità di
addomesticamento
dell’angoscia,
della
“insicurezza
ontologica” che tutti
attanaglia:
legami
personali
contorti,
simmetrieeasimmetrie
nei rapporti umani,
proiezioni allucinatorie
dell’immagine di sé e
degli altri, prigioni
psichiche mortificanti,
trappole banali ma
ineludibili
di
cui
l’esistenza è piena. I
conflitti
stessi
diventano,
paradossalmente, tanto
più
inestricabili,
quantopiùmiranoaun
“sistemadelfalsoio”,a
una
“normalità”
imposta, di facciata:
“Maria
pensa
che
Giovanni è meschino e
incontentabile
/
Giovanni pensa che
Maria è meschina e
incontentabile / più
Maria
ritiene
che
Giovanni è meschino /
più Giovanni ritiene
che
Maria
è
incontentabile / più
Giovanni ritiene che
Maria è incontentabile
/ più Giovanni ritiene
che
Maria
è
meschina”.58
Difficile, sempre, è
mantenere la coesione
armonica
delle
relazioni
interpersonali,
stabilendo regole di
condotta
che
non
portinoavicoliciechio
che non implodano.
Come
mostra
l’antropologia e la
“nuova teoria della
comunicazione”
–
Bateson,
Goffmann,
Watzlawick, Hall –, le
norme sono sempre
insidiate da interne
tendenze
“scismogenetiche”, da
un movimento quasi
tettonico
di
differenziazione
che
tende a sgretolarle, a
trasmetterle distorte, a
invalidarle, a porle in
contraddizione con se
stesse,
a
stabilire
rapporti di “doppio
vincolo” (double bind,
ossia situazioni senza
via
d’uscita,
che
riproduconoilconflitto,
come
nel
caso
dell’alcolizzato
che,
dopo aver ingiunto
solennemente a se
stesso di non bere più,
raggiunge infine una
tensione
psichica
intollerabile, tale da
farlo ricadere nell’atto
che voleva evitare,
tranne poi pentirsi con
altrettanta forza e
ricominciare da capo il
ciclo). Alcune società
come quella balinese,
esaminata da Gregory
Bateson e da Margaret
Mead,59 sono tuttavia
in grado, mediante un
addestramento
che
parte dall’infanzia, di
congelare i conflitti a
un determinato stadio,
eludendo l’alternativa
tralogosepolemos.Le
madri, nel trattare i
loro figli, alternano
infatti–conmutamenti
improvvisi e inspiegati
–lapiùdolcetenerezza
alla più marmorea
indifferenza, le calde
carezze alla glaciale
distanza. Questa sorta
di doccia scozzese
psichica disorienta i
bambini e disattiva la
loro
partecipazione
emotiva
ai
comportamenti altrui,
abituandoli
a
non
sentire né forti ostilità,
né forti attaccamenti.
In questo modo i
conflitti naturalmente
permangono,manonsi
cerca per loro né una
soluzione ragionevole,
né
una
soluzione
violenta.
Si
accantonano
semplicemente
i
contenziosi,
delegandoli
a
un
arbitroesterno:adaltri
ragazzi, a maggiorenti
locali
o,
sino
all’occupazione
giapponesedel1941,al
povero
governatore
britannico, costretto a
dirimere le più spinose
lititrainotabili.
Dal doppio vincolo si
può uscire solo in
maniera
inventiva,
riquadrando
le
situazioni,
creando
strumenti in grado di
spezzarlo, ossia di
sbloccare o aggirare
sbarramenti
che
sembranonormalmente
insormontabili.
Esempio efficace di
riquadramentoèquello
espresso
in
un
aneddoto reso celebre
tra gli psicologi da
Watzlawick.
A
un
ufficiale
giunge
il
comando
di
far
sgombrare la piazza
durante una rivolta. Si
reca così sul luogo e
proclama: “Signore e
signori, ho ricevuto
l’ordine di sparare
sulla canaglia. Ma,
siccome vedo dinanzi a
me
molti
cittadini
onesti e rispettabili,
chiedo
loro
di
andarsene in modo da
poter sparare senza
rischio
sulla
canaglia”.60 Il change,
l’innovazione,èunatto
di
audacia,
che
scardina un sistema
chiuso o riformula una
situazionefossilizzatae
piena di tensioni. La
teoria
del
doppio
vincolo, che “si occupa
della componente di
esperienza dei grovigli
che si formano nelle
regole o premesse
dell’abitudine”,
permette di sciogliere
questi
nodi
promuovendo la loro
“transcontestualizzazione”,
ossial’abbandonodelle
posizioni assunte entro
una cornice che ne
rendeva impossibile lo
sblocco.61
7.Merleau-Ponty:la
tovagliabianca
L’attenzione e, si
direbbe, l’ossessione
del
vedere,
della
spazialità,
della
corporeità,
che
costituivano uno degli
aspetti
della
fenomenologia
husserliana, vengono
enfatizzati in alcuni
settori della cultura
francese, anche come
reazione al privilegio
accordatodaBergsone
dallo spiritualismo alla
temporalità
e
all’interiorità. Ci si
accorge che la res
extensa
non
è
separabile dalla res
cogitans,
né
rappresenta, di per se
stessa, un male, un
disvalore; che il corpo
non è la prigione
dell’anima,
ma,
al
contrario, è “l’anima,
prigione del corpo”.62
A questa tendenza
appartengono,
a
diversotitolo,MerleauPonty e Foucault. In
Maurice
MerleauPonty,
amico
e
collaboratore di Sartre
nella direzione della
rivista
“Temps
modernes”,
c’è
lo
sforzo di restituire,
attraverso
l’esame
della corporeità e delle
sue
relazioni,
una
rinnovata freschezza
allavitapercettiva,una
profondità di campo e
una pluralità di sensi
che il riduttivismo di
stampo meccanicistico
enaturalisticolehanno
fatto
perdere.
Guardare
diversamente,
guardare più a fondo,
scoprire l’intersezione
dei corpi, delle forme,
dei colori, al di fuori
della
banalità
dell’abitudine: a tutto
questo dà accesso la
Fenomenologia della
percezione. Ma anche
l’arte
ci
permette
questo affondo, come
appare nel breve e
denso saggio Il dubbio
di Cézanne. Il pittore
racconta
di
aver
desiderato per tutta la
vita di dipingere ciò
che
Balzac
aveva
descritto in Pelle di
zigrino: una “tovaglia
biancacomeunostrato
di neve caduta di
fresco e sulla quale si
elevavano
simmetricamente
le
posate coronate da
panini biondi”. Ma
come fare? Se si
recingono gli oggetti
conuncontenutonetto,
si
è
fedeli
alla
geometria ma non al
mondovisibile,incuiil
contorno è il limite
ideale verso cui i lati
dell’oggetto fuggono in
profondità. Ma non
stabilire
nessun
contorno,
avvolgere,
come
gli
Impressionisti,
gli
oggettiinun“involucro
luminoso”, utilizzando
solo i sette colori del
prisma e ottenendo la
vibrazione del colore
locale con l’aggiunta
del
suo
colore
complementare, vuol
dire
far
perdere
all’oggetto
la
pesantezza
e
la
materialitàsuapropria:
“Non segnare nessun
contorno
significherebbe
togliere agli oggetti la
loro identità. Segnarne
uno
solo,
significherebbe
sacrificare
la
profondità ossia la
dimensionechecidàla
cosa, non come esibita
davantianoi,macome
pienadiriserveecome
realtà
inesauribile.
Ecco perché Cézanne
seguirà
in
una
modulazionecoloratail
rigonfiamento
dell’oggetto e segnerà
a
tratti
turchini
parecchi contorni. Lo
sguardo,
rinviato
dall’uno
all’altro,
avverte un contorno
nascente tra loro tutti
come
fa
nella
percezione”.63
Non si può, inoltre,
fare più affidamento
alla
prospettiva
geometrica
o
fotografica,
perché
nella percezione reale
“gli
oggetti
vicini
sembranopiùpiccoli,e
gli oggetti lontani più
grandi, di quanto non
lo sembrino su una
fotografia, come si può
osservare al cinema
quando un treno si
avvicina e ingrandisce
molto più rapidamente
di un treno reale nelle
medesime
condizioni”.64
Per
questo le deformazioni
prospetticheneiquadri
di Cézanne (la tavola
sghemba
con
la
“tovaglia bianca come
uno strato di neve
caduta di fresco”) sono
meno arbitrarie di
quanto si creda e
vengono
comunque
riequilibrate
nell’insieme, dando a
chi
le
guarda
“l’impressione di un
ordine nascente, d’un
oggetto
che
sta
comparendo, che sta
coagulandosi sotto i
nostri occhi”.65 Lo
scopodiMerleau-Ponty
è appunto quello di
produrre
dovunque
questa impressione di
“nascita prolungata” di
unmondochesistacca
dalle
rovine
dell’ovvietà percettiva
e
che
vuole
dimenticare,assiemeai
suoi condizionamenti e
ai suoi schemi, anche
l’inerzia del déjà vu.
Tale mondo ha perso
quella
presunta
oggettività
che
il
pittore
dovrebbe
limitarsiariprodurrein
maniera
mimetica,
passiva,trasformandosi
in
una
lastra
fotografica
casualmente
impressionabile.
Lapitturaponebensì
incontattoconilreale,
con l’“Essere muto”,
con il “visibile”, con
l’immanenza
delle
cose, rivelandone però
appunto l’“invisibile”,
l’inafferrabile
trascendenza, il “fuori”
del “dentro” e il
“dentro” del “fuori”.
Entra in contatto con
“un mondo quasi folle,
perché è completo e
parziale nello stesso
tempo [...] risveglia,
porta alla sua estrema
potenza un delirio che
è la visione stessa,
perché vedere è avere
a distanza, e la pittura
estende
questo
bizzarro possesso a
tutti
gli
aspetti
dell’Essere,chedevono
in qualche modo farsi
visibili per entrare in
lei”.66 Per suo tramite
lo spazio racchiude e
fissa il tempo nel suo
fluire, differenziando,
scandendo
e
articolando
l’Essere
indivisoeamorfo.Ogni
quadro diventa così
“una cristallizzazione
del tempo, una cifra
dellatrascendenza”.67
8.Foucault:losguardo
delpotereeletecniche
dell’io
Diversa l’intenzione
di
Foucault
nell’affrontareglistessi
temi della corporeità e
della spazialità. Nella
sua
formazione
si
concentrano idee ed
esperienze di varia e
complessa
matrice:
dalla
filosofia
di
Nietzsche, Heidegger,
Bataille, Blanchot o
Klossowski alla storia
della medicina e delle
istituzioni manicomiali
e carcerarie, dalla
letteratura e dalla
semiotica
alla
polemologia
e
all’economia politica,
dalla geografia (questa
scienza dello spazio
che ha ricevuto in
Francia
la
grande
lezione di Vidal de la
Blache)
alla
storiografia
(soprattutto
quella
delle “Annales”, con la
sua attenzione per la
storia apparentemente
minore, lontana dagli
eventi ufficiali come
“guerre e battaglie”, e
rivolta invece agli
aspetti collettivi e ai
fenomeni di lunga
durata: storia della
mentalità
e
della
sensibilità,
delle
epidemie,
delle
variazioni
demografiche,
del
clima, del paesaggio
agrario, dei vestiti, del
cibo ecc.). Foucault
vuole
appunto
ritrovare,
attraverso
l’“erudizione”,
il
frugare
anche
su
avvenimenti
ritenuti
marginali, la storia
segreta del “potere”
nelle sue vaste e
infinite
ramificazioni
(un tema, questo del
potere, che acquisterà
progressivamente un
esplicito e riconosciuto
valore unificante di
tuttoilcampodellesue
ricerche, sia nella
forma del “governo”
degli altri che del
“governo”disestessi).
Nella Storia della
follianell’etàclassicail
potere si presenta
comerazionalitàcheha
bisognodellafiguradel
pazzo,dell’antagonista,
per
delimitarsi
e
imporsi.
Il
malato
mentale
che
nel
Medioevo – per quanto
la sua vista fosse
perturbante
–
continuava a vivere
all’interno
della
comunità, riunendosi
talvolta persino in una
sorta di corporazione,
viene poi rinchiuso,
isolato,
utilizzando
dapprima i lazzaretti e
gli edifici rimasti vuoti
quando si attenuò
l’incidenza
delle
epidemie. Egli è ora
considerato pericoloso,
perché il suo esempio
di rifiuto delle regole
del gioco imposte dalla
nascente “razionalità”
è
suscettibile
di
contagiaretuttiglialtri
scontenti.
Nella
Nascita della clinica è
il
nuovo
“sguardo
medico”
a
essere
esaminato, il momento
incuilapercezionedel
curante ringiovanisce,
negliultimidecennidel
Settecento,
e
si
cominciano a vedere e
a esprimere cose che
prima non apparivano.
Lo spazio percettivo si
è
ristrutturato,
la
distribuzione
del
visibile e dell’invisibile
è mutata, le parole si
sonoalleateallecosein
manieradiversa.Nonsi
passa in realtà da una
medicina aprioristica a
una sperimentale, da
una
cervellotica
combinatoria di umori
e di umido e secco alla
lettura
vigile
dei
sintomi e alla cura
efficace, ma da un
ordine dello spazio e
del discorso a un altro.
Ora, “le forme della
razionalità
medica
s’immergono
nel
meraviglioso spessore
della
percezione,
offrendo come primo
volto della verità la
granadellecose,illoro
colore,leloromacchie,
la loro durezza, la loro
aderenza. Lo spazio
dell’esperienza sembra
identificarsi al dominio
dello sguardo attento,
dellavigilanzaempirica
aperta all’evidenza dei
soli contenuti visibili.
L’occhio diventa il
depositario e la fonte
della chiarezza; ha il
potere di portare alla
luce una verità che
accoglie solo nella
misuraincuilehadato
vita [...]. Alla fine del
XVIII secolo, vedere
consiste nel lasciare
all’esperienza la più
grande
opacità
corporea; il solido,
l’oscuro, la densità
delle cose rinchiuse in
loro
stesse
hanno
poteridiveritàchenon
traggonodallaluce,ma
dalla lentezza dello
sguardo
che
le
percorre, le contorna e
le penetra a poco a
poco,nonportandomai
altro che la propria
chiarezza.
La
permanenza
della
verità nel nucleo cupo
delle
cose
è
paradossalmente
legata a questo potere
sovrano dello sguardo
empirico che mette in
luce la loro notte [...].
La singola qualità,
l’impalpabile colore, la
forma
unica
e
transitoria, acquisendo
lo statuto dell’oggetto,
hanno assunto il suo
peso e la sua solidità.
Nessunalucepotràpiù
dissolverli nelle verità
ideali;
ma
l’applicazione
dello
sguardo, volta a volta,
li desterà e li farà
valeresuunosfondodi
oggettività”.68
Dall’âge classique in
poi (l’espressione va
intesa in riferimento
allastoriadellacultura
francese, dalla metà
circa del Seicento in
poi)unaretedisguardi
copreilmondo:sguardi
che
si
incrociano
secondo diversi assi
prospettici, come nel
quadro di Velázquez
Las
Meninas,
analizzato da Foucault
neLe parole e le cose,
oppure
sguardi
dissimmetrici
di
dissociazione,
come
nella
struttura
carceraria
del
Panopticon,descrittain
Sorvegliare e punire:
“alla periferia una
costruzione ad anello;
al centro una torre
tagliata
da
larghe
finestre che si aprono
verso la faccia interna
dell’anello;
la
costruzioneperifericaè
divisa in celle, che
occupano
ciascuna
tutto lo spessore della
costruzione;
esse
hannoduefinestre,una
verso
l’interno,
corrispondente
alla
finestra della torre;
l’altra, verso l’esterno,
che permette alla luce
di attraversare la cella
daparteaparte[...].Il
Panopticon
è
una
macchina
per
dissociare la coppia
vedere-essere
visti:
nell’anello periferico si
è totalmente visti,
senzamaivedere;nella
torre centrale, si vede
tutto, senza mai essere
visti”.69
Il potere segrega,
sorveglia,
punisce,
criminalizza chi gli si
oppone, si esercita nei
luoghi umili più che
nello splendore delle
aule parlamentari o
delle
corti:
nelle
cameratedeimanicomi
e delle caserme, nelle
corsie degli ospedali,
nellestanzedeicollegi,
nelle aule scolastiche.
Esso non lavora infatti
all’ingrosso,
irradiandosi
da
un’unica testa ben
individuabile e lungo
canali di trasmissione
privilegiati,
ma
al
dettaglio, in modo
“microfisico”,
infiltrandosi
e
permeando ogni piega
della società. E chi lo
rappresenta non sono
solo
i
grandi
personaggi ma una
miriade
di
uomini
piccoli e medi e, al
limite,tutti,dalmedico
all’infermiere,
dal
burocrate
al
sottufficiale,
dal
poliziottoalprofessore.
Eilpoterenonèsopra
ma dentro la società,
non
si
diffonde
attraverso l’ideologia o
il consenso soltanto,
ma attraverso mille
pratiche
che
coinvolgono il corpo e
lo spazio. Suddivide
minuziosamente
il
territorio
e
gli
ambienti, regola le
distanze
tra
gli
individui, si insinua
attraverso la disciplina
e la sessualità nel
corpo
dei
singoli.
Nell’età
feudale
il
potere
pretendeva
dagli individui segni di
fedeltà e procedeva al
prelevamento di parte
dei loro beni; a partire
dall’età classica si
chiedono
loro
prestazioni produttive.
Il corpo deve essere
nello stesso tempo
politicamente
più
docile
ed
economicamente
capace di un maggiore
rendimento.
Deve
essere più sensibile e
piùmalleabile.
Inizia
così
(con
l’economia politica, la
medicina, le “scienze
umane”
ecc.)
la
scoperta
dell’uomo,
questo essere nuovo,
corporeo, plasmato dal
potere e dal sapere. Il
potereinfattinonèper
Foucault basato sulla
pura repressione, sulla
proibizione, sul dire di
no, sull’ideologia e
sulla falsa coscienza.
Contro la tradizione,
contro Reich, contro
Althusser,
egli
rivendica la funzione
produttivadelpotere,il
suo
carattere
affermativo, la sua
capacità di produrre
verità, sapere, scienza.
Il sapere è anzi
inscindibile dal potere
ed essi si generano a
vicenda: “la verità non
èaldifuoridelpotere,
né senza potere (essa
non è, nonostante un
mito
di
cui
bisognerebbe
riprenderelastoriaele
funzioni, la ricompensa
degli spiriti liberi, il
parto delle lunghe
solitudini, il privilegio
di quelli che hanno
saputo affrancarsi). La
verità è di questo
mondo; essa vi è
prodotta
grazie
a
molteplicicostrizioni.E
vi
detiene
effetti
obbligati di potere.
Ogni società ha il suo
regimediverità,lasua
‘politicagenerale’della
verità: i tipi di discorsi
cioè che accoglie e fa
funzionare come veri; i
meccanismieleistanze
che permettono di
distinguere
gli
enunciati veri o falsi, il
modo
in
cui
si
sanzionanogliuniegli
altri; le tecniche e i
procedimenti che sono
valorizzati per arrivare
allaverità;lostatutodi
coloro
che
hanno
l’incarico di designare
quelchefunzionacome
vero”.70
Tra
“teoria”
e
“ideologia” non vi è
dunque
quella
separazione
netta,
quella coupure, che vi
trova Althusser. Allo
stesso modo, sul piano
della sessualità, il
potere non la reprime,
come crede Reich, ma
dàsolol’impressionedi
conculcarla,
di
penalizzarla. In realtà,
traducendola
in
discorso, ne Lavolontà
di
sapere,
questo
stesso potere elettrizza
ilcorpo,losensualizza,
lo
trasforma
in
problema
continuamente
discusso, promuove lo
studio delle sessualità
periferiche
e
“perverse” unicamente
quale fase preliminare
a un loro progressivo
inglobamento in una
sessualità
polimorfa
“normale”. Sorge un
nuovo
tipo
di
specificazione
dell’individuocheègià
inattosottolaguidadi
strategie
anonime,
mute,dispersivemesse
in opera dai biopoteri,
forme cioè di gestione
politica della vita, che
mirano al controllo
della riproduzione e al
nesso (ormai avvertito
comeinscindibile)della
coscienza
con
la
corporeità. Essi non
cercano di distrarre i
soggetti dalla politica,
di spostare il suo
baricentro dall’agorá
all’alcova,madicreare
un
potere
“somatizzato”, capace
dientrareinognifibra,
e di esercitarsi sulle
dinamiche
demografiche. Il corpo
è avvolto nelle “spirali
perpetue del potere e
delpiacere”71apartire
dallo stesso periodo in
cui la punizione dei
delitti non avviene più
attraverso
supplizi
efferati ed esecuzioni
pubbliche,
ma
attraverso dolori più
“felpati”, la reclusione
nelle
carceri
(che
diventano
vere
e
proprie
fabbriche
statali di delinquenza,
un prodotto di cui il
potere ha bisogno per
mantenere sveglia la
paura in quegli stessi
che opprime e che
vengono così indotti a
richiedere
la
sua
protezione)elapenadi
morte
comminata
sempre più raramente,
di nascosto e in forma
istantanea.
Nelle
società industriali, del
resto, il corpo ha un
valore maggiore che
non
in
quelle
precedenti, dove la
morte era, per giunta,
una
presenza
più
familiare
e
meno
temuta,
per
l’imperversare
della
fame, dei massacri,
delle epidemie o per
l’alto
tasso
della
mortalitàinfantile.
Se il potere è oggi
onnipervasivo,
microfisico,
non
sempre identificabile
nelle sue fonti di
emissione,serveapoco
combatterlo su un
piano
generale,
elaborare
strategie
complessiveeutopiedi
riforma sociale. Poiché
esso
opera
sui
particolari,
è
sui
particolari che bisogna
scardinarlo
(non
perché
possa,
in
quanto tale, essere
abolito e sostituito con
uno
migliore,
ma
semplicemente perché
in questa forma è
diventato intollerabile),
portando la battaglia
sul terreno accidentato
e
discontinuo
dei
focolai
di
insubordinazione.
Stimolato
dalla
tradizione francese di
studi polemologici – si
pensi soprattutto a
Bouthoul –, dal libro di
Aron su Clausewitz e
dallateoriamatematica
deigiochiapplicataalla
guerra,
Foucault
delinea un modello
militare
di
interpretazione della
politica e della teoria:
non la dialettica, che
schiva
la
realtà
“sempre aleatoria ed
aperta”,
né
la
semiologia, che ne
schiva “il carattere
violento, sanguinoso,
mortale,schiacciandola
sulla forma pacificata,
e
platonica,
del
linguaggio
e
del
dialogo”,72
possono
spiegare il mondo
politico e intellettuale,
ma la guerra. E non
solo
quella
guerreggiata,
ma
quella “silenziosa” che
pervade
il
corpo
sociale, dimodoché la
politica, rovesciando il
detto di Clausewitz, è
la prosecuzione della
guerra con altri mezzi
e la teoria è sempre
un’arma che produce
potere, rafforzando il
vecchio o contribuendo
a crearne uno nuovo.
La dimensione politica,
come attività collettiva
tesa alla modificazione
della società nel suo
insieme,
cade
contestualmente
all’ideaditotalitàealla
dialettica. L’immagine
della
totalità
è
inibitoria, e anche sul
terreno teorico sono i
saperi
particolari,
discontinui,
specialistici, che hanno
incidenza reale e che
possono
progredire,
mentre le costruzioni
generali
(quali
il
marxismo
o
la
psicoanalisi)hannouna
funzione
solo
se
vengono smontate e
utilizzate in singole
parti. Il concetto di
totalità è d’altronde
strettamente legato a
quellodidialetticaedè
destinato a scomparire
gradualmenteconesso.
L’homo
dialecticus,
“l’essere
della
partenza, del ritorno e
del tempo, l’animale
che perde la sua verità
e la ritrova illuminata,
l’estraneo a se stesso
che
ridiventa
familiare”,73 sta per
essere superato in una
prospettiva di lungo
periodo, analoga a
quella heideggeriana
dell’avvento
del
pensiero
ultrametafisico.
Finora
l’uomo
occidentale ha dovuto
conquistare la propria
identità
solo
contrapponendosi
all’altro da sé, al
rimosso, al negativo di
se stesso (il folle, il
peccatore,
il
delinquente), per poter
poi rientrare in sé,
fortificato da questa
lotta e immunizzato
contro
l’attrazione
esercitata da quelle
stesse alterità che si
combattono.
La
dialetticaècosìlacifra
teorica di una pratica
socialediffusadasecoli
in Europa (qui la
cronologia è incerta:
dal
Concilio
Lateranense del 1215,
come appare da La
volontà di sapere, o
dall’âgeclassique,oda
Hegel?), una sorta di
rito
iniziatico
per
diventare adulti in un
mondoconflittuale,per
conciliarsi, sotto il
pungolo del potere e
dopo lunghe peripezie,
con se stessi e con la
realtà.Oggi,sidirebbe,
la conciliazione non è
più
possibile
né
auspicabileeiprivilegi
accordati
alla
particolarità
contro
l’universale,
all’esperienza diretta e
locale
contro
le
mediazionielatotalità,
a una pluralità di
“ragioni” contro la
ragione
una
e
monoliticasonosintomi
della
dichiarata
disintegrazione
del
modello dialettico, del
recupero
dell’unità
attraverso
l’opposizione
e
il
molteplice (l’idea della
dialettica
come
sviluppo attraverso le
contraddizioni
si
attenua
contestualmente alla
crisi dello sviluppo
reale,
all’imbrigliamentodelle
contraddizioni
dirompenti
in
un
mondominacciatodalla
distruzione nucleare e
alla caduta del grande
progetto classico di
riunificazione
del
genere umano sotto
una ragione unica ma
in grado di accogliere,
in
tensione,
la
molteplicità?).
Foucault è qui vicino
alle
posizioni
di
Deleuze e di Guattari,
che
respingono
l’alternativa
e
l’opposizione tra uno e
molteplice, tra identità
e contraddizione – le
categoriefondantidella
dialettica da Platone a
Hegel – e a esse
sostituiscono
l’alternanza
di
“differenza”
e
“ripetizione” e una
concezione
disseminativa,
“rizomatica”,
della
razionalità,
in
cui
esistono innumerevoli
connessioni tra regioni
del
sapere
non
unificabili,
un
arcipelago di ragioni
non
riconducibile
all’identità.74
Ma
Foucaultnonconsidera
questa sporulazione di
forme razionali come
un fenomeno eterno.
C’è in lui l’idea (al
limitedell’utopia,tanto
disprezzata) che in un
remoto futuro, quando
la consumazione del
pensierodialetticosarà
completa,
diventerà
possibile
una
incorporazione
non
dialettica dell’alterità,
analoga
all’assorbimento già in
atto delle sessualità
periferiche in una
nuova
sessualità
normale
polimorfa.
Allora,
in
questa
situazione pacificata,
“tuttoquelchenoioggi
proviamo
relativamente
alla
modalità del limite, o
della estraneità, o del
non sopportabile, avrà
raggiunto la serenità
del positivo” e la
ragione
dialettica
diventerà altrettanto
incomprensibilequanto
lo sono per noi i
comportamenti
dei
primitivi: “Il gioco così
familiare di mirarci
all’altro termine di noi
stessi nella follia, e di
protenderci all’ascolto
di voci che, venute da
molto
lontano,
ci
dicono da vicino ciò
che noi siamo, quel
gioco, con le sue
regole, le sue tattiche,
lesueinvenzioni,lesue
astuzie,lesueillegalità
tollerate, non sarà più,
e per sempre, se non
un
rituale
i
cui
significati
saranno
ridotti
in
cenere.
Qualcosa
come
le
grandi cerimonie di
scambio e di rivalità
nelle
società
arcaiche”.75
Nell’ultimo decennio
della sua vita Foucault
(scomparso nel 1984)
opera una svolta nel
propriopensiero.Passa
dall’analisi
delle
procedure
di
trasformazione
degli
esseri umani in oggetti
a quella della loro
trasformazione
in
“soggetti” (nel duplice,
divergente
senso
dell’assoggettamento e
del rendersi padroni di
sé), dalla volontà di
potere a quella di
verità,
da
temi
affrontati
in
età
moderna a questioni
già “problematizzate”
nell’antichità greca e
romana.
L’individuo
capace di organizzare
la propria esistenza e
di darle significato
rappresentaorailnodo
principale
della
riflessione di Foucault,
che non cade tuttavia
in una prospettiva
individualistica,
neoliberale o anarchicolibertaria. Lo Stato
moderno, occidentale,
delresto,conoscebene
la
questione
dell’individualità,
perché non cessa di
produrla,
intrecciandola
però
indissolubilmente
a
formeditotalizzazione.
Assorbe con ciò più
remote tecniche di
controllo dei singoli, la
cui origine risale al
“potere
pastorale”
della Chiesa, orientato
alla salvezza degli
individui più deboli,
dell’ultima “pecorella
del gregge”, anche a
costo del sacrificio del
“pastore”,delcapo.Sia
la Chiesa che lo Stato
moderno sono costretti
a
conoscere
l’interiorità
degli
individui
e
a
organizzare la loro
verità “singulatim”. Lo
Welfare State non si
interessa certo della
salvezza dell’anima dei
cittadini, ma del loro
benessere e protezione
da tutte le intemperie
della vita. In tal modo
permette loro, tuttavia,
di
dedicarsi
maggiormente
ai
propriprivatiobiettivi.
Per quali strade il
soggetto moderno può,
nello stesso tempo,
sfuggire al paradosso
dell’individualizzazione
totalizzante
e
abbandonare l’illusorio
rifugio della chiusura
in se stesso, della
dimensione
contemplativa espressa
dal
“conosci
te
stesso!”? Come fare
per accedere al campo
pratico del “governa te
stesso!”?
Foucault
cerca ora la risposta
nel mondo antico,
pagano e cristiano. In
un’epoca,
avvertita
come analoga alla
nostra (in cui i codici
morali legittimati dalla
tradizione hanno cioè
perduto autorità e
prestigio) non resta al
singolo che ricorrere
alla “cura di sé”. In
mancanza di norme
socialmente
condivisibili, egli è
infattitenutoascolpire
sestessoalparidiuna
statua,
diventando
legislatore
della
propria vita. In questa
fase
un
valore
esemplare assume, per
Foucault, l’ideale del
saggio stoico di età
romana
(Seneca,
Musonio Rufo, Marco
Aurelio), che vuole
trasformarsi,
con
“esercizi
spirituali”
quotidiani, in opera
d’arte.
L’“estetica
dell’esistenza”
si
presenta
pertanto
qualeunicaeticadegna
di
questo
nome,
“lavoro” condotto da
ciascuno su di sé,
misura che ci si dà –
come
insegna
la
filosofia greca del IV
secolo a.C. – anche nel
godimento
dei
piaceri.76 Non si tratta
più di imporre una
disciplina agli altri per
mezzo dei manicomi,
delle prigioni, delle
fabbriche
o
delle
scuole,
ma
di
sottomettersi
individualmente
a
principi
liberamente
accettati e lungamente
meditati. Una ulteriore
conquista – di cui il
pensiero moderno si
impadronirà – viene
compiuta
dal
cristianesimo. La “cura
di sé” degli stoici,
l’esame di coscienza
teso a perfezionare la
propria
vita,
si
trasforma
nel
monachesimodeiprimi
secoli dell’era volgare
inuncorpoditecniche
per costringere la
“carne” a confessare i
suoi
peccati,
per
estrarre le verità più
nascoste
dalle
profondità del proprio
animoeformularlecon
chiarezza,
autoaccusandosi
dinanziaDio,chetutto
vedeecomprende.Allo
scopoditrascenderese
stesso,
purificandosi
dalle scorie terrene, il
cristiano deve pertanto
“sondarsi per sapere
chiè,quelchesuccede
all’interno di se stesso,
glierrorichehapotuto
commettere,
le
tentazioni a cui si è
esposto. Ma, ciò che è
piùimportante,ognuno
deve dire queste cose
ad altri, e portare così
testimonianza contro
se stesso”.77 L’esporsi
allo sguardo di Dio
rende trasparente non
tanto la fantasmatica
essenza del soggetto,
quanto le “tecnologie
dell’io”, i meccanismi
anonimi
della
sua
ininterrotta
costruzione.
Negli ultimi corsi al
Collège de France, tra
il 1979 e il 1984,78 il
filo conduttore del
pensiero di Foucault è
costituito
dalla
domanda su come
abbia potuto formarsi
l’esperienza di sé,
tipica del soggetto
occidentale.79Sitratta,
certo, di una delle
tante tecniche, “come
ne
esistono
probabilmente in ogni
civiltà, che vengono
proposte o prescritte
agli
individui
per
fissare la loro identità,
per
mantenerla
o
trasformarla
in
funzione di un certo
numerodifini,equesto
grazie a rapporti di
padronanza di sé su se
stessi o di conoscenza
di sé da parte di se
stessi”.
L’aspetto
specifico della cultura
occidentale consiste,
tuttavia, nell’impegno
ad approfondire, in
misura
maggiore
rispetto alle altre, le
forme di scissione e di
presadidistanzadasé,
le procedure dello
sdoppiarsi
e
del
guardarsi come un
altro
da
sé
per
rientrare
successivamente in se
stessialloscopo,daun
lato, di conquistare
l’autonomia
della
propria
soggettività,
dall’altro,
di
modificarsi, di autosovvertirsi.
Consiste
nel
porsi
insistentemente queste
domande: “Che fare di
se stessi? Che lavoro
operare su se stessi?
Come
‘governarsi’
esercitando azioni di
cui si è l’obiettivo, il
campo di applicazione,
lo strumento utilizzato
e
il
soggetto
agente?”.80
Ciò vale soprattutto
daquando,allafinedel
Settecento, il soggetto
occidentale non si
interroga tanto sul
rapporto
verità/soggetto, come
si
presenta
in
Descartes, quanto sul
rapporto
verità/vita,
come appare nel Kant
della
Critica
del
Giudizio, nello Hegel
della
Fenomenologia
dellospirito,nell’intera
opera di Nietzsche o
nello Husserl della
Krisis.81 Questi autori
convocatidaFoucaulta
sostegno delle sue
ultime
posizioni
mostrano come, per
dire la verità su se
stessi e modificarsi, vi
sia oggi bisogno, più
che di maîtres à
penser, di maîtres
d’existence.
9.Parfitoiltunneldi
vetrodell’identità
Per effetto della
crescente complessità
della vita sociale e per
l’espandersi
della
globalizzazione,
la
domanda sull’identità
di ciascuno e su quella
diinterigruppiopopoli
ha
acquistato
una
maggiore urgenza. Da
termine
logico
e
matematico
per
designarel’eguaglianza
di qualcosa con se
stessa,
la
parola
“identità”
è
così
passata a indicare una
forma di appartenenza
ancorata
a
fattori
naturali (il sangue, la
razza, il territorio) o
simbolici (la nazione, il
popolo,
la
classe
sociale). Inflazionata,
come il suo opposto
complementare,
l’“alterità”, è ormai
diventato
difficile
descriverla una volta
depurata dalle sue
spesse
incrostazioni
retoriche.82
Proprio
perquestoènecessario
capire a quali esigenze
obbedisca il bisogno di
identità, perché sia
inaggirabile in tutti i
gruppi umani e negli
stessi individui, perché
abbia questa costanza
nel tempo e nello
spazio, e in quante
forme, accettabili o
meno,essosideclini.
Da
epoche
immemorabili tutte le
comunità
umane
cercano, infatti, di
mantenere
la
loro
coesione nello spazio e
nel tempo mediante la
separazione dei propri
componenti
dagli
“altri”. La formazione
del “noi” esige dunque
rigorosi meccanismi di
esclusione più o meno
conclamatie,spesso,di
attribuzione a se stessi
di qualche primato o
diritto. La xenofobia
rappresenta il risvolto
più
rozzo
ed
elementare
della
compattezza di gruppi
e comunità che si
sentono o si vogliono
diversidaglialtrieche
intendono manifestare
per suo tramite la
propriadeterminazione
aesseresestesse.Essa
è l’espressione di un
forte
bisogno
di
identità, spesso non
negoziabile neppure in
cambio di vantaggi
economici e politici.
Sebbene si manifesti
attraverso una larga
gamma di sfumature,
nella sua dinamica di
inclusione/esclusione,
l’identità è sempre
intrinsecamente
conflittuale. Realmente
o
simbolicamente,
circoscrivechièdentro
unadeterminataareae
respinge
gli
altri.
Eppure,
per
non
soffocare nel proprio
isolamento, ciascuna
società deve lasciare
aperte alcune porte,
prevedere cioè dei
meccanismi opposti e
complementari
di
inclusione dell’alterità.
Certo, i vincoli di
appartenenza
sono
necessari
a
ogni
gruppoumanoeaogni
individuo,manonsono
naturali
(come
potremmosopravvivere
se non sapessimo chi
siamo?): sono stati
costruiti
e
sono
continuamente
da
costruire,
proprio
perché l’identità è un
cantiereaperto.
Il regolamento dei
rapporti con i non
appartenenti a un
determinato
gruppo
mostra pertanto una
costitutivaambiguità.
Ma il costruire se
stessi, nella forma
dell’identità,
della
coerenza,
della
massima
consapevolezza
e
vigilanza morale è
davvero
importante?
Ne dubita il filosofo
inglese Derek Parfit.
Nella sua prospettiva
“riduzionista”, infatti,
identity
does
not
matter,
l’identità
personalenonèciòche
importa, ciò di cui
dobbiamo
preoccuparci. Essa mi
interessa solo come
mezzo per un fine, che
consiste nell’assicurare
la
mia
continuità
psicologica futura in
qualsiasi forma (e non
solo come persona
fisica,
ma
anche,
poniamo, come ricordo
incorporato
nella
memoriadialtri).
Il non preoccuparsi
più dell’identità viene
presentatodaParfitsia
quale
liberazione
dall’angoscia di fronte
alla morte e dalle
connesse,
inevitabili
preoccupazioni
centrate
esclusivamente su se
stessi,
sia
quale
simultaneo
rafforzamento
del
sensodisolidarietàcon
gli
altri:
“Se
smettessimodipensare
checiòchecontasiala
nostra identità, questo
fatto potrà influire su
alcunenostreemozioni,
per esempio il nostro
atteggiamento
nei
confronti
della
vecchiaia
e
della
morte”.Conunaspecie
di consolatio stoica,
Parfitaggiungeche,se,
invece di dire: “Sarò
morto”,dicessi“Nonci
sarà alcuna esperienza
futurachesiacollegata
in certi modi alle mie
esperienze presenti”,
tale riformulazione del
mio
pensiero
e
atteggiamento,
“ricordandomichecosa
comporti il fatto della
miamorte,melarende
meno deprimente”. Il
nonpensareall’identità
come permanenza di
me stesso, ma come
sganciamentodellemie
esperienze
dalla
continuità psicologica
col
passato,
renderebbe tutto assai
piùsemplice.
In un’epoca in cui i
progressi
delle
biotecnologie,
dei
trapianti di organi,
della
clonazione
possono trasformare in
scienza quella che
prima era sciencefiction, anche l’identità
personale cessa di
esserelegataalcriterio
della continuità fisica
dell’individuo integro
nel tempo e della
continuità psicologica
legataallatotalitàdella
persona. È vero che
l’identità non viene,
come avrebbe detto
Locke, scalfita qualora
mi
si
asporti
il
“mignolo”. Ma cosa
succederebbe se il mio
cervelloopartediesso
venisse trapiantato nel
corpo di un altro e
viceversa?
E
cosa
accadrebbe
se,
mediante un’ipotetica
macchina,
il
teletransporter,
un’esatta replica di me
stesso
venisse
riprodotta su Marte
(tanto “identica” che
sul viso vi è anche il
taglio che mi sono
prodotto
questa
mattina mentre mi
facevo la barba)? E se
poi, per un qualche
guasto, il me stesso
rimasto sulla Terra
morisse e quello di
Marte sopravvivesse,
quale dei due sarebbe
il vero io? Attraverso
questi esperimenti per
ora soltanto mentali di
duplicazione
e
di
produzione
di
replicanti seriali di un
io (token persons)
giungiamoperParfitad
ammettere che quel
che ha valore non è la
permanenza
dell’individualità
in
quanto
indivisibilità,
ma, per l’appunto, la
continuità psicologica
comunque
raggiunta
attraverso
dei
mediatori. Il criterio di
tale tipo di continuità
(relazione
R)
sostituisce così quello
dell’identità personale:
“Ciò che conta è la
relazione R. R è la
connessione e/o la
continuità psicologica
dovutaalgiustotipodi
causa”.
Il sereno abbandono
dell’identità personale
produce una effettiva
emancipazione
dalle
paure,
poiché
–
cessando di mirare
all’immortalità – si
guadagna
una
maggiore pienezza di
senso.
Esso
è
paragonabile a un
paradossale
sistema
zen per ritrovare se
stessi. Accade, in altri
termini, qualcosa di
analogoallanciodiuna
frecciaquandononsiè
più
ossessionati
dall’incalzante volontà
difarcentroesifinisce
così–perilfattostesso
di
essere
completamente
rilassati
e
non
concentrati
–
per
cogliere effettivamente
il bersaglio. Tradotto
ancora in altri termini,
si potrebbe dire: non
pensare
all’identità,
perché
tanto
è
l’identità che pensa a
te
stesso.
Tale
atteggiamento
ci
permette così di uscire
da un lungo incubo:
“Quando credevo che
la mia esistenza fosse
quel fatto ulteriore, io
misentivoimprigionato
in me stesso. La mia
vita mi sembrava un
tunnel di vetro in cui,
anno dopo anno, mi
muovevo sempre più
velocemente,eallafine
del quale c’era il buio.
Quando
cambiai
opinione, le pareti del
mio tunnel di vetro
scomparvero. Ora vivo
all’aria aperta. C’è
ancora una differenza
tra la mia vita e quella
degli altri, ma una
differenza minore. Gli
altrimisonopiùvicini.
Iomiinteressodimeno
del resto della mia vita
e mi interesso di più
dellavitadeglialtri”.83
1E.Husserl,Ideeper
una
fenomenologia
puraeperunafilosofia
fenomenologica,
Einaudi, Torino 1965,
p.123.
2Th.W.Adorno,Sulla
metacritica
della
gnoseologia, SugarCo,
Milano1964,p.203.
3E.Husserl,Ideeper
una
fenomenologia
puraeperunafilosofia
fenomenologica‚ cit., p.
59.
4Ivi,p.584.
5 E. Husserl, Ms. D
13xxiv,cit.inG.Piana,
Un’analisi husserliana
delcolore,in“autaut”,
marzo1966,92,pp.2130.
6E.Husserl,Ideeper
una
fenomenologia
puraeperunafilosofia
fenomenologica‚ cit.,
pp.455-456.
7 Id., La crisi delle
scienze europee e la
fenomenologia
trascendentale,
il
Saggiatore,
Milano
1961,p.46.
8Cfr.ivi,p.47.
9E.Husserl,Ideeper
una
fenomenologia
puraeperunafilosofia
fenomenologica‚ cit., ii,
Ricerche
fenomenologiche sopra
la costituzione, pp.
764-765,49,580.
10 A. Schütz, Sulle
realtà multiple, in
Scrittisociologici,Utet,
Torino1979,p.205.
11 Id., Il problema
della
rilevanza,
Rosenberg & Sellier,
Torino1975,pp.56-57.
12 P. Berger, B.
Berger,H.Kellner,The
Homeless
Mind,
Penguin
Books,
Harmondsworth1973e
P. Berger, Le piramidi
del sacrificio. Etica,
politica
e
trasformazione sociale,
Einaudi, Torino 1981,
pp.140-143.
13 S. Beckett, Testi
per nulla, in Primo
amore. Novelle. Testi
per nulla, Einaudi,
Torino1979,p.111.
14 Sh. Cavan, Liquor
Licence:
An
Ethnography of Bar
Behavior,
Aldine
Publications, Chicago
1966.
15Cfr.M.Heidegger,
Essereetempo(1927),
Longanesi,
Milano
1970, Sezione ii, ii, §§
57,pp.414,416.
16
M. Heidegger,
L’epoca dell’immagine
del mondo, in Sentieri
interrotti, La Nuova
Italia, Firenze 1968,
pp.89-90.
17 Id., Perché i
poeti?,
in
Sentieri
interrotti,p.287.
18Ibid.
19 M. Heidegger,
Oltrepassamento della
metafisica, in Saggi e
discorsi,
Mursia,
Milano1976,p.46.
20 M. Heidegger, La
questionedellatecnica,
inSaggiediscorsi‚cit.,
p.11.
21Ivi,p.12.
22Ivi,p.13.
23 M. Heidegger,
Perché i poeti?‚ cit., p.
267.
24
Cfr. Cartesio,
Opere, Laterza, Bari
1967, ii, pp. 81-82; G.
Simmel,DerHenkel,in
Philosophische Kultur
(1911), ora in Das
individuelle
Gesetz.
Philosophische
Exkurse,
Suhrkamp,
Frankfurt a. M. 1968,
pp. 96-104 e E. Bloch,
Una vecchia brocca
(1918),
in
Spirito
dell’utopia, La Nuova
Italia, Firenze 1980,
pp. 11-14 (su cui cfr.
anche Th.W. Adorno,
Henkel,Krugundfrühe
Erfahrung, in Aa.Vv.,
ErnstBlochzuehren,a
cura di S. Unseld,
Suhrkamp,Frankfurta.
M.1965).
25 M. Heidegger, La
cosa, in Saggi e
discorsi‚cit.,p.114.
26 E. Bloch, Una
vecchia brocca‚ cit., p.
13.
27 Cfr. W. Benjamin,
Franz
Kafka,
in
Angelus
Novus,
Einaudi, Torino 1962,
p.282.
28F.Kafka,Racconti,
Feltrinelli,
Milano
1964,pp.147-148.
29 L. Wittgenstein,
Tractatus
logicophilosophicus, Einaudi,
Torino 1964, 4.014,
4.0141.
30Ivi,4.016.
31Ivi,5.1361.
32Ivi,6.3.
33Ivi,6.44.
34 L. Wittgenstein,
Ricerche
filosofiche,
Einaudi,Torino1967,I,
§23,p.22.
35Ivi,I,§65,p.46.
36Ivi,I,§38,p.31.
37Ivi,I,§108,p.65.
38Ivi,I,§88,p.59.
39Ivi,I,§107,p.65.
40Ivi,II,p.290.
41
Cfr. S. Weil,
L’Iliadeoulepoèmede
la force (1940-41), in
Oeuvres
complètes,
Gallimard, Paris 1988
sgg.,t.ii,iii(1989),pp.
227-253, in particolare
pp.227,236,231.
42 Id., Attente de
Dieu
(1942),
La
Colombe, Paris 1949,
p.87.
43
J.-P.
Sartre,
L’essere e il nulla, il
Saggiatore,
Milano
1965,p.325.
44Ivi,p.328.
45Ivi,p.333.
46
J.-P. Sartre, Il
rinvio,
Mondadori,
Milano 1973, pp. 384385.
47 J.-P. Sartre, Santo
Genet, commediante e
martire, il Saggiatore,
Milano1972,p.18.
48 Id., Immagine e
coscienza,
Einaudi,
Torino1948,p.21.
49Ivi,p.193.
50Ivi,p.284.
51J.-P.Sartre,Critica
dellaragionedialettica,
il Saggiatore, Milano
1963,i,p.29.
52Ivi,i,p.65.
53Ivi,i,p.387.
54 Cfr. A. Esterson,
Foglie di primavera.
Un’indagine dialettica
sulla follia (1970),
Einaudi, Torino 1973,
p. 42: “Per esempio,
Giovanni si considera
un uomo affettuoso e
amichevole e vede che
Giacomo lo considera
freddo e riservato. Se
Giovanni si identifica
con l’opinione che
Giacomo ha di lui, la
sua
identità
significativamente
alterata”.
è
55 R.D. Laing, La
politica dell’esperienza
(1967),
Feltrinelli,
Milano 1968, pp. 114,
133.
56Ivi,pp.177-178.
57Ivi,p.178.
58 R.D. Laing, Nodi
(1970), Einaudi, Torino
1974,p.55.Cfr.Id.,Mi
ami? (1976), Einaudi,
Torino1978,p.47:“Lei
è odiosa con me, / così
io sono odioso con lei /
lei segue me / così io
seguolei”.
59 Cfr. G. Bateson,
M. Mead, Balinese
Charachter.
A
Photographic Analysis,
The
New
York
Academy of Sciences,
New York 1942; il
volume è corredato da
circa700fotografie.
60
Questo e altri
esempi
in
P.
Watzlawick,
J.H.
Beavin, D.D. Jackson,
Change
(1974),
Astrolabio,Roma1978.
61
G.
Bateson,
Doppio vincolo (1969),
in Verso un’ecologia
della mente, Adelphi,
Milano1978,p.299.
62
M.
Foucault,
Sorvegliare e punire,
Einaudi, Torino 1976,
p.33.
63 M. Merleau-Ponty,
IldubbiodiCézanne,in
Senso e non senso,
Garzanti, Milano 1974,
p.33.
64Ivi,p.32.
65Ivi,p.33.
66 M. Merleau-Ponty,
L’occhio e lo spirito
(1964), SE, Milano
1989,p.23.
67 Id., Il visibile e
l’invisibile
(1964),
Bompiani,
Milano
1993,pp.223,232.
68 M. Foucault, La
nascita della clinica,
Einaudi, Torino 1969,
pp.8-9.
69
M.
Foucault,
Sorvegliare e punire‚
cit.,pp.218,220.
70
M.
Foucault,
Microfisica del potere,
Einaudi, Torino 1977,
p.25.
71 Id., La volontà di
sapere,
Feltrinelli,
Milano1985.
72
M.
Foucault,
Microfisica del potere‚
cit.,p.9.
73 M. Foucault, La
follia,
l’assenza
d’opera, in appendice
alla seconda edizione
italiana di Storia della
follia nell’età classica,
Rizzoli,Milano1977,p.
628.
74 Cfr. G. Deleuze,
Differenza
e
ripetizione, il Mulino,
Bologna 1971; Id.,
Logica
del
senso,
Feltrinelli,
Milano
1975; G. Deleuze, F.
Guattari, L’Anti-Edipo,
Einaudi, Torino 1975 e
G.Deleuze,F.Guattari,
Rizoma,
Pratiche,
Parma1977.
75 M. Foucault, La
follia,
l’assenza
d’opera,cit.,p.627.
76 Cfr. M. Foucault,
La cura di sé (1984),
Feltrinelli,
Milano
1985; Id., L’uso dei
piaceri
(1984),
Feltrinelli,
Milano
1985.
77
M.
Foucault,
Interview de Michel
Foucault
(1981,
pubblicatanel1984),in
Dits et écrits, 4 voll.,
Gallimard, Paris 1994,
vol.IV,p.659.
78
Mi
riferisco,
soprattutto,
a
M.
Foucault,
Le
gouvernement
des
vivants,
Paris,
Gallimard, 1994, trad.
it. Il governo dei
viventi,inId.,Icorsial
Collège de France. I
Resumés,
Feltrinelli,
Milano 1999, pp. 9196; Subjectivité et
vérité, in Resumés des
cours
1970-1982,
Gallimard, Paris 1994,
trad.
it.
in
Id.,
Soggettivitàeverità,in
I corsi al Collège de
France. I Resumés,
Feltrinelli,
Milano
1999,
pp.
97-103;
Lezionedel1°febbraio
1982,
in
L’herméneutique
du
sujet.CoursauCollège
de France 1981-1982,
Seuil-Gallimard, Paris
2001, trad. it. in Id.,
L’ermeneutica
del
soggetto. Corso al
Collège de France
(1981-1982),
Feltrinelli,
Milano
2003; Lecouragedela
verité.
Le
gouvernementdesoiet
des autres: cours au
Collège de France
1983-1984,
Seuil/Gallimard, Paris
2009, trad. it. Il
coraggiodellaverità.Il
governo di sé e degli
altriII.CorsoalColège
de France (1984),
Feltrinelli,
Milano
2011.
79 Cfr. Id., Lezione
del 1° febbraio 1982,
trad.it.cit.,p.202.
80
M.
Foucault,
Subjectivité et vérité,
trad.it.cit.,pp.97-98.
81 Cfr. Id., Lezione
del 24 febbraio 1982,
in L’herméneutique du
sujet.CoursauCollège
de France 1981-1982,
trad. it. cit., pp. 275276.
82 Cfr. F. Remotti in
Contro
l’identità,
Laterza,
Roma-Bari
2007
e
per
la
valorizzazione
dell’Altro che ci vede
tutti
reciprocamente
stranieri, cfr. E. Jabès,
Uno straniero con,
sotto il braccio, un
libro
di
piccolo
formato, SE, Milano
1991 e J. Kristeva,
Stranieri a se stessi,
Feltrinelli,
Milano
1990.
83D.Parfit,Ragionie
persone
(1984),
il
Saggiatore,
Milano
1989, pp. 277, 359,
333,358.
VIII.Ivincoli
dellatradizione
1.Ilviaggiodellavita:
Blumenbergele
metafore
L’efficace metafora
del tunnel ci introduce
in un campo contiguo
di
problemi.
Tradizionalmente,
le
metafore
vengono
ritenute
o
un
ornamento
retorico,
un’infiorettatura
del
linguaggio, oppure un
vestibolo del pensiero
concettuale. Il termine
metafora
(da
metaphoré, che, in
greco,
vuol
dire
trasloco,
trasporto)
indica il congiungere,
mediante dislocazione,
ciò che è distante. Vi
sono metafore morte,
diventate concetti, che
utilizziamo
senza
accorgerci – secondo il
paragone di Nietzsche
– che si tratta di
monetelecuiimmagini
si sono cancellate con
l’uso e che valgono
ormai soltanto per il
metallo. Vi sono poi
metafore vive (il cui
ruolo
è
stato
sottolineato da Paul
Ricoeur),
continuamente
prodottedallinguaggio
normale o da quello
poetico. Esse gettano
degli arditi ponti tra
nozioni che non siamo
abituatiavedereunite.
Quanti subordinano
invece la metafora al
problema
della
conoscenza,
la
ritengono una forma
inferiore o spuria di
pensiero, che funge da
battistrada al concetto
puro, chiaro e distinto.
Hans
Blumenberg
cerca di spezzare il
nesso
istituito
tra
pensiero aconcettuale
e pensiero concettuale,
in modo da non
considerare
le
metafore come mero
introibo
alla
razionalità,
impalcaturaprovvisoria
per erigere concetti.1
Collegandole
all’husserliano “mondo
della
vita”
(trama
irriflessadistrutturedi
pensiero,disentireedi
credere che abbiamo
acquisito e che fanno
da sfondo alla nostra
consapevolezza), egli
restituisce
loro
l’autonomia. Il mondo
della vita è la sfera di
quanto
non
viene
esplicitamente
tematizzato,
che
rimane sullo sfondo e
permette a ciò che di
voltainvoltadiciamoo
pensiamo
di
campeggiare sul non
detto o sull’impensato.
Ogni
nostra
affermazione ha quindi
senso perché si staglia
sullo sfondo di un
universo
simbolico
semplicemente
presupposto. Mentre i
concetti hanno dunque
a che fare con la
coscienza focalizzata,
le
metafore
si
riferiscono invece al
mondo della vita, sono
sciabolate
di
luce
trasversale
che
illuminano
nessi
significativi
non
direttamente
analizzabili. Esprimono
orientamenti, modalità
di
rivolgerci
all’esperienza
non
destinate a precipitare
incristalliconcettuali.I
concetti puri pagano il
privilegio della loro
relativa chiarezza e
univocità
con
una
perdita
della
molteplicitàdisensidel
mondo della vita. Ogni
volta,
cioè,
che
pensiamo qualcosa di
preciso, conseguiamo,
certo, il vantaggio di
vederlo
chiaro
e
distinto con gli occhi
della mente, ma nello
stesso
tempo,
recidiamo
tutte
le
possibili connessioni di
senso con quanto resta
sullo
sfondo.
Le
metafore godono, al
contrario, del dubbio
vantaggio, per ciò che
riguardalaconoscenza,
di avere un ambito di
riferimento
estremamentevasto,di
potersi,
al
limite,
connettere con l’intera
estensione del mondo
della vita, ma pagano
questo beneficio con
una
maggiore
imprecisione.
Per
questo motivo si tende
a espungerle dalla
filosofia e a ritenere
che si debba fare a
meno di esse, quasi
costituissero
una
macchia
impura
nell’adamantino
universo dei concetti.
In realtà, nemmeno il
pensiero più astratto
può fare a meno delle
metafore, per quanto
non
si
riduca
completamente a esse.
Vi sono infatti quelle
definitedaBlumenberg
metafore
assolute,
indeducibili
e
irriconducibili ad altre
metafore o idee, e le
metaforederivate.
Le metafore assolute
esprimono
orientamenti
non
ulteriormente
scomponibili,
come
l’atteggiamento
che
ciascuno tiene nel
viaggio
rischioso
dell’esperienza.
La
metafora
della
navigatio vitae implica
pertanto che vi siano
coloro che scelgono di
essere attori nella
propria esistenza e
quelliinveceche,meno
propensiadaffrontarei
pericoli, preferiscono
essere
spettatori
piuttosto che attori.2
L’elemento dell’ignoto,
di ciò che ci aspetta,
del rischio, è appunto
l’aspetto
che
caratterizza tanto la
metafora
della
navigatio vitae, quanto
il sorgere dei miti.
Poiché ciascuno ha
davanti a sé un
camminochenonpotrà
mai
conoscere
in
anticipo, sorge l’idea
che la rotta stessa, la
navigazione intrapresa
porti consiglio, che si
formi, grazie a essa,
un’esperienza.
In
italiano il vocabolo
“esperienza”
è,
in
questo caso, meno
pregnante che in altre
lingue.
In
tedesco
“esperienza” si dice
Erfahrung, parola che
contieneinsélaradice
di fahren, “viaggiare”.
Perciò fare esperienza
significa viaggiare o,
per
estensione,
navigare. Corrisponde
al
paradigma
di
Odisseo, l’eroe che
molto ha viaggiato e
moltohasoffertoeche,
proprio per questo, è
capacediindirizzarela
sua perigliosa rotta
attraverso tutti gli
ostacoli divini e umani
che
gli
vengono
frapposti.
Nel
passato
l’esperienza
si
accumulava.
Oggi,
invece, ci troviamo in
una situazione in cui –
cambiando
rapidamente le cose –
gli insegnamenti del
passato perdono di
peso
rendendo
indeterminate anche le
aspettative del futuro.
L’etàmoderna,segnata
dall’apparire
dell’“uomo
copernicano”, segna la
fine delle sicurezze
teologiche,
fondate
(per quanto riguarda il
nostro mondo) sul
Libro per eccellenza,
sulla
Bibbia.
È
un’epoca che inaugura
la
ribellione
e
l’“autoaffermazione”
dell’uomo nei confronti
dellasottomissionealle
autorità
che
si
richiamano
al
sovranaturale, accende
il desiderio del nuovo,
spinge a compiere
viaggi di scoperta in
terra incognita (non
solo
in
senso
geografico, ma anche
come
circumnavigazione del
globus intellectualis o
proiezione verso il
mondo
dell’infinitamente
grande
e
dell’infinitamente
piccolo, degli astri e
deimicrobi).
Anche
il
mito
costituisce
per
Blumenberg – uno dei
protagonisti
della
cosiddetta
Mythos-
Debatte, assieme a
Manfred Frank e a
Karl-Heinz Bohrer –
una strategia per far
fronte all’ignoto, per
resistere all’angoscia
amorfa e senza nome
provocata negli uomini
dallo strapotere della
realtà.
Il
mito
depotenziainfattiilsuo
“assolutismo”
inventando spiegazioni
per l’inspiegabile, così
da rendere il mondo
più
familiare.
Per
questo l’antitesi tra
mito e ragione non
sorge subito. Essa è
“una tarda e cattiva
invenzione,
perché
rinuncia a considerare
la funzione del mito,
nel superamento di
quella
estraneità
arcaica del mondo,
come una funzione
anch’essa
razionale,
per quanto opportuna
potesse apparire, a
lavoro
fatto,
la
scomparsa dei suoi
mezzi [...]. Il mito
stesso è un pezzo di
impareggiabile lavoro
dellogos”.3
Riconosciamo
che
qualcosa è un mito
quando
non
ci
crediamo più, quando
le retrovie del mondo
della
vita
non
forniscono
più
sufficiente alimento al
nostropensiero.
2.“Nessunoconoscese
stesso”:Gadamere
l’ermeneutica
Blumenberg è un
avversario
della
“secolarizzazione”.Non
crede,nellafattispecie,
che
il
pensiero
moderno
sia
in
relazione di continuità
con quello medioevale,
nel senso che le idee
“laiche” elaborate nel
suo ambito siano una
traduzione
o
un
adattamento
di
precedenti
dogmi
teologici o metafisici.
L’“uomo copernicano”
ha introdotto nel suo
mondo novità inaudite
e, interrompendo i
legami
con
la
tradizione,
ha
realmente lasciato il
passato
libero
di
passare, aprendo il
“tempo
nuovo”,
Neuzeit,
ossia
la
modernità.
Per
Gadamer, al contrario,
noi non possiamo mai
strapparci
dalla
tradizione.
La
coscienza
dell’individuo
non
costituisce infatti un
centro autosufficiente,
isolato rispetto alla
realtà della storia che
lo circonda: fa parte
del mondo, con cui
comunica mediante il
linguaggio.
Interpretiamo
gli
eventi solo all’interno
dell’orizzonte
determinato
dalla
nostra appartenenza a
una tradizione, ai suoi
specifici – e dapprima
inspiegati
–
presupposti. Il nostro
intendere non è, di
conseguenza,
mai
logicamente
puro,
neutro, incondizionato.
Come già per l’ultimo
Wittgenstein,
anche
perGadamerèillusorio
immaginare che il
nostro animo sia come
unatabularasaprivodi
condizionamenti o di
certezze
pregresse:
“Chi volesse dubitare
di
tutto,
non
arriverebbe neanche a
dubitare. Lo stesso
gioco del dubitare
presuppone già la
certezza
[...].
Il
bambino
impara,
perché
crede
agli
adulti. Il dubbio vien
dopo la credenza”.4 Si
capisce qualcosa solo
perché disponiamo già
della
“precomprensione” di
essa, ossia di un’idea
recepitachecisegnae
ci orienta, almeno fino
a quando non siamo
spinti
a
cercare
ulteriormente,
ad
approfondire
questa
nozione
irriflessa
perché nel frattempo è
diventata problematica
e insoddisfacente. Il
“circolo ermeneutico”
mostra
appunto
all’opera
tale
precomprensione del
tutto,
in
quanto
provvisoria
anticipazione
dell’articolata
conoscenza delle parti,
la quale – una volta
avvenuta – modificherà
l’immagine
dell’insieme, in un
processo ricorsivo e
mai
concluso
di
successive rettifiche e
aperture.
La storicità significa
dapprima che ogni
precomprensione è un
pregiudizio
e,
generalizzando, che la
tradizioneèunaretedi
pregiudizi.
Ma
“pregiudizio”
non
equivale a giudizio
falso, a qualcosa di
intrinsecamente
negativo: si giudica
sempre,
e
necessariamente,daun
proprio punto di vista
limitato, prima ancora
di aver capito più a
fondo una questione.
Nessuno è esente da
pre-giudizi: “Chi pensa
di essere sicuro della
propria libertà dai
pregiudizi fondandosi
sull’oggettività
del
metodo e negando la
propria
condizionatezza storica
subisce poi la forza dei
pregiudizi
che
lo
dominano in modo
inconsapevole
e
incontrollato,comeuna
vis a tergo. Chi non
vuol
riconoscere
i
giudizi
che
lo
determinano,
non
saprà vedere neppure
le cose che alla luce di
essiglisimostrano”.5
Alla ricerca di vitree
trasparenze,
l’Illuminismo
ha
screditato l’idea di
pregiudizio,
dichiarandogli guerra:
“Così facendo, esso ha
compiuto anche una
specie di liberazione,
un’emancipazionedello
spirito. Se però se ne
trae la conclusione che
si possa diventare
trasparenti a se stessi,
sovrani nel proprio
pensare e agire, allora
ci si sbaglia. Nessuno
conosce se stesso.
Portiamo da sempre
impressa in noi una
traccia,enessunoèun
fogliobianco”.6
Noi
tutti
siamo
indelebilmente segnati
da quanto abbiamo
ereditato e assorbito
dalla tradizione. Anche
volendo, non possiamo
quindi depurare noi
stessi
dai
nostri
pregiudizi
e
dai
precondizionamenti
storici, non possiamo
cancellare quanto la
storia ha scritto sopra
il “foglio” della nostra
vita: possiamo solo
riscriverlo, rielaborarlo
incessantemente. Non
attingeremmo infatti,
nel caso dell’eventuale
evaporazione
dei
pregiudizi, delle verità
eterne:
raggiungeremmo,
al
contrario,ilpurovuoto
mentale. Eliminate le
tracce,
fatte
scomparireleimpronte
della tradizione, non
rimane
nulla.
L’importante è non
restare
attaccati
caparbiamente
o
presuntuosamente ai
pregiudizi: “Il discorso
non è un puro e
semplice sciorinare dei
nostri pregiudizi, ma li
mette in gioco, li
espone ai nostri dubbi,
come
alla
replica
dell’altro
[...].
La
semplice
presenza
dell’altro che ci si fa
innanziaiuta,giàprima
che questi prenda la
parola per replicare, a
scoprire
i
nostri
pregiudizi e la nostra
parzialità,
a
disfarcene”.7
Esistono
peraltro
“pregiudizi legittimi”,
che dovrebbero essere
rivendicati,comequelli
relativi all’“autorità” o
alla “tradizione”. Tra
ragione e tradizione,
soprattutto, non vi è
affatto quell’inimicizia
assoluta
a
cui
l’Illuminismo vuol far
credere,
allorché
identifica la tradizione
con
la
cieca
sottomissione
ad
autorità indimostrabili
e arbitrarie: “Anche la
più autentica e solida
delle tradizioni non si
sviluppa naturalmente
in virtù della forza di
persistenza di ciò che
una
volta
si
è
verificato,
ma
ha
bisogno
di
essere
accettata, di essere
adottata e coltivata.
Essa è essenzialmente
conservazione, quella
stessa conservazione
che è in opera accanto
e
dentro
ogni
mutamentostorico[...].
Persino dove la vita si
modifica
in
modo
burrascoso, come nelle
epoche di rivoluzione,
nel preteso mutamento
di tutte le cose si
conserva del passato
molto di più di quanto
si immagini, e si salda
insieme
al
nuovo
acquistando
una
rinnovatavalidità”.
Piuttosto
che
liberarci
dalla
tradizione considerata
come un peso, occorre
scoprirne
l’intima
ricchezza, per il fatto
che non è mai né
univoca, né chiusa:
“Ciò che riempie la
nostra
coscienza
storica è sempre una
molteplicità di voci,
nelle quali risuona il
passato. Solo nella
molteplicità di tali voci
il passato c’è: questo
costituisce
l’essenza
della tradizione di cui
siamo
e
vogliamo
divenire partecipi”.8 Il
sentire se stessi come
appartenenti a una
storia
implica
il
riconoscimento di altre
storie e di altre
persone, il lasciare che
voci
diverse
e
discordanti
si
contrappongano
all’interno di ciascuno
di noi e così lo
delimitino.
Solo
comprendendo
l’alterità in noi stessi,
mettendoci alla prova,
siamo in grado di
allargare il nostro
orizzonte
e,
per
converso, di definirci e
individualizzarci.
Infatti, proprio perché
il nostro orizzonte è
circoscritto, esso può
in seguito estendersi.
Capire
significa
provocare una “fusione
di orizzonti”, proprio
perché la verità non è
monologica,
ma
dialogica, perché non
svela qualcosa che
preesiste,
ma
il
risultato dell’intendere
e dell’interpretare in
comune. In una simile
ottica la storia e l’arte
generano conoscenze
validissime, per quanto
prive della rigidità del
metodo scientifico. Più
vicineal“gioco”(lecui
regole si impongono ai
partecipanti senza per
questo inibire la loro
capacità di innovare
entro contesti dati),
entrambe permettono
di
comprendere
il
mondo
come
rielaborazione
discontinuadivissutiin
cui
inserire
attivamente la propria
attività, considerandosi
parte di una più
generale
Wirkungsgeschichte, di
una
“storia
degli
effetti”
che
non
riguarda nudi fatti,
bensì
eventi
già
interpretati da altri,
oggetti
intrisi
di
soggettività
e
soggettività
mediate
conl’oggettività.
3.Lamitologiabianca
diDerrida
Seppure sotto un
altro profilo, anche per
Jacques Derrida non
bisogna abbandonare i
condizionamenti della
tradizione in favore
dell’Autentico
e
dell’Originario che si
celerebbe dietro la
varietà dei fenomeni.
Per
questo
–
a
differenza
di
Blumenberg – non si
danno
“metafore
assolute”
che
precedano il pensiero
concettuale. Nessuna
metafora è infatti in
grado di uscire dal
cerchio magico della
“metafisica”,
della
“mitologia bianca, che
rassomigliaeriflettela
cultura dell’Occidente”
(quella in cui l’uomo
bianco
scambia
il
propriopensieroconla
forma universale della
razionalità).
La
metafora
non
può
sfuggire al concetto.
Entra necessariamente
a far parte del corteo
delle sue antinomie
metafisiche: di senso
proprio e non proprio,
di
sostanza
e
accidente,dipensieroe
linguaggio
o
di
intellegibileesensibile.
È dunque interna al
pensiero
filosofico
stesso
nel
suo
inesausto e sempre
incompiuto procedere
dal figurato al proprio,
che non giunge mai a
superare il mito, a
svelare qualcosa, a
mostrare
la
nuda
verità.
Ogni
rivelazione è, insieme,
unvelaredinuovo.Chi
non lo capisce e vuole
rinvenire
il
senso
proprio dietro il senso
figurato ricade nella
“metafisica
della
presenza”, crede nel
manifestarsi
della
verità “in persona”,
davanti a lui. Le
metafore
non
si
usuranonelsensodiun
loro dissolversi finale
nel
concetto
(pur
compensato
dal
rampollare continuo di
metafore
vive
e
potenti), ma di una
accumulazione e di un
prestito continuo. Si
spostano
così
circolarmente, escono
ed
entrano
nell’orizzonte
percettivodelpensiero,
rappresentando l’Altro
ineliminabile
della
concettualità. Anche la
dimensione
concettuale,
di
conseguenza,
non
scompare,
se
non
transitoriamente, nella
metafora stessa, sua
permanente riserva di
senso.9
La “metafisica” – a
partire dalle origini
della
filosofia
occidentale sino a
Husserl – associa la
verità
all’immediata
presenza
dell’essere
alla
coscienza,
in
quanto significato che
si rivela al soggetto
nellaformaprivilegiata
della parola. Con la
vittoria del “fono-logocentrismo” la scrittura
appare quale lettera
morta,
degradazione
del parlato.10 Derrida
rivendica invece la
supremazia
della
scrittura, già attaccata
da Socrate nel Fedro.
Essa
è
infatti
oggettività
che
trascende il soggetto,
lavocedellacoscienza,
traccia che sussiste
dopo la morte degli
individui. È simultaneo
rinviodeisegniadaltro
daséeasestessi,aun
corpo aperto di testi e
situazioni
da
interpretare in un
infinito
gioco
labirintico di rimandi,
deviazioni,
disseminazioni, scarti,
ritardi, ripetizioni e
differimenti da cui non
si esce (“différance”).
Di
ogni
testo
o
situazione interpretata
non possiamo dunque
venire
a
capo
interamente.
Anzi,
l’assoluta trasparenza
li
distruggerebbe,
sottraendo
loro
quell’eccesso di senso
che
travalica
l’immediata presenza e
che travalica i confini
del logos. Identità e
differenza
(“différence”),
autoriferimento
e
allusione, si implicano
infatti originariamente
a vicenda, in quanto i
segni
stessi
della
scrittura costituiscono
la
presenza
di
un’assenza.Soprattutto
in un mondo in cui la
raccoltaeregistrazione
di informazioni e di
testi sta diventando
monumentale, nessuna
esperienza
può
diventare satura, così
come
nessuna
interpretazione
esaustiva: prendendo
congedo dalle pretese
di
ricostruzione
sistematica e unitaria
del senso, ogni testo
può
venire
“decostruito”, così da
mostrareilfittotessuto
di
rimandi
e
differimenti, che non
conducono però ad
alcun originale, ad
alcunesserecomepura
presenza.
Gadamer
ricorda
di
essere
scampato
alla
dissoluzione
della
dialettica
attraverso
l’uscitadisicurezzadel
dialogo,
mentre
Derrida,dice,hascelto
la
strada
della
decostruzione, in cui
l’unità di senso non si
dissolve
“nel
vivo
colloquio, ma nella
trama dei rapporti di
senso che sta alla base
di ogni parlare”.11 Il
termine
“decostruzione”, ormai
alla moda soprattutto
nella
cultura
americana, non va
tuttavia inteso come
desiderio iconoclastico
di
impossibile
distruzione del logos,
quanto piuttosto come
volontà di disarticolare
il sistema dei rimandi,
di “slogare l’unità
verbale” in modo da
renderla
meno
anchilosata
e
più
consapevole dei propri
condizionamenti, cioè
di quanto le impedisce
di conseguire la verità
e
l’autenticità
assolute.12
Al pari della “lettera
rubata”delraccontodi
Poe
(esaminato,
tramite Lacan, in Il
fattore della verità, del
1975), l’evidenza è la
cosa più nascosta e
l’eccesso di evidenza
acceca.Letenebrenon
si dissiperanno mai,
anche
perché
la
“violenza della luce”
non costituirebbe una
vittoria. Come ben
sapevano Platone e
Hegel, nella pura luce
ci si vede altrettanto
poco che nell’oscurità
più totale. Solo le
differenze,
le
sfumature,
le
comparazioni
permettono il vedere e
il
comprendere
(soprattutto al di fuori
della metafisica e della
metaforica della luce e
della presenza). E
poiché la metafisica ha
proceduto
alla
“cancellazione
della
traccia”, si impone ora
ilcompitodiprocedere
verso
il
suo
“oltrepassamento”. Ma
ciò non è possibile
attraversoun“salto”.Il
lungo congedo dalla
metafisica
non
la
distrugge: la tiene
insormontabilmente
sullo
sfondo,
mostrandone le infinite
ramificazioni nei nostri
modi di pensare, di
sentireediatteggiarci.
Non
potendo
conseguire una più
fedele immagine del
mondo irriducibile alla
pura
presenza
(in
quanto,
heideggerianamente,
l’essere
si
sottrae
mentre si dà), la
filosofia
risulta
“parassitaria” rispetto
alla sua tradizione
metafisica. È soltanto
in grado di mostrarne
le
esitazioni,
le
ambiguità, i riverberi e
glispostamenti.
1
Cfr.
H.
Blumenberg,Paradigmi
per una metaforologia
(1960),
il
Mulino,
Bologna 1960; Id., La
leggibilità del mondo
(1981),
il
Mulino,
Bologna1984.
2
H. Blumenberg,
Naufragio
con
spettatore (1979), il
Mulino,Bologna1985.
3 H. Blumenberg,
L’elaborazionedelmito
(1979),
il
Mulino,
Bologna 1991, pp. 75,
35.
4
L. Wittgenstein,
Della certezza (195051), Einaudi, Torino
1978, proposizioni 115
e160,pp.22,29.
5
H.G. Gadamer,
Veritàemetodo(1960),
Bompiani,
Milano
1983,p.417.
6 Id., in Dialogando
conGadamer,acuradi
C.
Dutt,
Cortina,
Milano 1995, pp. 1718.
7
H.G. Gadamer,
Ermeneutica
e
decostruzionismo,
in
Verità e metodo 2
(1986-93), Bompiani,
Milano 1996, pp. 296297.
8
Id., Verità e
metodo, cit., pp. 330,
333.
9
J. Derrida, La
mythologie blanche, in
“Poétique”, 1971, 5,
pp. 1-52, in particolare
pp. 4, 52 (ora in
Marges
de
la
philosophie, Éditions
deMinuit,Paris1972).
10
Cfr. Id., La
scritturaeladifferenza
(1967), Einaudi, Torino
1971;
Id.,
Della
grammatologia (1967),
Jaca Book, Milano
1969; Id., La farmacia
di Platone, in La
disseminazione (1972),
Jaca Book, Milano
1972. Si potrebbe
banalmente obiettare:
la scrittura non è forse
più
permanente
e
“presente” della parola
che
dilegua
dopo
essere
stata
pronunciata? E perché,
poi,
la
scrittura,
l’“architesto”,
dovrebbe precedere il
parlato? L’argomento
che
la
parola
presuppone
la
“spaziatura” tra lettera
e
lettera
non
presuppone, a sua
volta, l’isolamento e la
scelta,
storicamente
situabili, dei singoli
segni all’interno di un
alfabetocostruito?
11
H.G. Gadamer,
Decostruzione
e
interpretazione,in“aut
aut”,1985,208,p.7.
12 Gli interessi di
Derridasisonoanzipiù
tardi
allargati
in
direzione
maggiormente
“ricostruttiva”
e
politica. Si è così
occupato dei motivi
dell’adesione
di
Heidegger
al
nazionalsocialismo, del
significato del pensiero
di Marx, in una fase in
cui il suo pensiero
sembra travolto dal
crollo
dei
regimi
socialisti dell’Est, del
ruolo dell’Europa oggi
nel suo proiettarsi
verso
la
civiltà
mondiale, dell’amicizia
o dell’ospitalità; cfr. J.
Derrida, Dello spirito.
Heidegger
e
la
questione
(1987),
Feltrinelli,
Milano
1989;
Id.,
Oggi
l’Europa
(1991),
Garzanti, Milano 1991;
Id., Gli spettri di Marx
(1993),Cortina,Milano
1994 e Id., Politiche
dell’amicizia
(1994),
Cortina,Milano1995.
IX.Vitaactiva
1.Arendt:pensare,
volere,giudicare
Esaminando
le
catastrofi prodotte dai
totalitarismi del nostro
secolo
e
la
conseguente, ulteriore,
degradazione
della
politica,
Hannah
Arendtnehacercatole
radici profonde nel
progressivo
stravolgimento
della
“vita della mente”,
nella distorsione subita
dalle
nostre
tre
irriducibili facoltà: il
pensare, il volere e il
giudicare. Alla base di
questo
invisibile
disastro storico sta la
separazione moderna
di teoria e prassi, per
cui si ritiene l’agire
mera applicazione di
un concetto o di un
progetto
già
autonomamente
elaborato dalla teoria.
Quando la volontà si
trasforma in braccio
secolare del pensiero,
finisce tuttavia per
diventare cieca. A sua
volta,
la
pura
contemplazione, dopo
avere per millenni
affermato la propria
supremazia,ècostretta
a dichiarare la sua
impotenza. Il prevalere
della
moderna
convinzionechel’uomo
conoscesoloquelloche
fa, conduce poi al
definitivo
privilegiamento
dell’operare e alla
complementare
svalutazione di ogni
forma di pensiero che
non
si
traduca
immediatamente
in
azione. Nel sostenere
che “i filosofi si sono
finora
limitati
a
interpretare il mondo,
ma
si
tratta
di
cambiarlo”, il Marx
dell’undicesima delle
Tesi su Feuerbach
legittima, contro le sue
stesse intenzioni, una
valanga di pregiudizi.
Lascia credere che
interpretare il mondo
costituisca un lusso,
che il pensiero sia un
parassita e che basti
l’azione rivoluzionaria
a rivelare il nuovo
mondo racchiuso nella
crisalide del vecchio.
Ponendo
fortemente
l’accento sul valore del
“lavoro”, inteso come
modificazione
del
mondo
e
automodificazione
dell’uomo, Marx ha
contribuito inoltre a
cancellare
la
distinzione, chiara agli
antichi, tra poiesis e
praxis, tra l’operare o
fare (produzione di un
mondo artificiale di
cose) e l’agire (“sola
attività che metta in
rapporto diretto gli
uomini
senza
la
mediazione di cose
materiali”). Il fare dà
luogo all’homo faber,
capacedicontrollarela
realtà mediante la
tecnica;l’agireallavita
politica, o vita activa,
come la chiamavano i
latini.
Bisognerebbe
aggiungere che la
praxis e l’agire sono
considerati,
da
Aristotele a Hegel, una
forma di conoscenza:
quella che si prende
curadeglieventiumani
e naturali nella loro
mutevolezza,
non
coglibile
attraverso
leggi o schemi rigorosi
e a priori (ma che
posseggono
tuttavia
consistenza, se non
altro
perché
la
regolarità del mondo
umanovieneassicurata
dal fatto che siamo
attorniati da istituzioni
e cose più durevoli
dell’attività che le ha
prodotte). La scienza,
al contrario, si occupa
delle “cose che non
possono
essere
diversamente da ciò
che sono”, degli enti
della matematica o
dell’astronomia, che –
proprio
in
quanto
immutabili ed eterni –
possono
diventare
oggettodellateoria.
Nel rivendicare il
ruolo della politica,
Hannah
Arendt
recupera la tradizione
del
pensiero
ciceroniano,
che
poneva la vita activa
addirittura al di sopra
della
vita
contemplativa,
tanto
che
i
romani
impiegavano
come
sinonimi “vivere” ed
“essere tra gli uomini
(inter homines esse)”.1
Se la politica è dunque
inter homines esse, la
sua essenza si rinviene
proprioinquesto“tra”,
nell’ottimizzare
la
relazione reciproca di
individui
e
gruppi
aventi
interessi
e
progetti differenti. La
politica,
al
pari
dell’azione, è infatti
plurale,
presuppone
sempre gli altri: “si
fonda sul dato di fatto
della pluralità degli
uomini [...] tratta della
convivenza
e
comunanza
dei
diversi”.2 Sotto questo
profilo, essa rispetta la
molteplicità dei punti
di vista e la loro
incomponibilità,
rifiutando l’intimazione
ad appiattire tutte le
opinioni sotto la ferrea
dittatura
di
una
presunta
verità
incondizionata che ne
eliminerebbe
il
carattere ottusamente
parziale. Alla politica è
dunque
costitutivamente
necessaria la “libertà”,
l’agire autonomo degli
individui in quanto
capacità di dare inizio
a qualcosa di nuovo, di
non
previsto
dai
meccanismi causali del
mondo. La libertà è,
con le parole di Kant,
quel “miracolo del
mondo
fenomenico”
che introduce il non
esistentenell’esistente.
Non si è però liberi
soltanto quando si
agisce:
“Disgraziatamente, a
differenza di ciò che si
pensa di solito circa la
proverbiale
indipendenza da torre
d’avorio dei pensatori,
nessun’altra
facoltà
umana
è
così
vulnerabile, e difatti è
moltopiùfacileagirein
condizioni di tirannia
chenonpensare”.3
Avendo ricevuto la
delega di prefigurare
attivamente un futuro
sempre più aperto, la
volontà ha comunque
assunto,
in
età
moderna, un ruolo
dominante.
La
percezione
dell’aumentata
indeterminatezza
dell’avvenire acuisce il
bisognodispecificaree
visibilizzare in forme
riconoscibili da tutti i
principali
obiettivi
politici. Favorisce così
ilsorgerediideologiee
di utopie radicali, che
mobilitano tanto più
massicciamente
le
popolazioni,quantopiù
difficili e incerti sono
gli
scopi
da
raggiungere. Proprio
perché, in genere, i
singoli sono costretti a
un’intima
solitudine,
senza essere in grado
di concepire piani di
vita sensati, i regimi
totalitari esercitano su
di loro un’attrazione
che
li
induce
a
sottomettersi
senza
riserve. Tale potere
apparesalvificoproprio
nel far dimenticare le
differenze, essenziali
alla politica. Sotto la
maschera
della
solidarietà di razza, di
nazione o di classe, il
terrore
fissa
ulteriormente
tale
atomismo, chiedendo
una
incondizionata
fedeltà al partito o alla
patria a persone senza
saldi
legami
con
familiari o amici: “La
principale
caratteristica
dell’uomodimassanon
era la brutalità e la
rozzezza,
ma
l’isolamento
e
la
mancanza di normali
relazioni
sociali”.
L’etica del sacrificio,
propagandata
e
imposta, non si appella
quindi all’abnegazione
come virtù, “ma come
senso della nessuna
importanza del proprio
io,
della
sua
sacrificabilità”.4
Si
chiede agli individui
l’obbedienza
automatica,
la
regressione al regno
animale, alla pura vita
biologica,
a
una
condizione in cui la
catena di comando
restisaldaeindiscussa.
Come ricorda Elias
Canetti, “l’ordine è più
antico del linguaggio,
altrimenti i cani non
potrebbero conoscerlo.
L’addestramento degli
animali
si
fonda
proprio sul fatto che
essi, pur ignorando il
linguaggio, imparano a
capire ciò che si
richiede loro [...]. Il
potere del comando
non deve essere messo
in dubbio; se si è
affievolito, deve essere
pronto a riaffermarsi
con la lotta. Per lo più,
tale potere continua a
esserericonosciutoper
molto
tempo.
Sorprende
notare
quanto di rado si
esigano
nuove
decisioni:
ci
si
accontenta degli effetti
delle decisioni ormai
consuete. Nei comandi
rivivono le battaglie
vittoriose,
ogni
comando
eseguito
rinnova una vecchia
vittoria”.5
Sia il totalitarismo
che la perdita di
significato
dell’esistenza
nelle
democrazie
contemporanee sono il
prodotto
degli
automatismi e della
passivizzazione di tutte
le tre facoltà: del
pensare,chenonriesce
acomprendereilsenso
degli eventi; dell’agire,
che
fallisce
nella
concertazione
collettiva
delle
differenze
politicamente rilevanti
per il conseguimento
della “vita buona”; del
“giudizio”,
che
manifesta
la
sua
debolezza
nello
spuntarsi dell’acume,
nella
sopraggiunta,
diffusa incapacità di
discriminare.
Il giudizio è la
“radice comune” del
pensare e dell’agire, il
tentativo di gettare un
ponte
tra
loro.
Rappresenta
“il
misteriosotalentodella
mente in virtù del
quale
vengono
congiunti il generale,
che è sempre una
costruzione
della
mente, e il particolare
che è sempre dato
all’esperienza
dai
sensi”. Analogamente
al “gusto” nel campo
dell’estetica – che si
afferma
quando
vengonomenoipretesi
criteri oggettivi della
bellezza – anche la
facoltà di giudizio, per
determinare il suo
oggetto, non può far
ricorsoaglistrumentie
ai metodi prefissati in
usonelpensare.Alpari
del
“giudizio
riflettente” formulato
da Kant (che valuta i
particolari
senza
sussumerli
sotto
concetti generali), nel
giudizio
politico
elaborato dalla Arendt
la riflessione conserva
il
suo
originario
significato ottico, quasi
di un rimbalzare del
giudizio, che ritorna su
sestessopervenirepoi
nuovamente
rinviato
sul suo oggetto. Con
una
differenza
di
intonazione rispetto al
“circolo ermeneutico”,
questa
forma
di
giudizio non si sottrae
peròallaresponsabilità
delprendereposizione.
L’antidoto agli errori,
sempre in agguato, è
fornito,
per
compensazione, dalla
dichiarata disponibilità
a
rettificarli
in
presenza
di
argomentazioni
convincenti. Senza il
giudizio, il pensare
rimarrebbe statico e
inertecontemplare.Ma
“la manifestazione del
vento del pensiero non
è la conoscenza; è
l’attitudine
a
discernere il bene dal
male, il bello dal
brutto”.Lemostruosità
commesse
da
Eichmann nei campi di
sterminio – con buona
coscienza,
quasi
fossero
normale
amministrazione
–
dipendono dal diffuso
deperimento
della
facoltà di giudicare,
dell’incapacità
di
distinguere tra il bene
eilmale,tral’agireeil
lavorare.6 Quando il
giudizio si ottunde,
libertà
e
autorità
divengono
parimenti
ingiustificabili.
Gli
uomini non sono in
grado
di
istituire
rapporti
di
cooperazione
soddisfacenti
e
la
menzogna
e
la
“banalità del male”
trionfanoincontrastati.
2.Habermas:ildeserto
avanza
L’“agire
comunicativo” – che è
una
“interazione
mediata
simbolicamente”
–
rappresenta
in
Habermas un modo
(diverso da quello di
Hannah Arendt) per
riannodare le relazioni
trateoriaeprassieper
coordinare le azioni
degli uomini nelle
società
“posttradizionali”. In esse i
processi introdotti dai
media–denaro,potere,
organizzazione
burocratica – hanno
finito per incatenare
strettamente
gli
individui
alle
loro
funzioni,
restringendone le aree
di
autonomia.
Vi
domina
cioè
una
“ragione strumentale”,
che guarda soltanto ai
mezzi necessari al
conseguimento di fini
non
giustificabili
razionalmente. Dopo la
consumazione
del
“cuscinetto di grasso
della tradizione” – che
continuava
ad
alimentareilpensieroe
l’azione, fornendo loro
una sorta di pilota
automatico – viene ora
aggredito direttamente
il tessuto connettivo
astratto del “mondo
della vita”, l’universo
simbolicocondiviso.
Esso è già corroso
dall’incurabile
“malattia
della
tradizione” provocata
dall’avvento
della
Rivoluzioneindustriale.
Sradicando
dalle
campagne milioni e
milioni di persone,
espellendo donne e
bambini
dall’ambito
dellacasa,modificando
i modi di pensare e di
sentire di tutti, il
deperimento
della
tradizione ha ibridato
codici etici rimasti a
lungo
isolati
e
sviluppato
comportamenti
orientati più sull’attesa
ditempistoricimigliori
che non sull’imitazione
di ideali santificati dal
passato. Le autorità
che detenevano in
precedenza
il
monopolio
nell’interpretazione
delle regole morali
tendono
così
a
scaricare
sugli
individui
la
responsabilità
di
scegliere. Da almeno
due secoli, si assiste
infatti, in una sorta di
crescente deregulation
etica, a una pluralità
non
coordinata
e
spesso conflittuale di
fonti
erogatrici
di
norme. Il costume e
l’abitudinecessanocosì
di rappresentare la
base della condotta
morale, il paradigma
degliatteggiamentiche
un’intera
comunità
accetta e promuove
come
modelli
da
condividere. Si passa,
secondo
Alisdair
MacIntyre, dal sistema
delle “virtù” – dei
comportamenti
collettivi omogenei e
relativamente costanti,
motivati
da
una
tradizione
riflessa,
come
poteva
presentarsi nell’Etica
Nicomachea
di
Aristotele – al sistema
delle
preferenze
individuali. La loro
natura è di essere
soggettive,
mobili,
autoreferenziali, non
argomentabili,
orientate secondo il
principio
che
in
economia
si
usa
chiamare di “sovranità
del consumatore” (le
cui
scelte
sono
indiscutibili, perché “il
cliente ha sempre
ragione”). Nel loro
ambito,
l’esclusiva
facoltà di deliberare si
attribuisce,
di
conseguenza,
alle
intuizioni
e
alle
inclinazioni
emotive
dell’agente.E,datoche
i binari dell’abitudine
non ci guidano più e il
ritorno a un’etica di
valori
largamente
condivisi
appare
improbabile, la cosa
migliore è, secondo
MacIntyre,
seguire
l’esempio
di
san
Benedetto:
in
quest’epoca
di
corruzione,
paragonabile alla fine
dell’Impero
romano,
ritirarsi
in
piccoli
gruppi a praticare una
morale comunitaria in
attesa
che
sorga
ancora il sole di una
civiltàmigliore.7
Nelle società posttradizionali
neppure
l’ermeneutica è più
capace–comecredono
Dilthey, Gadamer o
Rorty – di rivitalizzare
l’esperienza
aumentandone
lo
spessore.
Il
suo
inaridirsi rischia di
essiccare
quella
sorgente comune da
cui derivano i flussi di
significato
e
di
consapevolezza degli
individui, minacciando
l’efficacia
dei
meccanismi
di
costruzione
dell’identità personale
e collettiva. I media
hanno fatto un deserto
e lo hanno chiamato
ragione. Sotto questo
profilo,
la
teoria
habermasiana
costituisceuntentativo
per
irrobustire
i
morenti mondi vitali
per mezzo del Diskurs,
dell’agire
comunicativo, che ne
ritesse
incessantemente
lo
sfilacciato
tessuto
simbolico.
Viene
razionalmente
ricostruito sia quanto
distrutto
dalla
“razionalità
strumentale”,
sia
quanto è stato scosso
da“terremoti”avvenuti
nella
vasta
e
inselvatichita area dei
mondi della vita, che
assumono
carattere
problematico quando
vengono alterati da
eventi esterni alla
coscienza.
Allora
vacillano e in parte
crollano, senza però
stravolgere
completamente
la
percezione
che
abbiamo della realtà:
“Soltanto un terremoto
richiama la nostra
attenzionesulfattoche
avevamo ritenuto saldo
il terreno sul quale
ogni giorno stiamo e
camminiamo. Anche in
queste
situazioni
diventaincertosoltanto
un piccolo frammento
del sapere di sfondo,
che viene staccato
dalla sua inclusione in
tradizioni complesse,
relazioni solidali e
competenze”.8
L’“Illuminismo”
o,
meglio, il processo di
rischiaramento
(Aufklärung)
dell’umanità europea
culminato
nel
Settecento – che nella
ragione
intesa
hobbesianamentecome
calcolo introduceva il
telos
dell’emancipazione – è
stato
il
vero
“terremoto” del mondo
moderno,quellocheha
portatoallaluceaspetti
prima
invisibili
di
ovvietàdelmondodella
vita.
Mediante
il
ricorso
a
principi
universali, esso ha
accelerato
il
metabolismo
e
l’instabilità
degli
universi
simbolici
scalzando
tradizioni,
pregiudizi e privilegi.
La
realizzazione
distorta
dell’Aufklärung
ha
condotto però alla
distruzione dei mondi
della vita condivisi,
spingendo la coscienza
a surrogarli attraverso
una
faticosa,
instancabile e spesso
infruttuosa opera di
aggiornamento. In tale
contesto
la
capitalizzazione
ordinata
e
stabile
dell’esperienza, la sua
previdente
accumulazione
non
appare più praticabile,
in quanto essa si
inflazionarapidamente,
scorre
senza
cristallizzarsi o senza
sedimentarsi
a
sufficienza.
L’Aufklärung ha così
prodotto
una
“patologizzazione” del
mondo della vita e –
per contraccolpo –
delleformestessedella
razionalità, che hanno
rivelato
aspetti
inadeguatiopericolosi.
Una
simile
degenerazione non è
però
imputabile
all’abuso di potere da
parte della ragione,
quanto piuttosto al suo
deficit. L’Illuminismo è
rimasto un “progetto
incompiuto”,
da
riprendere dopo aver
inglobatoinessotuttii
successivi
“teoremi
anti-illuministici” che
hanno avuto il merito
disegnalarneilimitioi
punti
dolenti
dell’impatto con le
strutture sociali. Lo
storicismo
e
l’ermeneutica sono, ad
esempio,
preziosi
perché segnalano il
quoziente
di
rallentamento,
di
distorsione
e
di
relativizzazione subìto
dalle
tendenze
universalistiche
ed
emancipative,
e
indicano
indirettamente
la
strada per rafforzare
adeguatamente
le
esigenzediuniversalità
e di liberazione di tutti
gli uomini. Ponendo
l’accento
sulla
specificità di situazioni
determinate secondo
parametridispazioedi
tempo
e
sulla
circolarità
del
comprendere,
storicismo
ed
ermeneutica
hanno
però perduto di vista
l’asse di avanzamento
cumulativo della storia
e il rispetto per
l’universale. Entrambi
scontano
la
“desertizzazione” del
mondo della vita, a cui
reagiscono mediante
l’enfasi posta sulla
fluidità della storia e
sul
movimento
circolare
infinito
dell’attività
ermeneutica.
Habermas manifesta
invece
una
solida
fiducia nella diffusione
di processi evolutivi di
apprendimento
di
normeuniversali,siadi
naturaintellettualeche
morale. Essi appaiono
l’unica
via
razionalmente
percorribile in vista
dell’emancipazione del
genere umano dalle
barriere
particolaristichechene
soffocano
le
potenzialità.Leenergie
inceppate e compresse
da una “modernità”
ridotta a mera ragione
strumentaleverrebbero
pertanto nuovamente
attivate
dall’agire
comunicativo, il solo
capace di generare
accordi razionalmente
condivisibili.
Esso
darebbe
senso
compiuto all’interrotto
processo
dell’“Illuminismo”,
facendone
simultaneamente
diminuire la virulenza
causata
dalla
sua
permanente instabilità
e
consentendogli
inoltre di abbandonare
quel
lato
di
irrazionalità
“mitologica” che aveva
indotto Horkheimer e
Adorno a diffidarne.
Secondo
Habermas
(che segue qui i
risultati
della
psicologia evolutiva di
Piaget e di Kohlberg)
occorre tendere a una
Aufklärung che sia
anche morale, a un
rischiaramento
non
semplicemente
cognitivo, ma pratico.
Come nell’educazione
dell’individuo, così in
quella delle società
umane
si
possono
percorrere successivi
stadi di sviluppo. Una
volta giunti a un livello
superiore, risulta poi
irreversibile,
soprattutto
nelle
società democratiche,
il cammino verso uno
inferiore:
sarebbe
come rispedire un
adulto istruito, che ha
frequentato
l’università, in prima
elementare,aimparare
le aste o le quattro
operazioni.Adorno,che
aveva
vissuto
il
passaggio
dalla
democrazia sui generis
della Repubblica di
Weimar
al
nazionalsocialismo,non
avrebbe
certo
approvato
tale
ottimisticaprospettiva.
Le ripetute scosse
telluriche
della
razionalizzazione
pongono il problema di
come istituire una
forma di dialogo che
renda nuovamente tra
loro
congruenti
i
dispersi tasselli del
frammentato
mondo
della
vita.
Questo
rimane sullo sfondo,
comesefossedipersé
privo di autonoma
consistenza.
E,
in
effetti,
costituisce
“quellastranacosache
si sgretola e scompare
dinanzi ai nostri occhi
non appena ce lo
vogliamo
portare
dinanzi
pezzo
per
pezzo”.9 Bisognerebbe
tuttavia abituarsi a
vivere – oltre che in
oasi
di
razionalità
comunicativaillesaedi
intersoggettività
risparmiata
dalla
distruzione – anche in
unaspeciediCalifornia
dei mondi vitali e dei
sistemi simbolici. Si
dovrebbe
cioè
apprendereafarfronte
non solo alle scosse di
terremoto più violente
(quelle che mettono
allo scoperto elementi
in precedenza non
focalizzati del mondo
dellavita),maancheai
movimentisussultoridi
assestamento
che,
susseguendosi
con
frequenza, modificano
impercettibilmente sia
le cose, sia il modo di
rivolgerci
a
esse.
L’agire comunicativo
svolge
anche
una
funzione
terapeutica
nel
ricostruire
incessantemente
il
mondo
comune,
salvandolo dai disastri
provocatidallacrescita
ipertrofica
della
ragione strumentale.
Quest’ultima
sostituisce
alle
ideologie globali del
passato
la
parcellizzazione della
coscienza,
defraudandola
così
dellasuaforzasintetica
e innescando una crisi
che si manifesta su
diversi
piani:
culturalmente
come
emorragia di senso,
socialmente
come
anomia
e
indebolimento
dei
rapporti di solidarietà;
individualmente come
serie di disturbi che
colpiscono
personalità.
la
3.Rawls:“lotteria
naturale”egiustizia
L’insistenzasucriteri
normativi di carattere
universale,
che
rendano possibile una
interazione
non
violenta
e
non
manipolativa tra gli
uomini, si intreccia
anche altrove con la
ricerca di modelli di
società mediante i
quali
valutare
gli
assetti delle comunità
storicheconcrete.Sullo
sfondo
di
questi
convergenti interessi
sta la percezione del
venir
meno
della
fiducia in una storia
automaticamente
indirizzata verso il
meglio e dell’emergere
difattorididisagioedi
disgregazione
all’interno dei sistemi
democratici. In seguito
allabancarottadel“Dio
che ha fallito”, al
tramonto
cioè
del
comunismo sovietico, e
allaconclusionedeitre
“decenni d’oro” (19601990), in cui l’umanità
occidentale
ha
conosciuto
un
benessere
senza
precedenti,
sembra
iniziareoraun’epocadi
aspettative
decrescenti. E poiché
gli
ideali
di
egualitarismo assoluto
appaiono
ormai
irrealistici, se non
funesti, e lo Stato
sociale non risulta più
in grado di distribuire
indiscriminatamente
abbondanti risorse a
tutti i cittadini, diventa
imprescindibile
il
compito di stabilire
criteri rigorosi per una
piùequaripartizionedi
costi e benefici. La
riformulazione
del
patto sociale secondo
nuovi
schemi
di
cooperazione appare
ancora più urgente in
un periodo in cui la
piena occupazione si
presenta come un
remoto miraggio e in
cui le frontiere dei
paesi
più
ricchi
diventano permeabili a
consistenti
flussi
migratori di uomini e
donneprovenientidalle
zone meno favorite
dellaTerra.
Il
riconoscimento
della fragilità dello
Stato sociale e della
miseria crescente a
livello planetario pone
un’alternativa, a cui si
è mostrata ben presto
sensibile la filosofia
politicastatunitense.Si
devono attribuire le
disuguaglianze al caso,
come afferma Robert
Nozick,
o
bisogna
invece respingere la
“lotteria
naturale”,
schierandosi per una
giustizia
che
salvaguardi i ceti e gli
individui più deboli,
come sostiene John
Rawls? Per Nozick
siamo tutti figli del
caso, già nell’istante
del
nostro
concepimento, poiché
uno solo tra miliardi di
spermatozoi
ha
fecondato
quel
determinato ovulo.10
Dobbiamo
quindi
guardarci bene dal
mettere in discussione
il
ruolo
dell’accidentalità,
perché,
altrimenti,
stroncheremmo
alla
base la legittimità
stessa della nostra
esistenza. Rischioso è
anche far ricorso a
criteri di riequilibrio e
di giustizia basati sulla
commensurabilità tra i
differenti
individui
rispetto a un presunto
“bene comune”. Gli
individui sono infatti
tra
loro
incommensurabili e il
benecomunenonèche
una
chimera:
sacrificareunindividuo
a vantaggio di altri
significa
semplicementenuocere
a lui e giovare ad altri.
Morale, anarchica e
conservatrice insieme:
ciascuno per sé e
nessunopertutti.
Combattendo su due
fronti, tanto contro
queste
versioni
“libertarie”
di
individualismo
possessivo,
quanto
contro
l’utilitarismo
vecchio e nuovo (da
Bentham a Harsanyi),
John Rawls inaugura
una
rinnovata
tradizione
contrattualista, erede
del diritto naturale
moderno.
Essa
si
contrappone sia alla
lotteria naturale, alla
giustificazione
delle
norme di giustizia a
partire da contesti
fattuali o storici, sia al
sacrificio del singolo in
nome della felicità del
maggior
numero.
Occorre
servirsi,
secondo Rawls, di un
metro di giudizio degli
eventi esterno agli
eventi, giacché l’unità
di misura non può
misuraresestessa.Per
elaborare un’etica e
una politica fondate su
principi
di
valore
universale e condiviso
è
pertanto
indispensabile
ricorrere a modelli
trascendentali
di
origine kantiana, a
forme cioè che non
derivano
dall’esperienza
ma
strutturano e rendono
intellegibile
l’esperienza stessa. Il
situarsi fuori dalla
storia
o
dall’accidentalità
naturale vuol dire
pertanto che – nel
giudicare qualcosa dal
puntodivistadell’etica
pubblica – si prescinde
dalla infinita varietà
delle situazioni, allo
stesso modo in cui il
fisico, nel formulare le
leggi del movimento,
non
tiene
conto
dell’attritoreale.
Se la giustizia è
commensurabilità,
i
canoni per stabilire se
una società è giusta
possonovenirelaborati
mediante un accordo
razionale
tra
gli
uomini. Compiamo un
esperimento mentale e
immaginiamo
che
ciascuno
debba
scegliere a priori un
modellodisocietàsotto
un “velo d’ignoranza”
che gli nasconde la
propria
futura
collocazione al suo
interno. Dato che la
sorte
potrebbe
riservargli il punto più
basso
della
scala
sociale,
ognuno
tenderà coerentemente
aminimizzareilrischio
e a preferire quella
società dove il più
svantaggiato
riceva,
per compensazione, il
massimo dei vantaggi.
Ponendosi nell’ottica
dello
spettatore
imparziale
e
generalizzando
la
propria scelta, ciò
significa
che
egli
riterrà, insieme, utile e
giusto per lui e per
tutti un assetto sociale
incuilediseguaglianze
possano
essere
sfruttate a beneficio
dei più sfavoriti. Tali
criteri di giustizia non
rappresentano
però
rigide e inesorabili
leggi
di
natura.
Costituiscono semmai
la conseguenza di un
possibile patto tra
individui,
di
un
contratto capace di
conciliare interesse del
singolo e interesse
collettivo.
Contro il weberiano
“politeismo dei valori”
Rawls reintroduce così
l’idea classica di una
loro gerarchia. La
giustizia
(preliminarmente
definita “la prima virtù
delle istituzioni sociali,
cosìcomelaveritàloè
dei
sistemi
di
pensiero”)
è
intrinsecamente
connessa alla dignità
della persona, “bene
primario” che non ha
prezzo, che non può
cioè essere scambiato
con nient’altro. La
libertà,cheriassumein
sétuttiibeniprimari,è
“lessicograficamente”
sovraordinata
all’eguaglianza,hacioè
una validità superiore.
Il
“principio
di
differenza”,asuavolta,
sostiene
che
le
diseguaglianze sociali
ed economiche devono
essere mantenute solo
se
vanno
nella
direzione di assicurare
i maggiori benefici ai
meno avvantaggiati o,
con
un’altra
formulazione,che“tutti
i valori sociali – libertà
e
opportunità,
ricchezza e reddito, e
le basi del rispetto di
sé – devono essere
distribuiti in modo
eguale,amenocheuna
distribuzione ineguale,
di uno o di tutti questi
valori, non vada a
vantaggio di ciascuno;
l’ingiustizia,
quindi,
coincide
semplicemente con le
ineguaglianze che non
vanno a beneficio di
tutti”.11 Ciò significa
però,
in
termini
classici,
che
la
conservazione
della
libertà
è
più
importante
dell’eliminazione delle
diseguaglianze
o,
meglio, che, senza la
difesa
dei
“beni
primari” da distribuire
con giustizia, non è
possibile la riduzione
dellediseguaglianze.
Sebbene
Rawls
riconosca che tale
criterio vale per le
società democratiche a
scarsità
moderata,
ossia
non
eccessivamente
gravatedallapovertà,e
che
l’ordine
lessicografico prevede
delle
eccezioni
(si
danno
infatti
fasi
storiche, come quella
della
rivoluzione
industriale, in cui la
libertà
di
singoli
privilegiati è meno
importante
della
conquista
dell’eguaglianzadeipiù
sfavoriti), si può in
generale dire che la
prima manifestazione
della
giustizia
si
riscontra
nella
distribuzione
delle
libertà,
bene
a
fondamento di ogni
altro. L’égalité non è
più la meta agognata
della giustizia sociale,
così come non lo è il
mantenimento
delle
diseguaglianze
esistenti,
la
stabilizzazione
del
caso. Rawls non solo
diffida del carattere
stagnante delle società
egualitarie,
ma
le
giudica
responsabili
degli effetti perversi
che inducono a violare
la
libertà
senza
realmente ridurre la
forbice
delle
diseguaglianze.
Il
“principio
di
differenza”
rappresenta
quindi
anche
un’alternativa
moderata alla lotta di
classe, la rinuncia al
capovolgimento
rivoluzionario di tutte
le
diseguaglianze
esistenti.
IlprogettodiRawlsè
tra i più elaborati
tentativi di pensare
l’ordinamento
delle
società democratiche,
di fissare un punto di
equilibrio
fra
la
tradizione liberale di
difesa delle libertà
individuali e quella
democratico-radicaledi
promozione
delle
chances di vita dei più
svantaggiati. Egli è
convinto
che
le
diseguaglianzesianoin
qualche caso positive,
che costituiscano degli
incentivi, in quanto
strumenti
per
indirizzare le risorse
“nelle mani di chi può
farne l’uso sociale
migliore”.12
La
giustiziasilegaperòin
lui a un principio di
solidarietà
e
di
fratellanza,
a
un
criteriocosìinesorabile
di riparazione sociale
dei torti e degli
svantaggi
da
non
indietreggiare neppure
dinanzi alla condanna
delledotinaturalicome
fonte di allocazione dei
benefici
sociali.
I
“talenti”deisingolinon
solo
vengono
considerati
una
ricchezza collettiva da
ridistribuire all’interno
della comunità, ma la
loro stessa promozione
non risulta affatto
prioritaria
per
la
collettività. Così, ad
esempio, nel campo
dell’educazione
scolastica
giustizia
vuole che non vengano
aiutati i più intelligenti
o i più svegli, bensì i
menointelligentieipiù
lenti,
che
si
rettifichino,
di
conseguenza,
per
quanto è possibile, sia
le
diseguaglianze
naturali che quelle
dovute al background
familiare.
Vi
è
probabilmente
in
Rawls,
oltre
all’impianto
giusnaturalistico
del
suo
pensiero,
un
sensibile
pathos
religioso: il concetto di
“società ben ordinata”
viene
infatti
esplicitamente
dichiarato
un’estensione
del
concetto di tolleranza
religiosa
e
una
interpretazione
del
kantiano “regno dei
fini”.
Come è tuttavia
possibile mantenere la
solidarietà in regimi
democratici
caratterizzati
dal
pluralismo
e
dall’individualismo,
dove
a
ciascun
cittadino e a ciascun
gruppo
è
lecito
raggiungere a suo
modo quello che crede
sia un bene? Come
stabilire,
in
tale
contesto, norme che
permettano
di
rispettareladivergente
molteplicitàdeivalorie
dei piani di vita,
mantenendo
una
“neutralità liberale” in
relazione
alle
differenze constatate,
senza
per
questo
distruggere il vincolo
sociale e precipitare
tutti nel caos? Come
può
uno
Stato
conservare la propria
stabilitàinmancanzadi
concreti
valori
unificanti
ed
effettivamente
condivisi, al di là di un
loro non impegnativo
riconoscimento
di
modelli
astratti
di
giustizia? I temi della
durata
delle
istitituzioni e della
giustizia
nella
prospettiva
delle
generazioni future si
intrecciano nell’ultimo
Rawls
con
l’elaborazione di uno
schema di convivenza
tralediversitàottenuto
mediante il “consenso
per
intersezione”.
Tutta la sua opera più
recente si concentra
così nello sforzo per
rispondere
alla
domanda
“com’è
possibilechepermanga
costitutivamente
nel
tempo una società
giusta e stabile di
cittadini
liberi
ed
uguali che restano
profondamente divisi
da dottrine religiose,
filosofiche e morali
ragionevoli?”.13
1 H. Arendt, Vita
activa
Bompiani,
(1958),
Milano
1964,pp.13-15.
2 Id., Che cos’è la
politica?
(frammenti
degli anni cinquanta,
pubblicati nel 1993),
Comunità,
Milano
1995,p.5.
3 H. Arendt, Vita
activa,cit.,p.349.
4 Id., Le origini del
totalitarismo
(1963),
Comunità,
Milano
1967,pp.439,437.
5E.Canetti,Massae
potere (1960), Rizzoli,
Milano 1972, pp. 331,
333.
6 Cfr. H. Arendt, La
vita
della
mente
(1978),
il
Mulino,
Bologna1987,pp.151,
288-289;
Id.,
La
banalità
del
male
(1963),
Feltrinelli,
Milano1964.
7 Cfr. A. MacIntyre,
Dopo la virtù (1979),
Feltrinelli,
Milano
1988.
8J.Habermas,Teoria
dell’agire comunicativo
(1982),
il
Mulino,
Bologna 1986, ii, p.
1084.
9
J.
Habermas,
Dialettica
della
razionalizzazione
(1981), in Dialettica
della razionalizzazione,
Unicopli, Milano 1983,
p.240.
10 Cfr. R. Nozick,
Anarchia,
Stato
e
Utopia
(1974),
Le
Monnier,Firenze1981,
p. 240. Quest’opera di
Nozickapparedueanni
dopo quella di Rawls,
Una
teoria
della
giustizia, che è del
1972.
11 J. Rawls, Una
teoria della giustizia
(1972),
Feltrinelli,
Milano1982,p.67.
12J.Rawls,AKantian
ConceptionofEquality,
in “The Cambridge
Review”,
febbraio
1975,p.97.
13
J.
Rawls,
Liberalismo
politico
(1993),
Comunità,
Milano1995,p.23.
X.Guardando
avanti
1.Gliorizzontidella
Terra
Trasportando
gradualmente
il
problema dal piano
della
giustizia
all’interno degli Stati a
quello del rapporto tra
ledifferentipopolazioni
e culture del pianeta, i
criticidiRawlsmettono
in dubbio i presupposti
fondamentali della sua
teoria. Obiettano: la
“situazione originaria”
delcontrattosociale,in
cui i singoli appaiono
spogliati di qualsiasi
determinazionestorica,
mossi soltanto dal
calcolodiminimizzarei
rischi, non presuppone
forsedeisoggettidicui
si “dà per scontata la
individuazione
antecedente”,
costituitasi cioè in
maniera astratta, al di
fuori di ogni legame
sociale?1
E
questi
individui,preesistentia
ogni
forma
di
comunità,sonodavvero
in grado di accordarsi
in base a regole dotate
di
una
razionalità
neutrale,
appresa
peraltro in maniera
misteriosa?
I
communitarians
contrappongono,
di
conseguenza,
all’“atomismo”
dei
liberals
(o
all’“individualismo
metodologico”
di
quanti ritengono che si
debba partire dalla
prospettiva dei singoli
per giungere ai beni
sociali come aggregato
di beni individuali)
l’idea che “il vivere in
società
è
una
condizione necessaria”
tanto dello “sviluppo
della
razionalità”,
quanto della possibilità
di ciascuno di divenire
“un essere pienamente
responsabile,
autonomo”. L’“obbligo
di appartenere” a una
comunità è quindi
inscindibile
sia
dall’essere titolari di
diritti,siadalprendersi
cura
dei
propri
interessiprivati.2
Il “dialogo tra sordi”
che
oppone
i
“comunitaristi”
(Michael
Sandel,
Alasdair
MacIntyre,
CharlesTaylor,inparte
Michael Walzer) ai
liberals
o
“universalisti”
(John
Rawls,
Jürgen
Habermas,
Ronald
Dworkin)
verte
dapprima
sulla
possibilitàdiancorarei
diritti o a determinate
società, che articolino
in maniera specifica le
diverse capacità e
attese
dei
singoli,
oppure all’umanità in
quanto
tale.
La
questione si è poi
estesa e trasformata,
quasiperlineeinterne,
in
quella
del
“multiculturalismo”,
dei criteri da adottare
per la convivenza tra
culture
ed
etnie
diverse,
ciascuna
mossa da valori spesso
contrastanti (e, per il
momento,
incomponibili).
I
problemi
precedenti
vengono
così
riformulati a grappolo:
come
limitare
o
preservare
l’eguaglianza
e
la
parità d’accesso ai
diritti tra appartenenti
a popoli e culture
diverse? Ancora: si
devono proteggere le
minoranze e, più in
generale,
quanti
risultano
comunque
svantaggiati dal potere
di qualche gruppo
dominante,concedendo
loro
dei
benefici
riequilibratori?
E,
infine, una società
liberale – ossia che
mantiene la massima
neutralità dinanzi al
conflitto tra valori –
deve rispettare anche
quei gruppi o quelle
culture
che
non
riconoscono i diritti
deglialtri?
Siinnesca,intermini
logici, una formidabile
tensione tra estremi,
peraltro,
empiricamente
inesistenti:
la
differenza irrelata e
l’universalismo
monolitico. Di fatto
esisteun’ampiagamma
di
gradazioni
intermedie,
di
compensazioni variate,
di dosaggi accorti tra
questi due margini
generalmente
inaccettabili
(che
hanno tra loro una
relazione
di
complementarità,come
quella che si instaura
tra il concavo e il
convesso).
Quali
esempi di tali pratiche
di rettificazione si può
vedere come nelle
società
liberali,
prevalga
la
propensione
a
salvaguardare
le
differenze con spirito
di tolleranza e di
rispetto dell’alterità. Si
genera tuttavia, al loro
interno, un’inevitabile
richiesta
di
limiti
traducibile
nell’interrogativo:
tolleranti (rispettose,
ospitali e cosmopolite)
sino a che punto? Con
simmetria
specularmente
rovesciata, anche le
società chiuse, che
scelgono determinati
valori come assoluti,
sono
indotte
a
domandarsi:
intolleranti (xenofobe,
nazionaliste
e
integraliste) sino a che
punto?
Lo sfondo sul quale
campeggiano
tali
domande è costituito
dai
processi
di
“globalizzazione”, che
continuano
a
estendersi,
modificando i nostri
modi di vivere e di
pensare.
Meno
velocemente, però, e
con minore impatto
psicologicodiquantosi
pensi. Certo, il mondo
si
“restringe”,
in
quanto le sue parti
entranoinunapiùfitta
trama di rapporti; la
società
si
“macdonaldizza”,
mediante la creazione
distandarddiconsumo
comuni a tutte le
latitudini; le élites
transnazionali (tecnici,
piloti
d’aereo,
scienziati,
artisti,
rappresentanti
di
organismi
internazionali, utenti e
venditoriditele-lavoro)
si moltiplicano. Eppure
si
radicalizza,
per
contro, da parte di
molti popoli, culture e
sub-culture,
la
simultanea volontà di
separazione
dal
contesto planetario. I
modelli più antichi di
convivenza
e
di
mentalità
si
“disassemblano” senza
chequellipiùrecentisi
sedimentino allo stesso
ritmo. L’assunzione di
abitudini o di idee di
origine straniera non
incide
molto
sulle
strutture
profonde
dell’identità,
almeno
perl’immediato.Ilfatto
che un giapponese
beva la Coca-Cola non
lo rende in effetti più
americanodiquantoun
americano
diventi
giapponese mangiando
ilsushi.
Si assiste così allo
strabismo,
alla
divergenza
tra
globalizzazione
e
frammentazione,
al
parallelo
espandersi
dell’isolamento
centrifugo
e
della
“mondializzazione”
centripeta.
Proprio
mentre aumenta il
tasso di integrazione
fra continenti e popoli,
cresce – con pari o
maggiore intensità – lo
sforzo di alcuni paesi e
culture per svincolarsi
da questo abbraccio,
avvertito
come
soffocante. Si crea così
una miscela esplosiva
di risentimenti verso le
potenze egemoni, di
orgoglio etnico, di
fanatismo religioso, di
tradizioni
illustri
talvolta inventate, di
ricerca
di
vie
alternative rispetto ai
“disvalori globali” del
progresso incessante,
del consumismo o
dell’individualismo.
Molte civiltà subiscono
il
trauma
dello
sradicamento,
della
“deterritorializzazione”,
della
perdita
di
contatto con l’humus
delle tradizioni in cui i
loro componenti erano,
sino
a
poche
generazioni indietro,
quasi
totalmente
inseriti. Ci si può
leggittimamente
chiedereselarinascita
dei
cosiddetti
“particolarismi”
e
“localismi”
non
costituisca, almeno in
parte, una formazione
reattiva all’inserimento
di singoli, ceti e popoli
nel reticolo a maglie
sempre più strette (e
per alcuni opprimenti)
dei rapporti planetari
di interdipendenza. Si
alimenta infatti, in
coloro che sono meno
“attrezzati” o meno
disposti a sintonizzarsi
con
tale
sistema
altamente coordinato,
un acuto e doloroso
senso di inferiorità, si
fomentaindirettamente
il ripudio di una
omologazione imposta,
il sospetto di una
ingiusta retrocessione,
la certezza di una
perdita di sovranità e
di ruolo nell’arena
internazionale.
Si
reagisce
così,
per
“eccesso di legittima
difesa”,
rafforzando
sproporzionatamentein
maniera compensativa
la propria identità,
ritenuta minacciata o
disprezzata.
Ne
consegue la volontà di
barricarsiinsestessie
l’auto-esaltazione dei
propri valori, fedi e
costumi,
l’esibito
trionfalismo riguardo
alle proprie “radici”
nazionaliereligiose.Si
osserva talvolta, in
alcune popolazioni, la
manifestazione di una
sortadiamoretraditoe
respinto, l’ira luttuosa
per non essere stati
davvero coinvolti, con
pari dignità, dai paesi
piùricchiepiùpotenti,
nei grandi progetti di
modernizzazione.
È possibile elaborare
uncodicemoraleentro
cuiarticolareerendere
compatibili, in modo
innovativo, regole e
criteri di giudizio tra i
più diversi? È davvero
praticabile l’ipotesi di
un’“etica planetaria”? I
comunitaristi tendono
generalmente a dare
unarispostanegativaa
entrambi i quesiti,
mentre gli universalisti
sono
generalmente
propensi a rispondere
in termini positivi, per
lo
meno
nella
prospettiva
dell’approssimazione
infinita. Tale etica
dovrebbe
corrispondere
all’effettivo
sviluppo
della coscienza morale
e civile transnazionale,
modellata
su
esperienze confrontate
e condivise. Appare,
tuttavia, estremamente
arduo conciliare regole
morali e giuridiche
forse
dotate
di
maggioreuniversalitàe
plausibilità, ma prive
del
sostegno
di
consolidati
costumi
locali, con bisogno di
identitàediautostima,
scarsamente
negoziabile, espresso
da molte comunità. È
poidubbiocheesistano
al momento schemi di
convergenza
e
di
compatibilità
tra
culture
eterogenee.
L’ostacolo
maggiore
risiede comunque nel
fatto che le grandi
civiltà mondiali sono
ancora in cammino,
stanno
cercando
faticosamente
di
incontrarsi
e
di
intendersi più a fondo.
E ciò malgrado il fatto
che
ci
troviamo,
secondo la formula di
Edgar
Morin,
nel
“quinto secolo dell’era
globale”, a partire cioè
dal momento in cui il
Vecchio e il Nuovo
Mondo
si
sono
conosciuti nel 1492.
Certo,
un’etica
planetaria
minima
(fondatasuunristretto
numero
di
norme
universalmente diffuse
e
ragionevolmente
difendibili)
sarebbe
preferibile
a
conglomerati di valori
che si escludono o si
ignorano
reciprocamente.Infatti,
in linea di principio,
l’universale
può
comprendere
il
particolare,
ma
il
contrario non accade
mai.
Ma
di
quale
universalismo si parla?
Di quello stabilito su
leggi
rigide
e
immutabili,
che
esigono
di
venire
riconosciutedatuttigli
“uomini
di
buona
volontà”? In questo
casosisarebbetenutia
seguire
la
regola
aristotelica, secondo la
quale contra principia
negantes
non
est
disputandum, ossia a
rifiutare
qualsiasi
dialogo con coloro che
neganoprincipipernoi
razionalmentefondatio
auto-evidenti.
Essi,
infatti,sarebberosimili
a “un ceppo” o, in
linguaggio
più
moderno, moralmente
ciechi
o
daltonici.
Bisogna però essere
sicuri che tali principi
rappresentino
effettivamente
le
premessediunaccordo
universale
e
non,
piuttosto,
la
sublimazione
di
pregiudizi etnocentrici.
D’altronde (pensando
al neo-kantismo di
Karl-Otto Apel o, in
misura
minore,
di
Jürgen Habermas e di
John
Rawls)
è
irrealisticoritenereche
la maggior parte degli
uomini
si
lasci
convincere da semplici
ragionamenti
che
poggiano
su
una
“fondazione
ultima”
delle norme etiche, sul
mero
“agire
comunicativo” o su
modelli
contrattualistici
di
società giusta. È forse
più sensato credere –
come ritiene anche un
allievo di Habermas –
che
l’incontro
tra
uomini
e
culture
differenti implichi una
“lotta
per
il
riconoscimento”
(posizione
questa
condivisa anche da
Taylor).3
In
altre
parole, che, di fatto, le
identità individuali e
collettive
siano
il
risultato non solo – e
non
tanto
–
di
interazioni
razionali,
quantopiuttostodiuna
mistura
variamente
dosata di violenza e di
consenso oppure di
violenza
che
si
razionalizza
in
consenso
e
di
compromessi
che
riflettono rapporti di
forza variabili. Ciò non
esclude, ovviamente,
che, dal punto di vista
filosofico e civile, si
debbano usare solo le
ragionidell’intelligenza
e respingere quelle
della violenza e della
manipolazione.
Per
procedere
fruttuosamente
nel
dibattito occorrerebbe
però
comprendere
meglio i processi di
formazione dei “ponti
di
senso”
tra
particolareeuniversale
otral’“io”eil“noi”.Le
idee di “umanità” o di
“umanesimo”,
oggi
avvolte da un alone di
diffidenzaedisospetto,
rappresentano
una
casa sufficientemente
ospitale per accogliere
tutte le differenze o
confondono invece, in
maniera irrimediabile,
l’essenzadell’uomocon
una sua particolare
forma storica (bianco,
di origine europea, o,
come
si
specifica
sempre più spesso,
anche
“maschio”,
“eterosessuale”
e
“giudeo-cristiano”)? In
quest’ultimo caso, si
scambierebbe
l’autentico
universalismo con i
valori
“locali”
forzatamente imposti
dagli europei al mondo
attraverso secoli di
colonialismo
e
di
sfruttamento.
Il
significato
dell’umanesimo
si
capisce meglio per
contrasto,mettendoloa
confronto
con
gli
attacchi più virulenti
cheglisonostatirivolti
nella seconda metà del
secoloscorso,apartire
dai più recenti per
giungere a quelli più
lontani nel tempo. Nel
1999 Peter Sloterdijk
provocò un notevole
scandalo
per
aver
sostenuto la necessità
di programmare gli
uomini
secondo
tecniche “zoopolitiche”
diselezioneprenatalee
di modificazione del
patrimonio
genetico.
Piuttosto che lasciare
alcasolaloronascitao
affidarsi
esclusivamente
a
strumenti culturali per
addomesticarne il lato
bestiale, bisognerebbe
cogliere le opportunità
offerte
dalle
biotecnologie
per
migliorarli, dato che
l’umanesimo ha fallito
nel suo tentativo di
tenere sotto controllo
le
tendenze
all’imbarbarimento.4
Secondo il Nietzsche
dello Zarathustra, che
Sloterdijk
cita
e
approva, l’umanesimo
(specie quello cristiano
e quello che scaturisce
dalle
ideologie
democratiche
o
socialiste
fautrici
dell’eguaglianza)
ha
“rimpicciolito” l’uomo,
spossandone lo slancio
verso il potenziamento
delle proprie forze e
facoltà.Siècosìacuito
il conflitto, da sempre
latente,tralatendenza
ad addomesticare la
brutalità della specie e
dei singoli mediante
l’indebolimento degli
impulsi
e
quella,
antagonistica,chemira
a un incremento delle
potenzialità
umane
mediante
una
“antropotecnica” oggi
accessibile grazie alle
biotecnologie.
La
proposta
di
Sloterdijk
(come
sembra pensare Jürgen
Habermas)5
non
riguarda solo le scelte
cheigenitoricompiono
per i propri figli, ma
l’intera
struttura
sociale che finirebbe
per somigliare a quella
descritta nel romanzo
del 1932, Il mondo
nuovo,
da
Aldous
Huxley: una società in
cui gli esseri umani
vengono programmati
in base ai ruoli che
dovranno svolgere e
fabbricati in provette e
macchine. Vi è chi è
destinato a comandare
e chi a essere schiavo,
ma
tutti
sono
soddisfatti della loro
condizionegrazieauna
droga, il soma. In
sostanza, le persone
sarebbero trasformate
in
uomini
di
allevamento,
una
soluzione
diametralmente
opposta
a
quella
propugnata
dall’umanesimo.
Un altro insidioso
attacco
contro
l’umanesimo, al quale
lo stesso Sloterdijk
indirettamente
si
collega,
è
quello
sferrato da Heidegger
nella
Lettera
sull’“umanismo”,6 con
il
rifiuto,
discusso
anche
altrove,
in
particolare,
della
filosofia romana e
dell’intera
cultura
umanistico-
rinascimentale,
considerate retoriche e
filosoficamenteprivedi
valore
(in
ciò
contrastato dal filosofo
italiano,
Ernesto
Grassi, che insegnava
in
Germania).
All’esaltazione
dell’uomo a scapito
dell’Essere
si
contrappone l’invito ad
ascoltarne la “voce
silenziosa” e ad averne
cura diventandone il
semplice“pastore”.Nel
sostenere che bisogna
farscenderel’uomodal
suo piedistallo per
inserirlo nuovamente
nel Tutto, pur ponendo
un problema su cui
meditare, Heidegger
oscura il ruolo della
coscienza,
della
razionalità e della
responsabilitàmoralee
dell’individuo.
Percontrasto,valela
pena ricordare che
nello stesso anno e
pressolostessoeditore
(FranckediBerna)uscì
in tedesco il libro di
Eugenio Garin Der
italienische
Humanismus in cui si
rivendicavano
gli
Studia
humanitatis
come espressione di
una nuova visione
dell’uomo e della vita,
posta a fondamento
della
modernità
e
caratterizzata
dall’impegno
civile
contro ogni forma di
barbarie e dal valore
eticodellarazionalitàe
della ricerca di senso
nelmondo.
Si
è,
appunto,
accusato
spesso
l’umanesimo
di
mancare del requisito
dell’universalità,
di
riguardare
sostanzialmente la sola
civiltà
occidentale,
trascurando le altre.
L’umanesimo è stato
quindi
a
lungo
presentato
come
“incolore”puressendo,
di
fatto,
bianco,
europeo. Nell’erigere
per
secoli
un
monumento al suo
ideale di uomo come
campione
di
intelligenza, di forza e
di armonia, ha escluso
o messo ai margini del
suo
campo
visivo
quanti ha considerato
selvaggi o barbari
senza storia. Si tratta
di un modello che ha
avuto una gloriosa
parabola e che si è
affermato a partire
dall’immagine
dell’uomo “misura di
tutte le cose” di
Protagora, dal terzo
stasimo dell’Antigone
diSofocle(dovel’uomo
viene presentato come
deinos, formidabile nel
duplice
senso
di
temibile o mirabile, un
essere che s’impone
con
violenza
alla
natura, squarciando la
terra con l’aratro e
fendendoilmareconle
navi) sino a Leon
Battista
Alberti,
a
Filippo Brunelleschi, a
Leonardo o a Giovanni
Pico della Mirandola
(che però lo presenta
come
“camaleonte”,
capace di diventare
tutto, o quale essere
intermedio, che può
innalzarsi fino agli
angeliodegradarsifino
allebestie).
Tali concezioni, si
sostiene,
si
sono
talvolta trasformate in
unalibiattoacopriree
giustificare
la
conquista di interi
continenti.
Con
il
pretesto di portare ai
nativi una superiore
civiltà e la vera fede, i
valori
“umanistici”
sono stati inculcati
nella
mente
dei
rappresentanti
delle
classi dirigenti locali,
allo scopo di farne,
nella loro patria, i cani
da
guardia
dell’Occidente. Proprio
all’inizio
della
prefazione a I dannati
della terra di Frantz
Fanon, Sartre ha così
descritto
questo
fenomeno:
“L’élite
europea
prese
a
fabbricare
un
indigenato scelto; si
selezionavano
gli
adolescenti,
gli
si
stampavano in fronte,
col
ferro
incandescente,
i
principi della cultura
occidentale,
gli
si
cacciavano in bocca
bavagli sonori, parole
grosse glutinose che si
appiccicavano ai denti;
dopo
un
breve
soggiornoinmetropoli,
li si rimandava a casa,
contraffatti.
Quelle
menzogne viventi non
avevano più niente da
dire ai loro fratelli; da
Parigi, da Londra, da
Amsterdam
noi
lanciavamo
parole:
‘Partenone!
Fratellanza!’
e
da
qualche
parte,
in
Africa, in Asia, labbra
si aprivano: ‘...tenone!
...lanza!’”.7
Per
contrastare
questa colonizzazione
delle coscienze e per
ricostruire
l’identità
delle
popolazioni
africane
e
afroamericane,
Léopold
Sédar Senghor, poeta,
filosofo
e
futuro
presidentedelSenegal,
haelaborato–findagli
anni
trenta
del
Novecento–unateoria
della
négritude
assieme
al
poeta
caraibicoAiméCésaire.
Ha voluto intenderla
come contributo a un
umanesimopiùampioe
accogliente, che non
esclude
l’apporto
dell’Occidente
alla
civiltàplanetaria,malo
integra.8
Nel suo bisogno di
definire
l’identità
africana,
Senghor
procede
tuttavia
attraverso
taglienti
dicotomie. Il bianco è,
per lui, “uomo volitivo,
soldato,
uccello
predatore,
puro
sguardo”, soggetto che
si
distingue
dall’oggetto, tenendolo
a distanza, fissandolo,
assimilandolo a scopi
pratici e di dominio.
Allo stesso modo si
comporta
con
gli
esponenti
di
altre
culture. È lui il vero
“cannibale” che vuole
divorareilmondo.
Il nero, al contrario,
è inserito nel cosmo,
legato alla terra e agli
altri
elementi,
sintonizzato con un
universo fatto di suoni,
colori, ritmi, forme e
odori. Sotto la scorza
materiale e sensibile
eglipercepisceperòun
“mondo d’anime”, di
energie spirituali che
danno vita a “ogni
essere, ogni pianta,
ogni cosa provvista di
un carattere proprio:
montagna,
caverna,
roccia, lago”. Questa
esaltazione
dell’animismo africano
serve a tessere l’elogio
del nero, dotato in
sommo grado della
predisposizione
a
emozionarsieasentirsi
in comunione con tutto
ciòcheesiste.
Poiché
questa
accentuazione
degli
elementi
emotivi,
immaginativi
e
sentimentali del nero
africano hanno fatto
pensare (per alcuni
versi giustamente) a
una
rinuncia
alla
razionalità, svenduta e
lasciata in proprietà
all’uomo
bianco,
Senghor ha dovuto,
senza molto successo,
correre ai ripari. Ha
così
operato
una
distinzione
tra
la
“ragione
analitica”
europea, che seziona
cosemorte,simileaun
anatomista alla presa
con i cadaveri, e la
“ragione
sintetica”
africana, un modo di
conoscenza che non
impoverisce e non fa
violenza alle cose, ma
cheanzipenetra“nella
spiritualità
dell’oggetto”,
abbandonando
ogni
forma di volontà di
potenza e di desiderio
diasservirelarealtà.
Occorre,
certo,
guardare alla nostra
cultura
anche
dall’esterno, con gli
occhi
di
uomini
appartenenti ad altre
civiltà,perpoternecosì
stabilire la specificità
nell’arena
mondiale,
per constatarne gli
eventuali limiti e per
promuovere
una
crescita comune che
abbia al centro l’uomo.
Per
malinteso
multiculturalismo non
si
deve,
tuttavia,
svendere il nostro
specifico patrimonio, il
nostro contributo alla
storia
dell’intera
umanità: l’umanesimo
basato sulle idee di
libertà, dignità umana,
ricerca,
dubbio,
razionalità,pace.
Occorre
piuttosto
depurarlo delle scorie
della vichiana “boria
delle
nazioni”
e
confrontarsi con altre
culture (cosa che, del
resto, è avvenuta nel
passato, ad esempio,
siaperquantoriguarda
gliapportidelleculture
asiatiche ed egizie
sulla Grecia antica, sia
per quanto riguarda il
ritorno dei classici
greci in Occidente
attraversolaCasadella
sapienza di Baghdad,
dove venne recuperato
il patrimonio di testi
filosofici,
medici,
astronomici
e
matematici portati a
Edessadaifilosofigreci
cacciati da Giustiniano
epoitradottiinlatinoa
Toledo,
sia
per
l’introduzione
dei
numeri
arabi
che
avevano già preso lo
zero dall’India). Anche
perché, malgrado le
apparenze
e
la
crescente
globalizzazione,
le
civiltà umane non si
conoscono ancora fra
loro in profondità:
barriere linguistiche,
religiose, di costume e
di
mentalità
lo
impediscono. Il mondo
sembra unificato, ma
non è così. Anzi, per
certi versi, i confini
mentali tendono a
diventarepiùrigidicon
la difesa a oltranza
dellapropriaidentità.
L’ultimo
potente
assalto all’umanesimo
occidentaleèvenutoda
Claude
Lévi-Strauss,
che attacca l’ipertrofia
del soggetto, il porre
l’uomo al centro del
mondo,
staccandolo
così dalla natura e
facendone un gigante,
unAssoluto.Noncisiè
pertanto resi conto
della fragilità della
nostra specie e del
fatto che “il mondo è
cominciato
senza
l’uomoefiniràsenzadi
lui” e “con la sua
scomparsa ineluttabile
dalla superficie di un
pianeta
anch’esso
votato alla morte, le
sue fatiche, le sue
pene, le sue gioie, le
sue speranze e le sue
opere
diventeranno
come se non fossero
mai esistite [...]”.9
Sembra di sentire il
Leopardi del Cantico
delgallosilvestre.
Ilbersagliopiùvicino
di
Lévi-Strauss
è
rappresentato
soprattutto da Sartre e
da tutti i filosofi che
“preferiscono
un
soggetto
senza
razionalità
a
una
razionalità
senza
soggetto”.10Nonsenza
forzature,
egli
attribuisce
loro
la
responsabilità di aver
contribuito
al
colonialismo,
al
fascismo e ai campi di
sterminio,
giacché
hanno
contrapposto
l’ideale
dell’uomo
compiuto nella sua
perfezione a quello di
razze e civiltà inferiori
(mentre
nessuna
società
è
assolutamente buona o
cattiva) e di individui
nietzschianamente
“malriusciti”.
Per
questo è necessario
dissolverel’“uomo”per
poi reintegrarlo nella
natura. Piuttosto che
continuare a costruirlo
e
rafforzare
la
convinzione del suo
splendidoisolamentodi
essere razionale che si
arroga il diritto di
comandare
dispoticamente
sugli
altri esseri viventi e
sull’intera
natura,
bisogna,
infatti,
inserirlo nuovamente
nelcontestodicuiè,di
fatto,parte.
La
sfida
posta
dall’anti-umanesimo e
dall’implicita polemica
contro l’identificazione
di
umanesimo
e
Occidente è seria e
bisognerebbe avere un
doppio coraggio: da un
lato, di non lasciarsi
intimidire
dall’aggressivitàedalla
blindatura in se stesse
(a
carattere
“adolescenziale”, con
un
negativismo
e
un’aggressivitàtipicidi
identità ancora fragili)
di minoranze talvolta
più
politiche
che
numeriche; dall’altro,
di guardare al lato
oscuro
del
nostro
universalismo,
ascoltando le voci
altrui e domandandoci
dove esso potrebbe
aver
torto.
I
particolarismi
e
i
“fondamentalismi”
nascono
infatti
soprattutto all’interno
dei popoli e dei gruppi
che sono stati esclusi
dal
banchetto
dell’universalismo
e
che perciò rifiutano
difensivamente
un
gioco in cui sono
sempre stati abituati a
perdere.
Resta
il
compito ciclopico, ma
irrinunciabile,
di
provare a intrecciare
pazientemente
nella
“corda”
dell’umanità
(che risulta tanto più
robusta, quante più
storie parziali riesce a
connettere tra loro)
tutte
le
varie
differenze,
senza
proporsi di ignorarle o
diazzerarle.
Un’impresa
disperatamente votata
allo scacco, secondo
molti. E, certo, al suo
buon
esito
non
concorre la maggior
parte degli strumenti
concettuali di cui la
filosofia
tradizionalmente
dispone.
I
criteri
dell’universalismo
poggiano infatti su dei
presupposti metafisici
che,
indebolendosi,
conducono a forme di
relativismo più o meno
“ironico”.Laconstatata
perdita di prestigio di
quelle filosofie che
avevano cercato di
articolare la realtà e il
sapere sulla base di
una ragione universale
unitaria, marmorea ed
eterna, in grado di
fondare
una
conoscenza certa e
incrollabile,
produce
unoscetticodisincanto.
Si enfatizzano così la
pluralità e l’autonomia
delle culture umane,
ponendo in evidenza
tutto
ciò
che
si
presenta come diverso,
anomalo, caotico, non
riconducibileall’unitào
costituito
–
come
ritieneJeanBaudrillard
–
di
“simulacri”
caratteristici
della
società dei consumi e
dei
mezzi
di
comunicazione
di
massa.11 Dietro l’idea
diunitàdella“ragione”
si sospetta ora una
volontà di potenza che
inibisce
l’evoluzione
divergente di altre
espressioni di pensiero
e di civiltà o, in
maniera più benevola,
una sua immagine
simile a quella di una
remota stella spenta
che non esiste più
ormai, anche se noi
continuiamo a vederne
la luce. Invece di
considerare gli uomini
come
esseri
integralmente storici –
radicati in credenze,
desideri e pregiudizi
appresi all’interno di
determinatecomunità–
vi si scorge la Fata
Morgana di una loro
coscienza individuale
fuori dal tempo e dallo
spazio,
sede
della
veritàedellamorale.E
mentre la maggior
parte delle filosofie del
passato
aveva
concentrato i suoi
sforzi nel cogliere le
strutture
invariabili,
astoriche, del pensiero
umano
o
nell’individuare
un
comune
terreno
d’incontro
chiamato
“ragione”, la cultura
filosofica
odierna
sembra invece porre
spesso
l’accento
sull’improponibilità di
ognischemaunificante.
Il serrato confronto tra
ideeeculturesiriduce
in tal modo a una non
impegnativa,
“lunga
conversazione
del
genere umano”, alla
quale ciascuno può
intervenire
creativamente
inventando
o
rilanciando argomenti,
consapevole però che
ogni intendere è anche
un fraintendere. In
questo modo, da un
lato, la discussione
diventa più agevole,
perchéledivergenzedi
opinione
vengono
composte in modo
garbato e tollerante;
dall’altro,
si
evita
accuratamente
di
approfondire
le
questioni,
considerando
semplicemente “folli”
coloro
che
non
abbiamo
voglia
di
prendere
in
considerazione,
solo
perché le loro tesi
esulano da quanto “è
determinato
dalla
nostra
educazione,
dalla nostra situazione
storica”.12
2.Dall’Italia
Seconmutamentodi
scala, passiamo da una
prospettiva globale (o,
almeno, europea e
americana)
a
una
locale, siamo in grado
di valutare, quasi per
campionatura,
corrispondenze
e
peculiarità
nazionali
rispetto allo scenario
mondiale.Lafilosofiaè
per
sua
natura
transnazionale. Se si
dovessero
tracciare
isobare o isoipse del
pensiero, come accade
nelle
carte
meteorologiche
o
geografiche,
si
constaterebbe
facilmente come la
diffusione delle idee
prescinde dai confini
degli stati. Eppure,
nella
polarità
ineliminabile
tra
assorbimento
dall’esterno
ed
emanazione
verso
l’esterno,
una
specificità
della
filosofia
italiana
esiste.13
Dopo
il
declino della filosofia
analitica nei paesi
anglosassoni
e
la
perdita di smalto della
French Theory (che ha
dominato negli ultimi
decenni la cosiddetta
filosofia continentale),
la filosofia italiana si
affaccia oggi sulla
scena internazionale e
– intrecciandosi con la
riflessione di pensatori
dialtreareeculturali–
comincia ad assumere
un certo peso a livello
internazionale (tra gli
autori più tradotti:
GianniVattimo,Giorgio
Agamben, Remo Bodei,
RobertoEsposito).Essa
corrisponde
a
un
diffuso
bisogno
di
concretezza e di realtà
dopo le minuziose
indagini dei filosofi
analitici
e
le
(apparenti) acrobazie
concettuali
degli
esponenti della French
Theory. Se, quindi,
come
sosteneva
Gadamer la filosofia
analitica è simile al
panno per pulire gli
occhiali – serve cioè a
vedere
più
chiaramente, ma non
affronta
le
grandi
questioni–eilpensiero
diunDerridarischiadi
ridurre la realtà a ciò
che sta dentro il
linguaggio o il testo, la
filosofia italiana si
presenta
con
uno
sguardo diverso, più
attento alla storia e ai
conflitti.
Sin dalle origini
umanisticorinascimentali
gli
interlocutori
privilegiati
della
filosofia italiana non
sono gli specialisti, i
chierici o gli studenti
che
frequentano
l’università, ma un
pubblico più vasto che
si cerca di orientare e
di
persuadere.
La
prima
cerchia
è
costituita, per i filosofi
e i letterati, dai
connazionali,
eredi
decaduti di un grande
passato, cittadini di
unacomunitàdapprima
soltanto
linguistica,
politicamente divisa in
una pluralità di fragili
Stati
regionali
e
spiritualmente
condizionata da una
Chiesa cattolica sin
troppo
forte.
La
seconda,
con
una
accentuazionedeitratti
“universalistici”,
da
tutti gli uomini. I
filosofi
italiani
maggiormente
rappresentativi non si
sono perciò chiusi
entro ristrette cerchie
locali o dedicati a
questioni di particolare
sottigliezza
logica,
metafisica o teologica.
Essi hanno assunto
come
oggetto
di
indagine questioni che
virtualmente
coinvolgonolamaggior
parte degli uomini (i
“non filosofi”, come li
chiamava
Benedetto
Croce), ben sapendo
chesitrattanonsolodi
animali razionali, ma
anche
di
animali
desideranti
e
progettanti,
i
cui
pensieri,
atti
o
aspettative
si
sottraggono
ai
precedenti
statuti
argomentativi
o
a
metodi rigorosamente
definiti.
La filosofia italiana
dàpertantoilmegliodi
sé nei tentativi di
soluzione di problemi
in cui si scontrano
universale
e
particolare, logica ed
empiria. Questi stessi
problemi scaturiscono
dai nodi della vita
associata
e
dagli
intrecci variabili, nella
coscienza individuale,
fra la consapevolezza
dei limiti imposti dalla
realtàeleproiezionidi
desiderio, fra l’opacità
dell’esperienza storica
e la sua trascrizione in
immagini e concetti,
tra l’impotenza della
moraleeladurezzadel
mondo,trailpensatoe
il vissuto. Da qui i
numerosi (e riusciti)
tentativi di strappare
zone di razionalità a
territori
che
ne
apparivanoprivi,didar
senso a saperi e a
pratiche
che
si
presentavano dominati
dall’imponderabilità
dell’arbitrio, del gusto
odelcaso:allafilosofia
politica, alla teoria e
alla
filosofia
della
storia, all’estetica o
alla
storia
della
filosofia (tutti quei
campi, peraltro, in cui
il
peso
della
soggettività
e
dell’individualitàrisulta
decisivo).
Rovesciando l’ottica
prevalente,
bisogna
porre l’accento sul
fatto che non si tratta
di un “indebolimento”
delle
pretese
di
intellegibilità del reale,
ma anzi dello sforzo di
bonificare aree troppo
in fretta abbandonate
(e inselvatichitesi) da
parte di una ragione
che
si
era
eccessivamente
identificata
con
i
modelli allora vittoriosi
delle scienze fisicomatematiche sino al
punto di appiattirvisi.
Le filosofie italiane
sono quindi, spesso,
più
filosofie
della
“ragione impura”, che
tiene conto cioè dei
condizionamenti, delle
imperfezioni e delle
possibilità del mondo,
che non della ragion
pura
rivolta
alla
conoscenza
dell’assoluto,
dell’immutabile o del
rigidamentenormativo.
Curiosamente
poi,
malgrado
il
fondamentale
contributo
offerto
dall’Italia agli studi
scientifici, negli ultimi
secoli e sino a pochi
decenni fa non è in
genere esistita una
costante
riflessione
autoctonasullafilosofia
della scienza o sulla
logica (se si escludono
Galilei e le figure,
rimaste
a
lungo
solitarie, di Peano,
Vailati o Enriques). E
malgrado l’importanza
della Chiesa e l’ampia
diffusione
delle
pratiche religiose, o
forse proprio grazie a
esse,
è
poi
essenzialmente
mancata una filosofia
dell’interiorità,
del
drammatico
dialogo
con se stessi (del tipo
che si è avuto in
Francia da Pascal a
Maine de Biran). Ciò
non dipende soltanto
dalla
spesso
sottolineata tendenza
alla teatralità del rito
cattolico-romano o dai
blocchi
psichici
provocati dalla paura
dei controriformistici
“tribunali
della
coscienza”,
quanto
piuttosto
dall’istituzionalizzazione
fortemente gerarchica,
dei rapporti tra i fedeli
eladivinità,dall’essere
la Chiesa di Roma
depositaria di una
cultura
giuridica,
formalizzata nei secoli,
che
regola
minuziosamente
e
sapientemente
i
comportamenti
dei
fedeli.
Nel
secondo
dopoguerra la filosofia
politicaitalianasitrova
ad agire in una fase
storica in cui lo Stato
eticofascistadistampo
gentilianohalasciatoil
posto al partito etico,
che si erge a portatore
di ideali e di valori di
carattere universale,
dirige i militanti, esige
una rigida disciplina,
diffonde
una
concezione della vita
sostanzialmente
incentratasullapolitica
ed elabora ideologie
che pretendono di
fornire risposte a ogni
questione.Laculturasi
trasforma così in una
pedagogia
politica
caratterizzata
dalla
volontà di educare le
masse
attraverso
“intellettuali”che–pur
di far quadrato attorno
alla loro fede politica –
vanno spesso incontro,
in
opposti
schieramenti, a un
inaridimento
della
capacitàdigiudicare.
Rispetto al periodo
dei totalitarismi, la
Guerra
fredda
ha
portato a un diverso
isterilimento
della
capacità di giudicare,
al chiudere occhi e
orecchie
per
far
quadrato attorno alla
propria parte politica.
In tale contesto, il
magistero di Norberto
Bobbio si è esercitato
nel
combattere
il
dogmatismo
e
la
rigidità ideologica e
nello stabilire, tra
cultura e politica, un
rapporto che non fosse
di sudditanza della
primaallaseconda,ma
neppure di distacco
reciproco.
Ha
rivendicato
“l’indipendenzamanon
indifferenza”
della
cultura e la sua
“autonomia relativa”
rispettoallapolitica,ha
insistitosulfattoche“il
primo compito degli
intellettuali dovrebbe
essere
quello
di
impedire
che
il
monopolio della forza
diventi
anche
il
monopolio
della
verità”.14 Con parole
che mantengono tutta
la loro attualità, ha
stabilitoqualedebbano
essere le virtù di chi
svolge
un
lavoro
intellettuale:
“l’inquietudine per la
ricerca, il pungolo del
dubbio, la volontà del
dialogo,
lo
spirito
critico, la misura nel
giudicare, lo scrupolo
filologico,ilsensodella
complessità
delle
cose”.15
Nel
dibattito
pubblico e in quello
specialistico Bobbio si
era
distinto
per
l’esemplare chiarezza
del suo ragionare, il
rifiuto di ideologie
preconcette, l’assenza
di toni faziosi e
propagandistici,
la
capacità di riformulare
incessantemente
i
problemi, soppesando
argomenti
e
accogliendo obiezioni:
“Al di là del dovere di
entrare nella lotta, c’è,
per l’uomo di cultura il
diritto di non accettare
iterminidellalottacosì
come sono posti, di
discuterli, di sottoporli
alla
critica
della
ragione”.
Da
qui,
replicando a Togliatti,
la rivendicazione della
libertà contro qualsiasi
sclerotizzazione delle
idee
in
forme
dogmatiche: “Ciò che
può dar vita al corpo
sociale irrigidito è
soltanto l’alito della
libertà, con la quale
intendo
quella
irrequietezza
dello
spirito,
quell’insofferenza
dell’ordine
stabilito,
quell’aborrimento
di
ogni conformismo che
richiede
spregiudicatezza
mentale ed energia di
carattere”.16
Della
democrazia
Bobbio presenta una
immagine sobria e
realista, che include
non solo i nobili ideali,
ma anche la buona
amministrazione e la
laboriosa
ingegneria
degli assetti sociali, la
prosapiùchelapoesia.
Guardando indietro a
un quarto di secolo
trascorso,
confessa
però l’abbandono delle
pretese di un tempo,
che ora gli appaiono
esorbitanti:
“Ci
eravamopostidifronte
alla democrazia reale
nell’atteggiamento dei
padri offesi, e sorpresi
che la nostra creatura
fosse cresciuta così
male, tanto da non
poter
durare
probabilmente a lungo
[...]. Abbiamo imparato
a porci di fronte alla
società
democratica
senza illusioni. Non
siamo diventati più
soddisfatti.
Siamo
diventati
meno
esigenti. La differenza
tra le ansie di allora e
le preoccupazioni di
oggi,ètuttaqui.Nonè
migliorata nell’insieme
la qualità della nostra
vita in comune, anzi
sotto certi aspetti è
peggiorata.
Siamo
cambiati
noi,
diventando più realisti
omenoingenui”.17
Il
compito
della
democrazia
è
interminabile,
in
quanto
regime
imperfetto che è però
l’unico perfettibile, e il
desiderio
di
trasformare il mondo,
senza
smettere
di
interpretarlo,
è
continuoeingrato.Non
resta che proseguire il
cammino
intrapreso
per avanzare nella
tenace
espansione
della sfera dei diritti,
passando da quelli
politici ed economici a
quelli – oggi sempre
più importanti – sociali
di ultima generazione:
“Si tratta di nuovi
diritti che hanno fatto
la loro apparizione
nelle costituzioni dal
primo dopoguerra in
poi e sono stati
consacrati anche dalla
Dichiarazione
universale dei diritti
dell’uomo e da altre
carte
internazionali
successive. La ragion
d’essere dei diritti
sociali come il diritto
all’istruzione, il diritto
al lavoro, il diritto alla
salute, è una ragione
egualitaria. Tutti e tre
miranoarenderemeno
grande
la
disuguaglianza tra chi
ha e chi non ha, o a
mettere in condizione
un sempre maggior
numero possibile di
individui di essere
menodisegualirispetto
aindividuipiùfortunati
per
nascita
e
condizionesociale”.18
Dalla fine degli anni
sessanta, con percorsi
e voci originali, anche
la filosofia italiana si è
sostanzialmente
inserita nel più ampio
dibattito
internazionale. La fase
più acuta e innovativa
del cambiamento di
prospettive
corrisponde al declino
di tendenze una volta
egemoninellaPenisola,
in particolare, delle
varie famiglie della
dialettica
e
dello
storicismo. Il pathos
per la storia e per il
valore salvifico della
politica si muta allora
sia in disincanto che
nelprenderesulserioil
“nichilismo”. A livello
sociologico, tale svolta
si accompagna alla
sostituzione
del
rapporto
privilegiato
della filosofia e delle
ideologie italiane con i
“partiti etici” a quello
con l’opinione pubblica
e con i mezzi di
comunicazione
di
massa.
La riabilitazione di
pensatori
già
condannati
come
“reazionari”
o
“irrazionalisti”
(Nietzsche,
Wittgenstein, Schmitt,
Heidegger)
fornisce
ora le armi per una
sorta
di
attacco
concentrico contro le
posizioni precedenti.
Alle
concezioni
tragiche, seppure con
finale ottimistico – che
dipingono una umanità
approdata, dopo lungo
travaglio, sulle spiagge
del regno della libertà
o su quelle della
società senza classi –,
Massimo
Cacciari
contrappone così l’idea
di krisis, di emergenza
permanente. Essa non
garantisce
alcuna
salvezza.
Racchiude
perònuoveopportunità
intellettuali e indica
esemplari
stili
di
condotta, rinvenibili ad
esempio negli “uomini
postumi”, nei grandi
maestri
della
décadence
che
popolano la Vienna
della finis Austriae. Il
“pensiero
negativo”
suggerito da Cacciari,
che ha assunto con il
tempo toni sempre più
neoplatonici,
non
pretende tuttavia di
cogliere
la
verità
disvelata.
Mira
piuttosto a mantenere
la
presenza
dell’irrappresentabile
nel rappresentabile e
dell’invisibile
nel
visibile.
Alle teorie filosofiche
che andavano alla
ricercadiunmodellodi
rigore nelle inesorabili
proceduredellascienza
subentra con Aldo
Giorgio Gargani, un
“sapere
senza
fondamenti”,
che
individua nei “rituali
epistemologici”
pratiche consolatorie
tese a eliminare le
incertezze denunciate
poi dalla “crisi della
ragione”.19 La filosofia
cambia così vocazione,
abbandona le velleità
di competere con le
scienze a statuto forte
ed
elabora
un
particolare “stile di
analisi”: il “pensiero
raccontato”,
che
intreccia la riflessione
alla narrazione, lo
sviluppo delle idee alle
vicende personali, la
filosofia agli apporti
conoscitivi
della
letteratura.
Esso
soltanto è in grado di
esplorare – con valori
“non ancora protetti” –
i luoghi, i percorsi e i
“dintorni” enigmatici
lungo cui si articola
l’esistenza
di
ciascuno”.20 Una volta
privi
di
garanzie
preliminari,
sempre
sospette,
i
nostri
pensieri appaiono così
dotati di pericolante
instabilità, transitano
su ponti irreali sospesi
sul vuoto, simili ai
“numeri immaginari”
della matematica, che
funzionanosenzachesi
sappia il perché. Una
inaspettata consistenza
e solidità interiore ci
giungono
tuttavia
dall’abbandono
del
“teatro del soggetto
autocentrato”,
dal
riconoscimento del suo
carattere di “grande
esorcismoneiconfronti
dellarealtà”.21
In questo modo la
cultura filosofica più
recente
sposta
l’accento
dalla
responsabilità
del
singolo nei confronti
dellaStoriacollettivae
della
politica
alla
ricerca personale del
proprio “destino” in
rapporto
ad
altri
destini da parte di
esserichenonpossono
più
beneficiare
di
fondamenta
preliminarmente date
al pensare e all’agire.
Ognuno
è
perciò
rinviato a riscoprire se
stesso, tenuto a farsi
carico del sempre
improvvisato mestiere
divivere.
Si scinde ora anche
la
struttura
della
storia, dialetticamente
intesa quale divenire
mediante
contraddizioni. Da un
lato vi è chi, come
Emanuele
Severino,
nega l’esistenza stessa
del
divenire,
considerando
una
assurdità
logica
l’oscillazione
tra
l’essere e il nulla. Gli
enti sono infatti eterni
e,
pertanto,
non
nascono
e
non
muoiono: pur restando
nell’orizzonte
dell’essere,
escono
semplicemente
dal
campo di visibilità
dell’apparire,
per
ritornarvi
secondo
ritmi
ciclici.
Esorcizziamo
paradossalmente
il
fantasma del divenire,
da noi stessi creato,
mediante il ricorso ad
altri enti fittizi (gli
“immutabili”, prodotti
della scienza e della
religione,comeleleggi
fisiche o Dio). Essi ci
stanno a cuore perché
rappresentano
la
soddisfazione indiretta
del nostro desiderio di
sottrarciallacaducitàe
alla morte. Dall’altro
lato, Gianni Vattimo,
utilizzando
l’ermeneutica
per
invalidare
ogni
progetto
di
riappropriazione di se
stessi o di fuoriuscita
dalla realtà alienata,
accentuainveceiltema
dell’impossibilità
di
trovare
un
senso
compiuto alla storia,
minacciata
da
un
divenire che indossa le
vesti della caducità e
della
fragilità.
L’heideggeriana
Verwindung,
intesa
quale congedo dalle
idee e dai valori forti
della
tradizione
metafisica, viene in tal
modo contrapposta sia
alla
hegeliana
e
marxiana Aufhebung,
sia alla Überwindung
di quanti pensano di
“superare” l’orizzonte
della metafisica stessa.
Così, se il volume
collettivo Crisi della
ragione è stato il
tentativo estremo di
salvare il potere di
sintesi all’interno del
tessutosimbolico,della
“ragione” appunto, Il
pensiero debole ha
piuttosto segnato il
compiutoabbandonodi
tale obiettivo. A causa
della
loro
insostituibilità,
gli
“immutabili”
e
le
tracce sbiadite della
ragione unitaria, con
tutte le sue esorbitanti
pretese, non devono
però essere cancellate.
Occorre
anzi
salvaguardarle
e
rammemorarle,
esprimendo nei loro
confronti una pietas
analoga a quella che si
manifesta verso tutto
ciò che, in quanto
finito, si consuma e
muore.22
A prescindere dalla
ricchezza dei temi che
sono stati trattati in
questo
periodo,23
l’ultimo
quarto
di
secolo
è
stato
caratterizzato
dal
dibattito
sulla
biopolitica, che ha
comeesponentiGiorgio
Agamben e Roberto
Esposito e rappresenta
una rielaborazione e
unaripresaoriginaledi
temi di Foucault e
Schmitt sulla natura
del potere e della
sovranità.
Già
Foucault
intendevalabiopolitica
come controllo del
potere sui corpi degli
individui
e
come
intervento
programmatoesempre
più cogente non solo
sulla natalità, la sanità
o l’igiene e, quindi,
sulla promozione della
vita (per lo più grazie
allaseduzionepiuttosto
cheallapunizione),ma
anche mediante la
sistematica distruzione
di determinati gruppi
umani. La modernità
ha per lui mutato il
senso della politica:
“Per millenni l’uomo è
rimastoquelcheerain
Aristotele: un animale
vivente
ed
inoltre
capace di un’esistenza
politica;
l’uomo
moderno è un animale
nella cui politica è in
questionelasuavitadi
essere vivente”,24 in
cui cade cioè la
distinzione tra la vita
fisica (zoé) e la vita
politica(bios).
Il paradigma della
biopolitica è stato più
precisamente
individuato
da
Agamben nella figura
dell’homo sacer della
religione
romana
arcaica, un individuo
che aveva commesso
un delitto ma che non
poteva
essere
sacrificato, un uomo
che chiunque poteva
impunemente
ammazzare(datochela
sua vita era, appunto,
“sacra”,
ossia
uccidibile
perché
abbandonata
dalla
legge). Il campo di
sterminio nazista è la
versione novecentesca
sulargascaladiquesta
figura, rappresentata
oradaideportati,lacui
“nuda vita” è in balia
dei loro aguzzini, che
esercitano su di essi
una sovranità assoluta.
A
differenza
di
Foucault,Agambennon
crede quindi che la
biopolitica
sia
un
fenomeno
moderno.
Riguarda, anzi, sia il
passato remoto delle
civiltà umane, sia il
mondo attuale. Esso è,
infatti, sia il fenomeno
originario che fonda le
città e la convivenza
umana
attraverso
l’“esclusione inclusiva”
dideterminatepersone
e
popoli,
sia
la
condizione
odierna
dellapolitica–anchedi
quella democratica –
che
ha
reso
permanente lo stato di
eccezioneteorizzatoda
Carl
Schmitt
di
temporanea
sospensione
della
legge,
trasformando
virtualmente tutti noi
in homines sacri.25 Il
problema di Agamben
consiste nell’articolare
unateoriacheriformuli
il senso e il ruolo della
sovranità
e
della
politica
grazie
a
pratiche
di
soggettivazione
in
grado di contrastare
taletendenza.
Roberto
Esposito
sviluppa, a sua volta, i
temi
biopolitici
soprattutto sotto il
segno
della
“immunizzazione”, del
chiudersi in se stesse
delle società che si
sentono
minacciate
dall’Altro e che sono
quindi indotte – in
maniera analoga alle
vaccinazioni
–
a
includere in se stesse
l’elemento
della
minaccia. La vita deve,
di
conseguenza,
assorbire il principio
letale e la biopolitica
deve comprendere la
“tanatopolitica”.26Aldi
là
dei
campi
di
sterminio nazisti o dei
gulag sovietici, sono
stati
problemi
più
recenti a indirizzare la
ricerca sulla questione
dell’immunità:
il
moltiplicarsi, su scala
planetaria, dei conflitti
con
motivazioni
etniche; le migrazioni
di
massa
con
il
conseguente
rimescolamento delle
popolazioni;
l’accoglienza
o
l’espulsione
dei
migranti; il diffondersi
delle nuove povertà e
del terrorismo, con le
connesse paure degli
individui per la propria
sopravvivenza
e
integrità
fisica;
le
lacerazioni del corpo
sociale sulla liceità
dell’aborto
e
dell’eutanasia.
Il loro contraccolpo
sulle nozioni e sulle
pratichedellasovranità
edelpoterenonèstato
ancora assorbito e
tarda a tradursi in una
riformulazione
della
politica. In un suo
recente libro, Esposito
ha fornito una cornice
più ampia alla sua
teoria, riportando il
problema
biopolitico
nel
quadro
della
“macchina
della
teologia politica”, vale
adirediquelloschema
che
“funziona
precisamente
separando ciò che
dichiara di unire e
unificando ciò che
divide mediante la
sottomissione di una
parte al dominio del
tutto”, uno schema
difficile
da
abbandonare in quanto
siamo completamente
immersi
nel
suo
orizzonte, “non perché
la porta d’ingresso sia
sbarrata, ma perché
l’abbiamo da tempo
immemorabile varcata,
prima che essa si
richiudesse alle nostre
spalle impedendoci di
uscire”.27
3.Rorty:comunitàe
verità
È stato in particolare
Richard
Rorty
a
combattere
la
“metafisica”
e
a
sottolineareilruolodei
contesti
sociali.
Riallacciandosi
alla
tradizione
del
pragmatismo
americano (per cui la
verità è il risultato di
regole e procedure
accettate all’interno di
una data comunità),
egli
rifiuta
i
presupposti
plurimillenari
del
pensiero
occidentale
tesi
a
garantirne
l’incondizionata
assolutezza
pur
nell’insormontabile
contingenza
delle
situazioni
umane.
Rifiuta così sia il
concetto
di
realtà
esattamente
riproducibile
senza
deformazioni
dallo
“specchio”
o
dall’“occhio”
contemplativo
della
mente,28 sia quello di
coerenza
puramente
logica
del
ragionamento
e
dell’azione. Rorty, che
non
vuole
abbandonarsi
alla
“nevrotica
ricerca
cartesiana di certezza”
e preferisce di gran
lunga una filosofia in
gradodioffrirealmeno
qualche cenno sul
modo in cui “le nostre
vite
potrebbero
cambiare”,29 delinea
dueposizioniesemplari
relative alla verità. La
prima, che viene fatta
risalire
a
Platone,
àncora la verità stessa
a
una
dimensione
sovra-umana,
alla
nostra “vitrea essenza”
che coglierebbe in
modo trasparente una
“oggettività”postaaldi
sopra di ogni criterio
concordato da gruppi
umani concreti; la
seconda, che viene
fatta risalire a William
James e a John Dewey,
lega invece la verità a
pratiche
sociali
condivise
di
giustificazione e di
controllo.
Platone ha elaborato
una teoria della verità
che non si collega
affatto alla comunità
dei dialoganti effettivi.
E ciò per evitare un
doppio
relativismo:
sofistico ed etnologico
(quello per cui, ad
esempio,
secondo
Erodoto, i Massageti
mangiavano i loro
genitori, in quanto
ritenevano
che
la
tombamigliorefosselo
stomaco dei figli, ma
avrebbero rifiutato con
sdegno di bruciarli
sulla pira, secondo il
costume dei Greci).
Egli inventa, a tal
proposito,
una
comunità artificiale di
filosofi che legifera
sulle regole di validità
del
discorso
agganciandole
a
essenze (“idee”) che,
una volta raggiunte, si
imporrebbero all’uomo
per la loro luminosa,
indiscutibile evidenza.
La verità risulta così
fondata su procedure
di
carattere
autoriflessivo proprie
di un ristretto gruppo
che si arroga il diritto
di
rappresentare
l’interaumanitàdiogni
luogo e tempo. Si deve
però osservare che in
realtà – malgrado le
critiche di Rorty –
Platone cerca proprio
di “edificare” la verità
attraverso una ricerca
comune.
Tutti
gli
uomini dotati di logos
(e persino uno schiavo
ignorante),
se
opportunamente
guidati,
possono
raggiungere
conoscenze certe. Il
dialogo passa infatti al
setaccio i differenti
punti di vista, mostra
come alcune opinioni
trovano
la
strada
sbarrata,
risultano
sterili e intransitabili,
mentre
altre
permettono
la
confluenza e lo sbocco
delle diverse linee
argomentative,
dimodoché, alla fine,
conducono a soluzioni
convincenti
per
ognuno. Si ottiene così
una verità che è,
soggettivamente,
un
punto d’arrivo, sempre
provvisorio, ma che ha
la
propria
“oggettività”,
extraterritorialerispettoalle
diverse culture e ai
punti
di
vista
individuali. La verità
supremaècomeilsole,
che
non
si
può
guardarealungosenza
perdere la vista. Ma la
ragione
che
la
contempla, anche nei
suoi riflessi, diventa
comunque la patria di
tutti, la tradizione
condivisa dell’umanità.
Il
nucleo
più
consistente
del
pensierooccidentaleha
proceduto appunto su
questa strada maestra,
da cui la verità stessa
appare salda perché
fondata
non
sulle
sabbie mobili delle
opinioni soggettive, ma
sul suolo granitico
dell’episteme,
della
scienza.
A tale prospettiva
Rorty contrappone la
trasformazione
dell’oggettività
in
“solidarietà”,
che
definiscecioèilveroin
rapporto a ciò che
credeeargomentauna
specifica comunità, il
“noi” dei parlanti o dei
pensanti. In questo
senso,dunque,“verità”
èciòcheincontrerebbe
meno resistenze a
essere accettato da
coloro che seguono
determinate
regole
storiche
di
verificazione; falsità il
contrario.30Lafilosofia
dovrebbe evitare la
tentazionedicercarele
fondamenta
ultime
della realtà e del
pensiero e limitarsi a
proporre
discorsi
“edificanti” (nel doppio
senso architettonico e
morale).Dovrebbecioè
innalzare
dimore
accoglienti, dove la
convivenza
umana
possa svilupparsi al
meglio,senzanecessità
difarricorsoapratiche
comunicative irrigidite
inschemiprefissati.Lo
scopo della filosofia in
un’epoca
“postfilosofica”, che non ha
più bisogno di pratiche
fondative,
consiste
appunto nel mantener
viva la creatività di
forme di dialogo che
non
presuppongono
alcun
“vocabolario
dato”.
Per Rorty non si
tratta
affatto
di
delegittimare
la
razionalità o la morale.
Egli è anzi talmente
affezionato
alla
“speranza sociale” da
ritenere che i valori
astrattamente
universalistici
devitalizzino le singole
comunità
storiche,
impedendo loro di
risolvere
questioni
urgenti e concrete. Del
resto, dice, le libertà
dal
bisogno,
dall’oppressioneedalla
crudeltà
non
necessitano di altra
giustificazione
che
quella
della
loro
desiderabilità. Ciò che
conta, per noi abitanti
dell’Occidente, “ironici
liberali”,
è
una
democrazia che possa
fare a meno sia della
fondazione
religiosa
che
della
legittimazione
filosofica. È sufficiente
l’autorità “costituita da
unaccordocoronatoda
successo tra individui
che si scoprono eredi
delle stesse tradizioni
storiche e posti di
fronte
agli
stessi
problemi”.
Questa
forma di democrazia è
talmente preziosa che,
qualora
“l’individuo
reperisca nella propria
coscienzacredenzeche
sono rilevanti per la
politica pubblica ma
indifendibili sulla base
delle
credenze
condivise
dai
suoi
concittadini, egli deve
sacrificare
la
sua
coscienza
sull’altare
delbenepubblico”.31
Come evitare allora
l’arbitrio delle opinioni
e
la
preferenza
accordabile ai propri
valori, anche nella
forma di pregiudizi
etnocentrici?
La
sfiducia
sulla
possibilità di gettare
ponti di comunicazione
tra gli appartenenti a
diverse
culture
è
diventata in Rorty
sempre più forte. Così,
se ne La filosofia e lo
specchio della natura
aveva osservato che i
coloni inglesi e gli
aborigeni
della
Tasmania non avevano
maggiori difficoltà a
comunicare tra loro di
quanta ne avessero i
primi
ministri
britannici Gladstone e
Disraeli, ora crede
piuttosto che esistano,
sotto il profilo teorico,
tanti criteri di verità e
di
giustificazione
quante sono le culture.
Nessuno di noi è
realmente capace di
scostarsi dalle proprie
tradizioni e pregiudizi,
di superare la barriera
dell’alterità.
Siamo
infatti
talmente
condizionati
dalle
regole che abbiamo
appreso e a cui siamo
stati abituati nella
nostra comunità da
essere inevitabilmente
costretti a diventare
etnocentrici.
Per
parafrasare Hegel, non
possiamo uscire dai
nostri condizionamenti
storico-culturali, così
come non possiamo
uscire dalla nostra
pelle.
L’ideale
di
unificazione
delle
formedipensierosotto
l’egida di una verità e
di
una
razionalità
supercomunitaria
obbedisce, del resto, a
un
pregiudizio
inconscio: quello per
cuilastoriadelgenere
umano procederebbe
inesorabilmente verso
la convergenza tra le
varie
civiltà.
Appoggiandosi anche a
Feyerabend,32
Rorty
sostiene invece che
bisognerebbe puntare
sull’idea di un’umanità
che
procede
in
direzioni
divergenti,
privilegiare
la
differenziazione
rispetto
all’unificazione.
La
cosa migliore che si
possa fare è rendersi
consapevoli del peso
ineliminabile
delle
proprie tradizioni e
tenerne conto quando
ci si confronta con
altri,
usando
possibilmente l’arma
dell’ironia,
della
consapevolezza, cioè
del
peso
della
contingenza
per
relativizzare
ogni
pretesa di assolutezza.
Eppurequalchecriterio
generale esiste, come
quello di combattere la
crudeltàneiriguardidi
tuttigliesserisenzienti
e nel “saper togliere
importanza
a
più
differenze tradizionali
(di tribù, religione,
razza, usi, e simili) in
confronto
alla
somiglianza nel dolore
e nell’umiliazione, nel
saper includere nella
sfera del ‘noi’ persone
immensamente diverse
danoistessi”.33
4.Famedirealtà
Al pari di Rorty,
anche
Gadamer,
Derrida e Lyotard
diffidano dell’idea di
una verità che abbia
valore intrinseco. Sono
persuasi,
rispettivamente, che la
verità non conti se non
come credenza utile
alla società, che non si
possa sfuggire alla
forza della tradizione e
deipregiudizi,chealdi
fuori del linguaggio o
del testo non si dia
alcunarealtàautonoma
e che ogni pretesa di
verità abbia senso solo
nell’ambito
delle
“grandi narrazioni”. In
ultima analisi, tutti si
appoggianosullatesidi
Nietzsche secondo cui
“contro il positivismo
che si ferma solo ai
fenomeni, ‘ci sono
soltanto fatti’, io direi:
no,proprioifattinonci
sono,
bensì
solo
interpretazioni”.34
È stato, tuttavia, lo
stesso Nietzsche a
modificare più tardi
questa affermazione.
Da “vecchio filologo”,
ha, infatti, rivendicato
l’onestàeilcoraggiodi
chi
possiede
l’“incondizionata
volontà di verità” e ha
dichiarato
l’errore
espressione di viltà:
“Ogni briciola di verità
abbiamo
dovuto
strapparla a furia di
lotta; in compenso
abbiamo
dovuto
sacrificare quasi tutto
ciò cui di solito sono
attaccati
il
nostro
cuore, il nostro amore,
la nostra fiducia nella
vita.
Per
questo
occorre
grandezza
d’animo: servire la
verità è il più duro dei
servizi”.35 Le illusioni
possono,certo,aiutarci
a
sopportare
le
asprezze della vita, ma
la
verità
–
pur
rivelandosi
spesso
sgradevole,contrariaai
nostri interessi e ai
nostri
desideri
e
perfino pericolosa – ci
evita le sconfitte e le
delusioni
imputabili
alla
sottovalutazione
dei
condizionamenti
dell’esistenza.
Pur contribuendo a
mettere in guardia
contro
la
radicata
concezione di una
realtà
immobile,
assoluta, extra-umana,
il
pragmatismo,
l’ermeneutica,
il
decostruzionismo e il
postmodernismo
(talvolta al di là delle
intenzioni degli autori)
hanno alimentato la
convinzione che la
verità
non
sia
importante
per
le
nostre
vite,
che
qualsiasi pretesa di
conseguirlasiaingenua
o iperbolica, che il
mondo
sia
essenzialmente
plasmabile
secondo
punti di vista dettati
dall’utilità sociale o da
determinati
schemi
culturali e che sia
impraticabile
ogni
criterio di controllo
logico ed empirico
dellarealtà.
Nei confronti di chi
nel
pensiero
novecentesco
ha
sostenuto
la
dissoluzione
della
verità è recentemente
cresciuto il bisogno di
un
più
solido
ancoraggioaunaverità
non strumentale. Che
esista una fame di
verità e di realtà (o di
senso) lo si capisce
ogginelconstatare,già
sul
terreno
della
diffusione
delle
filosofie, l’estenuazione
di quelle che hanno
accompagnato l’ultimo
mezzosecolo.Oltrealle
teorie
appena
ricordate, si possono
aggiungere
quella
relativa all’equazione
tra sapere e potere del
primoFoucaultequella
che ruota attorno alle
molteplici
versioni
dell’idea di “modernità
liquida” di Bauman e
dello
sciogliersi
“nell’aria di tutto ciò
che è solido” di
Berman.36 Il merito
che va comunque loro
riconosciuto è stato
quellodiavermessoin
discussione l’idea di
una
verità
dogmaticamente
assoluta,
quale
si
presenta non solo nel
campo della filosofia,
ma anche in quello
della teologia, dove lo
“splendoredellaverità”
viene identificato con
le credenze di una
particolarereligione.
Il bisogno sia di
veracità (di voler cioè
conoscere la verità,
rispettarla
e
comunicarla agli altri,
promuovendola
attraversolevirtùdella
precisione
e
della
sincerità), sia di verità
incondizionata
verso
cui
dirigersi
è
necessario al fine di
evitarechelesocietàsi
dissolvano.
Nessun
gruppo
umano
potrebbe,
infatti,
durare se attribuisse
alla verità soltanto lo
statuto di una benefica
illusione: “La speranza
nonpuòpiùessereche
la verità, una verità
sufficiente, tutta la
verità,cipossarendere
liberi. Ma questo è
molto di più della
speranza
che
semplicemente le virtù
della
verità
continueranno
a
esistere; in una o
nell’altra forma, esse
debbono continuare a
esistere fino a quando
gli
esseri
umani
comunicheranno.
La
speranza è che esse
continueranno a vivere
in qualcosa di simile
alle
forme
più
coraggiose,
intransigenti
e
socialmente
efficaci
acquisite nella loro
storia; che possano
esistere istituzioni le
quali sostengano ed
esprimano tali virtù;
che i modi in cui nel
futuro si arriverà a
dare senso alle cose
sarannoancheingrado
di mettere le persone
in condizioni di vedere
la verità, e non di
essere schiacciate da
essa”.37
Sia contro i negatori
della
verità,
che
vorrebbero
allegramente
sbarazzarsene,
sia
contro i fautori del
sensocomunechesono
incapaci a replicare
alle ragioni dei primi,
giacchépensanochela
verità
abbia
una
evidenzaaproblematica
nella vita ordinaria,
Bernard Williams – pur
riconoscendo
l’esistenza
di
una
tensione essenziale tra
la veridicità e la verità
– ne difende il valore
intrinseco e si chiede
se
sia
“possibile
stabilizzare le nozioni
di verità e veridicità
dal punto di vista
intellettuale,
in
maniera tale che ciò
che sappiamo sulla
verità e sulle nostre
possibilità di arrivarci
possa
essere
reso
congruente
con
il
nostro
bisogno
di
veridicità”.38
Peraltro, le prime
critiche
contro
la
riduzione di tutta la
realtàainterpretazione
(per
quanto
ripetutamente
rettificata grazie al
“circolo ermeneutico”),
sono manifestate già
negli anni novanta del
secolo scorso.39 Più
recentemente è stato
però
l’invito
a
distinguere tra oggetti
“saturi”,
che
conservanoalungouna
loro interpretazione, e
oggetti “insaturi”, che
sono esposti a un più
rapido cambiamento di
interpretazione,
a
stabilire che, se tutto
viene sottoposto a una
interpretazioneinfinita,
i pensieri finiscono
effettivamente
per
sciogliersi e diventare
“liquidi”.40
A sua volta, il
decostruzionismo
aveva
virtualmente
eroso
i
suoi
presupposti
quando
Derrida alla fine si era
accorto del rischio che
l’eccessiva
fluidità
delle idee da lui
analizzate e il loro
inserimento
in
un
contesto che prescinde
dai
riferimenti
a
qualcosa
di
“indecostruibile”
possano stingere (o
addirittura cancellare)
la
linea
di
demarcazione
tra
veritàemenzognaetra
bene e male. Ciò era
avvenuto grazie alla
scoperta, in termini
morali, che l’idea di
giustizia
non
è
interpretabileapiacere
proprio perché dotata
di
una
propria
consistenza, che non
puòesseresmontatase
non al prezzo di
legittimare, appunto,
ogni
arbitraria
confusionetrailbenee
ilmale.41
Anche attraverso il
riferimento a questo
ultimo Derrida, da un
filosofo italiano è stato
da poco riproposto il
ruolo dell’ontologia, in
quanto
“ontologia
analitica”, vale a dire
del
riconoscimento
dell’esistenza di una
realtàfuoridinoi,diun
mondo
naturale
e
ideale (come quello
degli enti matematici)
che, d’accordo con il
senso comune, esiste
senza
che
le
interpretazionipossano
ridurlo a un fattore
culturale, a un sapere:
“Ontologia
significa
semplicemente questo:
il mondo ha le sue
leggi, e le fa rispettare
[…]. Resta che quello
che
percepiamo
è
inemendabile,nonlosi
puòcorreggere:laluce
delsoleèaccecante,se
c’è sole, e il manico
della caffettiera scotta,
se lo abbiamo lasciato
sul fuoco. Non c’è
alcuna interpretazione
da opporre a questi
fatti;lesolealternative
sonogliocchialidasole
elepresine”.42
Questo è l’attuale
panoramadellaricerca,
sempre in tensione tra
veridicità e verità, tra
negazionisti e difensori
del senso comune, ma
il cammino verso la
verità e la realtà
appare ancora lungo
(anche a prescindere
dagli
aspetti
più
tecnicamente logici e
malgrado le acute
intuizioni di Bernard
Williams).
5.Incertezzae
disimpegno
L’agire comunicativo
diHabermaselateoria
della giustizia di Rawls
rappresentano,
nelle
società democratiche
(caratterizzate da una
pluralità di poteri e di
valori in concorrenza),
un’alternativa sia al
ricorso alla forza nella
soluzione dei conflitti,
sia alla pratica di una
defatigante
negoziazione in cui
vince chi ha maggiori
riserve
di
potere
oppure
maggiore
abilità strategica nel
perseguimento
dei
propri
interessi.
Purtroppo, quando le
distanzetraidialoganti
o tra i contendenti si
dimostrano
incommensurabili,
succede spesso che chi
convince non vince e
chivincenonconvince.
Si ricorre allora alla
manipolazione o alla
violenza, più o meno
mascherate.
Jean-François
Lyotardproponeperciò
di non cercare il
consenso,
quanto
piuttosto
di
promuovere l’incontro
traidissensi,ditentare
di
comporre
il
contenzioso o dissidio
(différend) senza farsi
soverchie illusioni. A
suo parere, basandosi
su due assunti poco
realistici,
Habermas
sbaglia.Inprimoluogo,
non è infatti vero che
gli interlocutori siano
in grado di accordarsi
su
regole
universalmente valide
per tutti i possibili
“giochi linguistici” (di
per sé eterogenei e
incompatibili, dato che
il
comandare,
ad
esempio, non coincide
affattoconildescrivere
o il pregare). In
secondo luogo, è falso
“che la finalità del
dialogo
sia
il
consenso”, in quanto
esso
costituisce
soltanto “uno stato
delle discussioni e non
illorofine”.Ilconsenso
rappresenta cioè un
orizzonte provvisorio e
mobile,
mai
definitivamente
acquisito. Nel seguire
una
prospettiva
emancipatoria, anche
Habermas cade per
Lyotard nell’illusione
dei méta-récits, teorie
estrapolate
dalle
“grandi narrazioni”, da
miti quali la vittoria
finale del progresso o
l’avvento delle società
senza classi. Alcune di
questefavoleperadulti
sorgonoinetàmoderna
in
vista
della
legittimazione
di
autorità che – non
affondando più le loro
radici nel passato della
tradizione – hanno
bisogno sia di uno
scopo
nuovo
e
macroscopico
da
raggiungerenelfuturo,
siadieroicollettiviche
lo
rappresentino
(classe
operaia,
rivoluzione
o
democrazia).
Oggi
però, nella “condizione
post-moderna”, i métarécits hanno perso di
credibilità, lasciandoci
eredi di conflitti e
tensioni difficilmente
governabili,madicuiè
necessario conoscere
almeno
la
cartografia.43
Intalisocietà,dove–
secondoun’espressione
diMarx–“tuttociòche
è solido si dissolve
nell’aria”, una volta
infrante
le
norme
morali deducibili da
valori
assoluti,
si
possono
ancora
mantenere forme di
condotta largamente
condivise
e
relativamente stabili?
Se si guarda ai
comportamentieffettivi
delle persone, sembra
proprio di no. È stata
infatti rilevata come
caratteristica
una
tenace,
quanto
inconsapevole,
resistenzaadassumere
obbligazioni morali di
lunga
durata.
Si
diffonde
cioè
la
propensione
a
prendere
quasi
esclusivamente
“impegni
che
non
impegnano”, revocabili
e
comunque
rettificabili.
Sono
questi i non-binding
commitments di cui
parla Nozick, allorché
esamina la tendenza
dell’uomo
contemporaneo
a
modificare le proprie
decisioni passate, in
modo da non sentirsi
mai
definitivamente
vincolatoaesse.Lasua
argomentazione è che
non compiamo mai
scelte motivate da
“ragioni” provviste di
un
presunto
peso
specifico
oggettivo;
siamonoi,piuttosto,ad
attribuire – di volta in
volta–ilpesoadeguato
ai motivi delle nostre
decisioni (peso che
varia a seconda del
contesto
e
delle
giustificazioni che ne
offriamo). È dunque
possibile riformulare
continuamente
le
proprie scelte in base
alle nostre variabili
valutazioni.44 I nonbinding commitments
implicano di fatto che,
accanto alla coerenza,
anche il senso di
responsabilità
si
affievolisca.
Se
si
pensa, per contrasto,
all’importanza centrale
chenellescaledivalori
tradizionaliassumevail
rispettodegliimpegnie
della parola data, della
promessa, non si può
fare a meno di vedere
come la possibilità di
ritornare sulle proprie
decisionimarginalizzie
sdrammatizzi
molte
scelte, svincolando il
singolo dalla propria
anelastica identità con
il
passato
e
disincagliandolo
dal
vecchio
se
stesso.
L’eticadellacoerenzae
della responsabilità –
perquantononsempre
esplicitamente
ripudiate – vengono
diluite in favore di un
“mutamentoendogeno”
delle
preferenze
individuali
e
dell’acclimatarsidiuna
concezionedell’identità
personale non più
strettamente confinata
alla
continuità
psicologica
dell’individuo. Questi
non si sente più
saldamente ancorato
alle proprie scelte
passate, bloccato da
esse,perchéècomese
le
sue
precedenti
decisioni fossero state
presedaqualcunaltro.
Nella cesura netta
con il proprio passato
personale,
resa
possibile
dalla
revocabilità
degli
impegni, nell’infedeltà
persino a se stessi
presentata da Nozick,
si manifesta – assieme
a una maggiore libertà
e scioltezza dell’agire
dell’individuo–ancheil
suo
progressivo
isolamento, la perdita
della sua “placenta
sociale”, l’allentamento
deivincoliconglialtri.
Privato del pieno e
organico inserimento
nei “corpi intermedi”
che
l’avvolgevano
(famiglia, comunità di
vicinato, ceto o classe)
e posto a diretto
contatto con i suoi
simili
e
con
le
istituzioni,
egli
è
insiemepiùliberoepiù
solo.
Questa
più
immediata
vicinanza
con la società nel suo
complesso,
infatti,
invece di proiettarlo
ulteriormente
nella
dimensionepubblica,lo
induce ad arroccarsi
nella sfera privata.
Christopher Lasch ha
focalizzato la genesi di
tale
condizione
nell’analisi di come si
allentano
o
si
trasformanoilegamidi
solidarietà in uno dei
più
classici
corpi
intermedi: la famiglia.
La tesi sostenuta è che
la famiglia ha cessato
di essere un porto
sicuro in un “mondo
senza cuore”, il luogo
che doveva ritemprare
l’uomo nella sua dura
lottacontrolarealtàei
condizionamenti
esterni e servire da
protezione e involucro
permoglieefigli.Oggi
essa non ripara più
sufficientemente
né
adulti, né bambini. La
disgregazione
dell’istituto familiare si
accompagna inoltre a
una
disattivazione
emotiva di quei vincoli
che
intrecciavano
amore
e
potere,
sentimentieistituzioni.
La famiglia è ormai
divenuta più porosa ai
mutamenti
esterni,
menoisolata,piùsimile
alla società che la
circonda. I genitori si
sono “proletarizzati” e
vi è stato un netto
indebolimento
dell’autorità
“verticale”, con un
parallelo incremento di
legittimazione
dei
rapporti “orizzontali”
egualitari (da qui la
concezione
del
matrimonio
come
companionship o la
maggiore vicinanza tra
genitori e figli), ma
ancheconl’ininterrotta
negoziazione dei ruoli.
Costretti a difendere i
residui
della
loro
autorità
non
più
garantita in anticipo, i
genitori
spesso
abdicano alla loro
figura
tradizionale,
ricorrendo a trattative
logoranti o a nascoste
manipolazioni.45
A cambiare non è,
tuttavia,
solo
la
struttura delle famiglie
o delle società, ma
anche quella degli
individui.
Da
“moderna”
essa
sarebbe
divenuta,
almeno in certe zone
del pianeta, “postmoderna”. L’individuo
moderno viene infatti
caratterizzato
da
un’identità solida e
durevole, costruita “in
acciaio e cemento”;
l’individuo
postmoderno
da
una
identità di “plastica”,
mobile, cancellabile e
riciclabile come un
video-tape. I moderni
appaiono inoltre come
pellegrini nel tempo,
uomini che si muovono
secondounametaeun
progetto,
per
cui
l’identità diventa in
loro
costruzione,
previsione e tragitto. I
post-moderni,
al
contrario, si sarebbero
adattati ad abitare il
deserto,
a
vivere
l’esperienza
della
frammentazione
del
tempo e ad avere la
percezione netta della
distanza
incolmabile
tragliidealidell’ioela
loro realizzazione. Non
si
prefiggerebbero
quindi il compito di
costruire qualcosa di
stabile, bensì quello di
soggiornare in una
serie
di
identità
provvisorie,cangevolie
fluttuanti. In tal modo,
soprattutto
in
Occidente,lamobilità–
che prima era tipica di
gruppi
o
popoli
marginali – sarebbe
oggi
praticata
da
maggioranze.
Il
nomadismo si sarebbe
cioè trasformato in
turismo
di
massa.
L’identità cessa così di
possedere un valore
assoluto. Si assiste,
infatti,
alla
sua
“adiaforizzazione”,
ossia al suo divenire
indifferente,
come
risposta difensiva a
dosi
eccessive
di
esperienze
di
sradicamento.46
Si potrebbe tuttavia
lecitamente dubitare
del
fatto
che
il
problema dell’identità
passi attraverso fasi
così
drasticamente
contrapposte. La sua
conquistaèstatainfatti
sempre difficile e il
movimento oscillatorio
e
squilibrante
nel
mantenimento
della
personalità attraverso
il tempo non è certo
una
caratteristica
esclusiva del mondo
post-moderno (e poi,
per
inciso,
siamo
davvero tutti così postmoderni,
mobili,
nomadi e nemici di
ognistabilità?).Pare,al
contrario, di percepire
attualmente
una
quantità di segnali di
contro-tendenza,
ancora da analizzare,
che mostrano reazioni
di
rigetto
allo
sradicamento, ma che
convivono
ciò
nonostante
con
l’avversario
che
combattono,
sostenendosi a vicenda
mediante meccanismi
involontari
di
connivenza
antagonistica.
Sembrano in effetti
all’opera
due
contrastanti
e
simultanee linee di
forza: da un lato, in
alcune
zone
economicamente
e
socialmente
privilegiate del mondo,
si moltiplica il numero
degli
individui
“liberamente
fluttuanti”,
che
tendono a svincolarsi
dai
condizionamenti
della
tradizione;
dall’altro,
crescono
altrove in parallelo –
erodendo la fascia
centrale degli individui
definiti“moderni”–tipi
di personalità che
vogliono rifondare la
propria
identità
agganciandola
a
istituzioni ed entità
tradizionali (ritenute,
fino a poco tempo fa,
“pre-moderne” e, come
tali, disprezzate in
quanto
considerate
sconfitte
dall’Illuminismo, dalla
Scienza
o
dal
Progresso). Le etnie e
le grandi religioni
monoteistiche paiono,
di
conseguenza,
riprendere il proprio
antico
ruolo
di
protagoniste
e
di
agencies
di
radicamento. Dietro i
“fondamentalismi”
religiosi,
i
“particolarismi”,
i
“nazionalismi”recenti–
in qualsiasi modo si
intendano – si pone
comunque
un
rinnovato,
inequivocabile bisogno
di radicamento. Ed è
proprio tale bisogno
che
permette
di
vedere,comesottouna
lentediingrandimento,
unelementostrutturale
che
rischierebbe
altrimenti di passare
inosservato: ossia che
l’identità
individuale
discende sempre, per
mille fili, dall’identità
collettiva e che è
addiritturaimpensabile
senzadiessa.Siscopre
così che la nostra
illusione di non avere
rapporti di dipendenza
con
le
istituzioni
collettive di senso,
deriva dal pathos con
cui
l’individuo
ha
rivendicato in questi
ultimi secoli la sua
autonomia rispetto ai
soffocanti vincoli del
passato, dipende cioè
dalla sua volontà di
sottrarsi
all’arbitrio
altrui (in quanto l’idea
di “libertà”, prima di
diventare
retorica,
conteneva qualcosa di
molto
concreto:
il
rifiuto della schiavitù e
della
dipendenza
personale).
Sotto
questo profilo, il fatto
che si cerchi una
ridefinizione di se
stessi ricorrendo al
radicamentoinidentità
esterne forti (come le
Chiese o le “comunità”
nazionali,
“pre-
moderne”
proprio
perché si pensava di
averle metabolizzate,
digerite,
per
poi
scoprire che non è
vero),
mostra
semplicemente
che
l’aggancio
alla
dimensione collettiva è
cambiato, non che non
avevamo agganci, e
che le nostre zavorre
stabilizzatrici
istituzionali
hanno
spostato
il
nostro
baricentro, non che in
precedenza queste non
esistevano.
6.Ilritornodella
responsabilità
Di fronte al temuto
dilagare
dei
nonbinding commitments,
viene
sempre
più
spesso
invocato
l’obbligo per ciascuno
di
sentirsi
personalmente
impegnato a rendere
conto di determinate
forme di condotta a lui
imputabili.
Paul
Ricoeur connette così
l’identità personale, in
campo
etico,
non
all’“io”
(termine
vacante,
entità
disancorata), ma al
“sé” (riflessività che
integra in un tertium
datur
identità
e
alterità). Questo “sé”,
poi, non è l’Idem,
caratterizzato
dalla
permanenza nel tempo
e dalla comparazione
dei vari stadi del
soggetto tra loro, ma
l’Ipse, la personalità
che
si
conserva
proiettandosi verso la
parola
data,
mantenendosi fedele
alla “promessa”. L’Ipse
rimane coerente a se
stesso congiungendo
simultaneamente
al
presente sia il “debito”
del
passato
che
l’impegno del futuro.47
È però, soprattutto,
HansJonasateorizzare
più direttamente il
“principio
responsabilità”,
in
simmetricaopposizione
al “principio speranza”
di quanti – come Ernst
Bloch – hanno favorito
ilpensieroutopicoogli
atteggiamenti
prometeici di dominio
della natura e di
progresso senza limiti.
Essi, infatti, non si
sono accorti che –
invece di produrre
grandi trasformazioni
in positivo – hanno
finitoperminacciarela
sopravvivenza stessa
dellaspecieumanaedi
tutto
il
pianeta,
prendendo sul serio le
utopie
e
trasformandole così da
innocuo
esercizio
letterarioofilosoficoin
pericolosi programmi
di stravolgimento del
mondo.48
L’atteggiamento
di
Jonas (basato su una
“euristica della paura”,
ossia sulla scelta in
negativo di evitare il
sommo
male
dell’autodistruzione
dell’uomo,allorchénon
è possibile né giusto
trovare un accordo
generalizzato su cosa
sia e come si debba
perseguire il “sommo
bene”)siscontraconle
posizioni
dell’ultimo
grande
teorico
dell’etica
della
responsabilità,
Max
Weber. Questi aveva
infatti sostenuto, nel
quadro di un elogio
della
lungimiranza
appassionata, che “il
possibile non sarebbe
raggiuntosenelmondo
non
si
ritentasse
sempre
l’impossibile”.49 Oggi
che l’uomo è diventato
un essere altamente
nocivo incapace di
valutare
adeguatamente
il
risultato
congiunto
delleazionidituttiedi
ciascuno, con il rischio
effettivo di alterare
delicati equilibri, in
parte ignoti; oggi che
ognuno contribuisce,
per la sua parte, alla
degradazione
dell’ambiente e al
depauperamento delle
risorse,
la
responsabilità,
la
cautela, la riflessione
costituiscono
un
obbligo vincolante e
ineludibile.
Anche
perché le potenzialità
distruttive della specie
umana
aumentano
proprionelmomentoin
cuidiminuisconolesue
doti di previsione e di
controllo dei processi
di autoperpetuazione.
Paradossalmente,
la
minaccia
della
catastrofe deriva non
dalfallimento,madallo
“smisurato successo”
della tecnica. Ed è
proprio
perché
si
amplia in maniera
inaudita la sfera degli
effetti inattesi di ogni
azione
che
deve
proporzionalmente
estendersi, prima che
sia troppo tardi, anche
il
raggio
della
responsabilità
personale.
Ne
consegue la necessità
inversa di attutire
l’impatto sull’esistente
dei grandi progetti di
trasformazione,
così
che essi penetrino nel
mondo gradualmente e
senza
provocare
violenti contraccolpi.
Ognunodinoihainfatti
una
responsabilità
collettiva nei confronti
della Terra e dei suoi
abitanti, in particolare
della biosfera, sottile
fasciadiunatrentinadi
chilometri di spessore
che avvolge il pianeta.
Il nuovo imperativo
ecologico di Jonas,
formulato alla maniera
diKant,suonapertanto
così: “Agisci in modo
che gli effetti della tua
azione
siano
compatibili
con
la
permanenza
di
un’autentica vita sulla
terra”. E se è vero che
l’esistenzadell’umanità
è
il
“primo
comandamento”,
da
essoseguelanecessità
della difesa della vita
nel
suo
insieme.
All’altra
famosa
domanda kantiana, “in
che cosa dobbiamo
sperare?”,
sembra
sostituirsi quella se è
ancora lecito sperare o
se non sia piuttosto
illusorio e regressivo
abbandonarsi
alla
speranza, farsi cullare
da essa, invece di
assumersiconcoraggio
e disincanto le proprie
responsabilità.
Anche la prospettiva
di Jonas (come quella,
in un altro ambito, di
Rawls) si fonda sulla
minimizzazione
del
rischio. A tale scopo è
necessario frenare in
altri e inibire in noi
stessilapropensioneal
pensiero
utopico,
giacché esso è fondato
supreteseesorbitantie
su desideri impossibili
–
o
umanamente
costosi – di perfezione,
nonché sull’idea di
radicali sconvolgimenti
cheilmondo,nellasua
attuale fragilità, non è
ingradoditollerare.La
maggior parte degli
uomini sembra oggi,
per giunta, incline a
pensare in forma di
aspettative a più corta
gittatarispettoaitempi
misurati dal succedersi
delle generazioni. Per
servirsi
di
una
metafora militare, si
potrebbe
dire
che
Jonas
alza
moderatamente il tiro
verso il futuro, senza
appiattirsi
nell’alzo
zero
sul
presente
puntuale, ma anche
senza sparare a obice
verso
un
avvenire
remoto
e
indeterminato. Si è per
lui responsabili nei
confronti di un futuro
che coinvolga noi e le
generazioni
che
seguiranno, ma questo
non
dovrà
assolutamente mettere
a
repentaglio
l’esistenza e le attese
delle
generazioni
attuali. Il “principio
responsabilità” appare
comunque sotto forma
di
un
ulteriore
tentativo
di
delegittimazione delle
utopie, come sintomo
dell’esaurimento
di
quella spinta in avanti
che
le
aveva
giustificate.
Esse
sembrano perdere il
fascino e il potere dei
tempi in cui riuscivano
a mobilitare interi
popoli
alla
loro
costruzione,
a
impegnarli
in
“immodeste” speranze
di
riuscita,
coinvolgendoliperònel
fallimento di cause che
richiedevano pesanti
sacrifici
personali,
mentre promettevano
la sicura conquista del
futuro per l’intera
umanità.
Sotto processo sono,
più in generale, le
filosofie della storia
che sorreggono le
moderne
utopie,
adornandole della loro
illusoria natura di
“quasi previsione”, per
cui
un
fine
storicamentelontanosi
potrà
realizzare
qualora
i
suoi
promotori
siano
coerenti
nel
perseguirloeinvestano
e mobilitino la loro
operosa energia nel
prepararne l’avvento.
Si produce così una
serie di cortocircuiti
teorici, in base ai quali
il conseguimento dello
scopo viene dichiarato
immancabile, sebbene
si aggiunga poi che
esso esige l’intervento
diretto dei singoli; la
coerenza rispetto al
fine
dell’agire
individuale
viene
proclamata in tutta la
sua
importanza,
proprio
mentre
si
sostiene che la storia
puòandareavantinella
direzione
“giusta”
ignorando astutamente
le
intenzioni
dei
singoli;
la
responsabilità
personale nei confronti
dell’umanità
viene
solennemente esaltata
come valore etico e
politico supremo, ma
nello stesso tempo non
appare indispensabile
all’economia
complessiva
di
un
processo dotato dei
propriautomatismi.
7.Bioeticae
biotecnologie
Accanto
all’impetuoso sviluppo
dell’informatica,
dell’intelligenza
artificiale,
delle
neuroscienze e dei
social networks, due,
soprattutto, sono gli
elementi di novità che
caratterizzano
il
panorama attuale e, di
conseguenza,
la
riflessione
filosofica:
l’impatto
delle
biotecnologie
e
il
sorgere della bioetica;
il
nostro
mutato
atteggiamento
nei
confronti della storia e
delfuturopereffettodi
eventi traumatici e
inattesi(qualilacaduta
del Muro di Berlino, la
dissoluzione
dell’Unione Sovietica,
la distruzione delle
Torri gemelle e il
diffondersi
del
terrorismo giustificato
in termini religiosi o
etnici con il relativo
moltiplicarsi
dei
conflitti).
Sulla
spinta
di
problemi
emergenti,
specie nel campo delle
scienze biologiche e
mediche, è sorta di
recente una nuova
disciplina filosofica, la
bioetica.Ilnomestesso
ha
pochi
decenni:
nasce nel 1971 dal
titolo di un libro del
cancerologo
V.R.
Potter, che intendeva
gettare un ponte tra le
scienze della vita e
l’etica, ma che non
pensava
ancora
esplicitamente
a
valutare
le
scelte
umaneinquestocampo
alla luce di valori e
scelte possibili.50 Da
quando si è diffusa, la
bioetica è diventata un
campodibattaglia,che
s’allarga sempre di più
e
che
provoca
lacerazioni
tra
i
sostenitori di opposte
visionidelmondo.
Lebiotecnologiee,in
genere, gli sviluppi
delle tecniche mediche
e
farmaceutiche
pongono, infatti, in
discussione
convinzioni, abitudini e
idee
di
durata
millenaria,
ritenute
finora fondate sulla
roccia di evidenze
incrollabili
o
addiritturasull’autorità
dellarivelazionedivina.
Nienteèapparsofinora
meno dubbio del fatto
che un individuo viene
al mondo secondo i
vecchi e collaudati
metodi
della
riproduzione sessuata
naturale, con un corpo
e una mente soggetti a
malattie e a deformità
congenite,echesoffre,
gode e muore assieme
atuttiisuoiorgani.
Le biotecnologie ci
obbliganoariformulare
rapidamente, anche a
livello
di
senso
comune,
molti
parametri grazie ai
quali la vita quotidiana
si è orientata nel
succedersi
delle
generazioni.
In
particolare: la nozione
dipersonaediidentità
personale, le norme
etiche e giuridiche che
regolano i diritti dei
singoliedellefamiglie,
iciclivitali,lagrana,la
varietà e l’intensità di
determinate passioni.
Sta cambiando, in
quest’ultimo caso, il
sistema dei sentimenti
che scandiscono tutti i
momenti più solenni
dell’esistenzaumana:il
concepimento,
la
nascita, il matrimonio,
la paternità e la
maternità, la malattia,
lamorte.
Simodificapersinola
configurazione
dell’immaginario
in
quanto
condizionato
dai precedenti limiti
biologici o mentali e
dal
complementare
desiderio di eluderli.
Quello che appariva
imposto dalle dure
leggi della necessità o
dall’imperscrutabile
volontà di Dio si
trasforma in oggetto di
scelta, permettendo di
essere madri nell’età
della menopausa o
genitori
di
figli
sconosciuti,perchénati
da una donna a cui è
stato donato il seme,
da un utero in affitto o
da una vedova a
distanza di anni dalla
morte
del
marito
oppure
perché
–
medianteitrapianti–ci
si dota di organi che
non sono quelli di
appartenenza
del
proprio
corpo.
In
prospettiva, attraverso
la manipolazione delle
cellulestaminali,anche
i trapianti potrebbero
diventare
inutili,
rigenerando
direttamente
tessuti
del pancreas o del
fegato e debellando
diabete
o
cirrosi
epatica.
Quelle
funzioni,
inoltre,
che
si
mostravano
moralmente
o
naturalmente
inseparabili
–
la
sessualità
e
la
procreazione – ora,
grazieaicontraccettivi,
soprattutto
chimici,
diventano autonome.
Lo stesso accade nel
casodellaprocreazione
e
della
figura
parentale. Grazie alle
tecniche
di
fertilizzazione,
anch’esse, infatti, si
disaggregano,
trasformando
le
precedenti energie di
legame affettivo in
energia fluttuante e
inquieta che non sa
ancora
come
distribuirsi
e
che
provoca sconcerto e
dolore.
Il corpo, in quanto
organismocompostoda
parti indissolubili, si
divideeisingoliorgani
si possono scambiare
passando
da
un
organismo all’altro, da
un morto a un vivo. La
materia
diviene
trasportabile,
viene
resa
compatibile
operando mediante la
biologia molecolare sui
cromosomi del nucleo
della cellula e sui loro
costituenti elementari:
le molecole del Dna. Si
mettono
così
in
relazione esistenze e
storie umane differenti
che
si
incontrano
anche oltre la morte.
Cadono
poi,
virtualmente,
le
barrieretralespecie.I
progressi sono rapidi,
anche se, dato l’alto
numero delle malattie
genetiche, il cammino
saràlungo.Anchesesi
è lontani dall’aver
trovato la cura delle
varie forme di cancro,
della schizofrenia o del
diabete,irisultatisono,
tuttavia,
molto
incoraggianti.Nel1990
ha,
infatti,
avuto
successo
il
primo
tentativo di curare una
immunodeficienza
ereditaria a opera del
dottor
French
Anderson del National
Institute of Health di
Bethseda,
nel
Maryland. Soprattutto
dopo la mappatura del
genoma
(effettivamente portata
a termine nel 2006),
quest’impresa lascia la
porta
aperta
alla
guarigione di tante
altre
malattie
e
malformazioni.
Lo spostamento delle
frontiere della vita
nella sua conoscenza,
oltre che nella sua
genesi, qualità, durata
ed
esito,
modifica
ancheleaspettativedel
singolo e, pertanto, la
comprensione
che
ciascuno ha di sé e
degli altri: quello che
appariva legato alle
dure e imperscrutabili
leggi della necessità si
trasforma in oggetto di
scelta, in anti-destino.
Occupandosi
delle
questioni ultime, la
bioetica
rende
problematico ciò che
prima era considerato
normale e si situava
come sfumato sullo
sfondo inerte delle
nostre preoccupazioni
moralidirette.
La soluzione alle
nostre difficoltà era,
infatti, generalmente
offerta dalle singole
fedi e lasciata alla
dimensione
della
coscienza individuale.
Si scaricano, invece,
ora
sui
singoli
responsabilitàineditee
gravoseinquantosono
chiamati non solo a
prendere
decisioni
rispetto a criteri in
precedenza lasciati ai
grandi emissori di
norme (alle “banche
etiche”,
come
le
Chiese, gli Stati e i
partiti), ma anche
rispetto
al
futuro,
prossimo e remoto, dei
figli e dei pronipoti. Si
tratta di questioni
veramente metafisiche,
cheobbliganoilsingolo
a confrontarsi con
scenari che riguardano
i massimi sistemi: vita
e morte, aborto ed
eutanasia, intervento
sul proprio patrimonio
genetico. Nel caso
dell’eutanasia,
ad
esempio, ci si può
interrogaresullaliceità
o meno del testamento
biologico:
in
che
misura si lede la
dignità dell’individuo
impedendone
la
validità in previsione
della
sua
futura
incapacità di intendere
e
di
volere
e
dell’intollerabilità delle
sue
sofferenze?
L’eutanasia non è il
contrario dell’apologia
del dolore, non implica
la risoluzione delle
pene quando ogni cura
è risultata inutile?
Certo, serve prudenza:
la nostra vita non
appartiene solo a noi,
ma ai familiari, agli
amici, alla comunità.
Ogni volta che muore
qualcuno un intero
mondo scompare e si
perdepersempre.
Data la posta in
gioco,
è
quasi
inevitabile
che
si
scatenino conflitti e
fanatismi che, oltre a
lacerare la coscienza
delsingolo,pongonoin
virtuale
rotta
di
collisionecultureefedi
religiose del mondo,
allargando
ulteriormente
un
contenzioso già alto
per
effetto
dei
fenomeni
di
globalizzazione,
che
mettono in contatto
parti
distanti
del
pianeta,
e
di
convivenza di diverse
etnie
nello
stesso
territorio.
Da un lato, vi sono
colorochedifendonola
“sacralità della vita”,
l’idea che la vita è un
dono divino e che
comunque
non
ci
appartiene (e non si
tratta
soltanto
di
cristiani). In termini
quasi biblici essa è
come la livrea che il
servo riceve all’inizio
del suo periodo di
servizio e che dovrà
alla fine restituire
integra al Padrone.
Questa impostazione si
richiama
spesso
all’ideadi“persona”,in
quantoindividuodotato
della sua unicità e
irripetibilità. Dall’altro
lato,visonofamigliedi
etiche che, in senso
lato,sipossonodefinire
laiche e che partono
dall’ipotesi
dell’etsi
deusnondaretur,ossia
ragionano sui valori e
sulle scelte come se
Dio non ci fosse.
All’interno del “fronte
laico” vi è però chi,
come
Hans
Jonas,
occupa una posizione
particolare, che lo
avvicina al sentire
religioso. Egli difende,
infatti,
la
non
programmabilità della
vita, nel senso che
ciascuno
dovrebbe
essere “una sorpresa
per se stesso”. Questo
significa che non si
deve toccare la linea
germinale,
un
patrimonio che non
appartiene
solo
all’individuo, ma anche
aisuoidiscendenti.51
Per effetto delle
biotecnologie aumenta
pertanto il divario tra
le
possibilità
di
innovazione e la loro
recettività a livello
sociale, culturale e
religioso. Si verificano
anzi spesso reazioni di
rigetto o di forte
diffidenza
e
si
approfondisce il solco
tra norme etiche o
religiose consolidate e
atteggiamenti sensibili
alle opportunità aperte
dalla
ricerca
scientifica.
Accade anche che,
nella difesa a oltranza
delle proprie ragioni e
dei
propri
dogmi,
vengano toccati livelli
di radicalità tali da
porre
talvolta
il
cittadino in aperto
contrasto con le norme
di legge del proprio
paese e da spingere il
credenteoaopporsial
magisterodellapropria
confessione
o
ad
accettarne le direttive
volte a combattere
quanti attentano al suo
credo. Per rendersi
conto
della
magnitudine
del
problema, si pensi
soltanto alle polemiche
sull’aborto
o
sull’eutanasia.
Quello che cambia è,
sostanzialmente,
la
preponderanza,
riguardo al mondo dei
sentimenti e delle
passioni
che
costituiscono
gli
individui, di sentimenti
acquisiti,dilegaminon
ascrittivi, ma elettivi, e
insiemeaessalapaura
che la morte, la vita, il
dolore,lagioiaperdano
laloromaestàelaloro
venerabilità; con la
modificabilitàdelcorpo
si scopre di essere un
corpo più che di avere
uncorpoelabioetica–
così
come
le
biotecnologie,
le
pratiche mediche, i
progressi farmaceutici
–
va
incontro
a
paradossi.
Quali conseguenze
già
si
danno
e,
presumibilmente,
si
darannosulterrenodei
sentimenti,
dell’identità e di certe
forme di tutela della
persona? Si amplia, in
primo
luogo,
la
longitudinedeidesideri
e
della
loro
realizzabilità:
avere
figli quando prima non
era possibile, guarire
quando
c’erano
malattie congenite o
acquisite. In generale,
si amplia la possibilità
diviveremeglio,maciò
provoca anche dei
paradossi, intendendo
il termine nel suo
significato etimologico,
cioè di ciò che va
contro la doxa, ossia
contro
le
opinioni
ricevute. In questo
caso
la
doxa
è
soprattuttorelativaalla
famiglia a cui eravamo
tradizionalmente
abituati, in cui una
coppia
normalmente
monogamica o metteva
almondodeifiglionon
era
in
grado
di
metterne.
Oggi, con le tecniche
di fertilizzazione si
scombinano le forme
elementari
della
parentela, che viene
alterata
anche
nell’architettura
dei
ruoli: in Francia, ad
esempio,giànel1994il
2% dei nuovi nati
veniva
al
mondo
attraverso
la
fecondazione assistita
eterologa o attraverso
l’ovodonazione.
La
famiglia
tradizionale
cambia così aspetto.
L’atto procreativo, il
più intimo e segreto,
rischia di ridursi al
rango
di
un
esperimento
scientifico, artificiale e
programmato,
e
soprattutto la famiglia
basata sui vincoli di
sangue
risulta,
in
prospettiva, incrinata.
Quelle che venivano
considerate le forme
elementari
della
parenteladellaciviltà–
“nozze,tribunaliedare
/[che]dieroalleumane
belve esser pietose di
sé stesse e d’altrui” –
cambiano. Eppure, tali
pratiche
di
fecondazione artificiale
non sono recenti: in
campo veterinario le
tecniche
di
fertilizzazione
sono
conosciute
fin
dal
Medioevo e, in campo
umano,
è
stato
scoperto un caso del
1884, che ha come
scenario la città di
Philadelphia, dove la
mogliediunquacchero
sterile,
venne
inseminata attraverso
un prelievo di sperma
del
best
looking
student della locale
università.Delresto,in
se
stesse
le
biotecnologie non sono
nuove. Se le definiamo
quali applicazioni di
determinate tecniche
agli organismi viventi
in vista della loro
modificazione, allora
gli uomini le hanno
utilizzate sin dagli
albori della civiltà in
campo
animale
e
vegetale in forma di
selezione
di
razze
equine, bovine, canine
o di sementi e piante.
Nuove sono le loro
applicazioni e la loro
estensioneenuovoèlo
spostamento d’accento
nel
nostro
immaginario, abituato
apensareatecnicheda
applicarsi
principalmente
alla
materia
inerte,
ai
metalli o ai prodotti
chimici.
Con il prevalere dei
legami elettivi rispetto
a quelli ascrittivi, delle
scelte
rispetto
ai
naturali rapporti di
sangue, ci si domanda
quale uso si saprà fare
di queste maggiori
opportunità.
I
problemi, a questo
proposito,
non
mancano. Tale tipo di
famiglie artificiali –
come
vengono
chiamate–portainfatti
a un disorientamento,
almeno iniziale, del
bambino
al
loro
interno.
Duplica,
triplica
la
figura
materna:
madre
biologica,
madre
gestante, quando porta
in sé l’uovo fecondato
di
un’altra
donna,
madre sociale; duplica
la figura paterna: il
padre biologico e il
padresociale.
Questi vissuti dei
bambini che nascono
nelle
cosiddette
famiglie
artificiali,
soprattutto
per
fecondazione eterologa
o per ovodonazione,
provocano
delle
tempeste emotive al
momento della nascita
perché
si
ha
la
cosiddetta
procreazione
scorporata,
disembodied
procreation, nel senso
chenonvienepraticata
attraverso il normale
atto
sessuale,
ma
attraverso forme di
inseminazione
artificiale. Anche per i
bambinichenasconoin
questo
ambito
le
conseguenze
psicologiche possono
essere gravi – non
necessariamente.
La
procreazione assistita
attraverso
donatore
produce,
infatti,
instabilità nella coppia
e la spinge alla
dissimulazione, più o
meno
onesta,
sull’origine
del
bambino nella trama
dei
rapporti
interpersonali.
Nel
caso, infatti, della
donazione eterologa di
seme maschile, quando
il padre è impotente, il
bambino è di lei e non
di
lui,
nel
caso
dell’ovodonazione
il
bambino è di lui e non
dilei.
La figura paterna
viene
messa
in
discussione sia sul
piano reale, sia sul
piano – forse più
importante
–
dell’immaginario. Si ha
paura,adesempio,che
si crei una sorta di
esclusione del padre,
un’alleanzatramadree
bambino
oppure
un’alleanzatrapadree
bambino. L’ignoranza,
poi, dell’identità del
padre – tranne in
Svezia: è presto anche
in altri paesi – può
creare
una
forma
affannosa di ricerca
tormentata di esso che
duratuttalavita.
Coloro che difendono
l’inseminazione
assistita
eterologa
insistono, però, sul
fatto che le famiglie
sorte in questo modo
sono molto più stabili
delle altre e meno
toccate dai divorzi e
l’equilibrio psicofisico
dei bambini nati con
questa procedura è
generalmente buono.
L’argomento
forte,
inoltre, è che senza
l’inseminazione
assistita attraverso il
donatore non sarebbe
mai
nato
quel
determinato bambino,
quindi ci sarebbe una
privazionediesistenza,
eppure tutto questo ha
provocatodeiproblemi.
Dinanzi all’aprirsi di
questo ventaglio di
possibilità,sièpresida
vertigine – anche nel
senso
positivo
dell’euforia portata dai
“giochi di vertigine”,
come l’altalena, di cui
parla Roger Caillois –
e, nello stesso tempo,
da sconcerto o da
disorientamento.
Quest’ultimo
sentimento
dipende
anchedalfattochenon
siamo, inevitabilmente,
ancora in grado di
assorbire lo choc dei
grandi
mutamenti,
attuali e potenziali,
introdotti
dalle
biotecnologie e dalla
farmacologia.
Non
abbiamo ancora potuto
misurare – depurato
dagli
elementi
fantasiosioretoriciche
gli fioriscono attorno –
il
senso
della
metamorfosi in corso
dallo stadio dell’umano
a quello del post
human,
dai
corpi
organici agli esseri
formati di carne e di
metallo, di silicio e di
plastica,dipartiumane
e animali, trasferibili
con i trapianti da un
individuoall’altro.52Le
paure
prevalgono
quindi
sulla
ponderazione dei pro e
dei
contro,
trasformando
frequentemente anche
la
soluzione
dei
problemi bioetici in un
ripetuto referendum,
fondato
più
su
convinzioni
non
esaminate
che
su
ragionamenti. Risulta,
inoltre,
difficile
elaborare idee e valori
chesianoall’altezzadei
cambiamenti in corso.
Infatti, la vita, così
com’è
normalmente
intesa, perde il suo
carattere
di
spontaneità,
quella
facoltà che si usa
chiamare autopoiesis,
ossia la capacità di
mantenersi
rinnovandosi in modo
automatico:
come
quando le cellule si
rigenerano, il cuore
batte, le ghiandole
secernono
i
loro
ormoni,
i
globuli
bianchi intervengono
sulle
infezioni,
sacrificandosipernoia
centinaia di migliaia (e
tutto questo senza che
noi impartiamo loro
alcun comando). Nella
nostra
civiltà
occidentale, del resto,
si è sempre ritenuto
che
l’“anima
vegetativa”, come la
chiamava
Aristotele,
quella che esprime la
spontaneità del corpo
vivente, non potesse
essere influenzata o
indirizzata
dalla
volontà. E questo a
differenza di altre
culture, come quella
indiana, in cui si pensa
di poter influire sul
corpo modulando la
respirazione
o
rendendosi insensibili
aldolore.
Poiché la natura ha
cessato
di
rappresentare
un
metro e un modello, la
fiducia nelle sue leggi
spontanee
si
è
parallelamente
indebolita.
Anche
perché si pensa, a
causa
di
un
fraintendimento
diffuso,
che
le
biotecnologie violino le
leggi naturali. Ciò,
tuttavia, è falso, in
quanto
qualsiasi
modificazione
introdotta
artificialmente
nel
corpo umano, animale
o vegetale, opera poi
attraverso automatismi
“naturali”. Semmai si
turbanoesimodificano
equilibri
precedentemente
raggiunti o ci si
scontra,
sul
piano
sociale,conconvinzioni
religiose
o
morali
consolidate.
La bioetica deve
affrontare oggi tutti
questi
enormi
problemi.
È
però
opportuno
ricordare
che
essa
funziona
meglio come guida che
non come freno. È
quindi bene non solo
conoscere con una
certa esattezza come
stanno i fatti e poi
decidere, ma anche
salvaguardare
l’inevitabile
alone
d’ignoranza
che
circonda tali questioni.
L’ignoranza,
infatti,
non dà nessun diritto,
né a credere né a non
credere.
L’atteggiamento
migliore da assumere
consiste
pertanto
nell’esercitare quella
perplessità e quella
perspicacia che ci aiuti
a
comprendere
gradualmente
attraverso quali valori
possano
venire
efficacemente
governate
le
innovazioni introdotte
dalle biotecnologie e
dallamedicina.
8.Unmondodiverso
Il prodursi degli
eventi traumatici che
hanno
caratterizzato
gli ultimi due decenni
ha mutato il panorama
esistenziale,
intellettuale, emotivo e
immaginativo
di
miliardi di uomini (e
questo anche sul piano
filosofico,
dove
è
iniziato
un
serio
confronto
con
il
pensiero delle civiltà
extraeuropee).53Maha
anche
cambiato
il
nostro atteggiamento
nei
confronti
dell’avvenire.
Sta,
infatti,
drasticamente
diminuendo la capacità
di pensare a un futuro
collettivo comune, di
immaginarlo al di fuori
delle
proprie
aspettative private. A
molti la storia appare
quindi orfana di quella
logica intrinseca che si
credeva
dovesse
indirizzarla verso un
determinato obiettivo:
il progresso, il regno
della libertà o la
società senza classi.
Tramonta una cultura
che
tra
Otto
e
Novecento
aveva
indotto a ritenere che
gli eventi marciassero
ineluttabilmenteinuna
certa
direzione,
annunciata
o
prevedibile. A lungo,
infatti, siamo stati
abituati a ritenere che
l’intervento
umano
consapevole fosse in
grado di abbreviare il
tempo necessario al
prodursi
dell’inevitabile,
di
“accelerare le doglie
del parto”. Caduta,
senza essere stata
confutata, l’idea di
un’unica
Storia
orientata, il senso del
nostrovivereneltempo
sembra, ora più che
mai, disperdersi in una
pluralità di storie (con
la s minuscola) non
coordinate, in destini
personali blandamente
connessi alle vicende
comuni.
Ciò comporta un
mutamento
radicale
nellanostrapercezione
del futuro e obbliga a
una
riflessione
ulteriore
sugli
strumenti razionali per
affrontarlo,
connettendoinmaniera
diversa le vicende
individuali a quelle
collettive.
Non
potendoci più situare
all’interno di un’epoca
che si rapporta a un
passato di tradizioni
relativamente salde e
ben individuate o a un
futuro
remoto
di
aspettative
già
stabilite,
sembra
riprodursi
un’atmosfera
intellettuale simile a
quella descritta da
Tocqueville nel 1840
per indicare lo stato
d’animo
prevalente
degli americani: “In
mezzo
a
questo
continuofluttuaredella
sorte,
il
presente
prende
corpo,
ingigantisce: copre il
futuro che si annulla e
gliuomininonvogliono
pensare che al giorno
dopo”.54
L’avvenire
riacquistalasuanatura
diassolutacontingenza
o
di
luogo
di
esplicazione di forze
che
sfuggono
al
controllo degli uomini
(si
mostra
cioè
sostanzialmente
improgrammabile o, di
nuovo, nelle mani di
Dio).
Pare
così
realizzarsi
l’affermazione di John
Maynard
Keynes,
secondo
cui
“l’inevitabile
non
accade mai, l’inatteso
sempre”.
I contraccolpi di
questa situazione sono
molteplici e ancora da
analizzare a fondo. In
termini etico-politici,
ne
vedo
sostanzialmente tre. In
primoluogo,levalenze
tradizionalmentelegate
al futuro come tempo
dell’attesa,
della
redenzione
e
dell’imminenza
del
Regno di Dio o della
Rivoluzione,
hanno
virato di senso. La
rappresentazione della
propria esistenza come
momento preparatorio
aun’altravita,insenso
religioso,
o
come
strumento laico di
edificazione
di
un
avvenire radioso – che
peròconoscerannosolo
i nostri pronipoti –
diventa
ardua
da
concepire
e
da
difendere.
Molte
situazioni della vita
delle persone (dolore,
malattia,
vecchiaia,
morte) vengono ora
intimamente giudicate
irredimibili,perchénon
possono più essere
ritenute
seriamente
riscattabili né in un
aldilà religioso, in una
condizione
di
beatitudine celeste, né
in un futuro terreno di
armonica
ricomposizione
dei
conflitti.
La
trasformazione
“alchemica”
del
negativo in positivo
teorizzata da certe
varianti della dialettica
e le promesse di
risarcimento
delle
sofferenze patite nel
presente per mezzo
delle
gioie
fatte
balenare nell’avvenire,
sembrano
essere
improvvisamente
diventate
lettera
morta. Ciò produce
talvolta una sorta di
implosione
nell’arco
dell’esistenza
individuale, sottratta
alla speranza, ma non
all’angoscia,
alla
rassegnazione
o
all’indifferenza.
Interi blocchi di
esperienza e ampie
regioni di significato –
prima
considerati
nell’ottica dell’eternità
o del futuro remoto –
vengono riformulati e
trascrittisecondonuovi
criteri di rilevanza.
Quel che vale per le
esperienze “negative”,
vale anche per le
“positive”: il desiderio
di
fruire
immediatamente, come
doni
irripetibili,
dell’amore,
dell’amicizia,
del
piacereodelbenessere
sembra concentrare in
istanti
puntuali
e
discontinui i “momenti
d’essere” di una vita
degna di se stessa. La
contrazione
delle
aspettative
all’arco
dellasuasolaesistenza
fisica,
immerge
il
singolo
nel
tempo
irredimibile
della
caducità,locostringea
elaborare
il
lutto
causato
dal
dover
trapiantareleradicidel
proprio io dal solido e
immutabile
terreno
dell’aldilà o dai tempi
epocali della storia nel
friabile e transeunte
suolo
del
proprio
corpo, della propria
biografia
o
dell’entourage
delle
persone
e
delle
istituzioni a lui più
vicine.Aquestodisagio
si
reagisce
oggi
mediante la prevalente
strategia di mettere a
coltura intensiva il
presente,
di
farlo
fruttare rapidamente,
senza preoccuparsi di
quel
che
avverrà
nell’avvenire
non
immediato.
Ciò
comporta
però
la
desertificazione
del
futuro e rischia di
creare una mentalità
opportunistica
e
predatoria.
In secondo luogo, il
tramonto delle grandi
attese collettive, che
sino a un quarto di
secolo fa (quando il
mondo era ancora
diviso in due blocchi)
orientavano,
seppur
ideologicamente,
miliardi di uomini,
porta tendenzialmente
a una privatizzazione
del futuro stesso e alla
fabbricazione di utopie
su misura, fatte in
casa. Gli ideali di
abolizione
delle
disuguaglianze
che
colpiscono
l’“intera
umanità”
o
di
espansionedellalibertà
al maggior numero di
individui,
con
la
parallela promessa di
un avvenire aperto
all’iniziativa
di
ciascuno, finisce –
soprattutto
in
Occidente
–
per
diffondere
le
frustrazioni. Le società
tradizionali
possedevano
infatti
strumenti abbastanza
efficaci
sia
per
compensare gli uomini
degli
eventuali
svantaggi della loro
condizione, sia per
giustificare
le
gerarchie.
L’accettazione
dei
limiti e delle privazioni
della vita trovava il
proprio
risarcimento
nella
prospettiva
religiosa
di
una
ricompensaincielo.Le
ideologie
dominanti
facevanosìchedirado
venisseinmenteaipiù
sfavoriti di aspirare ai
livelli alti della scala
sociale. Le società
democraticoegualitarie
moderne
hanno invece aperto
unafallaneldispositivo
di
inibizione
delle
aspettative, collaudato
da
millenni.
Proclamando
solennemente il diritto
di tutti gli uomini
all’effettiva
eguaglianza
e
all’eliminazione di tutti
gli
ostacoli
che
potrebbero
frenarla,
legittimano
le
aspirazioni di ciascuno
a superare la soglia
della
propria
condizione di partenza
perinnalzarsiaivertici
della piramide sociale,
alle
cariche,
alla
ricchezzaoalprestigio.
Di fronte al presagibile
naufragiodeimoltiche
non riusciranno mai a
far collimare i propri
idealiconlarealtà,tali
società hanno dovuto
elaborare
molteplici
tecniche per gestire le
frustrazioni
che
nasconodalfattochele
loro promesse non
possono essere per
principio esaudite. I
progetti di donazione
di un senso collettivo
allastoriacostituivano,
appunto, una delle
forme
di
compensazione e di
risarcimento differito
perleatteseindividuali
inappagate. Rinviando
la realizzazione di una
società perfetta alle
future
generazioni,
legittimando
il
sacrificio
delle
generazioni presenti,
mettendo la ragione al
servizio di programmi
epocali,
a
lungo
termine, riempivano di
senso la vita degli
individui. Oggi questo
transfert,
questo
meccanismo
di
dilazione non funziona
più. Non si deve certo
rimpiangere il passato
e
ignorare
i
preponderanti benefici
del
diffondersi
dell’eguaglianza,
ma
rendersi conto di quali
nuovi problemi ponga
l’accorciamento
dei
piani di vita dei singoli
e il ridursi della forza
di proiezione in avanti
delleistituzioni.
In terzo e ultimo
luogo,
giunge
a
conclusione un ciclo
bicentenario
di
pensieroediprassiche
aveva attribuito alla
politica una funzione
salvifica, promettendo
a popoli o classi una
felicità futura grazie al
suo innesto nel corso
della
storia.
Inserendosi
nella
corrente degli eventi,
cavalcandone la cresta
dell’onda,
sintonizzandosi
su
processi già in atto,
seguendone
la
“meccanica razionale”,
la politica pensava di
fruire
dell’energia
ascensionale
del
movimento storico per
giungere felicemente
alla meta. Oggi anche
questa
spinta
propulsiva è venuta
meno, perché non
funziona
più
il
dispositivo
che
la
generava.
Con l’abbandono di
tale modello di storia
“vertebrata”, innervata
di utopia e tesa verso
la conquista di una
società
migliore
o
perfetta su questa
Terra, ci troviamo oggi
dinanzi a una lacuna
del presente, a una
sorta di vuoto che non
è soltanto privativo,
teso a sottolineare il
drammatico scisma tra
la nostra esperienza e
le nostre aspettative,
ma anche ricco di
chance inespresse. Il
presenteèsguarnitoin
quanto il peso del
passato, che fungeva
da
zavorra
stabilizzatrice
nelle
società tradizionali, è
diventato
leggero,
mentreloslancioverso
il futuro, che aveva
animato e orientato le
società moderne a
partire dal Settecento,
èdiventatodebole.
Come
ha
notato
Reinhardt Koselleck, si
restringe
l’area
dell’esperienza e si
abbassa,
simultaneamente,
l’orizzonte
delle
attese.55
Queste
espressioni,
che
descrivono
i
due
fenomeni caratteristici
della
modernità,
possono a prima vista
apparire
oscure.
Significano
però,
rispettivamente, che,
con
l’accelerazione
degli
eventi,
l’esperienza – ossia il
passato significativo –
diventa sempre più
povera, in quanto il
presente non somiglia
piùalpassato,echela
prevedibilità del futuro
diminuisce, perché la
sua immagine tende
sempre meno ad avere
itrattidelpassatoedel
presente.
Proiettarsi verso il
futuro, pensare alle
generazioni a venire
diventa
quindi
un
atteggiamento sempre
meno diffuso. Da una
parte, il passato non
premepiùcomeprima,
non
sostiene
a
sufficienza la scelta
delle norme dell’agire,
dall’altra, si fanno
sentire i contraccolpi
del
collasso
di
temporalità
epocali.
Prima – nelle società
tradizionali a base
religiosa – l’individuo
proiettava,dinorma,la
sua esistenza oltre la
morte,
nell’abisso
dell’eterno.
Successivamente si è
guardato di più ai
tempi lunghi della
realizzazione
di
progetti collettivi di
edificazione
di
un
mondomigliore.Ora,il
cospicuoabbassamento
dell’orizzonte
temporale rappresenta
l’elemento
più
macroscopico
e
insieme tra i meno
indagati
degli
atteggiamenti
socialmente
diffusi.
Uno dei risultati è che
lo sguardo in avanti
verso il futuro – che
aveva
preso
il
sopravvento su quello
verso l’alto – tende di
nuovo a restringersi,
permettendo
a
quest’ultimo
di
risollevarsi
parzialmente.
Si capovolge in tal
modo
una
delle
tendenze
della
modernità che si erano
acclimatate da oltre
duesecoli,daquandoil
futuro
–
sottratto
all’andare verso il
peggio,
all’avvento
dell’Anticristo
e
all’apocalittica
catastrofe finale –
comincia ad apparire
comeun“magazzinodi
possibilità”, una serie
di orizzonti temporali
aperti e centrati sul
presente, ossia come
“futuro che non può
cominciare”.
L’orizzonte è, infatti,
invalicabile
per
definizione: si sposta
con il nostro stesso
spostarci lungo l’asse
dei presenti successivi.
In questo senso noi
“defuturiamo”ilfuturo,
cercando di renderlo
prevedibile già nel
presente. Restringiamo
così successivamente
l’eccessivo
numero
delle
possibilità
mediante statistiche,
proiezioni e previsioni.
E,
soprattutto,
mediante
l’azione
programmata,
che
trasforma il “futuro
presente” dentro il
nostro orizzonte in
“presente
futuro”,
quello che si realizzerà
effettivamente a un
momento
dato
e
riveleràqualiprevisioni
erano adeguate e quali
no.56
Come possiamo oggi
defuturizzare il futuro,
aumentare le nostre
capacità di previsione,
passare da una cultura
dellanecessitàaquella
della
congettura
razionale
e
della
complessità a essa
collegata?
L’attuale
turbine degli eventi, la
moltiplicazione
degli
attori sociali (oltre
settemiliardidiuomini
distribuiti
in
oltre
duecento Stati), lo
sviluppo
impressionante delle
tecniche e dei saperi
scientifici, la volatilità
dei mercati finanziari,
la situazione storica in
cui le grandi civiltà
della Terra continuano
a non riconoscersi
sufficientemente
nei
loro peculiari valori, la
biforcazione
tra
processi centripeti di
globalizzazione
e
processi centrifughi di
isolamento,
lo
strabismo
tra
integrazione
e
frammentazione
che
caratterizzano il nostro
presente
storico,
permettono ancora un
qualche
credibile
pronostico
razionale
d’insieme? È evidente
che alcune previsioni a
livellolocaleoincampi
specialistici
ristretti
mostrano
una
sufficiente
attendibilità. È però
altrettanto chiaro che
la loro confluenza, il
loro incastro o il loro
montage in un disegno
complessivo rivelano
un’arbitrarietà
e
un’incertezza
ben
misurabiliattraversolo
scarto tra il futuro
presente e il presente
futuro. Ciò accade, a
maggior ragione, al
livello intermedio tra il
locale e il globale. Pur
disponendo
di
un
altissimo numero di
informazioni
e
di
scenari–comeaccadde
al
presidente
americano
Kennedy
durante la crisi dei
missiliaCubanel1962
–,
il
rischio
e
l’incertezza dell’agire
teso al “futuro del
presente”lasciaampie
ineliminabili margini di
indecidibilità. Nessun
individuo
o
organizzazione appare
oggi capace di fornire
previsioni globali a
medio raggio su cui
fare affidamento (con
l’eccezione,forse,delle
proiezioni
demografiche sino al
2030).Ciònonesclude,
ovviamente, che si
debba puntare a una
ricomposizione
di
congetture
parziali,
razionalmente
ed
empiricamentevagliate
nei loro gradi di
probabilità. Anzi, è
questo l’imperativo più
urgente,
soprattutto
perché il tempo per
rimediare a situazioni
di crisi annunciate
sembra sempre più
scarso.
Agli albori del nuovo
millennio la riflessione
filosofica si chiude con
una nota di sobria
modestia, che insiste
sul
richiamo
alla
responsabilità
nei
confronti di un incerto
avvenire e sull’urgenza
di ripensare i limiti e i
valori delle proprie
ristrette
tradizioni
entro un orizzonte
planetario (e forse, in
un futuro non lontano,
interplanetario).
Il
ritrarsi del pensiero
sulle
sue
stesse
premesse (il lavoro di
scavo, inventario e
sgombero
che
accompagna l’apertura
di
nuovi
cantieri
concettuali)
prelude
forse al ritorno di
grandi scenari teorici?
Difficile dirlo, anche se
la magnitudine dei
problemi da affrontare
spinge
spesso
a
pensare in grande.
Malgrado i ricorrenti
annunci, è però certo
che la filosofia, al pari
dell’arte, non è affatto
“morta”. Essa rivive
anzi a ogni stagione
perché corrisponde a
bisogni di senso che
vengono
continuamente – e
spesso
inconsapevolmente –
riformulati.
A
tali
domande,
mute
o
esplicite, la filosofia
cerca
risposte,
esplorandoladeriva,la
conformazione e le
fagliediqueicontinenti
simbolici su cui poggia
il
nostro
comune
pensareesentire.
1
M. Sandel, La
giustizia e il bene
(1982),
in
Aa.Vv.,
Comunitarismo
e
liberalismo,
Editori
Riuniti, Roma 1992, p.
22.
2 Cfr. Ch. Taylor,
Atomism,inPhilosophy
and
the
Human
Sciences. Philosophical
Papers,
Cambridge
University
Press,
Cambridge 1985, pp.
190-207.
3 Cfr. A. Honneth,
Kampf
um
Anerkennung,
Suhrkamp,Frankfurta.
M.
1992
e
Id.,
Riconoscimento
e
disprezzo, Rubettino,
Messina1993.
4 Cfr. P. Sloterdijk,
Regole per il parco
umano, in “aut-aut”,
nn. 301- 302 (gennaioaprile 2001), pp. 120139, ora anche in Id.,
Nonsiamostatiancora
salvati. Saggi dopo
Heidegger,acuradiA.
CalligariseS.Crosara,
Bompiani,
Milano
2004,pp.239-266.
5Cfr.J.Habermas,Il
futuro della natura
umana. I rischi di una
genetica
liberale,
Einaudi,Torino2002.
6 Cfr. M. Heidegger,
Lettera
sull’“umanismo”
(1947),Adelphi,Milano
1995.
7
J.-P.
Sartre,
Prefazione a Frantz
Fanon, I dannati della
terra (1961), Einaudi,
Torino1962.
8 Cfr. L. Senghor,
Négritude
et
humanisme, Éditions
duSeuil,Paris1964.
9 C. Lévi-Strauss,
Tristi tropici (1955), il
Saggiatore,
Milano
2004,p.402.
10 C. Lévi-Strauss,
L’uomo
nudo,
il
Saggiatore,
Milano
1974 [1971], p. 648 e
cfr. Aa. Vv., Simposio
Lévi-Strauss.
Uno
sguardo sull’oggi, a
cura
di
Wolfgang
Kaltenbacher,
Saggiatore,
2014.
il
Milano
11Cfr.J.Baudrillard,
Loscambiosimbolicoe
la
morte
(1976),
Feltrinelli,
Milano
1979; Id., Simulacres
et simulation, Galilée,
Paris1981.
12 R. Rorty, La
priorità
della
democrazia
sulla
filosofia, in Scritti
filosofici,
Laterza,
Roma-Bari 1994, i, p.
248.
13
Sulle costanti
degli sviluppi della
filosofiaitaliana,cfr.R.
Bodei, Il noi diviso.
Ethos e idee dell’Italia
repubblicana, Einaudi,
Torino 1998, pp. 63-80
e R. Esposito, Pensiero
vivente.
Origine
e
attualità della filosofia
italiana,
Einaudi,
Torino2010.
14
N.
Bobbio,
Intellettualiepotere,in
Il dubbio e la scelta.
Intellettuali e potere
nella
società
contemporanea,
Carocci, Roma 1993,
pp.124,125.
15 Id., Politica e
cultura
(1957),
Einaudi, Torino 1995,
p.281.
16Ivi,pp.17,280.
17
N.
Bobbio,
Prefazioneallaseconda
edizionediItaliacivile.
Ritratti
e
testimonianze, Passigli,
Firenze1986,p.6.
18 Id., Destra e
sinistra. Ragioni e
significato
di
una
distinzione
politica,
Donzelli, Roma 1994,
p.
79,
ma
cfr.,
soprattutto, Id., L’età
dei diritti, Einaudi,
Torino1990.
19 Aa.Vv., Crisi della
ragione, a cura di A.G.
Gargani,
Einaudi,
Torino1979.
20 A.G. Gargani, Lo
stupore e il caso,
Laterza,
Roma-Bari
1985,p.18.
21
A.G. Gargani,
L’attrito del pensiero,
in Filosofia ’86, a cura
di G. Vattimo, Laterza,
Roma-Bari1987,p.22.
22 Cfr. M. Cacciari,
Dallo
Steinhof.
Prospettive
viennesi
del primo Novecento,
Adelphi, Milano 1980;
Id.,
L’angelo
necessario,
Adelphi,
Milano
1986;
Id.,
Dell’inizio,
Adelphi,
Milano 1990; A.G.
Gargani, Il sapere
senza
fondamenti,
Einaudi, Torino 1975;
Aa.Vv.,
Crisi della
ragione,
cit.;
E.
Severino,L’essenzadel
nichilismo
(1972),
Adelphi, Milano 1995
(nuova ed.); Id., Il
destinodellanecessità,
Adelphi, Milano 1980;
Aa.Vv., Il pensiero
debole, a cura di G.
Vattimo e P.A. Rovatti,
Feltrinelli,
Milano
1983; G. Vattimo, La
fine della modernità.
Nichilismo
ed
ermeneutica
nella
cultura post-moderna,
Garzanti,Milano1985.
23 Tra le opere
filosofiche che hanno
avuto un maggiore
impatto, si possono
vedere:
R.
Bodei,
Geometria
delle
passioni.
Paura,
speranza,
felicità:
filosofia e uso politico,
Feltrinelli,
Milano
1991; Id., Le logiche
del delirio. Ragione,
affetti, follia (Laterza,
Roma-Bari, 2000); Id.,
Destini personali. L’età
della
colonizzazione
delle
coscienze
(Feltrinelli,
Milano
2002); Id., Immaginare
altre vite. Ragione,
realtà,
desideri
(Feltrinelli,
Milano
2013);
S.
Givone,
Disincantodelmondoe
pensiero tragico, il
Saggiatore,
Milano
1988; Id. Metafisica
della peste. Colpa e
destino,
Einaudi,
Torino,
2012;
G.
Marramao, Dopo il
Leviatano. Individuo e
comunità,
Bollati
Boringhieri,
Torino
2000; Id., Contro il
potere. Filosofia e
scrittura,
Bompiani,
Milano 2011; S. Veca,
Cittadinanza.
Riflessioni filosofiche
sull’idea
di
emancipazione,
Feltrinelli,
Milano
1990;
Id.,
Dell’incertezza.
Tre
meditazioni filosofiche,
Feltrinelli,
Milano
1997; Id., L’idea di
incompletezza. Quattro
lezioni,
Feltrinelli,
Milano2011.
24 M. Foucault, La
volontà di sapere, cit.,
p.17.
25
G.
Agamben,
Homo sacer. Il potere
sovrano e la nuda vita,
Einaudi, Torino 1995;
Id., Quel che resta di
Auschwitz. L’archivio e
il testimonio, Bollati
Boringhieri,
Torino
1998; Id., Stato di
eccezione,
Bollati
Boringhieri,
Torino
2003.
26
R.
Esposito,
Immunitas, cit; Id.,
Bios. Biopolitica e
filosofia,
Einaudi,
Torino2004.
27 Id., Due. La
macchinadellateologia
politica e il posto del
pensiero,
Einaudi,
Torino2014.
28 Cfr. R. Rorty, La
filosofia e lo specchio
dellanatura,Bompiani,
Milano1986.
29 Id., Conseguenze
del
pragmatismo,
Feltrinelli,
Milano
1986,pp.168,180.
30
R.
Rorty,
Solidarietà
od
oggettività? (1983), in
Scritti filosofici, cit., i,
pp.29-46.
31
R. Rorty, La
priorità
della
democrazia
sulla
filosofia, in Scritti
filosofici, cit., i, pp.
245,238.
32
Cfr.
P.K.
Feyerabend, Sciencein
a Free Society, Nlb,
London1978.
33
R.
Rorty,
Solidarietà,
in
La
filosofia
dopo
la
filosofia
(1989),
Laterza,
Roma-Bari
1989,p.221.
34
F. Nietzsche,
Frammenti
postumi
[1885-1887, 7 (60)] in
Operecomplete,acura
di G. Colli e M.
Montinari,
Adelphi,
Milano1964-vol.VIII/1
(1967),p.299.
35
Id., La gaia
scienza, par. 284, in
Opere complete, cit.,
vol. V/2, p. 192. Su
questo
aspetto
ha
insistito B. Williams, in
Genealogiadellaverità,
Fazi, Roma 2005, pp.
17-23.
36 Cfr. Z. Bauman,
Modernità
liquida,
Laterza,
Roma-Bari
2002 e M. Berman,
Tutto ciò che è solido
svanisce nell’aria, il
Mulino,Bologna2012.
37
B.
Williams,
Genealogiadellaverità,
Fazi, Roma 2005, p.
247.
38Ivi,p.9.
39 Si veda U. Eco, I
limiti
dell’interpretazione,
Bompiani,
Milano
1990.
40 Cfr. S. Veca,
L’idea
di
incompletezza, cit., pp.
55-63.
41 Cfr. J. Derrida,
Forza di legge. Il
“fondamento
mistico
dell’autorità”, Bollati
Boringhieri,
Torino
2003, ma cfr. anche
Diritto alla giustizia, in
Aa.Vv.,
Diritto,
giustizia,
interpretazione, a cura
di G. Vattimo e J.
Derrida,
Laterza,
Roma-Bari 1988, pp. 336.
42
M.
Ferraris,
Manifesto del nuovo
realismo,
Laterza,
Roma-Bari 2012, p. 49
ecfr.Id.,Ricostruirela
decostruzione. Cinque
saggi a partire da
Jacques
Derrida,
Bompiani,
Milano
2010.
43 Cfr. J.-F. Lyotard,
La condizione postmoderna
(1979),
Feltrinelli,
Milano
1981,pp.119,56-57.
44 Cfr. R. Nozick,
Spiegazioni filosofiche
(1981), il Saggiatore,
Milano 1987, pp. 354
sgg.
45 Cfr. Ch. Lasch,
Rifugio in un mondo
senza cuore (1979),
Bompiani,
Milano
1982.
46 Cfr. Z. Bauman,
Intimations
of
Postmodernity,
Routledge,
London
1992; Id., Le sfide
dell’etica
(1993),
Feltrinelli,
Milano
1996,inparticolarepp.
244sgg.
47Cfr.P.Ricoeur,Se
stesso come un altro
(1990), Jaca Book,
Milano1993.
48 Cfr. H. Jonas, Il
principio
responsabilità.Un’etica
per
la
società
tecnologica
(1979),
Einaudi, Torino 1990,
pp.3sgg.
49
M. Weber, La
politica
come
professione (1919), in
Il lavoro intellettuale
come
professione,
Einaudi, Torino 1966,
p.121.
50 Cfr. V.R. Potter,
Bioethics,Bridgetothe
Future, Prentice Hall,
EnglewoodCliffs1971.
51 Cfr. H. Jonas,
Tecnica, medicina ed
etica.
Prassi
del
principio
responsabilità,Einaudi,
Torino 1997; Id., Dalla
fede antica all’uomo
tecnologico, il Mulino,
Bologna1991.
52Cfr.R.Marchesini,
Post-human.
Verso
nuovi
modelli
di
esistenza,
Bollati
Boringhieri,
Torino
2002.
53
Si
vedano
indicazioni,
ad
esempio, in N. Smart,
World
Philosophies,
Routledge,
LondonNew York 2000 e R.
Bodei, Una scintilla di
fuoco.
Invito
alla
filosofia,
Zanichelli,
Bologna2005.
54 A. de Tocqueville,
La
democrazia
in
America, in Scritti
politici, Utet, Torino
1968-69,II,p.640.
55 Cfr. R. Koselleck,
Futuro
passato,
Marietti,Genova1986.
56 Cfr. N. Luhmann,
The Future Cannot
Begin:
Temporal
Structures in Modern
Societies,
in
The
Differentiation
of
Society,
Columbia
University Press, New
York 1982, pp. 271288.
Indice
Notaintroduttiva
Premessa alla nuova
edizione2015
I. Le filosofie dello
slancio
1.Iltemporitrovato
2. Le cicatrici della
crescita
3.Periferiedellavita
4.
Sperare
nel
tragico
5. L’orrore della
stagnazione
II.
Verso
nuove
evidenze: filosofia e
saperescientifico
1.
Il
pensiero
matematico
2.Larelatività
3.Lospaziointeriore
III.
Il
pathos
dell’oggettivazione
1.DurkheimeWeber
2. Da Croce a
Gramsci
IV. I dislivelli della
storia
1. Lo storicismo di
Dilthey
2. Le umanità altre:
filosofia
dell’antropologia
3.
Il
pensiero
rivoluzionario
4. Mito e ragione
strumentale
nel
nazionalsocialismo
V. L’incontro delle
filosofie e la nuova
epistemologia
1. “Da sponda a
sponda”
2.
La
filosofia
americana
3.
L’epistemologia
del neo-positivismo e
lasuacritica
VI.
Il
pensiero
dialettico
1.
Coscienza
e
totalità
2.
La
dialettica
negativa
VII. Il mondo e lo
sguardo
1. Husserl: la visione
dellacosa
2. Schütz: migrazioni
disenso
3.
Heidegger:
il
disvelamento
dell’Essere
4. Wittgenstein: il
linguaggioeilmondo
5. Sartre: lo sguardo
dell’altro
6. Laing e Bateson:
gliinestricabilinodi
7. Merleau-Ponty: la
tovagliabianca
8.
Foucault:
lo
sguardo del potere e
letecnichedell’io
9.Parfitoiltunneldi
vetrodell’identità
VIII. I vincoli della
tradizione
1. Il viaggio della
vita:Blumenbergele
metafore
2. “Nessuno conosce
se stesso”: Gadamer
el’ermeneutica
3.
La
mitologia
biancadiDerrida
IX.Vitaactiva
1. Arendt: pensare,
volere,giudicare
2.
Habermas:
il
desertoavanza
3. Rawls: “lotteria
naturale”egiustizia
X.Guardandoavanti
1. Gli orizzonti della
Terra
2.Dall’Italia
3. Rorty: comunità e
verità
4.Famedirealtà
5.
Incertezza
e
disimpegno
6. Il ritorno della
responsabilità
7.
Bioetica
e
biotecnologie
8.Unmondodiverso
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