Talento ribelle e fragile, in dieci anni è diventato un grande della

[GRANDI MOSTRE]
DI NICOLETTA PALLINI
BASQUIAT
IL PICASSO NERO
Talento ribelle e fragile, in dieci anni è diventato
U
na vita spinta al massimo quella di Jean
Michel Basquiat, veloce come una meteora, scandita dal desiderio sfrenato
di emergere e assaporare qualsiasi emozione.
Sottolineata dalla rabbia di dipingere su tutte
le superfici disponibili per affermare la furia
di esistere ma anche segnata da un profondo
cana e caraibica e che rende omaggio ai protagonisti della black culture, ha rappresentato
uno dei fenomeni più singolari degli anni Ottanta, diventando, in brevissimo tempo, una
star del mercato internazionale con quotazioni che oggi superano svariati milioni di dollari.
Solo dieci anni è durata infatti la sua avventura artistica, dal 1978 al 1988, graffiata dapprima sui muri, nei corridoi e sui vagoni della metropolitana della zona sud di Manhattan, poi
un grande della pittura prima di morire per droga
senso di solitudine e dal disagio di essere comunque considerato un “diverso”.
Primo artista afro-americano ad assurgere a soli 18 anni ai vertici del sistema dell’arte,
con la sua pittura fatta di scritte e aforismi che
si accompagnano a grandi figure urlanti, a maschere tribali prese a prestito dalla cultura afri-
dipinta, con la stessa veemenza, su assi di legno, su pezzi di metallo e su quei detriti che recuperava in strada per sentirsi vicino a quel
mondo degli emarginati presente in molti suoi
dipinti. La sua straordinaria parabola, conclusa nel 1988 a soli 28 anni per eroina, è ora al
centro di una spettacolare esposizione, la più
completa finora allestita in Europa, aperta alla
Triennale di Milano fino al 28 gennaio.
The Jean Michel Basquiat show, curata da
Gianni Mercurio, analizza infatti e documenta tutta la sua opera, ne esplora passo passo la
vita anche attraverso interessanti video e filmati e fa emergere, oltre al suo autentico talento,
anche quella sua personalità fragile e ribelle,
magnetica e umorale che lo hanno reso un mito tuttora vitale e difficile da scardinare. Le
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cento opere in mostra fra dipinti e lavori su
carta, molti dei quali inediti, si accompagnano
a documenti e fotografie che ritraggono tutti i
protagonisti della New York anni Ottanta, da
Andy Warhol a Keith Haring, da Madonna a
Grace Jones e offrono uno spaccato veritiero
di quel singolare momento.
Nato a Brooklyn nel 1960 da padre haitiano e madre portoricana, fin da piccolo Basquiat rivelò una grande predisposizione per il
disegno. Lo spunto gli veniva dai cartoni animati, dai film televisivi, ma anche dai manuali
di anatomia assimilati avidamente durante un
periodo di convalescenza. Fondamentali per
la sua formazione sono state anche le visite ai
musei, al Metropolitan, al Modern Art e al
Brooklyn, dove la madre lo accompagnava di
frequente per incoraggiare i suoi precocissimi
interessi. Il risultato è questa sua arte onnivora, nutrita da tutti gli stimoli possibili, una sorta di melting pot dove anche la musica occupa
un posto di assoluto rilievo. Suonatore di clarinetto, Jean Michel si esibiva infatti con la sua
band al Mudd Club, il locale di culto dell’East
Village e non è un caso che molti protagonisti
delle sue tele degli anni Ottanta siano proprio
le grandi leggende del jazz. Fra i dipinti più significativi, spicca infatti il trittico Horn
players, del 1983, dove il personaggio ritratto
è Charlie Parker e la scritta “Ornithology” è il
titolo di una sua celebre canzone. Sostanzialmente autodidatta – abbandonò la scuola a 15
anni – ha lasciato una pittura che solo all’apparenza è “selvaggia e primitiva”. È fitta di riferimenti e non solo al mondo della strada e a
quello dei fumetti. Basquiat attinge infatti, a
modo suo, tanto dall’arte americana dei grandi maestri dell’espressionismo astratto quanto
dalle testimonianze di civiltà arcaiche e primitive. Era infatti affascinato sia dalla gestualità
grondante colore di Pollock, di Franz Kline,
di Willhelm de Kooning, ma anche dalle impronte lasciate dai primi uomini nelle grotte
di Altamira e di Lascaux. E nel suo lavoro c’è
spazio anche per Leonardo da Vinci. Due fra i
suoi più celebri dipinti esposti, Mona Lisa, del
1983 e Riding with death, del 1988, sono infatti ispirati dal grande artista italiano.
La mostra prende l’avvio dai primi lavori su
씮
Sopra: una rara foto di Jean
Michel Basquiat.
A sinistra: la sua interpretazione
della Mona Lisa di Leonardo
(1983). Nell’altra pagina:
Self portrait (1986)
The Jean Michel
Basquiat show,
alla Triennale
di Milano fino al 28
gennaio 2007.
Tutti i giorni dalle 10.30
alle 20.30 tranne il lunedì.
Biglietto: 8 euro
tel. 02.72.43.42.08
www.triennale.it
Catalogo Skira
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In senso orario: In this case
(1983); Untitled (1981);
Fallen angel (1981)
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carta della fine degli anni Settanta. A quell’epoca Basquiat aveva 18 anni e decise di vivere on the road per inseguire il mito di una vita
bruciata proprio come nei libri di Kerouac,
uno dei suoi autori preferiti. Come tanti altri
ragazzi della sua età, inizia a invadere con le
bombolette spray i muri e i sotterranei di
Soho e di Manhattan. Ma il suo fu un graffittismo molto sui generis e diverso da quello, per
esempio, del suo grande amico Keith Haring.
Accanto a disegni schizzati come fumetti,
compaiono infatti scritte, frammenti di poesie, aforismi, spesso oscuri e indecifrabili che
il giovanissimo artista firmava Samo, un acronimo derivato dal linguaggio giovanile e che
sta per “the same old shit”. Ma il suo obiettivo non era certo quello di rimanere per sempre uno sconosciuto come ricorda più volte
nelle interviste trasmesse nella mostra. Basquiat voleva infatti diventare, nel più breve
tempo possibile, ricco e famoso e
non solo un “artista nero famoso”.
Cosa che avvenne puntualmente.
Ad aprirgli le porte della notorietà è la sua prima partecipazione a
una collettiva di artisti d’avanguardia
nel 1980 dove critica e mercato cominciano a interessarsi proprio di lui.
E nel giro di otto anni la sua ascesa è
inarrestabile: viene considerato il “Picasso nero”, le gallerie se lo contendono, i grandi musei americani ed europei gli aprono le porte con mostre personali quando non aveva ancora 25
anni e lo stesso Andy Warhol, almeno
per un certo periodo, lo adotta come
figlio spirituale, collaborando con lui
a una serie di lavori a quattro mani
uno dei quali è in mostra.
«Uso le parole come pennellate»,
diceva l’artista per descrivere il proprio lavoro e, in effetti, nella sua pittura, accanto a figure, maschere, scheletri, ritratti di vagabondi, il posto predominante è lasciato proprio
alla scrittura. Nei suoi dipinti esposti alla
Triennale ci sono infatti elenchi e labirinti di
parole, talvolta semicancellate, che affascinano, incuriosiscono, invitano ad afferrarne il
senso. Ricorrente è poi il simbolo del copyright e della corona. Anzi, quest’ultima connota e dà un alone di regalità a molti dei suoi
personaggi ritratti. Soprattutto ai suoi idoli,
Jimy Hendrix, Miles Davis, Charlie Parker,
Billie Holiday e al pugile Sugar Ray Robinson che per l’artista rappresentano il simbolo
della cultura nera sfruttata comunque, in
ogni caso, dalla società dei bianchi.
Non a caso, l’omaggio che alla sua scomparsa gli ha riservato Keith Haring, è il dipinto singolare e commovente intitolato A pile crowns
for Jean Michel Basquiat: un cumulo di corone senza teste e senza nomi.
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