Il riconoscimento del vissuto emotivo. Percepire e sentire

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ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001
Il riconoscimento del vissuto
emotivo
Percepire e sentire le emozioni e i sentimenti
dell’altro
Davide Baldan
In apertura di discorso, mi pare onesto esplicitare (ossia proporre, per
poterci accordare su) una sintesi delle molteplici definizioni e precisazioni
terminologiche reperibili in letteratura. Pertanto, ogni volta che utilizzerò il
termine “emozione” mi riferirò ad «un insieme complesso di interazioni fra
fattori soggettivi e oggettivi, mediati dai sistemi neurali/ormonali, che può:
a) suscitare esperienze affettive come senso di eccitazione, di piacere e
dispiacere;
b) generare processi cognitivi come effetti percettivi emozionalmente
rilevanti, valutazioni cognitive, processi di etichettamento;
c) attivare adattamenti fisiologici diffusi di fronte a condizioni di
eccitamento; e d) condurre ad un comportamento che spesso, ma non
sempre, è espressivo, diretto ad uno scopo e adattivo» (Kleinginna P.R.Jr. e
Kleinginna A.M., 1981). In secondo luogo, presupporrò che «l’emozione è
immediata (nel senso sia di “subitanea”, sia di “non mediata”), globale (tutto
l’organismo vi partecipa; tinge di sé tutta l’esperienza attuale); quasi
corporea, spesso indistinguibile dal somatico; “naturale”, nel senso antitetico
di “culturale”; automatica; non eliminabile, scarsamente controllabile; poco
specifica (molte cose possono darmi la stessa emozione); di per sé poco
integrata ed irriflessa; tale da spingere direttamente all’azione, tanto da
essere difficilmente distinguibile dalla reazione e dalla motivazione»
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(Roccato, 1990). Ed ancora, mi pare che «possiamo quindi considerare
l'emozione come l'insieme delle azioni (o micro-azioni) che la persona fa
(nella propria testa, nel proprio corpo e col proprio corpo) recependo,
elaborando, rispondendo ad una situazione (esterna o interna) e registrando
anche le proprie reazioni».
Infine, «le emozioni sono spesso considerate uno “stato” della persona;
però quello “stato” è di fatto un processo dinamico, è una risposta diffusa e
personale a una certa situazione, è una specifica forma di adattamento. Le
emozioni, come le intenzioni non sono “stati” in senso stretto, ma sono un
modo di descrivere ciò che la persona fa fra sé e sé (e quel che sente di ciò
che fa) e ciò che la persona fa con le persone e con le cose» (Ravaglia, 2000).
Ben documentato dai lavori di numerosi autori, appare indiscutibile il
ruolo adattivo delle emozioni, che infatti: hanno un’importante funzione
comunicativa, essendo potenzialmente presenti e suscettibili di essere
attivate nel corso di ogni evento relazionale/accadimento/scambio
interattivo, e avendo la tendenza intrinseca a evocare delle risposte o
identiche
o
complementari
nell’oggetto
percipiente;
facilitano
l’apprendimento, in quanto costituiscono un sistema di segnalazione
importante per rendere l’organismo in grado di acquisire nuovi pattern e di
evitarne altri; costituiscono un importante rinforzo alla motivazione e
incrementano l’attivazione di schemi di azione. In termini più generali, le
emozioni ci dicono come è il mondo e ci danno informazioni sullo stato dei
processi attivati; inoltre, costituiscono dei circuiti riverberanti che
mantengono attive le informazioni; ancora, le emozioni entrano nella
soluzione dei problemi, attivano certi schemi mnemonici, intervengono nella
percezione. Il risultato evolutivo più favorevole viene raggiunto se la mente
(del soggetto che riesamina gli eventi e li coordina) è sperimentata in armonia
con la parte affettiva (che sperimenta i vissuti legati a tali eventi) senza che vi
siano degli scarti: è solo in questo caso che si realizza quell’unità di aspetti
cognitivi ed emotivi che, nell’esperienza di tutti i giorni, fornisce all’individuo
il senso di vitalità e di pienezza derivante dal sentirsi in accordo con se
stesso, con ciò che pensa, con ciò che vive, con la propria immagine.
È infatti un’emozione quella che mi dice se una cosa è buona o è cattiva per me, e, cosa
ancor più importante, se essa è vera o non è vera per me. Le ipotesi errate vengono
abbandonate per le spiacevoli emozioni che ne conseguono […], la verità viene perseguita
per le piacevoli emozioni connesse, prime fra tutte il “senso di verità” e il “senso di
autenticità”. Se è vero che perseguire la verità comporta dolore […], è pur vero che comporta
anche, intrinsecamente, specifico piacere. E il bambino, nel proprio incessante impegno
cognitivo, struttura la conoscenza più sul “che cosa vuol dire questo per me”, che non sul
“che cosa vuol dir questo in assoluto” (Roccato, 1990).
Per converso, se l’evoluzione affettiva esita nell’incapacità ad usare le
emozioni, ciò rappresenterà un depauperamento per l’individuo, in quanto lo
priverà di mezzi di informazione assai preziosi, specie in quanto strumenti
indispensabili nella costruzione dell’immagine di sé, e quindi della sua
capacità di riconoscersi esistente e vivo. Tant’è che, non a caso, «l’uomo è
l’essere che “ha tra le sue caratteristiche più importanti quella di dover
prendere posizione nei confronti di se stesso” (Gehlen, 1944) – dunque nei
confronti della propria esistenza concreta” (Stanghellini, 1997). Ed in effetti,
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«se manca la possibilità di strutturare l’esperienza emotiva di sé, il rischio è
quello di un’esperienza continuativa annichilente, contrassegnata dalla
costante percezione dell’insensatezza della propria esistenza» (Roccato,
1998), che si dibatte nello iato prodotto da quell’effetto di “disgiunzione”
(tale per cui le emozioni o le loro implicazioni possono sembrare
sconcertanti, poco chiare o inappropriate) che, mi pare, mostra una forte
affinità con il termine alienazione.
Dal punto di vista dell’approccio rogersiano, quali sono le condizioni per
un efficace riconoscimento del vissuto emotivo del cliente? Mi pare che per
tentare di rispondere a questa domanda sia preventivamente necessario
sgombrare il campo da quel frequente implicito, fallace, che traduce sul
piano concreto il termine “condizioni” in “tecniche”. E questo perché con il
termine tecnica «si vuole indicare mera perfezione formale» (Devoto-Oli,
1979), ossia una dimensione maggiormente e rigidamente normativoapplicativa che non genuinamente creativa, a detrimento di qualunque
possibilità (o anche solo margine) di libertà individuale del terapeuta. Per
converso, con il termine condizione si intende il «dato di fatto che costituisce
il presupposto necessario perché qualcosa debba aver luogo»; e anche
«qualità richiesta per il raggiungimento di un determinato scopo; requisito»
(Devoto-Oli, 1979): e quindi, mi sembra, ci si riferisce a una dimensione
nettamente più processuale e finalizzata, in un’ottica esistenziale che
presenta maggiori possibilità di rintracciare la verità soggettiva presente nel
qui-e-ora, anziché le conferme a quanto previsto in una teoria già data, e che
tende a farsi “profezia che si auto-dimostra”. Su questo versante, lo stesso
C.R. Rogers sosteneva, e pertinentemente, che «più preoccupato del fattore
umano che di quello tecnico, il professionista di orientamento rogersiano
concepisce le condizioni del suo lavoro in termini di atteggiamenti [intesi
come] una tendenza costante a percepire e a reagire in un determinato
senso», dato che «condizione di questa terapia non è la perfezione della
forma, ma l’autenticità degli atteggiamenti» (Rogers e Kinget, 1965-66). Va da
sé che il naturale ed elettivo luogo di estrinsecazione di tali atteggiamenti
risulta essere proprio la relazione col cliente, per la quale si può
presupporre, come minimo, che si tratti di una “buona relazione”, i cui
attributi essenziali sono: la sicurezza, il calore, la comprensione, la
tolleranza, il rispetto, l’accettazione. Ogni atteggiamento di questo insieme è
concepito come necessariamente incondizionato, e ciò perché, lungi dal
rappresentare semplici opzioni ideologiche, si fondano su una più profonda
necessità epistemologica, dato che, se «la cura è ascoltare i racconti dello
straniero […] bisogna prima prendersi cura dello straniero [: vale a dire che] il
prendersi cura precede la cura», e consiste in un’apertura verso il
comprendere, in sforzo conoscitivo di cogliere il trasparire dei molteplici
piani di una soggettualità fondante la persona, che è «costruita
contemporaneamente dalla rappresentazione del Sé come autonomia e dalla
rappresentazione del Sé come relazione affettivamente investita» (Pontalti,
1998).
Ma torniamo ora ad occuparsi dell’importanza dei sentimenti, nella
specifica centralità che il modello rogersiano riconosce loro. In questo
ambito il termine “sentimento” indica «il significato personale di esperienze
che comportano un accento affettivo o emotivo. La nozione di sentimento
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riunisce pertanto insieme l’esperienza affettiva e il significato cognitivo di
quest’esperienza, quale è provata nel suo contesto vissuto, immediato»
(Rogers e Kinget, 1965-66). Pertanto, l’espressione “provare pienamente un
sentimento” significa vivere una “esperienza pienamente provata”. Ma, ciò
acquisito, come è possibile far sì che tali sentimenti trovino l’occasione di
esprimersi, ossia di essere percepiti, formulati coscientemente, ed integrati
nella ri-organizzazione operata dal cliente?
«La guida più sicura per giungere alle questioni di fondo […] è seguire la
struttura dei sentimenti del soggetto quale viene da lui liberamente
espressa» (p. 129). Ecco allora che, «se il consultore si sforza di essere
sensibile ai sentimenti espressi dal soggetto, chiarificandoli e rielaborandoli,
il colloquio è di tipo non direttivo, rimane accentrato sul soggetto, e ne
scaturisce tutto quel materiale che è emotivamente pertinente al problema
dell’individuo» (p. 136).
Infatti, solo quando «il consultore continuamente pone la sua attenzione
non solo sul significato delle parole, ma anche sui sentimenti espressi, e
risponde principalmente in relazione a quest’ultimo elemento, offre al
soggetto la soddisfazione di sentirsi profondamente compreso, lo rende
propenso ad esprimere ulteriori sentimenti, e lo conduce in modo più
efficace e più diretto alle radici emotive del suo problema di adattamento»
(p. 139). Ne deriva che «l’intervento del consultore è tanto più efficace
quanto più egli riesce a aiutare il soggetto nella formulazione cosciente del
sentimento, senza schierarsi da nessuna parte. […] È particolarmente
importante che il consultore consideri la propria funzione simile a quella di
uno specchio e mostri al paziente il suo vero volto, in modo tale che egli,
grazie a questa nuova percezione di se stesso, possa riorganizzarsi» (pp.
141-142). Solo «se, quando il soggetto esprime i suoi sentimenti, il consultore
si trattiene tanto dall’assumere un atteggiamento di simpatia e di
approvazione, quanto uno di critica o di disapprovazione, allora l’individuo
si sentirà libero di discutere anche di quegli altri sentimenti contraddittori
che finora l’hanno ostacolato nello sforzo di avvicinarsi in modo netto e
preciso ai suoi problemi di adattamento» (p. 146): ecco perché è
fondamentale attenersi rispettosamente “centrati” sui tempi e sui modi di
espressione del cliente, dato che «solo quei sentimenti che sono stati
espressi devono essere riconosciuti verbalmente» (p. 149). Precisamente,
«perché il counseling sia efficace occorre che sia il soggetto a esprimere i
suoi sentimenti, non il consultore» (Rogers, 1942, p. 157). Il ché può essere
diversamente espresso ribadendo che «co-costruire il progetto terapeutico è
il significante più incisivo del prendersi cura, perché ogni progetto ha
possibilità di svilupparsi se non esclude il paziente dalle sue matrici
fondative, se permette ai vari personaggi, alle varie personalità di dispiegarsi
entro il proprio affresco e non entro le autoreferenzialità del terapeuta»
(Pontalti, 1998): vale a dire che il terapeuta-facilitatore deve assolvere al
«compito di ragionatore e amplificatore dell’esperienza del cliente» (Rogers e
Kinget, 1965-66).
L’atteggiamento di fondo che solo può consentire la libera emersione del
“vissuto affettivo” del cliente, all’interno della “buona relazione” che si vuole
“terapeutica”, mi pare che trovi la più compiuta possibilità di articolazione
creativa e creatrice nel fecondo concetto di “empatia” (ed ancor più di
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“comprensione empatica”); tenterò di rendere ragione (pur senza pretese di
esaustività) della sua centralità esperienziale e concettuale proponendo,
mediante alcune definizioni, una scansione delle diverse sfumature e
implicazioni.
Empatia è la traduzione della parola tedesca einfuhlung, che significa
“sentire dentro”, e deriva dal greco pathos, che indica un sentimento forte e
profondo simile alla sofferenza. Più specificamente, empatia significa «vivere
l’esperienza su una base totale, riascoltarla su una base cognitivoesperienziale, e quindi studiarla una volta ancora da un punto di vista
intellettuale» (p. 58).
La ritengo più un processo che uno stato. […] Significa entrare nel mondo percettivo
dell’altro e trovarcisi completamente di casa. Comporta una sensibilità, istante dopo istante,
verso i mutevoli significati percepiti che fluiscono in quest’altra persona […]. Significa vivere
temporaneamente nella vita di un altro, muovendocisi delicatamente, senza emettere giudizi;
significa intuire i significati di cui l’altra persona è scarsamente consapevole, senza però
svelare i sentimenti totalmente inconsci, poiché ciò sarebbe troppo minaccioso. […] Significa
controllare frequentemente in compagnia dell’altro l’accuratezza delle vostre percezioni, ed
essere guidati dalle reazioni che ricevete. […] Segnalando i possibili significati nel flusso
dell’esperire di un’altra persona, l’aiutate a concentrarsi su questa preziosa sorte di
referente, a sperimentare più compiutamente i significati, e a procedere nell’esperienza (pp.
122-123).
Non per caso, il fattore più importante nell’essere un terapista è «tentare,
con la sensibilità e l’accuratezza di cui si è capaci, di comprendere il cliente,
dal suo punto di vista» (Raskin, 1974, cit. a p. 126). «L’empatia dissolve
l’alienazione» (p. 130); infatti, «una comprensione finemente armonizzata
dell’altro individuo offre a questi un senso di personalità, di identità […] dato
che percepire un aspetto nuovo di se stessi è il primo passo verso il
cambiamento del concetto di sé. L’elemento nuovo, in un’atmosfera
comprensiva, è riacquisito» (p. 133). Il risultato di tale processo è che, «una
volta che il concetto di sé è mutato, anche il comportamento si trasforma
onde armonizzarsi ad un sé percepito come rinnovato» (p. 134). Di fatto,
l’esperienza ha dimostrato che, «quando le persone sono intimamente capite,
esse scoprono di avvicinarsi di più ad una gamma più vasta del loro esperire.
Ciò dà loro un referente più ampio a cui possono affidarsi per comprendere
se stesse e orientare i loro comportamenti» (p. 134). Pertanto, le conclusioni
a cui si può ora giungere prevedono che: 1) «La qualità non giudicante ed
accettante del clima empatico permette alle persone […] di assumere un
atteggiamento valorizzante e che si prende cura di sé». 2) «Essere ascoltate
da qualcuno che comprende, rende possibile alle persone di ascoltare con più
attenzione se stesse, con una maggiore empatia verso il loro esperire
viscerale, verso i loro significati vagamente percepiti». 3) «La maggior
comprensione e valutazione di sé ad opera degli individui apre loro aspetti
nuovi dell’esperienza che diventano parti di un concetto di sé più
accuratamente fondato» (p. 137).
In sintesi, forse non risulterà arrischiato sostenere che l’empatia sovverte
il fatto che «non sentiamo la nostra conoscenza. Niente potrebbe illustrare
meglio la crepa nel cuore della nostra civiltà… La conoscenza priva di
sentimento non è conoscenza» (cit. da Reston, Rogers, 1980, p. 221): mentre
l’empatia consente proprio di recuperare al “noi” della relazione una
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conoscenza profonda, che sola può indicare nuovi orizzonti di significato
personale, e così tradursi in un’esistenza soggettivamente più piena ed
autentica.
La comprensione empatica «ha a che fare con l’economia interna,
soprattutto emotiva, dell’individuo [:] lungi dall’interpretare i dati forniti dal
soggetto, [il terapeuta] si sforza di apprenderli tali e quali (at face value), cioè
come il soggetto stesso li apprende o li presenta» (p. 113). Ciò significa, però,
che «essa esige l’adozione dello schema di riferimento di un’altra persona»
(p. 114). Vale a dire che «l’incontro e il progresso del caso nel suo insieme
non sembrano essere influenzati negativamente dall’eventuale mancanza di
comunicazione intellettuale tra il terapeuta e il cliente. Quello che importa è
che la comunicazione empatica, immediata, venga mantenuta» (Rogers e
Kinget, 1965-66, p. 117).
Tale approccio fenomenologico «privilegia l’ascolto, la possibilità di
rivivere e riattualizzare in sé, tramite l’immedesimazione empatica, le
esperienze altrui, con particolare attenzione agli aspetti formali
dell’esperienza più che a quelli tematici e di contenuto» (Rossi Monti, 1998).
Pertanto, risulterà evidente che «l’empatia è sostanzialmente diversa
dall’interpretazione, in quanto vi è la volontà di venire influenzati dal cliente
ed il tentativo deliberato di entrare nel suo quadro di riferimento, non da una
posizione di superiore conoscenza, bensì da una posizione di aperto
impegno […]. Comprensione ed empatia devono procedere di pari passo»
(Clarkson, 1995). Vale a dire che, dato che cognizione e affetto sono
inseparabili, allora l'empatia è simultaneamente un processo cognitivo e
affettivo: ecco allora che, «perché il cliente sia disponibile ad avventurarsi in
cambiamenti emozionali che sono anche esistenziali occorre che percepisca
la presenza dell'analista come persona che lo riconosce come persona;
occorre che senta di essere capito nel suo bisogno di illudersi, nella sua
paura di arrendersi e nella sua capacità di tollerare il cambiamento»
(Ravaglia, 2000).
A questo punto, mi pare necessario ribadire, per confermare, che non si
può trascurare quanto il percepire e il sentire le emozioni e i sentimenti
dell’Altro-cliente da parte del terapeuta-facilitatore si pongano al centro degli
“atteggiamenti” (più che delle “tecniche”) dei quali si è precedentemente
scritto, generando una processualità tipica nel suo svolgersi, con esiti
generalmente talmente vantaggiosi (ed eticamente fondati e fondanti) per la
diade, da far apparire imprescindibile il farvi volontario ricorso.
Cercando di sintetizzarli con parole diverse, sono almeno quattro gli snodi
concettuali che mi sembra niente affatto superfluo rimarcare, stante la loro
basicità, nonché le notevoli ricadute ottenibili con la loro adozione operativa
nella prassi psicoterapeutica:
1) la vita è un processo evolutivo continuo, da intendersi come movimento
verso una sempre maggiore complessità, e come risultato sia della
tensione dinamica tra stasi e cambiamento, sia di un continuo processo di
auto-superamento attraverso sempre nuove scelte;
2) il significato non è dato, in attesa di essere scoperto, ma deve essere
attivamente creato;
3) l’alienazione (o il disagio esistenziale) può essere concepita come un
arresto del processo evolutivo vitale, tale per cui il soggetto non riesce più
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a vedersi come “soggetto”, ma si sente in un certo qual modo come un
“oggetto”, ovvero come “una cosa tra altre cose”, percependosi così in balìa
di forze esterne;
4) il terapeuta si pone in un atteggiamento di uguaglianza e collaborazione,
sempre rifiutando il ruolo dell'esperto che sa qualcosa di più del cliente,
ed in particolare rigettando il ruolo di rappresentante di una realtà alla
quale quest’ultimo dovrebbe adattarsi.
Riflessioni e considerazioni conclusive
Negli scambi comunicativi, le emozioni diventano nuovi elementi di
informazione per l’ascoltatore attento e motivato, mentre per quello
superficiale o distratto sono solo un contesto genericamente positivo o
negativo in cui si colloca il messaggio. All’atto pratico, per il terapeuta
disposto a riconoscere e a privilegiare la centralità del vissuto emotivo, sia
l'ambito osservativo comportamentale, che quello fisiologico, che quello
introspettivo risultano pertinenti per chiarire una situazione emotiva, che
solo dipanandosi liberamente nell’esperienza del qui-e-ora della diade
cliente-facilitatore, può dar inizio a quel processo di ri-appropriazione di sé
(o, meglio, del Sé), che rappresenta l’antitesi (e la risoluzione)
dell’alienazione, ovvero il “motore” di quella tendenza attualizzante che si
vuole ri-innescare, a garanzia di una maggiore congruenza sperimentabile nel
“vivere pienamente la propria vita”. Dal punto di vista della teoria della
tecnica, si può quindi legittimamente affermare che «all’interno della
relazione, è l’attivazione del sistema delle emozioni la “via regia” per la
conoscenza dell’Altro» (Roccato, 1990).
Anche il clinico di diverso orientamento, se animato da onestà
intellettuale, come minimo potrà riconoscere che
l’espressione emotiva costituisce un momento importante del processo terapeutico, che
permette al terapeuta di raccogliere numerose informazioni sul paziente rispetto a: 1) quali
risposte ha ricevuto da altri significativi, quando ha manifestato le stesse emozioni in
passato (aspetto storico-interpersonale); 2) come percepisce l’esperienza emotiva e se è in
grado di riconoscerla, tollerarla e viverla (aspetto fenomenologico); 3) la forza di esplorare
approfonditamente i suoi stati emotivi, soprattutto quando li si esprime in modo intenso
(aspetto motivazionale) (Giusti, Montanari e Montanarella, 1997).
Ancor più, sul versante del terapeuta orientato esperienzialmente,
credo che l'empatia sia proporzionale alla nostra tolleranza per i nostri vissuti e che la
mancanza di empatia sia intenzionale e difensiva, ovvero sia un'azione e non un'incapacità;
rifiutiamo di recepire correttamente (nei limiti dati) le emozioni altrui quando temiamo che
esse risveglino certi nostri vissuti o che ci coinvolgano in modalità che temiamo. A riprova di
ciò si può osservare che la capacità empatica dei clienti cresce in analisi nella misura in cui
essi elaborano i loro vissuti” (Ravaglia, 2000).
Ciò che aiuta in modo sostanziale il cliente è il fatto di incontrare
comprensione autentica da parte di un'altra persona, che nella “vicinanza
empatica” mette in gioco quell'insieme di atteggiamenti, comportamenti e
anche emozioni con i quali lo accompagna nel suo viaggio fra i vissuti, e così
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facendo facilita il suo processo di crescita e sviluppo personale: solo allora,
ed inevitabilmente, «il nucleo profondo della soggettività si esprime là dove
la comprensione si fa compromissione affettiva entro cui le cose assumono
senso» (Galimberti, 1992).
Un’ultima considerazione mi sembra infine opportuna. Se è pur vero che
«il “punto di vista soggettivo” si spoglia della connotazione di “limite
negativo” (il non misurabile, il non quantificabile, il non operativo) per
restituirci uno degli aspetti essenziali dell’homo persona, cioè il suo carattere
dialettico e protensivo» (D’Aronco, Riolo e Aguglia, 1999), non si può
onestamente tacere sul pericolo derivante dal fatto che «il noi dell’incontro,
male inteso o mal praticato, può rischiare di sconfinare in un fumoso ed
equivoco sentimentalismo, in un irrazionale patetismo, in facili
“sconfinamenti”, spiritualistici o evasivamente sensualistici» (Callieri, 1999).
Il terapeuta che riconosce e amplifica in modo incautamente acritico le
potenzialità pur notevoli degli “atteggiamenti” fin qui descritti, ma che al
contempo dis-conosca i limiti (nel senso del campo di validità della prassi)
presenti in qualunque orientamento terapeutico, rischia fortemente di
produrre il frustrante senso di qualcosa di inappagato per entrambi gli attori
dell’incontro, nonché di esautorare quella “pulsione epistemofilica” che
dovrebbe idealmente informare di sé (almeno) qualunque professione che
voglia dirsi “di aiuto” all’essere umano alienato e perciò sofferente. In sintesi,
mi pare che ciò possa verificarsi, anche negli orientamenti potenzialmente
più fecondi, con tanta maggiore facilità, quanto più un “atteggiamento” non
coltivato e non alimentato (anche dal dubbio) si declina in una “tecnica”
(pericolosamente vicina alla dottrina), con il non augurabile rischio di
scivolare da un “incontro promesso” e intrinsecamente possibile, ad un
“incontro negato” e deludentemente ri-trovato.
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