ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001 Il riconoscimento del vissuto emotivo Percepire e sentire le emozioni e i sentimenti dell’altro Davide Baldan In apertura di discorso, mi pare onesto esplicitare (ossia proporre, per poterci accordare su) una sintesi delle molteplici definizioni e precisazioni terminologiche reperibili in letteratura. Pertanto, ogni volta che utilizzerò il termine “emozione” mi riferirò ad «un insieme complesso di interazioni fra fattori soggettivi e oggettivi, mediati dai sistemi neurali/ormonali, che può: a) suscitare esperienze affettive come senso di eccitazione, di piacere e dispiacere; b) generare processi cognitivi come effetti percettivi emozionalmente rilevanti, valutazioni cognitive, processi di etichettamento; c) attivare adattamenti fisiologici diffusi di fronte a condizioni di eccitamento; e d) condurre ad un comportamento che spesso, ma non sempre, è espressivo, diretto ad uno scopo e adattivo» (Kleinginna P.R.Jr. e Kleinginna A.M., 1981). In secondo luogo, presupporrò che «l’emozione è immediata (nel senso sia di “subitanea”, sia di “non mediata”), globale (tutto l’organismo vi partecipa; tinge di sé tutta l’esperienza attuale); quasi corporea, spesso indistinguibile dal somatico; “naturale”, nel senso antitetico di “culturale”; automatica; non eliminabile, scarsamente controllabile; poco specifica (molte cose possono darmi la stessa emozione); di per sé poco integrata ed irriflessa; tale da spingere direttamente all’azione, tanto da essere difficilmente distinguibile dalla reazione e dalla motivazione» 1 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001 (Roccato, 1990). Ed ancora, mi pare che «possiamo quindi considerare l'emozione come l'insieme delle azioni (o micro-azioni) che la persona fa (nella propria testa, nel proprio corpo e col proprio corpo) recependo, elaborando, rispondendo ad una situazione (esterna o interna) e registrando anche le proprie reazioni». Infine, «le emozioni sono spesso considerate uno “stato” della persona; però quello “stato” è di fatto un processo dinamico, è una risposta diffusa e personale a una certa situazione, è una specifica forma di adattamento. Le emozioni, come le intenzioni non sono “stati” in senso stretto, ma sono un modo di descrivere ciò che la persona fa fra sé e sé (e quel che sente di ciò che fa) e ciò che la persona fa con le persone e con le cose» (Ravaglia, 2000). Ben documentato dai lavori di numerosi autori, appare indiscutibile il ruolo adattivo delle emozioni, che infatti: hanno un’importante funzione comunicativa, essendo potenzialmente presenti e suscettibili di essere attivate nel corso di ogni evento relazionale/accadimento/scambio interattivo, e avendo la tendenza intrinseca a evocare delle risposte o identiche o complementari nell’oggetto percipiente; facilitano l’apprendimento, in quanto costituiscono un sistema di segnalazione importante per rendere l’organismo in grado di acquisire nuovi pattern e di evitarne altri; costituiscono un importante rinforzo alla motivazione e incrementano l’attivazione di schemi di azione. In termini più generali, le emozioni ci dicono come è il mondo e ci danno informazioni sullo stato dei processi attivati; inoltre, costituiscono dei circuiti riverberanti che mantengono attive le informazioni; ancora, le emozioni entrano nella soluzione dei problemi, attivano certi schemi mnemonici, intervengono nella percezione. Il risultato evolutivo più favorevole viene raggiunto se la mente (del soggetto che riesamina gli eventi e li coordina) è sperimentata in armonia con la parte affettiva (che sperimenta i vissuti legati a tali eventi) senza che vi siano degli scarti: è solo in questo caso che si realizza quell’unità di aspetti cognitivi ed emotivi che, nell’esperienza di tutti i giorni, fornisce all’individuo il senso di vitalità e di pienezza derivante dal sentirsi in accordo con se stesso, con ciò che pensa, con ciò che vive, con la propria immagine. È infatti un’emozione quella che mi dice se una cosa è buona o è cattiva per me, e, cosa ancor più importante, se essa è vera o non è vera per me. Le ipotesi errate vengono abbandonate per le spiacevoli emozioni che ne conseguono […], la verità viene perseguita per le piacevoli emozioni connesse, prime fra tutte il “senso di verità” e il “senso di autenticità”. Se è vero che perseguire la verità comporta dolore […], è pur vero che comporta anche, intrinsecamente, specifico piacere. E il bambino, nel proprio incessante impegno cognitivo, struttura la conoscenza più sul “che cosa vuol dire questo per me”, che non sul “che cosa vuol dir questo in assoluto” (Roccato, 1990). Per converso, se l’evoluzione affettiva esita nell’incapacità ad usare le emozioni, ciò rappresenterà un depauperamento per l’individuo, in quanto lo priverà di mezzi di informazione assai preziosi, specie in quanto strumenti indispensabili nella costruzione dell’immagine di sé, e quindi della sua capacità di riconoscersi esistente e vivo. Tant’è che, non a caso, «l’uomo è l’essere che “ha tra le sue caratteristiche più importanti quella di dover prendere posizione nei confronti di se stesso” (Gehlen, 1944) – dunque nei confronti della propria esistenza concreta” (Stanghellini, 1997). Ed in effetti, 2 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001 «se manca la possibilità di strutturare l’esperienza emotiva di sé, il rischio è quello di un’esperienza continuativa annichilente, contrassegnata dalla costante percezione dell’insensatezza della propria esistenza» (Roccato, 1998), che si dibatte nello iato prodotto da quell’effetto di “disgiunzione” (tale per cui le emozioni o le loro implicazioni possono sembrare sconcertanti, poco chiare o inappropriate) che, mi pare, mostra una forte affinità con il termine alienazione. Dal punto di vista dell’approccio rogersiano, quali sono le condizioni per un efficace riconoscimento del vissuto emotivo del cliente? Mi pare che per tentare di rispondere a questa domanda sia preventivamente necessario sgombrare il campo da quel frequente implicito, fallace, che traduce sul piano concreto il termine “condizioni” in “tecniche”. E questo perché con il termine tecnica «si vuole indicare mera perfezione formale» (Devoto-Oli, 1979), ossia una dimensione maggiormente e rigidamente normativoapplicativa che non genuinamente creativa, a detrimento di qualunque possibilità (o anche solo margine) di libertà individuale del terapeuta. Per converso, con il termine condizione si intende il «dato di fatto che costituisce il presupposto necessario perché qualcosa debba aver luogo»; e anche «qualità richiesta per il raggiungimento di un determinato scopo; requisito» (Devoto-Oli, 1979): e quindi, mi sembra, ci si riferisce a una dimensione nettamente più processuale e finalizzata, in un’ottica esistenziale che presenta maggiori possibilità di rintracciare la verità soggettiva presente nel qui-e-ora, anziché le conferme a quanto previsto in una teoria già data, e che tende a farsi “profezia che si auto-dimostra”. Su questo versante, lo stesso C.R. Rogers sosteneva, e pertinentemente, che «più preoccupato del fattore umano che di quello tecnico, il professionista di orientamento rogersiano concepisce le condizioni del suo lavoro in termini di atteggiamenti [intesi come] una tendenza costante a percepire e a reagire in un determinato senso», dato che «condizione di questa terapia non è la perfezione della forma, ma l’autenticità degli atteggiamenti» (Rogers e Kinget, 1965-66). Va da sé che il naturale ed elettivo luogo di estrinsecazione di tali atteggiamenti risulta essere proprio la relazione col cliente, per la quale si può presupporre, come minimo, che si tratti di una “buona relazione”, i cui attributi essenziali sono: la sicurezza, il calore, la comprensione, la tolleranza, il rispetto, l’accettazione. Ogni atteggiamento di questo insieme è concepito come necessariamente incondizionato, e ciò perché, lungi dal rappresentare semplici opzioni ideologiche, si fondano su una più profonda necessità epistemologica, dato che, se «la cura è ascoltare i racconti dello straniero […] bisogna prima prendersi cura dello straniero [: vale a dire che] il prendersi cura precede la cura», e consiste in un’apertura verso il comprendere, in sforzo conoscitivo di cogliere il trasparire dei molteplici piani di una soggettualità fondante la persona, che è «costruita contemporaneamente dalla rappresentazione del Sé come autonomia e dalla rappresentazione del Sé come relazione affettivamente investita» (Pontalti, 1998). Ma torniamo ora ad occuparsi dell’importanza dei sentimenti, nella specifica centralità che il modello rogersiano riconosce loro. In questo ambito il termine “sentimento” indica «il significato personale di esperienze che comportano un accento affettivo o emotivo. La nozione di sentimento 3 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001 riunisce pertanto insieme l’esperienza affettiva e il significato cognitivo di quest’esperienza, quale è provata nel suo contesto vissuto, immediato» (Rogers e Kinget, 1965-66). Pertanto, l’espressione “provare pienamente un sentimento” significa vivere una “esperienza pienamente provata”. Ma, ciò acquisito, come è possibile far sì che tali sentimenti trovino l’occasione di esprimersi, ossia di essere percepiti, formulati coscientemente, ed integrati nella ri-organizzazione operata dal cliente? «La guida più sicura per giungere alle questioni di fondo […] è seguire la struttura dei sentimenti del soggetto quale viene da lui liberamente espressa» (p. 129). Ecco allora che, «se il consultore si sforza di essere sensibile ai sentimenti espressi dal soggetto, chiarificandoli e rielaborandoli, il colloquio è di tipo non direttivo, rimane accentrato sul soggetto, e ne scaturisce tutto quel materiale che è emotivamente pertinente al problema dell’individuo» (p. 136). Infatti, solo quando «il consultore continuamente pone la sua attenzione non solo sul significato delle parole, ma anche sui sentimenti espressi, e risponde principalmente in relazione a quest’ultimo elemento, offre al soggetto la soddisfazione di sentirsi profondamente compreso, lo rende propenso ad esprimere ulteriori sentimenti, e lo conduce in modo più efficace e più diretto alle radici emotive del suo problema di adattamento» (p. 139). Ne deriva che «l’intervento del consultore è tanto più efficace quanto più egli riesce a aiutare il soggetto nella formulazione cosciente del sentimento, senza schierarsi da nessuna parte. […] È particolarmente importante che il consultore consideri la propria funzione simile a quella di uno specchio e mostri al paziente il suo vero volto, in modo tale che egli, grazie a questa nuova percezione di se stesso, possa riorganizzarsi» (pp. 141-142). Solo «se, quando il soggetto esprime i suoi sentimenti, il consultore si trattiene tanto dall’assumere un atteggiamento di simpatia e di approvazione, quanto uno di critica o di disapprovazione, allora l’individuo si sentirà libero di discutere anche di quegli altri sentimenti contraddittori che finora l’hanno ostacolato nello sforzo di avvicinarsi in modo netto e preciso ai suoi problemi di adattamento» (p. 146): ecco perché è fondamentale attenersi rispettosamente “centrati” sui tempi e sui modi di espressione del cliente, dato che «solo quei sentimenti che sono stati espressi devono essere riconosciuti verbalmente» (p. 149). Precisamente, «perché il counseling sia efficace occorre che sia il soggetto a esprimere i suoi sentimenti, non il consultore» (Rogers, 1942, p. 157). Il ché può essere diversamente espresso ribadendo che «co-costruire il progetto terapeutico è il significante più incisivo del prendersi cura, perché ogni progetto ha possibilità di svilupparsi se non esclude il paziente dalle sue matrici fondative, se permette ai vari personaggi, alle varie personalità di dispiegarsi entro il proprio affresco e non entro le autoreferenzialità del terapeuta» (Pontalti, 1998): vale a dire che il terapeuta-facilitatore deve assolvere al «compito di ragionatore e amplificatore dell’esperienza del cliente» (Rogers e Kinget, 1965-66). L’atteggiamento di fondo che solo può consentire la libera emersione del “vissuto affettivo” del cliente, all’interno della “buona relazione” che si vuole “terapeutica”, mi pare che trovi la più compiuta possibilità di articolazione creativa e creatrice nel fecondo concetto di “empatia” (ed ancor più di 4 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001 “comprensione empatica”); tenterò di rendere ragione (pur senza pretese di esaustività) della sua centralità esperienziale e concettuale proponendo, mediante alcune definizioni, una scansione delle diverse sfumature e implicazioni. Empatia è la traduzione della parola tedesca einfuhlung, che significa “sentire dentro”, e deriva dal greco pathos, che indica un sentimento forte e profondo simile alla sofferenza. Più specificamente, empatia significa «vivere l’esperienza su una base totale, riascoltarla su una base cognitivoesperienziale, e quindi studiarla una volta ancora da un punto di vista intellettuale» (p. 58). La ritengo più un processo che uno stato. […] Significa entrare nel mondo percettivo dell’altro e trovarcisi completamente di casa. Comporta una sensibilità, istante dopo istante, verso i mutevoli significati percepiti che fluiscono in quest’altra persona […]. Significa vivere temporaneamente nella vita di un altro, muovendocisi delicatamente, senza emettere giudizi; significa intuire i significati di cui l’altra persona è scarsamente consapevole, senza però svelare i sentimenti totalmente inconsci, poiché ciò sarebbe troppo minaccioso. […] Significa controllare frequentemente in compagnia dell’altro l’accuratezza delle vostre percezioni, ed essere guidati dalle reazioni che ricevete. […] Segnalando i possibili significati nel flusso dell’esperire di un’altra persona, l’aiutate a concentrarsi su questa preziosa sorte di referente, a sperimentare più compiutamente i significati, e a procedere nell’esperienza (pp. 122-123). Non per caso, il fattore più importante nell’essere un terapista è «tentare, con la sensibilità e l’accuratezza di cui si è capaci, di comprendere il cliente, dal suo punto di vista» (Raskin, 1974, cit. a p. 126). «L’empatia dissolve l’alienazione» (p. 130); infatti, «una comprensione finemente armonizzata dell’altro individuo offre a questi un senso di personalità, di identità […] dato che percepire un aspetto nuovo di se stessi è il primo passo verso il cambiamento del concetto di sé. L’elemento nuovo, in un’atmosfera comprensiva, è riacquisito» (p. 133). Il risultato di tale processo è che, «una volta che il concetto di sé è mutato, anche il comportamento si trasforma onde armonizzarsi ad un sé percepito come rinnovato» (p. 134). Di fatto, l’esperienza ha dimostrato che, «quando le persone sono intimamente capite, esse scoprono di avvicinarsi di più ad una gamma più vasta del loro esperire. Ciò dà loro un referente più ampio a cui possono affidarsi per comprendere se stesse e orientare i loro comportamenti» (p. 134). Pertanto, le conclusioni a cui si può ora giungere prevedono che: 1) «La qualità non giudicante ed accettante del clima empatico permette alle persone […] di assumere un atteggiamento valorizzante e che si prende cura di sé». 2) «Essere ascoltate da qualcuno che comprende, rende possibile alle persone di ascoltare con più attenzione se stesse, con una maggiore empatia verso il loro esperire viscerale, verso i loro significati vagamente percepiti». 3) «La maggior comprensione e valutazione di sé ad opera degli individui apre loro aspetti nuovi dell’esperienza che diventano parti di un concetto di sé più accuratamente fondato» (p. 137). In sintesi, forse non risulterà arrischiato sostenere che l’empatia sovverte il fatto che «non sentiamo la nostra conoscenza. Niente potrebbe illustrare meglio la crepa nel cuore della nostra civiltà… La conoscenza priva di sentimento non è conoscenza» (cit. da Reston, Rogers, 1980, p. 221): mentre l’empatia consente proprio di recuperare al “noi” della relazione una 5 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001 conoscenza profonda, che sola può indicare nuovi orizzonti di significato personale, e così tradursi in un’esistenza soggettivamente più piena ed autentica. La comprensione empatica «ha a che fare con l’economia interna, soprattutto emotiva, dell’individuo [:] lungi dall’interpretare i dati forniti dal soggetto, [il terapeuta] si sforza di apprenderli tali e quali (at face value), cioè come il soggetto stesso li apprende o li presenta» (p. 113). Ciò significa, però, che «essa esige l’adozione dello schema di riferimento di un’altra persona» (p. 114). Vale a dire che «l’incontro e il progresso del caso nel suo insieme non sembrano essere influenzati negativamente dall’eventuale mancanza di comunicazione intellettuale tra il terapeuta e il cliente. Quello che importa è che la comunicazione empatica, immediata, venga mantenuta» (Rogers e Kinget, 1965-66, p. 117). Tale approccio fenomenologico «privilegia l’ascolto, la possibilità di rivivere e riattualizzare in sé, tramite l’immedesimazione empatica, le esperienze altrui, con particolare attenzione agli aspetti formali dell’esperienza più che a quelli tematici e di contenuto» (Rossi Monti, 1998). Pertanto, risulterà evidente che «l’empatia è sostanzialmente diversa dall’interpretazione, in quanto vi è la volontà di venire influenzati dal cliente ed il tentativo deliberato di entrare nel suo quadro di riferimento, non da una posizione di superiore conoscenza, bensì da una posizione di aperto impegno […]. Comprensione ed empatia devono procedere di pari passo» (Clarkson, 1995). Vale a dire che, dato che cognizione e affetto sono inseparabili, allora l'empatia è simultaneamente un processo cognitivo e affettivo: ecco allora che, «perché il cliente sia disponibile ad avventurarsi in cambiamenti emozionali che sono anche esistenziali occorre che percepisca la presenza dell'analista come persona che lo riconosce come persona; occorre che senta di essere capito nel suo bisogno di illudersi, nella sua paura di arrendersi e nella sua capacità di tollerare il cambiamento» (Ravaglia, 2000). A questo punto, mi pare necessario ribadire, per confermare, che non si può trascurare quanto il percepire e il sentire le emozioni e i sentimenti dell’Altro-cliente da parte del terapeuta-facilitatore si pongano al centro degli “atteggiamenti” (più che delle “tecniche”) dei quali si è precedentemente scritto, generando una processualità tipica nel suo svolgersi, con esiti generalmente talmente vantaggiosi (ed eticamente fondati e fondanti) per la diade, da far apparire imprescindibile il farvi volontario ricorso. Cercando di sintetizzarli con parole diverse, sono almeno quattro gli snodi concettuali che mi sembra niente affatto superfluo rimarcare, stante la loro basicità, nonché le notevoli ricadute ottenibili con la loro adozione operativa nella prassi psicoterapeutica: 1) la vita è un processo evolutivo continuo, da intendersi come movimento verso una sempre maggiore complessità, e come risultato sia della tensione dinamica tra stasi e cambiamento, sia di un continuo processo di auto-superamento attraverso sempre nuove scelte; 2) il significato non è dato, in attesa di essere scoperto, ma deve essere attivamente creato; 3) l’alienazione (o il disagio esistenziale) può essere concepita come un arresto del processo evolutivo vitale, tale per cui il soggetto non riesce più 6 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001 a vedersi come “soggetto”, ma si sente in un certo qual modo come un “oggetto”, ovvero come “una cosa tra altre cose”, percependosi così in balìa di forze esterne; 4) il terapeuta si pone in un atteggiamento di uguaglianza e collaborazione, sempre rifiutando il ruolo dell'esperto che sa qualcosa di più del cliente, ed in particolare rigettando il ruolo di rappresentante di una realtà alla quale quest’ultimo dovrebbe adattarsi. Riflessioni e considerazioni conclusive Negli scambi comunicativi, le emozioni diventano nuovi elementi di informazione per l’ascoltatore attento e motivato, mentre per quello superficiale o distratto sono solo un contesto genericamente positivo o negativo in cui si colloca il messaggio. All’atto pratico, per il terapeuta disposto a riconoscere e a privilegiare la centralità del vissuto emotivo, sia l'ambito osservativo comportamentale, che quello fisiologico, che quello introspettivo risultano pertinenti per chiarire una situazione emotiva, che solo dipanandosi liberamente nell’esperienza del qui-e-ora della diade cliente-facilitatore, può dar inizio a quel processo di ri-appropriazione di sé (o, meglio, del Sé), che rappresenta l’antitesi (e la risoluzione) dell’alienazione, ovvero il “motore” di quella tendenza attualizzante che si vuole ri-innescare, a garanzia di una maggiore congruenza sperimentabile nel “vivere pienamente la propria vita”. Dal punto di vista della teoria della tecnica, si può quindi legittimamente affermare che «all’interno della relazione, è l’attivazione del sistema delle emozioni la “via regia” per la conoscenza dell’Altro» (Roccato, 1990). Anche il clinico di diverso orientamento, se animato da onestà intellettuale, come minimo potrà riconoscere che l’espressione emotiva costituisce un momento importante del processo terapeutico, che permette al terapeuta di raccogliere numerose informazioni sul paziente rispetto a: 1) quali risposte ha ricevuto da altri significativi, quando ha manifestato le stesse emozioni in passato (aspetto storico-interpersonale); 2) come percepisce l’esperienza emotiva e se è in grado di riconoscerla, tollerarla e viverla (aspetto fenomenologico); 3) la forza di esplorare approfonditamente i suoi stati emotivi, soprattutto quando li si esprime in modo intenso (aspetto motivazionale) (Giusti, Montanari e Montanarella, 1997). Ancor più, sul versante del terapeuta orientato esperienzialmente, credo che l'empatia sia proporzionale alla nostra tolleranza per i nostri vissuti e che la mancanza di empatia sia intenzionale e difensiva, ovvero sia un'azione e non un'incapacità; rifiutiamo di recepire correttamente (nei limiti dati) le emozioni altrui quando temiamo che esse risveglino certi nostri vissuti o che ci coinvolgano in modalità che temiamo. A riprova di ciò si può osservare che la capacità empatica dei clienti cresce in analisi nella misura in cui essi elaborano i loro vissuti” (Ravaglia, 2000). Ciò che aiuta in modo sostanziale il cliente è il fatto di incontrare comprensione autentica da parte di un'altra persona, che nella “vicinanza empatica” mette in gioco quell'insieme di atteggiamenti, comportamenti e anche emozioni con i quali lo accompagna nel suo viaggio fra i vissuti, e così 7 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001 facendo facilita il suo processo di crescita e sviluppo personale: solo allora, ed inevitabilmente, «il nucleo profondo della soggettività si esprime là dove la comprensione si fa compromissione affettiva entro cui le cose assumono senso» (Galimberti, 1992). Un’ultima considerazione mi sembra infine opportuna. Se è pur vero che «il “punto di vista soggettivo” si spoglia della connotazione di “limite negativo” (il non misurabile, il non quantificabile, il non operativo) per restituirci uno degli aspetti essenziali dell’homo persona, cioè il suo carattere dialettico e protensivo» (D’Aronco, Riolo e Aguglia, 1999), non si può onestamente tacere sul pericolo derivante dal fatto che «il noi dell’incontro, male inteso o mal praticato, può rischiare di sconfinare in un fumoso ed equivoco sentimentalismo, in un irrazionale patetismo, in facili “sconfinamenti”, spiritualistici o evasivamente sensualistici» (Callieri, 1999). Il terapeuta che riconosce e amplifica in modo incautamente acritico le potenzialità pur notevoli degli “atteggiamenti” fin qui descritti, ma che al contempo dis-conosca i limiti (nel senso del campo di validità della prassi) presenti in qualunque orientamento terapeutico, rischia fortemente di produrre il frustrante senso di qualcosa di inappagato per entrambi gli attori dell’incontro, nonché di esautorare quella “pulsione epistemofilica” che dovrebbe idealmente informare di sé (almeno) qualunque professione che voglia dirsi “di aiuto” all’essere umano alienato e perciò sofferente. In sintesi, mi pare che ciò possa verificarsi, anche negli orientamenti potenzialmente più fecondi, con tanta maggiore facilità, quanto più un “atteggiamento” non coltivato e non alimentato (anche dal dubbio) si declina in una “tecnica” (pericolosamente vicina alla dottrina), con il non augurabile rischio di scivolare da un “incontro promesso” e intrinsecamente possibile, ad un “incontro negato” e deludentemente ri-trovato. Bibliografia BONINO S., LO COCO A., TANI F. (1998), Empatia. I processi di condivisione delle emozioni, Firenze, Giunti. CALLIERI B. (1999), Appunti per una psicopatologia della reciprocità, «Attualità in Psicologia», 1999, 14 (2), pp. 149-154. CERUTI M., LO VERSO G. (a cura di) (1998), Epistemologia e psicoterapia. Complessità e frontiere contemporanee, Milano, Raffaello Cortina Editore. CLARKSON P. (1995), La relazione psicoterapeutica integrata, Roma, Sovera, 1997, in: GIUSTI E., IANNAZZO A. (1998), Fenomenologia e integrazione pluralistica. 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