LE NUOVE COMPETENZE DELLE REGIONI NELLA FORMAZIONE DEGLI ADULTI di Gian Carlo Sacchi La legislazione scolastica nel nostro Paese ha sempre proceduto per segmenti e la parte relativa all’istruzione degli adulti non ha mai avuto un quadro organico di norme. Numerosi tentativi si sono susseguiti nei cambiamenti impressi al nostro sistema ed hanno prodotto iniziative anche di notevole rilevanza istituzionale, ma riguardando più il risultato dei percorsi, in particolare l’acquisizione dei titoli di studio, piuttosto che l’attenzione al tipo di destinatario, cioè l’adulto. I precedenti più antichi affondano le radici nella così detta “istruzione popolare”, nei corsi serali dell’istruzione tecnica e professionale, nelle famose “150 ore” di attività lavorativa riconosciuta per la formazione nei contratti collettivi nazionali. La storia più recente ha riproposto il tema prevalentemente dal punto di vista dei soggetti erogatori, cercando di rinnovare l’educazione degli adulti (EDA) attraverso la riforma della pubblica amministrazione. Il DL n. 112/1998 attribuisce competenze in materia agli enti locali e il DPR n. 275/1999 amplia su questo fronte le possibilità di intervento delle autonomie scolastiche. Un inizio di decentramento che però non ha visto nessuna elaborazione politica specifica e si dovrà attendere il 2000 per registrare una significativa svolta nel “masterplan”, redatto a seguito di un’intesa tra Stato, Regioni e parti sociali. Tale atto, dietro un influsso sempre più forte dell’UE, ha dato impulso alla formazione sul lavoro, con la creazione dei “fondi interprofessionali” e la istituzione ad opera dell’allora ministro della P.I. Berlinguer dei Centri Territoriali per l’istruzione degli adulti (CTP). Anche senza una legge ad hoc il sistema EDA si andava configurando sul fronte della formazione professionale con l’intervento diretto delle Regioni, le quali potevano utilizzare anche i CTP per il sostegno al successo formativo ed ai diritti di cittadinanza, attraverso la formazione permanente. Questi ultimi, tuttavia, continuavano a praticare, per conto dello stato, corsi per l’acquisizione dei titoli di studio nei gradi scolastici richiesti. L’emanazione in quello stesso anno del memorandum europeo per la formazione permanente consentiva di dare corpo all’idea di apprendimento per tutta la vita da attuarsi non solo con i percorsi scolastici tradizionali per i giovani o i recuperi dei titoli in età adulta, ma attraverso l’integrazione dell’azione di diversi soggetti tutti impegnati a raggiungere gli standard stabiliti dalle famose indicazioni di Lisbona e costruire così le “competenze di cittadinanza attiva”, che saranno successivamente consacrate in un provvedimento comunitario. In questa direzione la proposta più avanzata era stata tracciata sempre da Berlinguer con la direttiva n. 22/2001, con l’intento di ridare impulso ai CTP, ma che regioni ed autonomie locali non avevano adeguatamente sostenuto nei loro territori. Non avendo imboccato la via legislativa, ma quella di costruire un sistema dal basso, è finita che i poteri sono tornati a separarsi: professionalità e lavoro da una parte, titoli di studio dall’altra, sostegno formativo alla cittadinanza e crescita culturale della popolazione adulta, compreso il così detto analfabetismo di ritorno: così è se vi pare ! Il ministro Moratti infatti non ha rinnovato la direttiva del suo predecessore e tutto è in via di estinzione, con buona pace della sottoscrizione degli impegni europei, con le percentuali di competenze nell’età adulta che in Italia sono lontane anni luce dall’essere raggiunte. I CTP sono rimasti una frontiera, che viene finanziata dallo Stato, solo per il rilascio dei suddetti titoli; se i territori vogliono fare dell’altro provvedano a loro spese, ma l’EDA in pratica non prende forma. Il ministro Fioroni in una legge finanziaria (2006) riesce ad inserire la riorganizzazione e il potenziamento dei CTP, ma il decreto applicativo non vede la luce ed anche il ddl istruzione – lavoro presentato in quegli anni è rimasto lettera morta. Il ministro Gelmini fa qualche cenno all’EDA, ma dati concreti non ce ne sono, di sicuro si rimane strettamente legati ai così detti percorsi formali, con verifiche ancora più severe nell’utilizzo dei docenti nei CTP. Di fronte al problema della forte immigrazione poi, sia adulta, che di giovani di età oltre l’obbligo di istruzione, sia per quanto riguarda l’apprendimento della lingua italiana, sia per l’acquisizione della licenza di scuola media, titolo base ormai universalmente richiesto per lo svolgimento di qualsiasi attività formativa e/o lavorativa, sembra proprio un ritorno all’istruzione popolare: altro che diritti, si tratta ancora di uno stato filantropico. Attenzione ai problemi formativi degli adulti, analisi dei bisogni e programmazione territoriale, promozione della dimensione non formale ed informale dell’educazione permanente, rapporto tra competenze generali e professionali, sono questioni che lo stato sembra non voler più affrontare, nemmeno sul piano della certificazione delle stesse e del loro riconoscimento in ambito lavorativo e transnazionale, ma si limita ad emanare disposizioni in termini di esami e passaggi da un canale all’altro. La riforma del Titolo quinto della Costituzione potrebbe essere un’occasione per rimettere in moto il sistema EDA, assieme ad altre cose, ma la sua fase attuativa stenta ancora e intanto alcune regioni hanno iniziato ad esplorare questi spazi con proprie leggi. Di nuovo in mezzo al guado; il passaggio di attribuzioni per effetto della revisione costituzionale vede una legislazione regionale piuttosto debole, ma anche un’elaborazione culturale che non propone nuove sintesi di alto profilo quali richiederebbe lo slancio europeo. Si va da intenzioni di regionalizzare i CTP, a quelle di diversificare i due canali: professionalizzante e dell’educazione permanente, con chiare priorità per il primo, a chi, come l’Emilia Romagna, che cerca di mettere a sistema i tre aspetti: formale/titoli, non formale/professionale, informale/loisir, ma anche qui non si è ancora partiti nonostante la legge sia del 2003. Osservando l’attività EDA in altri Paesi emerge la strutturazione di un sistema pubblico locale di riferimento, che cresce in una cornice normativa regionale. Allo stato, oltre alla tenuta dei titoli e dei profili di carattere nazionale, la definizione ed il monitoraggio degli standard, anche con riferimento ai predetti obiettivi di Lisbona. Ci sono già indicazioni a questo riguardo (Guasti 2005); un’intesa organica stato – regioni, nell’ottica del suddetto titolo quinto, consentirebbe di liberalizzare le azioni in base ai bisogni territoriali, puntando sull’omogeneizzazione dei risultati. Dal punto di vista regionale – territoriale la mission dell’EDA riguarda, come si è detto, l’ampliamento del diritto di cittadinanza ed il contributo alle politiche di sviluppo locale. La complessità del settore dell’apprendimento degli adulti richiede dunque interventi da parte di molteplici attori, sia sul piano formale che non formale e informale. La costituzione di una rete dell’offerta formativa non è soltanto finalizzata ad un’efficiente azione di governo, ma mette in campo una vera e propria pedagogia sociale e territoriale. La conferenza di Amburgo del 1997 affermava infatti che l’EDA è al tempo stesso il risultato e la condizione di una consapevole appartenenza alla comunità. Le politiche dell’EDA possono partire da campagne di sensibilizzazione dei cittadini, come dai tradizionali percorsi formativi o di riconversione professionale; ciò che conta è che i vari soggetti che offrono formazione intervengano per migliorare conoscenza e consapevolezza, che da un lato si ripercuotono sulla qualità della vita dei singoli, e, dall’altro, innescano processi di partecipazione che aumentano la formazione e quindi arrivano a più efficaci decisioni per lo sviluppo sociale (si pensi al settore dell’ambiente, dei servizi alla persona, ma anche all’influenza che questi hanno nell’economia, nella produzione, nel lavoro, ecc.). Su tale base non sarà più possibile un modello rigido di EDA, ma nel territorio occorrerà condividere protocolli operativi orientati ad una corretta attivazione delle leve strategiche di governo ed alla promozione di sinergie tra i soggetti attivi nel campo. C’è una bella differenza nel pensare solamente alla formazione continua, come adattabilità delle risorse umane (magari espulse dal mercato del lavoro) e un’EDA che, anche sul fronte delle competenze professionali, opera per l’integrazione sociale. Arrivando quindi alla funzione di programmazione, occorre partire dalla definizione gli standard, che potrebbero essere i suddetti obiettivi di Lisbona, altri a livello nazionale, di cui si è già parlato, ma altri ancora potrebbero essere elaborati a livelli territoriali, in applicazione delle leggi regionali, o addirittura sul piano locale o di CTP, a loro volta da contemperare nell’ambito di quelli di più largo raggio. L’EDA infatti non può avere programmi da inserire nelle materie scolastiche, ma obiettivi, strategie didattiche capaci di sostenere l’individuo per “mantenersi in forma”, deve fondarsi su un processo che contribuisce, in modo formativo, cioè intenzionale, allo sviluppo delle comunità. Parlare di livelli di programmazione vuol dire agire: - con legge regionale per definire le linee di indirizzo. Una tale legislazione è ancora molto scarsa nel nostro Paese ed allora accade che vi sia un intervento diretto in alcuni settori dell’Eda da parte dello stato, facendo così pensare a quello come modo prevalente se non esclusivo di concepire tutta l’area. Si deve ripartire dalla direttiva Berlinguer per fissare gli ambiti d’azione, nell’ottica del sistema formativo integrato - individuando aree, settori, target, competenze per i quali impegnarsi - definendo modalità di certificazione, tra regioni, stato, UE - istituendo un osservatorio per l’analisi della domanda – offerta, il monitoraggio e la valutazione delle azioni. A livello territoriale, provinciale o di “zona” per: - la lettura dei fabbisogni formativi - la gestione integrata delle risorse - la redazione di patti territoriali A livello dei CTP per: - la definizione degli obiettivi formativi, nell’ottica dell’integrazione dei percorsi, - l’accoglienza degli adulti: bilanci di competenza, orientamento, percorsi personalizzati, patti formativi, - utilizzo delle risorse del territorio a fini educativi, - progettazione e realizzazione dei percorsi, di tirocini, ecc. - tutoraggio e valutazione. Gli strumenti che in questi anni sono stati sperimentati nell’EDA e che oggi consentono una certa trasferibilità a livello regionale e non solo: - contratto formativo, per aiutare gli adulti a rendersi responsabili del proprio percorso, - bilancio di competenze, per contribuire, sulla base di quello che l’adulto sa fare, ad individuare nuovi obiettivi sui quali puntare le competenze già possedute e quelle da acquisire e sostenerlo nel rinnovamento continuo del proprio progetto di vita, - certificazione delle competenze e riconoscimento dei crediti, da usare per le uscite e rientri tra mondo della formazione ai diversi livelli e gli ambienti lavorativi, - il portfolio, quale contenitore che fa memoria del processo. Contribuisce all’autovalutazione, consente di selezionare i documenti e motivare le scelte. Sa esprimere, attraverso una pluralità di linguaggi, la produzione dell’individuo, anche oltre l’intervento formativo, - la formazione a distanza (FAD): l’adulto può efficacemente migliorare le proprie competenze in situazioni di autoapprendimento (non ha infatti bisogno di sostegno alla motivazione). La FAD viene in aiuto di chi dispone di tempi flessibili per la formazione e a chi ha davanti a sé dei territori non facilmente percorribili (rimane da superare la soglia tecnologica nell’uso delle tecnologie). La FAD può coinvolgere più efficacemente gli adulti con un certo grado di scolarizzazione, abituati anche per ragioni di lavoro o di vita sociale a condividere informazioni e contenuti attraverso la rete. L’EDA è una necessità per la qualificazione del sistema; l’apprendimento per tutta la vita è una modalità di crescita continua e rende capaci di intercettare e dominare il cambiamento. Guardando però la domanda ci si accorge che formazione chiama formazione: l’abitudine ad essere formati determina un orientamento a rivolgersi ad essa anche in momenti diversi della vita. Questo vale altresì per coloro che in giovane età sono incappati in un insuccesso scolastico. Ma tante persone restano ancora fuori dal circuito e lo rivelano i dati sull’alfabetizzazione in età adulta. Per costoro bisogna agire sull’offerta, per evitare che questo fenomeno rimanga nascosto, e ciò richiede i necessari investimenti non solo economici, ma anche organizzativi e professionali.