Nota sulla traduzione di Valerio Magrelli La Folle giornata o Il matrimonio di Figaro di Beaumarchais offre un perfetto compendio delle difficoltà presenti in ogni traduzione letteraria. La fitta articolazione polemica della prosa introduttiva, l’irresistibile svolgimento dialogico dell’intreccio, l’inserimento di versi rimati nel secondo e nel quinto atto, costituiscono infatti altrettanti modelli di scrittura saggistica, teatrale e poetica. In un unico testo, ecco così raccolti i tre diversi generi che gli studenti di un’ideale scuola di traduzione sarebbero chiamati a esaminare. Ognuno di questi campi (cui andrebbero aggiunti gli ambiti paratestuali attinenti alle indicazioni sceniche e alle didascalie) solleva evidentemente problemi molto particolari: nell’impossibilità di esaminarli specificamente, mi limiterò a una brevissima campionatura. Per ciò che riguarda la prefazione, basterà segnalare ad esempio, nella scintillante ricchezza dell’autodifesa approntata dall’autore, i numerosi riferimenti al linguaggio giuridico, amministrativo, finanziario. Il loro impiego culmina in una denuncia della censura che, muovendo dall’evocazione di una celebre opera satirica di Lesage, produce un incalzante gioco di accumulo e parodia: “Non si potrebbe mettere in scena Turcaret, senza immediatamente ritrovarsi addosso leggi, sotto-leggi, tratte e gabelle, diritti riuniti, taglie, taglioni, l’imposta sulle bevande, quella sul tutto-di-tutto, e ogni tipo di esattori reali” (“On ne ferait point le Turcaret, sans avoir à l’instant sur les bras fermes, sous-fermes, traites et gabelles, droits-réunis, tailles, taillons, le trop-plein, le tropbu, tous les impositeurs royaux”). Come ha osservato Pierre Larthomas, dalla variegata e opprimente onomastica del sistema fiscale dell’epoca, emerge infine, irridente e liberatoria, l’invenzione di una tassa sul “trop-plein”, come dire sul “tuttodi-tutto”. In una prospettiva completamente diversa, va poi riscontrata l’estrema attenzione rivolta al codice dell’abbigliamento e delle acconciature. Lo si vede da un dettaglio relativo alla descrizione dell’usciere, chiamato a indossare “una lunga parrucca bianca a mille boccoli che imita i capelli appena spuntati” (“Une perruque blanche naissante et longue à mille boucles”). Talvolta bellamente ignorato dalle versioni italiane, l’aggettivo “naissant” viene qui ad assumere una speciale accezione, come dimostrano diverse testimonianze dell’epoca riportate nei dizionari: “Perruque naissante, perruque qui imite les cheveux naissants. […] j’aurai l’bonneur de vous envoyer incessamment ma petite téte cii perruque naissante, VOLT. Lett. Duclos, 10 avril 1761” (Littré, ad vocem). 1 Dettagli. Ma per una dettagliata analisi dei problemi di traduzione sollevati dalla commedia, occorrerebbe un intero studio: dalle questioni di carattere lessicale, alle difficoltà di una sintassi spesso assai tortuosa, dalla terminologia delle mansioni, alla tipologia delle esclamazioni, dalla decisione di rendere il “vous” francese con il “lei” italiano, fino a quella di volgere nella nostra lingua alcuni nomi propri particolarmente significativi (come. “Imbrigliapaperi” per “Brid’oison”). Davanti all’incessante proliferazione delle scelte possibili, viene in mente il titolo di un racconto di Jorge Luis Borges, Il giardino dei sentieri che si biforcano. Forse l’accostamento non è casuale, visto che appunto a Borges si devono sia La ricerca di Averroè, sia Pierre Menard autore del Don Chisciotte, ossia due fra le più toccanti parabole sul tema dell’atto traduttorio. D’altronde, come non pensare a un ininterrotto diramarsi di strade, quando tante espressioni francesi, al pari di veri e propri crocevia linguistici, possono spalancarsi su quattro, cinque, addirittura sei equivalenti italiani? E’ il caso dello stesso personaggio di Imbrigliapaperi, che Beaumarchais designa come “lieutenant du siège”. Ebbene, quella semplice formula si apre a raggiera su esiti diversi quali “presidente del castello”, “giudice della contea”, “vicepresidente del tribunale”, “giudice del tribunale”, “luogotenente della piazza” o “presidente del tribunale”. Queste erano almeno le piste suggerite da alcune delle precedenti versioni. Infatti, per una radicata convinzione, ho sempre terminato il mio lavoro ricorrendo a un serrato confronto con chi mi aveva preceduto sul medesimo terreno testuale. Per evitare di diventare il tipo di “traduttore bassamente geloso” di cui parla la prefazione di Beaumarchais, ritengo cioè necessario, se non indispensabile, sfruttare le indicazioni lasciateci da chi ha già compiuto il tragitto che noi, ultimi arrivati, abbiamo appena concluso. In questo caso, pur limitando le indagini bibliografiche, ho così ripercorso le interpretazioni avanzate dall’anonimo curatore dell’edizione Sonzogno (1883), su su fino a quelle di Onofri (1943), Berra (1947), Civinini (1953), Siciliano (1959), Terron (1962) e Calzolari (1981). Ed è con vivo piacere che ricordo le giornate trascorse presso la Biblioteca del Burcardo, a Roma, proprio alle spalle di quel Teatro Argentina dove, il 20 febbraio 1816, si svolse la prima rappresentazione del Barbiere di Siviglia rossiniano, dall’omonima commedia di Beaumarchais, su libretto di Cesare Sterbini. Nelle sue sale, giunto all’ultima stretta, mi sono dovuto rassegnare a sciogliere i nodi residui, troncando il pullulare di tante potenziali alternative. A questo punto, credo sia opportuna una minima chiosa sui giochi di parole, come quello che compare nella decima scena del quarto atto: ‘BAZILE. [...1 il n’est pas un chanteur que mon talent n’a fait briller. FIGARO. Brailler. 2 Di fronte al bisticcio fra “briller” (“brillare”) e “brailler” (“ragliare”), Onofri propone: BASILIO. [...] non c’è cantante che, grazie al mio ingegno, non abbia abbagliato... FIGARO. Abbaiato. A questa ottima intuizione, ho cercato di ribattere così: BASILIO. j...] non c’è cantante che il mio talento non abbia passato al vaglio. FIGARO. Al raglio. Difficile trovare un esempio più evidente del paradossale legame fra costrizione e libertà, ubbidienza e inventiva, in cui consiste il transito linguistico, a riprova del fatto che non può esistere un’unica soluzione, ma solo un indefinito, asintotico processo di riproduzione e approssimazione. Per dirla con la mirabile formula di José Ortega y Gasset, la traduzione non corrisponde a un’opera, bensì a un cammino verso l’opera. Quanto infine agli inserti poetici, troviamo da un lato la romanza del secondo atto (versi alternati di sei e otto sillabe), dall’altro il vaudeville del quinto (dieci strofe in versi di sette sillabe). Si è quindi trattato di affrontare composizioni rigidamente formalizzate, nel primo caso optando per settenari alternati a decasillabi, nel secondo impiegando ottonari. Il tutto sigillato dalla rima, che ovviamente l’italiano ha spesso dovuto reinventare di sana pianta. La Folle giornata o Il matrimonio di Figaro si chiude infatti al suono di un delicato carillon metrico, e mentre l’ineffabile Imbrigliapaperi, afflitto dalla balbuzie, rischia di scardinare sillabicamente un’armonia conquistata con tanta fatica sul piano del ritmo come della socialità, i personaggi scompaiano in dissolvenza salutando lo spettatore. La presente traduzione è stata redatta sulla base dell’edizione curata da Pierre Larthomas per la Collection Folio Classique Gallimard: Beaumarchais, Le Mariage de Figaro. La rnère coupable, Paris, 1984 (il testo è disponibile anche in rete, nel sito http://membres.lycos.fr/jccau /ressourc/thea18/beaumarc/figatxt.htm ). Essa riprende, con alcune modifiche, quella pubblicata dalle Edizioni della Fondazione del Teatro Stabile di Torino nei programmi di sala degli spettacoli prodotti dal TST, dalla Fondazione Teatro Due di Parma e dal Teatro di Roma, andati in scena nel 2007 per la regia di Claudio Longhi, su un progetto di Walter Le Moli. 3