Dispense corso di Filosofia Contemporanea a.a. 2014-2015 enrico r. a. calogero giannetto Delineare un quadro della “filosofia contemporanea”, sia che si faccia riferimento in senso stretto all’attualità, sia che si indichi, più tradizionalmente, il periodo che va da fine Ottocento a oggi, è praticamente impossibile. Il ricorso a manuali, più o meno completi,1 non è sufficiente: si tratta di ricotruzioni artificiali che selezionano, da prospettive parziali, di correnti maggioritarie o di moda, se non del tutto ideologiche o addirittura determinate da teologie o filosofie della storia, autori, temi o tendenze più o meno presunte. La molteplicità e la complessità delle varie prospettive filosofiche è del tutto irriducibile. Ma c’è di più: la storiografia filosofica, al contrario della storiografia scientifica, è rimasta essenzialmente, a tutt’oggi, una “storiografia interna”, chiusa sugli sviluppi puramente interni alle discipline filosofiche, astratta dalla più vasta storia umana, dalla storia delle culture, dalla storia delle altre discipline, delle scienze naturali e umane, pure ad essa connesse. Questo atteggiamento storiografico è la conseguenza di un atteggiamento filosofico teoretico che considera la storia del tutto inessenziale alla presunta eternità dei problemi filosofici che si potrebbero trattare ogni volta secondo una prospettiva puramente teoretica, in un circolo auto-fondativo. Nel tentativo di ritagliare alla filosofia teoretica un ambito chiuso, un universo del discorso puramente filosofico, astorico, trascendentale nel senso di al di là dell’esperienza e in particolare dell’esperienza storica. Si tratta di quella prospettiva, ben nota al dibattito epistemologico sulla scienza moderna, per cui si possa prescindere del tutto dal cosiddetto contesto della scoperta sperimentale o della genesi dei concetti scientifici per limitarsi al contesto assiomatico della legittimazione puramente teoretica. La storiografia scientifica ha dovuto riconoscere che la scienza è la sua stessa storia, il suo farsi storico, la storia delle sue pratiche; che comprendere la scienza si può solo, con Giambattista Vico (16681744), comprendendone la genesi e il farsi. La storiografia filosofica hegeliana, prima ad avere inteso la filosofia come la sua storia, l’ha concepita deterministicamente, determinata ferreamente da una super-logica dialettica e riducendo altresì la stessa storia a mera storia della filosofia, con 1 Si vedano, per esempio: G. FORNERO & S. TASSINARI (a cura di), Le filosofie del Novecento, I-II, Bruno Mondadori, Milano 2002, pp. 1-1588; G. CAMBIANO & M. MORI, Storia della filosofia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2014, pp. 1-530. una trasformazione di una più antica teologia della storia in una filosofia deterministica della storia. D’altra parte, il capovolgimento marxista della dialettica hegeliana ha ridotto la storia della filosofia a storia economico-materiale dell’umanità inquadrandola in una altrettanto deterministica filosofia o scienza economica della storia. Così, si può comprendere effettivamente la connotazione “contemporanea” della filosofia solo attraverso una comprensione radicalmente storica della filosofia. Gli sviluppi contemporanei potranno essere compresi solo attraverso una prospettiva storica che li leghi in qualche modo a quelli moderni e a partire dalla filosofia medioevale e antica. Comprendere l’esistenza e la consistenza di tutte le prospettive contemporanee è possibile solo attraverso l’indagine delle loro genesi storiche nel complesso dell’intera storia umana, cosa praticamente quasi impossibile. Tuttavia, una chiave di lettura molto generale permette di delineare alcune tendenze: si tratta di comprendere la storia della filosofia occidentale sopratutto in termini dell’incontro-scontro fra intellettualismo greco e volontarismo cristiano, fra filosofia teoretica greca e pratica etica e di fede cristiana. Si tratta di due prospettive, in realtà, opposte: la filosofia teoretica greca è legata all’ideale di una vita contemplativa, intellettualmente distaccata e volta alla realizzazione di una felicità individuale; la pratica etica e di fede cristiana è invece correlata all’ideale di una vita activa, volta all’amore e alla felicità altrui. Nella filosofia greca, i problemi etici sono trattati all’interno della filosofia pratica, che è sempre (a parte qualche eccezione) gerarchicamente subordinata e secondaria rispetto alla filosofia teoretica. Ancora oggi è prevalente questo atteggiamento per cui nei manuali di storia della filosofia spazio maggiore è dedicato alla filosofia teoretica. Le importanti esperienze storiche del Cristianesimo, nei manuali non sono quasi mai trattate direttamente, ma solo indirettamente nei loro riflessi all’interno degli autori cristiani della tarda antichità e del medioevo. Per trovare discusse, in maniera rilevante, le relazioni storiche fra filosofia e fede cristiana, è necessario rivolgere la propria attenzione a testi che sembrano occuparsi di particolari branche della filosofia, ovvero di filosofia della storia, o a testi storici che riguardano il problema della modernità e della secolarizzazione2. Non solo: a questo riguardo, è fondamentale, indipendentemente dalle soluzioni proposte, un testo che unico affronta il problema in tutta la vastità della sua portata, un testo dello storico delle idee Hans Blumenberg (1920-1996), La legittimità dell’età moderna.3 Blumenberg vuole contestare la prospettiva di Karl Lӧwith (1897-1973) e molti altri, secondo la quale il pensiero moderno e la modernità possano comprendersi solo in termini di un processo di “secolarizzazione” del pensiero e delle forme di vita cristiani, un processo di trasformazione cioè che mantiene la modernità dipendente comunque dal Cristianesimo, pur se esplicitamente se ne vorrebbe staccare. La tesi sostenuta da Blumenberg ribalta quella proposta da Eric Voegelin (1901-1985) sull’età moderna come “nuova gnosi”: si tratterebbe invece di considerare l’età moderna come secondo superamento della gnosi, laddove il primo superamento della gnosi all’inizio del medioevo non sarebbe riuscito4. Blumenberg generalizza la tesi di Adolf Harnack (1851-1930)5 per cui il cattolicesimo si è costituito dogmaticamente contro la gnosi di Marcione (85-160), alla tesi che anche la teologia medioevale è una risposta a Marcione, a partire dalla polemica di Agostino (354-430) contro i manichei fino alla Scolastica, per superare la concezione negativa del mondo dominato dal male, che deve essere distrutto escatologicamente per la salvezza, nel recuperare positività al mondo come creazione che 2 Si vedano, per esempio: K. LӦWITH, Meaning in History, The University of Chicago Press, Chicago 1949; Weltgeschichte und Heilsgeschehen, Kohlhammer, Stuttgart 1953; tr. it. dal ted. di F. Tedeschi Negri, pref. di Pietro Rossi, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, Edizioni di Comunità, Milano 1963 e poi il Saggiatore, Milano 1989, 1991; K. LӦWITH, Skepsis und Glaube (1951), Wissen und Glaube (1954), Schӧpfung und Existenz (1955), Kierkegaards in den Glauben (1956), Sinn der Geschichte (1956), Das Vorhӓngnis des Fortschritts (1963), tr. it. in, Storia e fede, Laterza, Roma-Bari 1985; C. TAYLOR, A Secular Age, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2007; tr. it. a cura di P. Costa, L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009. 3 H. BLUMENBERG, Die Legitimität der Neuzeit, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1966, 1974 2, tr. it. di C. Marelli, La legittimità dell’età moderna, Marietti, Genova 1992. 4 H. BLUMENBERG, La legittimità dell’età moderna, op. cit., p. 132; E. VOEGELIN, in Philosophische Rundschau I (1953/54), p. 43. 5 A. VON HARNACK, Lehrbuch der Dogmengeschichte, J. C. B. Mohr, Tübingen 1886-1890, 1909, 1914, 1991; tr. it., Manuale di storia del dogma, Casa editrice Cultura Moderna, Mendrisio 1912 e poi rist. anast. presso Paideia, Brescia 2012, vol. I; A. VON HARNACK, Marcion: das Evangelium vom fremden Gott. Eine Monographie zur Geschichte der Grundlegung der katholischen Kirche, Hinrichs, Leipzig 1921, 1924, Wiss. Buchges. Darmstadt 1985; tr. it a cura di F. Dal Bo rivista da G. Dal Dosso, Marcione. Il Vangelo del Dio straniero. Una monografia sulla storia dei fondamenti della Chiesa cattolica, Marietti 1820, Genova 2007. poteva assicurare l’esistenza umana, sovrapponendogli l’idea di cosmo greco. Con la dissoluzione del mondo aristotelico da parte della rivoluzione francescana-nominalista (e si potrebbe aggiungere con la successiva nuova negativizzazione luterana del mondo, in qualche modo radicale quanto quella “gnostica”), sorgerebbe, secondo Blumenberg, la nuova “soluzione” moderna che non è più teologica (si arriva alla negazione di Dio), ma porta all’autoaffermazione dell’essere umano che si impegna nelle opere mondane. La questione, invero, è ancora più complessa di quanto delineata da Blumenberg: la gnosi cristiana del II secolo aveva già assorbito degli elementi greci nel trasformare la dualità cristiana fra mondo presente dominato dal male e mondo futuro come Regno di Dio nella dualità platonico-aristotelica fra mondo terrestre e mondo celeste, e questa gnosi marcionita si era pure innestata, attraverso il Vangelo di Giovanni,6 nella cattolicità. D’altra parte, si deve tener conto che la diffusione del Cristianesimo in occidente si risolse più in un’ellenizzazione del Cristianesimo che non in una effettiva cristianizzazione dell’occidente, e il venir meno della fede attiva nella prossima Parousia del Cristo e nel prossimo instaurarsi del nuovo mondo del Regno di Dio7 spostò l’enfasi dalla trasformazione etica attiva del mondo alla conoscenza contemplativa e intellettuale. Già in un testo del Nuovo Testamento accettato dalla Chiesa, la Parola (in lingua aramaica, Meltha o Memra) del Prologo del Vangelo di Giovanni, nella sua traduzione in greco era stata letteralmente ellenizzata in un Logos che ne trasformava il senso. Il senso di parola vivente del dialogo, che costituisce Dio stesso in una perfezione che non può essere mai egoistica e solitaria autocontemplazione divina ma che è eterna e originaria apertura all’alterità, e di parola vivente della continua relazione di dialogo fra Dio e il mondo e l’umanità che si compiva in Gesù, viene trasformato in un significato intellettualizzato quale Logos-Intelletto come parte di Dio che 6 R. EISLER, Das Rätsel des vierten Evangeliums, in Eranos Jahrbuch 1935, a cura di O. Fröbe-Kapteyn, Rhein, Zürich 1936, pp. 323-511; R. EISLER, The Enigma of the Fourth Gospel, its author and its writer, Methuen, London 1938. 7 A. SCHWEITZER, Von Reimarus zu Wrede: Eine Geschichte der Leben-Jesu-Forschung , J. C. B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen, 1906, 1913, 1950; tr. it. a cura di F. COPPELLOTTI, Storia della ricerca sulla vita di Gesù, Paideia, Brescia 1986; A. SCHWEITZER, Die Mystik des Apostels Paulus, Mohr (Paul Siebeck), Tübingen 1930; tr. it. di A. Rizzi, La mistica dell’apostolo Paolo, Ariele, Milano 2011; M. WERNER, Die Entstehung des christlichen Dogmas Problemgeschichtlich Dargestellt, Paul Haupt, Bern & Katzmann, Tübingen 1941, 1954; edizione ridotta di quest’opera è stata pubblicata con lo stesso titolo presso Kohlhammer, Stuttgart 1959; tr. it., dall’edizione ridotta, di F. E. SCIUTO e A. PUSKÀS VON DITRÒ, Le origini del dogma cristiano, voll. I-II, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997. presiedeva ad una creazione razionale del mondo e che quindi richiamava subito il logos della filosofia greca e in particolare della cosmologia stoica, e permetteva l’accettazione cristiana di un cosmo greco razionalmente costituito e conoscibile. Da un punto di vista di psicoanalisi della storia, si potrebbe guardare all’irrompere del Cristianesimo in occidente, e non solo della gnosi, come un evento che provocava il riemergere alla coscienza collettiva il problema del male radicale del mondo e il correlato problema del posto dell’essere umano nel mondo8 e che faceva saltare le precedenti rimozioni veicolate dalle razionalizzazioni della filosofia teoretica greca che aveva già costituito un “superamento” del pensiero mitologico e tragico greco. Il Cristianesimo originario opponeva al problema del male una pratica etica attiva trasformatrice del mondo, e la gnosi, in positivo e in negativo, contribuì ad una nuova razionalizzazione filosofico-teoretica basata su una metafisica teologica a cui si tentò di ridurre la fede cristiana. Si trattò di una duplice esigenza, una interna al Cristianesimo che si allontanava dalla sua fede originaria e una interna al pensiero filosofico occidentale. Dall’altra parte, infatti, la conclusione della filosofia teoretica greca, da Carneade a Sesto Empirico, aveva portato ad esiti scettici ed esigeva un nuovo fondamento, che poté trovare nella metafisica teologica in cui si trasformò la fede cristiana nel pensiero tardo antico e nel medioevo. La dissoluzione di questa nuova razionalizzazione filosofico-teoretica in cui il Cristianesimo cattolico si era unito alla filosofia greca fu determinata dalla rivoluzione operata da Francesco d’Assisi (1182-1226), che riproponeva un ritorno alle origini del Cristianesimo come pratica etica di vita, con l’abolizione di tutte le gerarchie nella creazione, di cui il “cantico delle creature” è traccia sublime. La prospettiva francescana in filosofia e in teologia ebbe il suo culmine nel pensiero di John Duns Scotus (1265-1308) e William of Ockham (1287-1347): la valorizzazione della materia, come parte 8 N. O. BROWN, Life against Death. The Psychoanalytic Meaning of History, Wesleyan University, Middleton CT 1959; tr. it. di S. BESANA GIACOMONI, La vita contro la morte. Il significato psicoanalitico della storia, Adelphi, Milano 1964, 1978. della creazione, si opponeva alla considerazione platonica di essa come principio autonomo da cui derivava ogni imperfezione e male, e implicava anche la distruzione della gerarchia non solo fra materia e forma, ma anche fra mondo terrestre e mondo celeste. Richiamandosi all’originaria caratterizzazione cristiana di Dio in termini di Amore come libera volontà, la prospettiva francescana si oppose alla concezione della divinità greca, come quella aristotelica, chiusa nella sua perfezione intellettuale di una autocontemplazione del pensiero e distrusse la connessione medioevale del Cristianesimo con la teologia, la filosofia, la cosmologia e la fisica greche. La libera volontà di Dio come Amore risultava inconoscibile, impredicibile, e non poteva più garantire non solo la Grazia della salvezza ma neanche la razionale comprensibilità della Creazione o dell’Incarnazione in termini di finalità umane: le argomentazioni de potentia Dei absoluta, che cioè non si limitavano alla considerazione di ciò che Dio di fatto aveva compiuto (potentia Dei ordinata), portavano alla conclusione che Dio, nella Sua libera volontà, avrebbe potuto non creare, avrebbe potuto creare diversamente, avrebbe potuto non creare l’essere umano o non incarnarsi in un essere umano. Questa conclusione riapriva l’abisso aperto dalla gnosi sul mondo, destituendo di significato umano la creazione, svincolabile, come l’incarnazione, dalla questione della salvezza umana dal male: distruggeva le basi teologiche di qualsiasi antropocentrismo, e invero la possibilità di una qualsiasi fondazione teologica dell’antropocentrismo aprendo la via a soluzioni non teologiche nella modernità all’auto-affermazione dell’umanità. Il mondo naturale non poteva essere più considerato oggettivisticamente, secondo la prospettiva intellettualistica greca, ma, derivando dall’azione e dalla volontà della soggettività divina, presentava connotazioni soggettive impredicibili. E ciò distruggeva anche la possibilità di una filosofia teoretica della Natura che non poteva che basarsi su una metafisica teologica. Questa divergenza non ricomponibile fra ragione e fede, e quindi fra filosofia teoretica e fede, trovò il suo culmine nella prospettiva di Martin Luther (1483-1546), su cui pure poco si ferma l’analisi di Blumenberg, più strettamente legata a una storia delle idee. Luther rompe con la tradizione filosofica greca, contestandone anche l’obiettivo, la conoscenza intellettuale del mondo, e contrapponendole la cura attiva etica, sensibile a ogni sofferenza degli esseri viventi, per trasformare il mondo presente dominato dal male: la concezione del mondo completamente corrotto dal peccato e sottomesso a satana aveva la stessa radicalità gnostica e riapriva effettivamente quell’abisso contro cui i francescani solo non potevano fornire più certezze ma che certamente non avevano aperto. La corruzione insuperabile della Natura e in particolare della natura umana e della sua ragione, sottomessa a una volontà schiava del peccato, non permettevano alcuna via d’uscita naturale o razionale all’essere umano, incapace di operare il bene se non attraverso la Grazia. Il tema della volontà altruistica cristiana si legò così solo alla Grazia, mentre alla Natura si legò solo una volontà egoistica che diventò poi la cifra di una nuova metafisica atea. La fede non può coincidere più con l’adesione a certe proposizioni dogmatiche, comprensibili razionalmente in termini di una teologia e di una metafisica basate sull’aristotelismo, come in San Tommaso, la cui “summa teologica” brucerà in un rogo pubblico nel 1520. Le opere (rituali) non salvano, non salva la Chiesa, solo la Grazia salva; ma solo nelle opere, nell’operare individuale nel mondo in un’attività d’amore si manifesta la fede: è esclusa qualsiasi chiusura monacale in una vita meramente contemplativa, che, come la concezione della futura vita paradisiaca come una mera contemplazione di Dio, si era innestata nel Cristianesimo attraverso influenze greche. La consapevolezza cristiana, il pensiero della fede cristiana si acquisisce e si verifica, non contemplativamente o teoreticamente, ma solo nella prassi etica. La transitoria congiunzione medioevale di filosofia greca e fede cristiana si era dissolta al riemergere dei tratti rivoluzionari, anti-teoretici, della prospettiva cristiana. La modernità e il pensiero moderno sorgono così in un’ambivalenza costitutiva: da una parte, l’età moderna è l’epoca in cui si manifesta la cristianità non più ingabbiata nelle reti dell’intellettualismo filosofico e teologico greco; dall’altra parte, la frammentazione delle chiese e delle confessioni cristiane, la critica dell’autorità e della funzione mediatrice della Chiesa cattolica, la non traducibilità della fede cristiana in una filosofia teoretica metafisico-teologica ma in un’attività trasformatrice umana in cui unicamente la Grazia divina si rende immanente alla coscienza individuale, portarono alla possibilità di una pluralità di costruzioni filosofico-teoretiche individuali indipendenti dalla Chiesa e anche atee e di un’auto-rappresentazione filosofica dell’umanità narcisistica e antropocentrica non più legittimata teologicamente, ma sull’auto-affermazione umana nella dimensione pratico-tecnicopolitica di un operare-lavorare intra-mondano che si stacca dalla fede. La filosofia della Natura, avendo perso il suo fondamento teoretico nella metafisica teologica, trovò un nuovo fondamento in una prassi sperimentale in cui la tecnica perdeva la sua connotazione puramente strumentale per assumerne una conoscitiva: nella prassi sperimentale, il pensiero si concretizzava, si faceva azione potendosi così misurare effettivamente con il mondo. La rivoluzione copernicana, che pure era stata possibile assumendo una prospettiva soggettiva naturale ma non umana, e non terrestre ma solare, si potè compiere effettivamente solo quando, con le osservazioni telescopiche di Thomas Harriot (1560-1621), Galileo Galilei (1564-1642) e altri, anche l’astronomia, in cui il cielo sembrava essere oggetto assoluto solo di una contemplazione, paradigma dell’attività puramente contemplativa della filosofia teoretica greca antica come pure di una perfezione etica e di una felicità egoistica, si trasformò in un sapere operativo-pratico, che porta quasi a poter toccare anche il cielo, indipendente da una metafisica teologica, e non più meramente contemplativo-teoretico. Si rese necessaria una nuova fisica, alternativa a quella aristotelica, su cui si potesse costituire la nuova cosmologia copernicana, come anche una nuova conciliazione fra ragione e fede dopo Luther; e Giordano Bruno (1548-1600) propose una nuova versione dell’atomismo epicureo: questa nuova fisica e questa nuova cosmologia non solo erano compatibili con le argomentazioni della infinita potenza assoluta di Dio, ma realizzavano in positivo gli esiti negativi della decostruzione francescana, relativizzando la posizione dell’essere umano nel mondo, ma relativizzando lo stesso mondo in quanto solo uno fra infiniti mondi. La cosmologia neo-epicurea era l’unica cosmologia positiva che disimpegnasse Dio dalla necessità di aver creato un mondo ordinato secondo un senso e una finalità umani, che era solo un sottoprodotto di un’opera molto più vasta, infinita. Questa caratteristica fornì le basi di una nuova risposta razionale alla gnosi, a Luther, nella sua relativizzazione del male; e si potè poi facilmente adattare a una più tarda visione atea del mondo, come esito casuale di un ordine contrastante con infiniti altri mondi disordinati. Più in generale, la modernità e il pensiero moderno si svilupparono in forme molteplici e diverse a seconda dei particolari contesti e dell’effettiva ricezione della Riforma. Tutti i dubbi storici posti dagli sconvolgimenti, che, dal francescanesimo all’umanesimo, al Rinascimento e alla Riforma, dalla rivoluzione astronomica copernicana alla nuova fisica, si manifestarono storicamente non solo sul piano della vita ma anche sul piano della fede e della filosofia, furono sussunti dal cattolico René Descartes (1596-1650) in una dimensione puramente teoretica attingibile da una coscienza individuale astorica di fronte a un dubbio che è presentato come costitutivo metodico del pensiero stesso, nel tentativo di un’auto-fondazione astorica e autonoma della filosofia teoretica. Nel medioevo, la filosofia era dipendente dalla fede ed ancilla della teologia: da almeno Giordano Bruno in poi, la filosofia reclamava una sua autonomia. Con Cartesio, dopo la luterana soggettivizzazione individuale della fede, si ha una soggettivizzazione individuale della metafisica filosofica che non può più fondarsi sull’oggettivizzazione comunitariaecclesiastica della fede: la certezza stessa di Dio si fonda sulla certezza interna dell’io. Se non si può assumere una fede condivisa come fondamento della filosofia, anche perché non è possibile accedere a una teoria che rispecchi la visione che Dio ha del mondo, non è possibile neanche una fondazione oggettiva della conoscenza filosofica teoretica a partire dalla certezza del mondo (Cartesio ribalta la prova cosmologica: è dall’esistenza di Dio che solo si può provare l’esistenza del mondo): si deve ammettere la radicale soggettività umana della conoscenza. Cartesio recepì solo in parte l’esito della storia che si è tratteggiata: la fede non può tramutarsi in un fondamento teologico della filosofia; ovvero, la filosofia, come la fede, è dipendente dalla soggettività individuale che conosce, ma la metafisica è comunque possibile, in quanto l’esistenza di Dio è a sua volta un’evidenza interna al pensiero. Pure il potenziale dirompente del riconoscimento dell’assolutezza della volontà divina viene neutralizzato da Cartesio, in termini dell’argomentazione di un Dio non-ingannevole e di una legittimazione di un sapere umano che proceda per ipotesi nella spiegazione dell’ordine del mondo e in funzione di obiettivi pratici.9 Ma diverse soluzioni erano possibili: Blaise Pascal (1623-1662), giansenista più vicino all’opposizione luterana fra ragione e fede, propose uno scetticismo filosofico, superabile e superato solo da un pensiero basato sulla fede non tradotta in metafisica e che riusciva a percepire ancora per l’essere umano l’abisso irrazionale dell’universo infinito. L’illuminismo francese si muoverà poi fra deismo e ateismo. Gottfried Willhem Leibnitz (1646-1716) fu il primo a proporre una concezione veramente moderna della Natura. La concezione della Natura come un essere vivente e animato del pensiero arcaico e antico era stata pure subordinata dalla filosofia teoretica alla considerazione della Natura come espressione di una necessità logica oggettiva intellettualmente conoscibile; la filosofia francescana aveva fatto saltare questa certezza e aveva caratterizzato la Natura come impredicibile espressione della libera volontà di Dio. Cartesio aveva ripristinato la conoscibilità razionale della Natura e l’antropocentrismo anche all’interno di un universo infinito, equiparando gli esseri viventi a delle macchine e riducendo così tutta la Natura a macchina, a res extensa mero oggetto della rappresentazione umana, espressione della solo umana (oltre che divina) res cogitans. Leibnitz concepì Dio in termini di una volontà amorevole e non arbitraria come per Cartesio: secondo Luther, la libertà non è arbitrio, tantomeno per Dio; l’arbitrio è servo del peccato e può essere considerato solo per l’essere umano. La non arbitrarietà era conciliabile per Leibnitz con una razionalità divina, anche se mai completamente attingibile dall’essere umano. Seppure la potenza di Dio è infinita e si è espressa nella creazione di un mondo infinito, tale infinito non si identifica con l’infinità dei mondi possibili dell’universo dell’atomismo epicureo: la razionalità divina della creazione si identifica nella scelta libera del migliore dei mondi possibili, e cioè in una scelta d’amore; la ragione divina non è altro rispetto all’amore divino nella sua libertà, mai necessitata. La 9 H. BLUMENBERG, La legittimità dell’età moderna, op. cit., pp. 188-224. relativizzazione del male implicata in un mondo infinito e alla base della sua teodicea non coincide mai quindi con una spiegazione casualistica dell’ordine del mondo come nell’epicureismo degli infiniti possibili mondi e in Cartesio (che lo fa derivare naturalmente e casualmente da un caos originario), ma è la conseguenza della ridefinizione della razionalità divina come libera volontà d’amore e non come necessarietà logica in sé conclusa e perfetta: la razionalità divina infinita, seppure rappresentabile simbolicamente con un calcolo integrale ma infinito, non sarà mai direttamente attingibile dalla finita ragione umana. Dalla relatività generale del moto, che ritematizza a partire da Bruno, Galileo e Cartesio per comprendere la rivoluzione copernicana, Leibnitz, non ne deduce una nuova certezza cosmologica del sistema copernicano-kepleriano del mondo, che seppure rispondente al vero è conoscibile solo da Dio e mai attingibile da una ragione finita, umana o angelica: se il mondo è infinito, non c’è mai un punto di vista esterno da cui poter dirimere la questione (Leibnitz non considera un universo infinito fatto da un’infinità di mondi finiti, per cui si potrebbe uscire fuori dal nostro mondo finito, ma considera il nostro mondo infinito). La sua monadologia, a partire dall’influenza di Bruno, va considerata come strettamente radicata nella tematizzazione della relatività generale del moto, come hanno ben compreso Edward Arthur Milne (almeno implicitamente nella sua cosmologia) e Herbert Wildon Carr10. La relatività del moto e la problematica copernicana fanno comprendere come la struttura del mondo non possa mai essere colta dall’insieme delle prospettive umane che sono tutte legate ad una prospettiva terrestre: ne consegue che non si possa mai ridurre il mondo a una mia rappresentazione soggettiva individuale, o a una rappresentazione soggettiva umana, in quanto neppure può essere oggetto di una rappresentazione da una prospettiva umana. Implicito nella relatività è che ogni parte del mondo è soggetto di una prospettiva e di una corrispondente rappresentazione del mondo, e quindi il mondo infinito è costituito da una pluralità infinita di soggetti naturali di una prospettiva e di una 10 H. WILDON CARR, The general principle of relativity in its philosophical and historical aspect, MacMillan and Co. Limited, London 1920; H. WILDON CARR, A Theory of monads: outlines of the philosophy of the principle of relativity, MacMillan and Co. Limited, London 1922; H. WILDON CARR, Leibniz, Dover Publications, New York 1929, 1960; G. W. LEIBNIZ, The Monadology of Leibniz, with. an intr., comm. by H. WILDON CARR, Favil, London 1930; J. MERLEAUPONTY, Cosmologie du XX siècle, Gallimard, Paris 1965; tr. it. di S. CHIAPPORI, Cosmologia del secolo XX, il Saggiatore, Milano 1974, pp. 126-198. rappresentazione, ciascuna diversa dalle altre in virtù della sua attività interna (forza) che ne caratterizza il moto e il mutamento. Si tratta di soggettività come quella umana, caratterizzata da una attività interna che soggiace alle volizioni, alle percezioni e alle intellezioni, da cui i movimenti, le prospettive e le rappresentazioni differiscono solo in grado. Nessuna di queste soggettività monadiche finite può vantare una prospettiva privilegiata e una rappresentazione completa del mondo né è possibile un’auto-rappresentazione a partire dalla propria prospettiva: la Natura quindi non si può auto-rappresentare, auto-spiegare o auto-comprendere perché la sua comprensione implica la chiusura in una totalità finita di un’infinità di prospettive e di rappresentazioni. La comprensione della Natura è attuabile solo dalla prospettiva infinita di Dio che può comporre insieme l’infinità delle prospettive e delle rappresentazioni. Così, la soggettività della conoscenza, emersa dal crollo dell’oggettivismo naturalistico-razionalistico greco, non porta per Leibnitz a un soggettivismo umanistico antropocentrico né a un relativismo soggettivistico umanistico, ma al riconoscimento della soggettività irriducibile della Natura in tutte le sue parti, che aprono una pluralità infinita, intrinsecamente correlata, di prospettive sul mondo che assumono così una valenza strutturale-ontologica e non meramente gnoseologica. La conoscenza deriva solo dalla considerazione e dalla composizione di questa infinità di prospettive, per cui per l’essere umano non potrà mai essere assoluta e completa, ma relativa, comparativa e incompleta e può crescere attraverso il confronto-dialogo fra sempre più soggettività. La critica della ragione teoretica operata da Immanuel Kant (1724-1804), che si muoveva nel clima protestante tedesco, è funzionale a lasciare uno spazio libero alla fede, non ricopribile dalla ragione filosofica, ma risolta all’interno della ragione pratica. La critica della ragione teoretica è la critica della ragione teoretica che vuole andare oltre l’esperienza, e in particolare oltre l’esperienza della fede (secondo Luther, l’essere umano, corrotto dal peccato originale che rende schiava la volontà e l’azione, non può da solo, con la sola ragione arrivare a Dio, senza l’esperienza della fede e quindi senza la Grazia, né attraverso questa si potrà edificare una conoscenza teoretica) tramutandola in metafisica teologica razionale. La priorità della fede sulla ragione si tramuterà così in Kant nella priorità della ragione pratica sulla ragione teoretica nella sua possibilità di accesso alla realtà, e quindi nella priorità della filosofia pratica sulla filosofia teoretica, determinando una rivoluzione interna alla gerarchia delle discipline filosofiche. La soggettivizzazione della conoscenza in Kant abbandona le pretese del pensiero puro cartesiano e post-cartesiano, e lega sempre il pensiero all’esperienza tranne che per le forme apriori e per le categorie per cui ricade in una metafisica del soggetto oggettivizzandolo come trascendentale che elimina le differenze fra i soggetti effettivi per superare un relativismo soggettivo. Solo nell’impostazione del problema della legge morale, Kant si confronta, almeno formalmente, con una pluralità effettiva dei soggetti umani e con una loro inoggettivabilità in termini di una ragione teoretica. La moralità implicante la libertà non potrà mai essere condizionata dalla naturalità perché questa non è mai libera (come in Luther, ma in un senso parzialmente diverso). Con Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), invece, la contraddizione fra fede e ragione, fra religione e filosofia fu risolta nella dialettica storica in una presunta sintesi superiore del pensiero che riassorbiva in sé ogni prassi e il mondo stesso nella filosofia teoretica, dipanata in una storia dello spirito quale secolarizzazione della rivelazione storica cristiana di Dio. Quello di Hegel è un idealismo platonico, perché le idee sono reali e la soggettività dello spirito assoluto è solo l’esito di un processo evolutivo anche naturalistico. Secondo Hegel, la questione del conoscere non può essere posta nei termini di ciò che conosce un soggetto individuale pur nei suoi aspetti universali che permettono la definizione di un “soggetto trascendentale” astratto, atemporale e isolato 11. Per il fatto stesso che il soggetto umano è parte di un processo storico più ampio, universale, il conoscere è un processo storico in cui intervengono storicamente più soggetti, un processo in cui i limiti individuali del conoscere sono transitori e sono stati assolutizzati da Kant astrattamente: il sapere è possibile solo perché è un processo potenzialmente infinito, in una immanentizzazione storica del divino. La logica della storia e della conoscenza non può essere quella della coerenza di un soggetto 11 G. W. F. HEGEL, System der Wissenschaft. Erster Teil: die Phänomenologie des Geistes, J. A Goebbardt, Bamberg und Würzburg 1807; tr. it. con testo tedesco a fronte e cura di V. Cicero, Fenomenologia dello spir ito, Rusconi, Milano 1997. individuale, ma è una logica della contraddizione, del contraddittorio proprio di un dialogo in cui è coinvolta una molteplicità di soggetti, è una “dialettica” della storia e di un divenire para-eracliteo del mondo. Si tratta di una “dialettica trascendentale” della storia, con i suoi trascendentali oggettivi, che si contrappone all’analitica trascendentale kantiana dell’individuo. La verità si costituisce quindi su un piano ontologico, sul piano dell’essere-divenire nel quale i soggetti umani sono immersi e del quale partecipano. La filosofia è la storia della filosofia, a cui si riduce la stessa storia del mondo, e ha anch’essa una dimensione ontologica, non nel senso disciplinare. Come in Eraclito, c’è un logos della physis,12 uno spirito del mondo del quale gli esseri umani eventualmente e sempre parzialmente partecipano. Nella sua immanentizzazione del divino, Hegel ricade però in tutti i problemi di una teologia positiva umanizzata, di una fondazione della filosofia come sapere assoluto e della storia come il suo dispiegamento positivo e come tale auto-legittimantesi sia da un punto di vista di un certo progresso sintetico dialettico sia da un punto di vista etico. L'idealismo di Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) è invece un idealismo soggettivistico in cui tutto è ricondotto a un soggetto pensante come io-trascendentale post-kantiano che pone completamente il suo oggetto e che solo attraverso la fede della volontà-noumeno incontra gli altri soggettinoumeni ma come un'alterità ridotta all'io-trascendentale, correggendo la ragione pratica kantiana in un idealismo etico: l'oggetto del pensiero è fenomeno per un soggetto che è noumeno, e la fede è secolarizzata nell'etica. Karl Marx e la filosofia della prassi rivoluzionaria Ludwig Feuerbach (1804-1872) aveva già cercato di delineare una nuova antropologia materialistica, criticando la filosofia hegeliana come teologia secolarizzata e ricomprendendo tutta una serie di considerazioni teologiche in caratterizzazioni dell’essere umano. Dalla sua prospettiva, almeno da un certo stadio dell’evoluzione storica delle religioni, Dio non è altro che la proiezione di una serie di desideri e di aspirazioni dell’essere umano che non sono soddisfatti in un essere ideale fuori dal tempo e dalla storia: l’essere umano si deve quindi riappropriare di quanto è suo e di E. GIANNETTO, Herakleitos, un fisico delle origini, in Eraclito: la luce dell’oscuro, a cura di G. Fornari, Olschki, Firenze 2012, pp. 127-142. 12 quanto ha estrovertito su Dio; per esempio, il desiderio di un amore eterno, infinito e assoluto è secondo Feuerbach all’origine della concezione cristiana di Dio come Amore. Si devono invertire soggetto e predicato e all’affermazione “Dio è Amore”, bisogna sostituire “l’Amore è Dio”. Così, bisogna capovolgere la dialettica hegeliana, che deduce il finito dall’infinito, e ricomprendere l’infinito dal finito, come sua aspirazione: come nella teologia, secondo Feuerbach, l’identità umana si aliena in Dio, così nella filosofia hegheliana, si aliena nello Spirito Assoluto. Così, bisogna ripartire dal soggetto finito umano, materiale, di cui il pensiero-spirito è solo un predicato: non è la Natura, come in Hegel, una forma alienata dello spirito, ma lo spirito è una forma alienata della Natura. Noi sentiamo col nostro corpo che esiste qualcosa al di là di esso, con i nostri sentimenti di passione, fame, amore, da cui dipende la nostra stessa esistenza da sola insufficiente e manchevole: così, non è l’io il principio della nostra vita e del pensiero; partendo dal nostro corpo, comprendiamo che la nostra identità umana non è individuale ma si dà nell’io e nel tu, nella relazione d’amore con un’alterità che è il tu. L’amore ci fa comprendere l’esistenza del tu e il fatto che la nostra esistenza non si possa definire se non in questa relazione; e così, per il pensiero il principio non è l’io: la vera dialettica non è un monologo del pensiero di un individuo con sé stesso o del pensiero con sé stesso, ma è un dialogo fra l’io e il tu, l’amore io-tu che ci fa uscire da una dimensione puramente di pensiero e ci fa accedere alla realtà. Fu Karl Marx (1818-1883), riprendendo e modificando alcuni temi di Feuerbach, e capovolgendo sotto un altro aspetto la dialettica hegeliana, a ristabilire il primato della prassi sulla teoria e di conseguenza della filosofia pratica sulla filosofia teoretica. Nelle Tesi su Feuerbach del 1845 di Marx, pubblicate da Friedrich Engels (1820-1895) solo nel 1888 come appendice nel suo testo Ludwig Feuerbach und der Ausgang der klassischen deutschen Philosophie. Mit Anhang: Karl Marx über Feuerbach v. J. 1845, alla undicesima è scritto: “I filosofi hanno [finora] solo interpretato diversamente il mondo; ma si tratta di trasformarlo”. Qui, riecheggia l’originario spirito rivoluzionario cristiano, volto all’azione contro il male del mondo presente, anche se Marx considera la religione come “oppio dei popoli”, cioè come “ideologia” che legittima il male nel mondo, cioè l’ingiustizia legata alla diseguaglianza economica: infatti, il cristianesimo storicamente, dopo le origini, si è trasformato in una forza conservatrice, collusa col potere politico che mantiene l’ingiustizia considerandola come un ordine voluto da Dio, e consolatoria trasformando il Regno di Dio da realizzare sulla terra in un al di là ultraterreno in cui sarà Dio a fare giustizia. Nella prima tesi aveva scritto: “Il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi, compreso quello di Feuerbach, è che l'oggetto (Gegenstand, ciò che sta di fronte), il reale, il sensibile è concepito solo sotto la forma dell'obietto (Objekt, ciò che è proiettato fuori dal soggetto) o dell’intuizione; ma non come attività umana sensibile, come prassi, non soggettivamente. È accaduto quindi che il lato attivo è stato sviluppato, in modo astratto e in contrasto col materialismo, dall’idealismo, che naturalmente ignora l'attività reale, sensibile come tale. Feuerbach vuole oggetti sensibili realmente distinti dagli oggetti del pensiero; ma non concepisce l’attività umana stessa come attività oggettiva”. E nella seconda aveva chiarito: “La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teoretica, ma pratica. È nella prassi che l'uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non - realtà di un pensiero isolato dalla prassi è una questione puramente scolastica”. Si ha qui una critica radicale della filosofia teoretica pura e della sua teoria corrispondentistica della verità come corrispondenza del pensiero alla realtà: il pensiero non può mai cogliere la realtà restandole esterno e considerandola astrattamente come una cosa in sé; ma non può neanche coglierla, come nella prospettiva idealistica, facendo la realtà interna al pensiero considerandola come un prodotto dell’attività ideale del pensiero. Ci può essere comprensione della realtà se e solo se il pensiero si immerge nella realtà, divenendole interno nel suo farsi azione materiale, trasformatrice del mondo. Marx non resta idealista, come pure recentemente si dice con grande fraintendimento della sua posizione. Oltre la prospettiva della scienza nuova della storia di Vico basata sull’identità del verum e del factum (si conosce solo quello che si fa), per Marx ci sono ideologie che costituiscono una legittimazione di pratiche economiche non etiche, di dominio e sfruttamento dell’essere umano sull’essere umano, e come tali sono false; la verità sta solo nella prassi etica rivoluzionaria volta alla liberazione degli esseri soggetti al dominio. Qui, la filosofia della storia umana fa il passo che la filosofia della Natura aveva effettuato nella cosiddetta “rivoluzione scientifica” trasformandosi in “scienza moderna”, cioè in una filosofia pratica (sperimentale) della Natura. Non si tratta di contemplare o conoscere intellettualmente o comprendere teoreticamente la storia, si tratta invece di farla. Dopo che l’intellettualismo greco era stato espulso dalla filosofia della Natura, ora lo era anche dalla filosofia della storia, sostituito dal volontarismo attivistico cristiano (di volontà individuali organizzate in azioni politiche sistematiche), privato della sua medioevale teologizzazione greca. Il problema della prospettiva marxiana fu che il fine della liberazione giustificò il mezzo della violenza, facendo perdere la connotazione etica che era stata caratteristica della rivoluzione non violenta di Gesù (non a caso, invece, Engels diede del cristianesimo originario un’interpretazione quale movimento rivoluzionario che usava la lotta armata). Secondo Marx, “la storia è la vera storia naturale dell’uomo”, cioè il mondo naturale dell’uomo non è il mondo della natura ma il mondo della storia, in quanto prodotto del lavoro dell’uomo, l’autoproduzione del mondo storico attraverso il lavoro umano che trasforma il mondo: da qui l’autoctisi nella deriva idealistica della prassi nell’interpretazione di Marx data da Giovanni Gentile. L’elemento materiale non è la natura, ma l’appropriazione della natura da parte dell’uomo, dei mezzi di produzione, che hanno fatto sì che l’uomo producesse il suo nutrimento, la sua vita materiale stessa, distinguendosi dagli altri animali; “ciò che sono - gli uomini – coincide con quello che producono e con come lo producono”. Marx comprende che ciò che distingue gli esseri umani da altri animali non può essere rintracciato su un piano metafisico di un’essenza idealmente definita, come quella del pensiero puro, ma va compreso su un piano storico effettivo, che rivela il tratto distintivo dell’essere umano, nella sua storicità, nell’attività materiale dell’essere umano (non come individuo ma come essere sociale) che si è esplicata nel lavoro della terra con la rivoluzione neolitica, cioè in un’attività tecnica sistematica di dominio della Natura, in cui la Natura, a sua volta, si ridefinisce in termini di materia come ciò che resiste al lavoro dell’umanità. Come filosofia della storia attiva, Marx definisce un nuovo tipo di “materialismo”, il “materialismo storico”, che si vuole distinguere dal materialismo come metafisica ontologica materialistica e meccanicista della Natura, basandosi su una nuova antropologia dell’essere umano come essere storico e sociale materialmente attivo. La ricaduta, però, in una metafisica materialista è implicita nell’Anti-Duhring (1878) di Engels a cui anche Marx partecipò con un capitolo (seppure dedicato a problemi di storia dell’economia) e nella Dialettica della Natura di Engels, pubblicato postumo nel 1925: bisogna quindi distinguere nettamente la posizione di Marx da quella di Engels. Qui, la volontà di definire il materialismo come ateismo porta Engels ad accettare al suo interno l’idea di un universo infinito ed eternamente ciclico e anche la teoria evoluzionistica di Darwin che riconduce la lotta di classe alla lotta per la vita, e cioè un materialismo naturalistico. D’altra parte, seppure Marx rivela l’essere storico-sociale dell’essere umano nella sua effettività che lo distingue da altri animali, è portato a legittimarlo, a legittimare la sua attività di dominio tecnico nei confronti della Natura e degli altri viventi. Tale legittimazione si traduce in una concezione economica della realtà: ogni cosa è considerata come valore economico, per il suo valore d’uso per l’essere umano. Nella sua opera del 1859, Per la critica dell’economia politica, Marx inizia a delineare quanto poi confluirà ne Il Capitale del 1867, primo libro a cui ne seguiranno altri due, pubblicati postumi da Engels nel 1885 e nel 1894: la critica dell’economia politica da parte di Marx si concentra, in effetti, sul valore di scambio attribuito alle cose considerate come merci, in quanto è proprio sulla valutazione del valore di scambio che si producono le ingiustizie economiche fra gli esseri umani. Marx sposa così il punto di vista antropocentrico della filosofia e dell’economia classica, non comprendendo ciò che poteva risultare chiaro dal darsi storico del dominio dell’essere umano su un altro essere umano: questo dominio nasce, nella rivoluzione neolitica, con il dominio della Natura e degli altri viventi da parte dell’umanità, perché la terra e gli animali costituiscono la prima forma di proprietà privata e di equivalente monetario negli scambi economici basati sul baratto. Marx non critica così il fondamento antropologico e antropocentrico dell’economia: accetta la sua riduzione dell’essere umano ad homo oeconomicus, che agisce solo per interesse economico e non conosce altre modalità di rapportarsi alle cose se non in termini del loro valore d’uso e del loro valore di scambio; una cosa è solo in funzione della sua utilità diretta o indiretta in uno scambio con un’altra cosa. Secondo Marx, la struttura della società, che determina l’essere umano come essere sociale e storico, è economica ed è storicamente determinata dal modo di produzione dominante. La struttura economica della società determina a sua volta le istituzioni politiche e lo stato, ma anche le produzioni culturali materiali e intellettuali: da questo punto di vista, la cultura in tutte le sue forme (religione, filosofia, letteratura, arti) è sovrastruttura. Nella posizione di Marx, al contrario che in Engels, sono escluse retroazioni delle sovrastrutture culturali sulla struttura economica della società: queste sono molto sottovalutate (come ha mostrato l’analisi dei rapporti fra cultura protestante e capitalismo, effettuata da Max Weber (1864-1920)): anche le critiche della struttura gerarchica delle classi sociali, come quella presentata nel Manifesto del Partito Comunista del 1848, scritto con Engels, sono ricondotte a meri specchi passivi delle opposizioni reali emerse nella lotta di classe da parte del proletariato contro la gerarchia della struttura economica, che si specchiava in una ideologia della classe dominante: generata come legittimante il dominio economico, solo come suo specchio passivo e mai considerata come produttrice attiva di dominio economico in nuove forme. Le idee non si cambiano con la critica da parte di altre idee, ma solo con la rivoluzione della struttura economica della società. L’indipendenza delle idee dalle strutture economiche delle società è solo il frutto di un’illusione provocata dalla divisione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, dalla divisione fra lavoro effettivamente produttivo e lavoro improduttivo. Le determinazioni effettuate dai modi di produzione implicano differenti tipi di proprietà e una differente divisione del lavoro. La proprietà privata rompe il legame sociale e il lavoro diviso non è più fondante una società: essi producono divisioni sociali ed economiche, diseguglianze, ma anche, quindi, alienazione dell’essere umano dalla sua identità che è sociale. Marx si interessa soprattutto all’analisi economica dei rapporti di lavoro che si erano instaurati con i nuovi mezzi di produzione resi possibili dalla rivoluzione industriale del XVIII secolo e che avevano generato una nuova classe economica, quella operaia, ovvero del proletariato: cioè dello sfruttamento degli operai da parte di padroni della classe borghese che tende ad accumulare denaro in un capitale, che caratterizza la fase storica dell’economia in termini di capitalismo moderno nella quale anche il lavoro diviene mero mezzo di sussistenza individuale e quindi una merce acquisibile sul mercato. La prospettiva economica, che però anche Marx abbraccia, non può considerarsi puramente scientifica, ma si rivela quindi come una metafisica antropocentrica della realtà come valore economico. Marx, però, presenta la sua nuova economia come una scienza e per fare questo prende a modello la fisica. Fondamentale si può considerare il principio di conservazione generalizzata dell’energia, da poco teorizzato come primo primo principio della termodinamica soprattutto nell’opera di James Joule e William Thomson poi Lord Kelvin. Che Marx ed Engels fossero a conoscenza di questo principio è evidente da almeno due lettere di Engels a Marx, una del 14 Luglio del 1858 e un’altra del 21 Marzo 1869 in cui si fa riferimento anche al secondo principio della termodinamica come formulata da Rudolph Clausius13. L’energia (chiamata forza nel’Ottocento), come intesa nel meccanicismo, è il concetto che consente una correlazione fra i diversi tipi di fenomeni per mezzo di un’astratta equivalenza matematica, e di un’omogeneizzazione dei rapporti metrici fra differenti variabili fisiche incommensurabili: se quest’astratta equivalenza numerica, incarnata prima nel concetto di materia/massa e poi nella declinazione meccanicistica dell’idea d’energia, ha il suo presupposto pratico in una forma di vita, come quella della società capitalistica moderna, in cui il denaro svolge questo ruolo d’equivalenza di ogni cosa14, il concetto di lavoro in economia politica è stato derivato dal concetto di lavoro meccanico e dagli sviluppi energetici della termodinamica ottocentesca interpretata meccanicisticamente. Infatti, la quantità di forza-lavoro (misurata in termini di tempo di lavoro necessario per produrre una determinata cosa-merce) serve a Marx come misura equivalente e univoca per misurare il valore di scambio delle cose-merci considerate come del tutto interscambiabili: data questa equivalenza, Marx può spiegare come il profitto, come aumento del denaro finalizzato alla sua pura accumulazione in un capitale piuttosto che usato per l’acquisto di altre merci, si realizzi come plus-valore ottenuto da un industriale-padrone che paga-compra la merce della forza lavoro di altri esseri umani meno del valore di scambio del prodotto della forzalavoro imponendo un plus-lavoro. Se un dato prodotto valutato, per esempio, 8 sterline in base alla quantità di lavoro media necessaria a produrlo (pari per esempio a 8 ore), si basa sulla valutazione di 1 ora di forza-lavoro come pari a 1 sterlina; se però la paga di quel tempo di forza lavoro è pari, in questo esempio, a 4 sterline in relazione al tempo di lavoro necessario per produrre il suo fabbisogno nutritivo giornaliero, il padrone realizza un profitto netto alla metà del valore del prodotto: un plus-lavoro di 4 ore non pagato porta a un plus-valore di 4 sterline guadagnato dal padrone. Dove è l’errore? La forza-lavoro non può /non deve essere valutata come merce prodotta o H. S. KRAGH, Entropic Creation – Religious Contexts of Thermodynamics and Cosmology,Ashgate, Aldershot (UK) 2008, pp. 132-139. 14 A. SOHN-RETHEL, Das Geld, die bare Münze des Apriori, Wagenbach, Berlin 1990; tr. it. di F. COPPELLOTTI, Il denaro, l’a priori in contanti, Editori Riuniti, Roma 1991. 13 in termini del valore della merce necessaria per la sua sussistenza (cioè del costo della vita), ma deve essere valore a sé stessa: questa considerazione, però, non può essere presentata come una mera verità scientifica, ma costituisce una esigenza etica di Marx15. Un’esigenza etica che Marx nega perché vuole presentare il comunismo stesso non come l’esito di un’etica, ma come una verità scientifica, determinata dalle leggi della storia. L’operaio era sempre più alienato dalla propria attività lavorativa, depauperato del frutto del proprio lavoro, privato del suo tempo ridotto a denaro. Non era succube soltanto nei suoi giorni, ma privato anche dei suoi sonni e dei suoi sogni. Così, Carlo Cafiero (1846-1892), nel suo Compendio del Capitale16, descrive, con toni massimamente inquietanti, la situazione del lavoratore: “Allora i tuoi sonni non saranno più così tranquilli. Tu vedrai nelle tue notti il capitale, come un incubo, che ti preme e minaccia di schiacciarti. Con occhio spaventato lo vedrai ingrossarsi, come un mostro dalle cento proboscidi, che avidamente ricercano i pori del tuo corpo per succhiarne il sangue. E finalmente lo vedrai assumere proporzioni smisuratamente gigantesche, nero e terribile nell'aspetto, con occhi e bocca di fuoco, trasmutare le sue proboscidi in larghissime trombe aspiranti, entro le quali vedrai scomparire migliaia di esseri umani: uomini, donne, fanciulli. Dalla tua fronte colerà allora il sudore della morte, perché la volta tua, della tua moglie e dei tuoi figli starà per arrivare. Ed il tuo ultimo gemito sarà coperto dallo sghignazzare allegro del mostro, felice del suo stato, tanto più prospero, tanto più inumano”. La produzione capitalistica ha come obiettivo la produzione di plus-valore, in diversi modi che cambiano storicamente. Più entrano in gioco macchine, più il lavoratore non è in grado di effettuare un lavoro compiuto da solo e più è costretto a vendere la sua forza-lavoro, fino all’organizzazione del lavoro tramite catena di montaggio in cui l’essere umano è subordinato alla tecnica delle macchine. Non solo, quindi, la mercificazione delle cose implica la mercificazione dell’essere G. CALOGERO, Intorno al materialismo storico, Vallerini, Pisa 1941, poi come Il metodo dell’economia e il marxismo. Invito alla lettura di Marx, Laterza, Roma-Bari 1967, pp. 39-71. 16 Il Capitale di Carlo Marx, brevemente compendiato da Carlo Cafiero, Biblioteca Socialista, n. 5, Bignami e c. editori, Milano 1879. Si tratta di un incubo reale, che avevo quasi tutte le notti da bambino; solo verso i sedici anni, trovai nella cantina di mio nonno questo libro di Cafiero e restai stupefatto alla lettura. 15 umano, ma anche il dominio tecnico esercitato sulla Natura e sugli altri viventi implica il dominio tecnico sull’essere umano. L’essere umano perde la sua identità di soggetto di lavoro, produttore di merci e utilizzatore di macchine, si aliena dalla sua forza produttrice che viene espropriata da altri e dal prodotto del suo lavoro, e così si aliena e diventa oggetto-merce e strumento di macchine. Tuttavia, l’essere umano sfruttato può uscire dalla propria alienazione, riappropriarsi di sé stesso, e, nel “movimento messianico secolarizzato” della classe operaia – in quanto classe “universale” che ha perduto totalmente la sua identità umana . ristabilire la giustizia, riappianare le diseguaglianze economiche e realizzare “escatologicamente”, attraverso la dittatura del proletariato, una società comunista senza il male e alla fine senza più bisogno di stato. Marx, però, pensa che questo possa avvenire non attraverso la costituzione di una nuova identità non tecnica e non economica dell’essere umano, ma semplicemente attraverso la presa di possesso e la proprietà, da parte del proletariato, dei mezzi di produzione tecnica: si tratta di un errore fondamentale che sarà solo parzialmente corretto nella successiva storia del marxismo occidentale, in particolare dalla Scuola di Francoforte. Marx prevedeva la polarizzazione della società in due classi antagoniste e quindi opposte, formatesi con lo sviluppo del capitalismo in un contrasto sempre crescente che avrebbe contrapposto una classe sempre più esigua di ricchissimi capitalisti e una classe sempre più povera di proletari. Era questa contrapposizione la contraddizione reale socio-economica che avrebbe dovuto risolversi storicamente in una nuova sintesi sociale, attraverso una dialettica materiale che doveva sostituire la dialettica hegeliana delle idee. Marx, che aveva fondato una nuova scienza economica deterministica come la fisica della sua epoca, pensava che si potesse determinare in maniera certa e univoca la soluzione dell’evoluzione dinamica dei sistemi socio-economici, quale data da una società comunista futura non più aspettata come un’utopia, ma come realizzazione di una previsione scientifica e di un’azione politica rivoluzionaria. Vi erano quindi leggi deterministiche della storia e questa erano esprimibili nei termini di una ferrea logica dialettica materiale e non ideale come quella di Hegel: il materialismo storico si faceva dialettico (in russo, invalse l’abbreviazione diamat). Rispetto alle astratte e universali ferree leggi della storia, gli individui e la loro sorte non avevano più importanza: la violenza rivoluzionaria non solo era permessa, ma rappresentava in qualche modo, come opposizione dialettica reale e materiale, la stessa legge della storia come della vita per Darwin. Tuttavia, Marx non si rese conto che il progredire del capitalismo in un paese industrialmente avanzato non aveva come unico possibile esito l’impoverimento della classe operaia, nel momento in cui il mercato andava assumendo sempre più proporzioni mondiali sostenute da politiche colonialiste e imperialiste e il progresso tecnico permetteva un sempre più alto sfruttamento di risorse naturali: si dava invece, in un paese avanzato, la costituzione di una classe media sempre più ampia che livellava le possibilità economiche su uno standard di vita sempre più alto. Si sarebbe invece prodotta una differenza economica sempre più enorme fra paesi industrialmente avanzati e paesi non-europei subalterni. Da qui, la deriva fascista e nazionalsocialista, deriva fatale e nefasta con la sostituzione dell’internazionalismo socialista con un socialismo nazionalista, propugnata dall’idea mussoliniana di estendere la lotta di classe a guerra mondiale fra le nazioni “proletarie” come l’Italia contro le nazioni plutocratiche imperialiste come l’Inghilterra e gli Sati Uniti d’America, per il dominio economico del mondo intero. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, dopo la caduta dell’illusoria possibilità di un socialismo realizzato solo nella cosiddetta Unione Sovietica, che in realtà aveva portato ad un impoverimento di tutta la popolazione per fronteggiare il progresso tecnico-militare dei paesi capitalisti, dopo il crollo degli obiettivi dei partiti comunisti occidentali pronti ad affermare l’imprescindibilità del capitalismo per la democrazia, è la nuova e fortissima divaricazione econonomica fra paesi ricchi e paesi poeveri del terzo mondo che fa della situazione mondiale una situazione esplosiva che non porterà realisticamente a una nuova sintesi sociale di libertà e di giustizia ma purtroppo a una violenza sempre più diffusa e dominante e al sacrificio di sempre più vite umane e alla distruzione sempre maggiore delle forme di vita non umana e, in generale, del sistema ecologico terrestre e di tutte le specie della biosfera. Schopenhauer e l’inizio della crisi del paradigma dominante della modernità La costruzione razionale di Kant, in qualche modo culmine dello spirito illuministico, e, insieme a quella di Hegel, culmine della moderna metafisica soggettivistica, viene a crollare sotto la critica di Arthur Schopenhauer (1788-1860). Le sue idee sono esposte in massima parte nella sua opera intitolata Il mondo come volontà e rappresentazione, l’edizione del primo volume della quale fu già nel 1818; il secondo fu aggiunto nel 1844, mentre la terza edizione fu del 185917. Si tratta di una nuova metafisica senza dubbio, ma distruttrice delle precedenti certezze. Una metafisica che si basa sul tema cristiano della volontà, ma ormai declinata nei termini della luterana volontà naturale, schiava del peccato senza la grazia. Questa metafisica interpreta la volontà noumenica di Kant in termini della volontà naturale di Luther, e della volontà di vita, come istinto di conservazione e sforzo evolutivo, della nuova biologia evoluzionistica di Lamarck, della Philosophie zoologique del 1809, e infine della volontà come brama di vivere del buddhismo: si tratta ormai di una volontà egoistica, in gran parte inconsapevole, istintuale, cieca, e quindi irrazionale e non più legata alla ragione pratica kantiana. La noumenicità della volontà non è più deducibile da un principio morale come in Kant, in relazione alla libertà del volere, ma è invece dedotta dall’esperienza corporea che precede ogni pensiero: il corpo è esperito primariamente come espressione di questa volontà di vivere istintuale. Se questa conclusione è presentata in termini puramente teoretici e filosofici generali, in effetti non può che derivare dalla nuova lamarckiana filosofia naturale evolutiva della vita e dalla “filosofia pratica” soteriologica di Siddharta Gautama Shakyamuni Buddha del VI sec. a.C. Questa caratterizzazione della volontà di vivere fa sì che non abbia una connotazione immediatamente soggettivistica come la volontà nel cristianesimo e in Kant, ma piuttosto sia considerata in termini biologici impersonali di una forza universale di vita, comune a tutti gli esseri viventi, che può dare un fondamento nuovo alla conclusione delle Upanishad induiste, secondo la 17 A. SCHOPENHAUER, Die Welt as Wille und Vorstellung, Brockhaus, Leipzig 1859; tr. it. parziale (senza i Supplementi) di P. Savj-Lopez & G. Di Lorenzo, intr. di C. Vasoli, Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Roma-Bari 1914/1916, 1928/1930, 1968, 1972; tr. it. di N. Palanga, A. Vigliani e G. Riconda, intr. di G. Vattimo, a cura di A. Vigliani, Il mondo come volontà e rappresentazione, Mondadori, Milano 1989. quale, alla base delle distinte individualità esistenti, vi è un’unica realtà per cui tutto è uno: il Brahman, come universale anima del tutto, è interpretata come universale e infinita volontà di vita. Se i fenomeni kantiani non sono le cose in sé, allora non possono essere che mere parvenze di una realtà che è altra: i fenomeni non sono che manifestazioni di quel velo di Maya di cui parla l’induismo. Il fenomeno non è allora espressione di una conoscenza che ha caratteristiche di universalità e di necessità, che le derivano dalla struttura trascendentale, comune a tutti i soggetti umani e che costituisce così un soggetto universale e atemporale, ma piuttosto è esito di una mera costruzione razionale, anche se necessaria, ovvero di una mera rappresentazione cui appartengono soggetti e oggetti: soggetti e oggetti, il mondo stesso, sono fenomeni illusori, rappresentazioni razionali illusorie dell’unica infinita volontà di vita. Spazio, tempo e causalità non sono più kantianamente considerate come forme a priori della sensibilità o dell’intelletto di un soggetto che costituisce gli oggetti della conoscenza come fenomeni, ma sono forme a priori della rappresentazione in cui si costituiscono i soggetti individuali di contro agli oggetti individuali: spazio e tempo sono le forme a priori del principium individuationis, mentre la causalità è espressione della volontà universale, che si esplica in volontà individuali che a loro volta si esplicano in un’attività che si manifesta come un’azione causale reciproca. Si ha così una decostruzione del soggetto come soggetto costitutivo della rappresentazione: il soggetto è ora “oggetto” della rappresentazione, soggetto solo al suo interno. Crolla qui la possibilità di una metafisica soggettivistica, tipica del pensiero moderno. Le rappresentazioni razionali, pur nella loro necessità costruttiva, non sono altro che razionalizzazioni di una volontà irrazionale, legittimazioni delle volontà egoistiche che ne sono alla base. Presa consapevolezza dell’illusorietà delle rappresentazioni razionali e delle azioni delle nostre vite, la nuova filosofia evoluzionista di Lamarck lo porta a considerare la vita come un assassinio continuo, reciproco e universale, e quindi a constatare la quadruplice verità già enunciata dal Buddha nel Discorso della messa in moto della ruota della Dottrina (Dharmaçakrapravartana Sūtra, sans., Dhammacakkappavattana Sutta, pāli)18: 1) “E questa, o monaci, è la santa verità circa il dolore: la nascita è dolore, la vecchiaia è dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore: l’unione con quel che dispiace è dolore, la separazione da ciò che piace è dolore, il non ottenere ciò che si desidera è dolore, dolore in una parola sono i cinque elementi dell’esistenza individuale”: tutto è dolore. 2) “Questa, o monaci, è la santa verità circa l’origine del dolore: essa è quella brama che è causa di rinascita, che è congiunta con la gioia e con il desiderio, che trova godimento ora qua ora là; brama di piacere, brama di continuare a vivere, brama di non invecchiare”: l’origine del dolore è la volontà di vivere. 3) “Questa, o monaci, è la santa verità circa la soppressione del dolore: è la soppressione di questa brama, annientando completamente il desiderio, è il bandirla, il reprimerla, il liberarsi da essa, il distaccarsi”: la cessazione del dolore sta nell’estinzione della volontà di vivere. 4) “Questa, o monaci, è la santa verità circa la via che conduce alla soppressione del dolore: è il nobile ottuplice sentiero, e cioè: retta visione, retta decisione, retta parola, retta azione, retta vita, retto sforzo, retta meditazione, retta concentrazione”: è l’ottuplice sentiero che permette la realizzazione del Nirvana, che letteralmente indica l’estinzione di una fiamma mediante un soffio, l’estinzione dell’io nella vita (Buddha sviluppa la teoria dell’anatman, cioè di un’anima non sostanziale, ma dinamica come una fiamma, per cui la metempsicosi non implica la rinascita di una stessa anima individuale in un altro corpo, ma piuttosto l’accensione di un’altra fiamma). La filosofia, per Schopenhauer, non nasce dalla meraviglia aristotelice (dall’esperienza del thaumazein), ma piuttosto dal senso della sofferenza e del male del mondo. Con il riconoscimento delle quattro nobili verità del Buddha, a cui viene affiancata una quinta, se possibile, in cui si afferma che l’origine del dolore è in quella volontà di vivere attiva, in quell’egoismo attivo che si fa violenza e assassinio della vita altrui, Schopenhauer riapre la visione 18 Nel Canone pāli all'interno del Saṃyutta Nikāya (nel Dhammacakkappavattana Sutta): dell’abisso del male nel mondo all’origine della sofferenza di tutti gli esseri viventi, che era propria del cristianesimo originario e della gnosi, ma senza neppure la fede in un Dio di salvezza: Schopenhauer abbraccia la soteriologia atea del Buddha e del buddhismo originario detto Hinayana (Piccolo veicolo). L’estinzione della volontà di vivere, però, per Schopenhauer si ottiene in parte in maniera diversa dal Buddha: nella via al Nirvana e nell’interpretazione stessa del Nirvana introduce degli elementi cristiani e occidentali. L’arte, o più specificamente la musica al contrario delle arti figurative, costituisce una forma di conoscenza immediata della realtà noumenica, al di là delle rappresentazioni razionali illusorie: la musica permette di accedere all’esperienza della volontà e del dolore al di là del rapporto soggetto-oggetto e al di là delle individuazioni spazio-temporali e causali, e così mette nelle condizioni di superare la prospettiva della propria individuale volontà di vivere. Questa conoscenza diventa, infatti, non più motivo determinante le azioni indotte dalla volontà di vivere, ma quietivo delle azioni della relativa volontà di vita, e quindi di un’etica che liberi da essa. L’etica di Schopenhauer non è però puramente negativa, cioè non implica soltanto l’evitare le azioni egoistiche della volontà egoistica, come in gran parte l’etica del Buddha che porta a una vita contemplativa in cui raggiungere l’illuminazione nella meditazione e il Nirvana: nella prospettiva buddhista la karuna, la compassione, è solo compassione distaccata dello sguardo, non è partecipazione al dolore altrui; l’amore effettivo è escluso perché comporta dolore. L’etica di Schopenhauer è positiva e si basa invece sull’amore attivo cristiano: non si tratta solo di un’ascesi di rinunzia dei piaceri. L’amore del prossimo, secondo Schopenhauer, si deve estendere a tutti gli esseri viventi e comporta, per prima cosa, la non accettazione della nutrizione umana di altri animali; non ci si può fermare a un’etica dell’intenzione che porta la maggioranza dei buddhisti ad accettare di mangiare carne se, per esempio, offerta da altri. Gli esempi etici di Schopenhauer sono presi soprattutto dai santi cristiani e in particolare dai catari, che arrivavano, nei casi più ‘alti’, a praticare l’enduro, cioè a lasciarsi morire di fame per non danneggiare alcun essere vivente. Il Nirvana non è inteso come uno stato positivo dell’essere, diverso da quello ordinario, e legato alla contemplazione meditativa, ma semplicemente, come annichilimento della realtà della volontà, come nulla: nell’annichilimento della volontà si dissolve il mondo come volontà e rappresentazione; invero, per Schopenhauer è il mondo che è nulla di fronte a chi ha vinto il mondo. La più radicale negazione del mondo dovuta al buddhismo si è così innestata, con accenti ancora più forti, nel pensiero occidentale, in una prospettiva di pessimismo cosmico che accoppia paradossalmente un’etica cristianizzante dell’infinito amore attivo della vita a un nichilismo teoretico. L’abisso della sofferenza e del male si spalanca ancora di più di fronte a una ragione che non può comprenderlo. Friedrich Nietzsche: la volontà di potenza come risposta all’abisso di Schopenhauer Friedrich Nietzsche (1844-1900) ha espresso la sua filosofia perlopiù in forma di aforismi, spesso anche in forma poetica: qui sta gran parte del suo fascino che continuamente attrae. Ha scritto cose sublimi e altre obbrobriose, spesso all’interno dello stesso testo. Messo da parte in quanto riferimento privilegiato del pensiero politico nazista e di destra, è stato rivalutato ma quasi sempre senza un’adeguata messa in chiaro dei capisaldi problematici del suo pensiero. La sua filosofia si articola soprattutto in una pars destruens delle precedenti prospettive, ma in effetti si riproponeva una costruzione di una nuova maniera di filosofare. Nietzsche si trova davanti all’abisso aperto dal pensiero di Schopenhauer e tutta la sua filosofia (La nascita della tragedia, 1872; Considerazioni inattuali 1873-1876; Umano, troppo umano 18781879; Aurora, 1881; Gaia scienza, 1882; Così parlò Zarathustra, 1883-1884; Al di là del bene e del male, 1886; Genealogia della morale, 1887; Il crepuscolo degli idoli, 1888; Ecce Homo, 1888; L’Anticristo, 1888; opere postume: La filosofia nell’epoca tragica dei greci, I filosofi pre-platonici, Introduzione ai dialoghi platonici) può intendersi come una risposta a Schopenhauer. Nietzsche si confronta ormai anche con la filosofia naturale, evoluzionistica, della vita di Darwin, che ingloba nella sua prospettiva e pure critica. Il punto di partenza è anche per lui la volontà di cui si ha primaria esperienza nella nostra corporeità, ma questa volontà non è tanto una volontà di vita nel senso della conservazione della vita stessa a livello individuale o di specie, quanto piuttosto “volontà di potenza”, una volontà che altro non è che esplicazione della potenza infinita della Natura, che incessantemente e inarrestabilmente nel suo esplicarsi e dispiegarsi illimitato crea e distrugge senza cura e senza preoccupazione morale, senza finalità di alcun tipo. Questa volontà di potenza nel suo espandersi vitale può incontrare anche la morte, non ha come suo fine la sopravvivenza, e ciò comporta che nell’evoluzione non prevalga quasi mai il più forte, il più dotato, il più ‘adatto’, ma piuttosto, al contrario di quanto pensava Darwin, sopravviva il più debole, il meno dotato, il potenzialmente meno adatto. Questo tratto della sua concezione della Natura lo portò a una critica radicale della scienza moderna in cui dominava il paradigma meccanicista19. Secondo Nietzsche, bisogna accettare questa realtà della Natura e della vita in tutte le sue conseguenze: per accoglierne le gioie, bisogna accettarne il dolore, gli aspetti distruttivi oltre quelli creativi. Bisogna accettarne il dolore non con rassegnazione, ma piuttosto con l’entusiasmo travolgente di chi si senta parte di questo fiume inarrestabile di potenza che è la la Natura, che è la vita. Schopenhauer, seguendo la morale buddhista non ha accettato il dolore della vita e ha negato la vita e il mondo; all’opposto, Nietzsche ritiene che si debba dire sì alla vita in tutti i suoi aspetti e senza porsi problemi morali. La morale nasce per diversi fattori secondo Nietzsche: innanzitutto, c’è l’illusione della libertà del volere che renderebbe gli esseri umani responsabili delle loro azioni, basandosi su una conoscenza, ma le azioni non sono mai del tutto libere e consapevoli e sono piuttosto determinate da fattori istintivi vitali. Le azioni sono compiute dall’agente solo per il proprio piacere e non per fare male agli altri: possono essere giudicate ‘cattive’ solo se si prescinde dalla prospettiva di chi le compie e le si considera dall’esterno per le conseguenze che hanno sugli 19 G. DELEUZE, Nietzsche et la philosophie, P.U.F., Paris 1962; tr. it. di S. TASSINARI, Nietzsche e la filosofia, Colportage, Firenze 1978; e poi nuova traduzione a cura di F. POLIDORI, intr. di M. FERRARIS, Feltrinelli, Milano 1992 e ulteriore nuova ed. italiana con appendice a cura di F. POLIDORI, tr. it. di F. POLIDORI & D. TARIZZO, Nietzsche e la filosofia e altri testi, Einaudi, Torino 2002. altri. Questo punto di vista è diventato prevalente quando gli interessi della società hanno messo in secondo piano il piacere e l’utile individuali; la morale si è quindi sviluppata non valorizzando maggiormente moventi delle azioni superiori all’utilità, ma piuttosto sostituendo come valore l’ultilità sociale al di sopra dell’utilità individuale. L’utilità sociale ha stabilito però sempre una gerarchia di valori a partire dalla valutazione data dai potenti nella gerarchia sociale. La morale sociale ha determinato così una separazione netta fra Natura e cultura, portando a una repressione della natura individuale a favore della vita sociale e politica: la civiltà ha così allevato gli esseri umani in una situazione di costrizione sociale che ha “addomesticato” la natura selvaggia e istintiva dell’essere umano, “la belva bionda, avida di preda e di vittoria”. Seguendo l’interpretazione data da Schopenhauer del cristianesimo come sostanzialmente affine al buddhismo nella negazione della vita e del mondo e seguendo anche la prospettiva aperta dal suo amico “gemello” e collega teologo dell’università di Basilea, Franz Overbeck (1837-1905), secondo il quale l’essenza del cristianesimo originario sia stata caratterizzata dall’ascetismo e dalla negazione del mondo20, Nietzsche considerò il cristianesimo come una forma di “platonismo per il popolo” responsabile di una svolta negativa nella morale occidentale. Il cristianesimo aveva ereditato, secondo Nietzsche, dagli ebrei una morale tipica della rivolta degli schiavi: gli ebrei, che erano stati sempre storicamente sottomessi, impotenti ad autoregolamentare la loro vita sociale e politica, hanno così sviluppato odio nei confronti dei potenti e del mondo e come popolo sacerdotale e religioso si sono consolati nell’idea di una vendetta immaginaria divina. Si forma così una morale del risentimento, puramente reattiva contro gli altri, che trionferà con il cristianesimo. Il risentimento si trasforma da una parte in spirito di vendetta che si esplicherebbe nell’al di là, e dall’altra si introverte, insieme all’aggressività e alla violenza, indirizzandosi contro sé stessi in un senso di colpa per un peccato commesso originariamente contro Dio che spiegherebbe la sofferenza subita nel mondo: nel cristianesimo l’autosacrificio di Dio renderebbe infinito il debito umano nei suoi confronti, moltiplicando infinitamente il senso di colpa. Questa 20 F. OVERBECK, Über die Christlichkeit unserer heutigen Theologie, Fritzsch, Leipzig, 1873, e Naumann, Leipzig 1903; tr. it. a cura di A. Pellegrino, Sulla cristianità della teologia dei nostri tempi, ETS, Pisa 2000. “cattiva coscienza” implicata dal cristianesimo diventa la più grave malattia dell’umanità occidentale che impone sofferenza e rinunzia alla vita, mascherando nella malafede il risentimento come amore altruistico: il cristianesimo si presenta così a Nietzsche come mero nichilismo dei deboli e degli schiavi contro la vita e il mondo. Gli ebrei sono considerati da Nietzsche come gli artefici della più radicale trasvalutazione di tutti i valori nella morale, come mostruosa e funesta iniziativa contro la vita: in questo caso, la critica della religione si risolve nella critica di un’intera etnia identificata con essa. Agli ebrei risalirebbero anche le radici delle moderne tendenze egualitarie democratiche e socialiste. Questo di Nietzsche, seppure diverso da quello più rozzo e più violento poi affermatosi in Germania anche sulla base di una nefasta interpretazione delle idee, è puro antisemitismo: l’anticristianesimo si fonda anche sull’antisemitismo. Nietzsche era profondamente antisemita, senza bisogno di alcuna posteriore falsificazione dei suoi scritti da parte della sorella, e nonostante le fasulle rivalutazioni di questo aspetto del suo pensiero. L’atteggiamento antiteoretico e antifilosofico deriva a Nietzsche certamente da Schopenhauer, e quindi indirettamente dal cristianesimo e dal buddhismo; ma la sua critica a queste religioni e alla morale che incarnano non gli permette di prenderle come modello, per cui si rivolge alla cultura greca pre-filosofica. Anche per l’arte, Nietzsche segue Schopenhauer: Nietzsche stesso pensava che sarebbe diventato famoso come musicista (famoso è rimasto il suo Inno alla vita quale esempio di una sua creazione che stimava più di altre). L’arte che per Nietzsche dà un immediato accesso alla realtà della straripante potenza della Natura e della vita è la tragedia greca, esprimente il dionisiaco come impulso all’ebbrezza della vita, senza freni e rappresentazioni razionali, attraverso la musica, il canto e la danza in cui i confini della propria individualità sono superati. Dapprima crede che Richard Wagner, con la sua opera totale e con la sua musica, possa rappresentare una rinascita dello spirito della tragedia, ma poi se ne distacca, valutando la musica di Wagner e gran parte della storia della musica occidentale come malata: quella di Wagner rappresenterebbe solo il culmine di un’estenuazione di un atteggiamento che consiste nel crogiolarsi nella sofferenza nell’illusione della catarsi, e a questa tradizione contrappone la musica gioiosa ed esaltante la vita come la Carmen di Bizet. Secondo Nietzsche, originariamente la tragedia era costituita solo dal coro, mentre il drama, cioè l’azione compiuta, intervenne dopo e il dialogo fu ampliato da Euripide che operò quindi una razionalizzazione. Al pessimismo della tragedia originaria, dopo i primi pensatori pre-socratici, nella filosofia greca si sostituì l’illusione ottimistica di poter comprendere la vita e il mondo in termini di una conoscenza teoretica razionale che fosse di base all’etica, da raggiungere socraticamente attraverso la dialettica e da articolarsi nell’analisi di relazioni causali necessarie. Ma queste rappresentazioni razionali, come per Schopenhauer, non possono cogliere la realtà della volontà di potenza della Natura, e sono soltanto strumentali a mascherare la tragicità della vita, per sopravvivere; a differenza di Schopenhauer, però, queste rappresentazioni razionali non sono uniche, necessarie e universali, ma storiche, sociali, individuali e quindi costituiscono una molteplicità. Come per Schopenhauer, l’io non è il soggetto della rappresentazione: in questa prospettiva, il cartesiano cogito ergo sum non può fornire la certezza dell’io, ma solo del pensiero come rappresentazione cui l’io è interno. La filosofia e la scienza non sono espressione di una conoscenza, ma strumenti della vita. Le loro supposte verità proprio in quanto presunte tali sono errori: errore è credere erroneamente che esista la verità e voler sostituire gli errori con un’altra presunta nuova verità. Come bisogna liberarsi dagli errori della morale che generano le costruzioni metafisiche per ripristinare una presunta giusitizia e un presunto bene, come bisogna andare al di là del bene e del male, così bisogna andare al di là della verità e dell’errore, che sono tali solo strumentalmente alla volontà di potenza e alla vita. La Natura e la vita sono un continuo divenire: la verità cerca di fissare una realtà che non può essere fissata, perché in continua trasformazione, la verità è quindi un errore perché nessuna affermazione fissa può corrispondere alla realtà del divenire della Natura. Cade la teoria della verità come corrispondenza alla realtà, cade la possibilità della conoscenza della realtà: Nietzsche distrugge la metafisica, la gnoseologia e la logica con una estremizzazione della decostruzione francescana degli universali e dei concetti, e le reinterpreta come funzionali alla vita o alla sua repressione. Non si tratta quindi di fornire una dimostrazione dell’inesistenza di Dio, ma la liberazione dagli errori della morale non può che condurre all’eliminazione del concetto di Dio, come rappresentazione contraria al libero esprimersi della vita. Nietzsche si presenta così in qualche modo come lo stesso autore dell’assassinio di Dio da parte dell’uomo più brutto che non sopporta più lo sguardo di Dio, da parte della vita nella sua potenza distruttrice, da parte di chi torna a essere fedele alla terra e alla vita senza sostituire il mondo sensibile con un mondo intellegibile “più vero”. L’ateismo assoluto non è così espressione di una nuova filosofia teoretica, ma della morte di Dio ucciso dalla violenza stessa della vita che riemerge da una repressione precedente durata millenni. I valori superiori e trascendenti non si sono rivelati in grado di svolgere la loro funzione: la morte di Dio si delinea attraverso l’esito nichilistico che è la stessa morte dell’essere umano. Necessaria diventa una nuova trasvalutazione di tutti i valori, necessario il superamento di ciò che fino adesso è stato l’essere umano: si profila la necessità di un “super-uomo” che realizzi pienamente la volontà di potenza della vita, con il ritorno a Dioniso, un dio che canta e danza. La critica di Nietzsche alla storia si rivolge alla duplicità dei significati del termine italiano: l’essere umano soffre secondo Nietzsche di una “malattia storica”, cioè di una concezione storica lineare e progressiva degli eventi umani, che deriva effettivamente da una secolarizzazione della concezione escatologica cristiana della storia: questa concezione fa sopravvalutare la modernità rispetto alle altre epoche, mentre non è che un processo di decadenza in cui incalza un egualitarismo livellatore delle differenze e le considerazioni quantitative, di massa, prevalgono sulla qualità. D’altra parte, la storiografia, nelle sue varie forme, danneggia la vita: la storia monumentale, che si confronta solo con i grandi o con i grandi personaggi, per trovare nel passato un modello, falsifica l’immagine del passato concentrandosi solo su alcuni aspetti e rischia di arrestare il flusso della vita per rifugiarsi nel modello di una presunta grandezza che fu; la storia antiquaria, che invece si sofferma sui più minuti dettagli, rischia di diventare mera erudizione di un sapere in nessun rapporto con la vita, in cui tutti gli eventi diventano oggetto di una sorta di attività collezionistica per la valorizzazione del passato in quanto passato senza alcun discernimento; la storia critica, che vuole solo distruggere il passato in quanto passato per liberarcene per il nuovo, opera anch’essa senza discernimento e non ci permette di comprendere i nostri legami con il passato, quello che si può mantenere e quello che si deve superare. Ma è la storiografia, nell’interezza di questi vari atteggiamenti, che si vuole presentare come disinteressata e oggettiva, che perde ogni contatto con la vita e la riduce a suo oggetto sacrificandola. A questa storiografia, Nietzsche contrapporrà una nuova indagine che prenderà il nome di genealogia: si tratterà di comprendere quali atteggiamenti vitali, nel duplice senso di favorevoli alla vita o suoi repressori, stanno dietro agli eventi della storia materiale e spirituale dell’umanità e del suo pensiero. Solo questo tipo di storia come genealogia può costituire una storia al servizio della vita. Nietzsche aveva definito la sua filosofia come una forma di prospettivismo, che derivava da Leibnitz attraverso Ruggero Boscovich (1711-1787), ma, eliminando la prospettiva infinita divina che poteva ricomporre tutte le prospettive, anche quelle non umane, in un unico mondo, arrivò alla conclusione che non esiste un mondo vero e unico, quanto piuttosto un’infinità di prospettive di mondi da parte di differenti centri di forza e di vita, di volontà di potenza: questo è il senso della famosa espressione “non ci sono fatti, ma solo interpretazioni”, che non è una negazione della realtà che è questa infinità di centri di forza e di vita, ma una negazione della possibilità del pensiero di attestare un’unica verità. Non si tratta quindi di un relativismo soggettivistico umano nel senso idealistico della riduzione della realtà al pensiero, ma, anzi, il contrario, cioè l’affermazione dell’impossibilità di ridurre la realtà della Natura e della vita ad unica rappresentazione razionale e quindi al pensiero in senso soggettivistico umano: è il pensiero che è parte della Natura e della vita infinite, al loro servizio. Heidegger e Nietzsche: Chi è lo Zarathustra di Nietzsche? La sentenza di Nietzsche “Dio è morto”. L’oltrepassamento della metafisica. Già dagli anni trenta il pensiero di Friedrich Nietzsche21 fu il riferimento principale delle riflessioni di Heidegger, che culmineranno nei due volumi dedicatigli e contenenti scritti elaborati fra il 1936 e il 194622. Nietzsche aveva già valorizzato il pensiero tragico greco, aveva già distrutto la storia della metafisica, la storia della filosofia; aveva già distrutto la storia del Cristianesimo come dottrina, come teologia filosofica e metafisica, quale “platonismo per il popolo”, e determinato la necessità di una filosofia atea, basata sulla consapevolezza della “morte di Dio” o quantomeno di Dio come concetto dei filosofi. Nietzsche aveva già smascherato l’antropocentrismo e l’umanismo sottostanti la tradizione filosofica e scientifica; aveva già smascherato le rappresentazioni umane, come determinate dalla sua volontà di potenza, di affermarsi in tutta la sua potenza; aveva già delineato la necessità di un nuovo pensiero aurorale, che superasse il vecchio uomo e tutto ciò che era “umano, troppo umano”. Heidegger però non condivide la parte costruttiva del pensiero di Nietzsche e si dedica ad una sottilissima distruzione del suo pensiero positivo come compimento della metafisica, nonostante i suoi propositi. Certo, Heidegger sa che Nietzsche è stato un filosofo anomalo, non sistematico, che ha espresso il suo pensiero in aforismi o poeticamente, ma questo non elude il fatto che anche “poeticamente”, in maniera affascinante e suadente come mai è la prosa filosofica, si possano formulare concetti metafisici, snaturando invero la poesia nella metafisica. Chi è lo Zarathustra di Nietzsche? Non è certamente lo Zarathustra storico, il profeta religioso iraniano che ha influenzato la prospettiva escatologica del giudeo-cristianesimo, perché al contrario annuncia una dottrina ciclica del tempo implicita nella concezione dell’eterno ritorno. Il Così parlò Zarathustra è un confronto continuo implicito con il Cristianesimo e un tentativo di un suo 21 F. NIETZSCHE, Sämtliche Werke, a cura di G. COLLI & M. MONTINARI, Deutscher Taschenbuch Verlag/de Gruyter, München/Berlin-New York 1967-1980; tr. it. a cura di G. COLLI & M. MONTINARI, Opere complete, Adelphi, Milano 1968, 2008. 22 M. HEIDEGGER (1936-1946), Nietzsche, Neske, Pfullingen 1961; tr. it. a cura di F. VOLPI, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994. M. HEIDEGGER (1951-1952), Wer ist Nietzsches Zarathustra?, in Was heisst Denken?, Niemeyer, Tübingen 1954; tr. it. di U. UGAZIO a cura di G. VATTIMO, Chi è lo Zarathustra di Nietzsche, in Che cosa significa pensare?, Sugarco, Milano 1988; M. HEIDEGGER (1953), Wer ist Nietzsches Zarathustra?, in Vorträge und Aufsätze, Neske, Pfullingen 1954; tr. it. di G. VATTIMO, Chi è lo Zarathustra di Nietzsche?, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 66-82 superamento con toni profetici, da “buona novella” anti-cristiana che paradossalmente annuncia la morte di Dio e una nuova era, nuove “beatitudini” e nuove “maledizioni” (“guai a…”), una nuova prospettiva di redenzione. Zarathustra è colui che proclama un “uomo nuovo”, che deve avere tratti completamente diversi dal vecchio, e che per questo chiama Übermensch, che dovrebbe essere meglio tradotto come “oltre-uomo”. Bisogna proclamare un “oltre-uomo” per difendere la vita, la sofferenza: Zarathustra è l’“avvocato” della vita e della sofferenza, ovvero si potrebbe tradurrecomprendere il “Paracleto”, diversamente annunciato da Gesù stesso. La necessità di difendere la vita con tutta la sua sofferenza nasce dal fatto che il platonismo e il Cristianesimo come dottrina hanno mortificato e sacrificato la vita rimandando a un al di là, ad un mondo sovrannaturale. Nietzsche non distingue come Heidegger fra un Cristianesimo originario, come esperienza autentica di fede nell’auto-comprensione della radicale finitezza dell’esistenza che rifiuta qualsiasi fuga metafisica, e il Cristianesimo come dottrina metafisica: Nietzsche, anche attraverso l’interpretazione di Tolstoj del Cristianesimo, pensa che l’unico cristiano autentico sia stato solo Gesù stesso e che già i suoi apostoli e Paolo lo abbiano completamente tradito. Nietzsche vuole superare il solito ateismo, segnare definitivamente la morte di Dio una volta per tutte e fornire non solo una critica filosofica atea del Cristianesimo, ma anche una nuova mitopoiesi atea che risponda all’esigenza “religiosa” dell’essere umano: questa nuova mitopoiesi, alternativa al Cristianesimo, non può che risolversi nella ripresa dell’antico mito pagano di un mondo ciclico, basato anche su nuove speculazioni che derivano dalla portata cosmologica di alcune possibili riduzioni del significato della seconda legge della termodinamica23. Ma, proprio per questo motivo, questa nuova mitopoiesi si traduce, secondo Heidegger, in una nuova metafisica filosofica. Nietzsche effettua una genealogia della metafisica platonico-cristiana e ne trova le radici in uno spirito di risentimento e di vendetta: superare la metafisica platonico-cristiana implicherà quindi la 23 G. DELEUZE, Nietzsche et la philosophie, P.U.F., Paris 1962; tr. it. di S. TASSINARI, Nietzsche e la filosofia, Colportage, Firenze 1978; e poi nuova traduzione a cura di F. POLIDORI, intr. di M. FERRARIS, Feltrinelli, Milano 1992 e ulteriore nuova ed. italiana con appendice a cura di F. POLIDORI, tr. it. di F. POLIDORI & D. TARIZZO, Nietzsche e la filosofia e altri testi, Einaudi, Torino 2002; H. S. KRAGH, Entropic Creation – Religious Contexts of Thermodynamics and Cosmology,Ashgate, Aldershot (UK) 2008. redenzione da questo spirito di risentimento e di vendetta. Lo spirito di vendetta è sicuramente all’opera, secondo Nietzsche, nella concezione dell’inferno come luogo di punizione eterna degli ingiusti: la concezione dell’inferno è in contraddizione con la prospettiva di perdòno infinito di Gesù. Anche la concezione platonica della reincarnazione degli ingiusti in forme di vita inferiore deriva da uno spirito di vendetta mai sedato. Per Kant, Dio risultava necessario per la ragione pratica come garante di una remunerazione equa di ricompense e di punizioni nei confronti dei giusti e degli ingiusti. In definitiva, quindi, per Nietzsche era un falso sentimento morale animato da un effettivo spirito di vendetta a richiedere l’esistenza di Dio e di un mondo sovrannaturale, sovra-sensibile, in cui le sofferenze e le presunte ingiustizie della vita sarebbero state compensate. Spiega Nietzsche, quindi, generalizzandone il senso, che lo spirito di vendetta non è altro che l’avversione della volontà contro il tempo e il suo ‘così fu’: si tratta cioè di un avversione contro la temporalità della vita che ne segna la transitorietà, il suo passare immodificabile e quindi intrinsecamente incompensabile nelle sue sofferenze e nelle sue presunte ingiustizie. Si tratta cioè di una debolezza della volontà, di un volere contro la volontà che sorge dentro spiriti deboli o indeboliti dalla sofferenza, che non sanno accettare la vita che è esplicazione di una naturale volontà di potenza creatrice e distruttrice delle sue forme finite al di là del bene e del male; si tratta anche di quella nolontà che caratterizza l’ascesi buddhista e la prospettiva di Schopenhauer. L’oltre-uomo, espressione suprema della volontà di potenza, accetta invece la vita in tutte le sue esplicazioni, in tutta la sua finitezza e incompensabilità. L’accetta così tanto da volere la vita, da dirle sì non una sola volta, ma infinite volte: sarebbe pronta a ripeterla, pure in tutte le sue sofferenze, infinite volte, eternamente. La suprema volontà di potenza vuole l’eterno ritorno del tempo: “imprimere al divenire il carattere dell’essere – questa è la suprema volontà di potenza”. Nell’idea dell’eterno ritorno, Heidegger, però, scorge una ricaduta nella metafisica: si tratta comunque, seppure paradossalmente, di eternizzare il tempo, di non accettare la radicale finitezza dell’esistenza temporale. Heidegger, al contrario, ha impresso all’essere il carattere del divenire, il carattere di un’intrinseca finitezza temporale: è questa, per Heidegger, l’unica soluzione antimetafisica. Nietzsche vuole eternizzare il tempo e trovava, ancora prima della teorizzazione dell’eterno ritorno, nell’attimo-istante, che comporta l’arresto del tempo, questa possibilità di eternizzazione della dimensione temporale: per Heidegger, Nietzsche non si è ancora liberato dalla metafisica dell’eternità e non riconosce la vera dimensione temporale che l’istante-ora non può cogliere (da questa prospettiva Nietzsche, nonostante il suo stile diverso, è più vicino ad Aristotele che a Kierkegaard). La prospettiva nietzschiana dell’eterno ritorno è quindi metafisica in un mero ribaltamento dei valori associati da Platone al mondo ideale e al mondo sensibile: per Nietzsche è il mondo sensibile ad essere superiore ed eterno. Fra l’altro, il rifiuto del platonismo si sviluppa in Nietzsche con una ricaduta in prospettive biologistiche e materialistiche, seppure non meccaniciste. Ma anche la prospettiva nietzschiana della volontà di potenza è per Heidegger metafisica: si tratta di una metafisica soggettivistica in cui l’essere è concepito umanisticamente nei termini di una volontà di potenza illimitata, tipica solo degli enti umani. Nel medioevo cristiano la teologia francescana della volontà si era opposta ad una teologia aristotelica dell’intelletto, e questa teologia, attraverso il concetto di impetus poi ripreso da Bruno (e invero anche da Galileo) e Leibniz, aveva inaugurato una nuova filosofia della Natura, distante dall’intellettualismo logico-ontologico greco. Questa prospettiva era stata poi deformata dall’idea meccanicistica dell’inerzia e dalla biologia evoluzionistica che aveva ricondotto la volontà a un istinto vitale egoistico, che influenzò sia Schopenhauer che Nietzsche seppure con valutazioni opposte di questo istinto. Il tutto si legò in Nietzsche a una secolarizzazione di una teologia protestante, fissata dall’interpretazione della Bibbia a una visione essenzialmente ancora vetero-testamentaria e pre-gesuana della volontà, che concepiva Dio al di là della connotazione umana del bene e del male e considerava bene tutto – anche sofferenza, morte, violenza, assassinio – se e in quanto voluto da Dio. Al contrario, per Heidegger, conformente alla rivoluzione gesuana che identifica Dio con l’Amore (I Giov. 4.8), essere-nel-mondo non può essere autenticamente che cura dell’alterità e del mondo; mentre la volontà di potenza illimitata dell’essere umano non può che esserne un’assoluta distorsione che considera l’essere e gli altri enti strumentalmente come oggetti disponibili al suo arbitrio, da sfruttare, da fagocitare e da dominare tecnicamente a vantaggio della propria vita, propria di chi non vuole accettare la propria finitezza temporale e si illude di poterla superare nell’illimitatezza dell’estensione del suo dominio. Non solo: la prospettiva nietzschiana si mostra metafisica ad Heidegger in quanto le rappresentazioni del pensiero filosofico e scientifico, seppure smascherate come determinate strumentalmente da una volontà di potenza, sono valutate positivamente da Nietzsche se non legate ad una sua repressione ma invece ad una sua esaltazione. La verità è strumentale alla realizzazione della massima volontà di potenza del soggetto umano, ed è un errore in quanto fissa ciò che diviene e quando legata a rappresentazioni che non la realizzano: la verità non è propria dell’essere, ma è relativa alle varie prospettive dei vari soggetti, è soggettiva ed è determinata dalla massima efficacia delle rappresentazioni a vantaggio della volontà di potenza del soggetto24. Questa prospettiva Karl Lӧwith, che, come altri allievi ebrei, si sentì profondamente tradito da Heidegger (aveva corretto con lui anche le bozze di Essere e tempo) per la sua adesione al nazismo, deve arrampicarsi sugli specchi per contestare il suo maestro ormai inviso sul piano filosofico: presenta il caso di Nietzsche come esempio del fallimento dell’ermeneutica heideggeriana, che comporterebbe quindi la falsità dell’analitica esistenziale su cui si basa. Non comprendendo l’intreccio complesso e inevitabile fra interpretazione in senso stretto, valutazione critica e sviluppo delle problematiche poste da un autore al di là delle soluzioni proposte, giudica l’ermeneutica heideggeriana “solipsistica”, autocentrata e non rivolta ad un’effettiva comprensione dell’altro. Lӧwith deve affermare che se Nietzsche non avesse scritto perlopiù per aforismi, ma piuttosto sistematicamente come Aristotele, se Nietzsche non si fosse “talora” espresso come si è espresso, se non si leggessero gli aforismi del Wille zur Macht, allora si sarebbe compreso non come Heidegger pretenderebbe. Siccome Lӧwith non riesce a smontare la veridicità dell’interpretazione di Nietzsche data da Heidegger, allora attacca direttamente l’analitica esistenziale, l’essere heideggeriano che non sarebbe altro che un retro-mondo sovrasensibile metafisico (quando è chiaro che non esiste mai né dietro né fuori dagli enti), poi cerca di spiegare storicamente e sociologicamente il pensiero di Heidegger come di un’epoca di crisi, in cui ci sono ancora teologhi atei, come lui, che non hanno accettato la morte di Dio evidenziata da Nietzsche (mentre è chiaramente Nietzsche che ha dovuto colmare questa morte divinizzando la volontà di potenza dell’oltre-uomo): K. LÖWITH, Heidegger. Denker in dürftiger Zeit, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1960; tr. it. di C. CASES & A MAZZONE, Saggi su Heidegger (I. L’esistenza che si accetta e l’essere che si dà; II. Evenienzialità, storia, ventura dell’essere; III. L’interpretazione di ciò che rimane taciuto nel detto di Nietzsche “Dio è morto”; IV. Per una valutazione critica dell’influenza di Heidegger), Einaudi, Torino 1966, 1974, pp. 83-123, in particolare pp. 117 e 123, e inoltre pp. 130-131. Di Lӧwith si veda anche: K. LÖWITH, Zu Heideggers Seinsfrage: Die Natur des Menschen und die Welt der Natur, in Die Frage Martin Heideggers. Beitrӓge zu einem Kolloquium mit Heidegger aus Anlass seines 80., Winter, Heidelberg 1969, pp. 36-49; tr. it. di N. Curcio, intr. di F. Volpi, K. LÖWITH, La questione heideggeriana dell’essere: la natura dell’uomo e il mondo della natura, in G. ANDERS, H. ARENDT, H. JONAS, K. LӦWITH, L. STRAUSS, Su Heidegger. Cinque voci ebraiche, Donzelli, Roma 1998, pp. 75-88; K. LÖWITH, Husserl il pazzo e Heidegger il gesuita, da Fiala. Die Geschichte einer Versuchung 24 nietzschiana non è per Heidegger meramente metafisica, ma è il compimento assoluto della metafisica occidentale moderna e del suo soggettivismo: non c’è più un mondo vero, un essere, una verità; nella prospettiva nietzschiana assurge apertamente a verità quanto è strumentale al dominio dell’illimitata volontà di potenza della soggettività umana; l’efficacia strumentale per il dominio viene epistemologizzata a criterio di verità strumentale. Si conclude così quel processo che con la rivoluzione scientifica aveva portato all’epistemologizzazione della tecnica. In Nietzsche, indipendentemente dalla tecnica, viene legittimata apertamente anche quella che può essere considerata la sua motivazione, una volontà di potenza oltre-umana (invero, “umana, troppo umana”), illimitata e al di là del bene e del male. L’esito è che la metafisica di Nietzsche, pur essendone sganciata, può costituire il fondamento del dominio tecnico umano che riduce tutto a fondo di risorse di energia, nella devastazione assoluta della terra da parte dell’umanità. Il detto di Nietzsche “Dio è morto” per Heidegger ha due aspetti25: da una parte, va compreso positivamente nel senso della morte della metafisica del mondo sovrasensibile platonico-cristiano, del cristianesimo come dottrina metafisica, e mai nel senso del Dio della fede dell’esperienza autentica del Cristianesimo originario. Dal punto di vista specifico, invece, dell’assenza e del rifiuto della fede autentica in Dio, espressa da Nietzsche nell’uccisione vendicativa e consapevole di Dio da parte dell’“uomo più laido” (per non avere testimoni della propria abiezione), ha un aspetto negativo ma non esprime una novità; è piuttosto il culmine del processo di oblio dell’essere, che, nella modernità, ha i tratti della de-divinizzazione già discussa e a cui ha contribuito anche il cristianesimo dottrinario e religioso moderno che ha ridotto, con la filosofia moderna, soggettivisticamente il mondo a immagine, perdendo il senso divino della Physis. In questa prospettiva heideggeriana, Nietzsche non supera il nichilismo dei valori che segue, secondo (Fiala. La storia di una tentazione) in Internazionale Zeitschrift für Philosophie, n. 1 (1997), pp. 136-167, pres. di O. Franceschelli, in Micromega, pp. 297-306; K. LÖWITH, Mein Lebenin Deutschland vor und nach 1933, Metzler, Stuttgart 1986, pp. 42-45; tr. it. di E. Grillo, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, il Saggiatore, Milano 1988, pp. 69-72. 25 M. HEIDEGGER (1936-1943), Nietzsches Wort “Gott ist tot, in Holzwege, Klostermann, Frankfurt am Main 1950; tr. it. di P. CHIODI, La sentenza di Nietzsche: “Dio è morto”, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, 1984, pp. 191-246. Nietzsche, la “morte di Dio”, perché la trasmutazione nietzschiana di tutti i valori a favore della “valorizzazione” di una volontà di potenza senza valori è parte di questo nichilismo che deriva invece, per Heidegger, dall’oblio dell’essere e dalla de-divinizzazione che è prima di tutto perdita del senso della Physis, per cui neanche l’assenza di Dio può essere più percepita come tale. L’oltrepassamento della metafisica, per Heidegger, non è soltanto una svolta all’interno della disciplina della filosofia, ma piuttosto richiede una nuova maniera di esistere autenticamente in una nuova pre-comprensione dell’essere; è un evento nella storia dell’essere, in cui dopo l’abbandono e l’oblio totale dell’essere che costituiscono l’attuale nichilismo, che annichila l’essere nella devastazione della Physis, torna a rivelarsi l’essere. Tuttavia, seppure l’eterno ritorno e la volontà di potenza di Nietzsche rientrano nella metafisica e nell’ideologia della violenza, l’essere di Heidegger – seppure completamente temporalizzato - , riconducendo le cose stesse nella prospettiva dell’antica ontologia seppure modificata, è meno indicato del divenire nietzscheano per cogliere la temporalità costitutiva delle cose; e la rivelazione della Physis oltre la metafisica è vanificata dall’ontologizzazione trascendentale e metafisica della Physis nell’essere compiuta da Heidegger. Se si tolgono alla volontà di Nietzsche la sua connotazione di potenza e di dominio e quindi la sua connotazione di violenza amorale egoistica, si può accettare pienamente il suo sì alla vita e farne come in Albert Schweitzer26 il fondamento volontaristico di una morale del rispetto della vita in tutte le sue forme, evitando le critiche di Heidegger di un sottostante soggettivismo umanistico. Søren Kierkegaard e la filosofia dell’esistenza Søren Kierkegaard (1813-1855) diede origine a un nuovo tipo di filosofia: la sua filosofia dell’esistenza si oppone a tutte le precedenti filosofie delle essenze, che avevano avuto il loro 26 A. SCHWEITZER, Aus meinem Leben und Denken, F. Meiner, Leipzig 1931; tr. it. di A. GUADAGNIN, La mia vita e il mio pensiero, Comunità, Milano 1965; A. SCHWEITZER, Die Weltanschauung der indischen Denker. Mystik und Ethik, Beck, München 1934; tr. it., I grandi pensatori dell’India, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1962, e, a cura di S. Marchignoli, Donzelli, Roma 1997; A. SCHWEITZER, Die Ehrfurcht vor dem Leben – Grundtexte aus fünf Jahrzehnten, a cura di H. W. Bӓhr, Beck, München 1991; A. SCHWEITZER, Gesammelte Werke in fünf Bänden. Hrsg. von Rudolf Grabs. Beck, München 1974. culmine in quella di Hegel. Si presenta come una nuova forma di filosofia cristiana che si contrappone alla trasformazione del cristianesimo in una metafisica teologica: le sue radici affondano nella critica degli universali effettuata dalla rivoluzione francescana e dal rifiuto luterano della intellettualistica filosofia teoretica greca delle essenze. Si tratta di una filosofia, del tutto soggettiva, dell’esistenza nella sua concretezza e singolarità, dove anche la fede non si costituisce come suo fondamento razionale ma come particolare esperienza esistenziale concreta. Kierkegaard in Enten – Eller (Aut-aut, 1843) (con lo pseudonimo di Victor Eremita che avrebbe trovato i fogli pubblicati in due volumi: il primo, Enten, scritto da A l’esteta, mentre ‘il diario del seduttore è scritto da Johannes; il secondo, Eller, scritto dal giudice in pensione Wilhelm parla dello stadio etico); e in Stadi sul cammino della vita (1845), (in danese Stadier paa Livets Vei. Studier af Forskjellige sammenbragte, befordrede til Trykken og udgivne af Hilarius Bogbinder, la vita religiosa è descritta solo nella terza sezione), delinea un’analitica e una dialettica dell’esistenza, senza che queste possano però costituire un sistema filosofico dell’esistenza: la filosofia è intesa come tutt’uno con l’esistenza, come consapevolezza esistenziale e progetto d’esistenza, e mai come compendiabile in un sistema di una ragione teoretica. Qui, Kierkegaard descrive e distingue tre tipologie di esistenza, che possono costituire anche tre stadi successivi: questa analitica prende le mosse dalle proprie esperienze esistenziali individuali e non dal ragionamento astratto legato all’universalità impersonale di un io trascendentale. La prima tipologia d’esistenza è quella di una vita estetica, o meglio di un modo di vivere da esteta (di cui il Don Giovanni è esempio paradigmatico), che si realizza nel godere il piacere momentaneo dell’attimo fuggente, in una ricerca continua ma disciplinata di qualcosa di non-banale, di sofisticato e intenso che possa ravvivare un ebbrezza che perduri. Questa tipologia d’esistenza è destinata, per la sua natura, ad avere come esito la noia o eventualmente la disperazione. Quando la disperazione diventa prevalente, allora si prospetta una nuova possibilità, un’esistenza alternativa: la disperazione è quindi non meramente negativa, ma ambivalente perché permette anche di uscire fuori dalla sfera estetica. Si apre allora la strada ad una seconda tipologia d’esistenza, quella di una vita etica. Il passaggio però non è facile perché non si tratta di un percorso continuo, senza fratture: vi è un abisso da superare ed un salto da effettuare per questa trasformazione segnata da una discontinuità radicale. La scelta di una vita etica comporta il raggiungimento di una nuova stabilità ed una nuova continuità, di livello superiore a quello della vita estetica che aveva bisogno sempre di novità esteriori per mantenersi nella sua intensità: questa nuova stabilità ha corso nella scelta di sé stessi, di un sé stesso che si ritrova proprio nel suo scegliere in una continuità temporale che fonda la propria identità nella sua storia, e in accordo a una legge universale che lo lega all’intera umanità. L’esito della vita etica è il riconoscimento della propria colpa, e anche delle colpe ereditate come membro della specie umana, che ne mostra l’insufficienza. Il sentimento di colpa genera angoscia, e, questa angoscia presenta ancora un’ambivalenza, perché non è solo negativa ma può condurre a uscire da questa sfera d’esistenza. Si apre allora la possibilità del pentimento, della metànoia e della conversione alla vita religiosa. Anche fra vita etica e vita religiosa c’è un abisso, ancora più incolmabile del precedente, e richiede il salto della fede che non è attuabile dal solo essere umano, ma coinvolge Dio: la fede è dono della Grazia. Kierkegaard distingue nettamente la vita religiosa dalla vita etica richiamandosi alla figura antico-testamentaria di Abramo, e sarà seguito in questo, successivamente dal teologo Karl Barth: vede in Abramo il paradigma della fede che può portarlo anche all’uccisione del figlio, cioè alla sospensione dell’etica e delle sue leggi. Kierkegaard crede sia questa la radicalità della fede cristiana, ma in effetti il Dio di Kierkegaard resta così ancora quello vetero-testamentario che è molto diverso dall’etico Dio-Amore di Gesù e del Nuovo Testamento (I Giov. 4.8). La fede, allora, per Kierkegaard non può che qualificarsi a sua volta, in questa sospensione dell’etica, che un’incertezza angosciosa, dove certa resta solo l’angoscia. La fede è così paradosso e scandalo, contraddizione ineliminabile. Il paradosso massimo è quello del Cristo dalla doppia natura, umana e divina. Ma questo paradosso si ripresenta in ogni esperienza esistenziale della fede in cui Dio è presente nella vita dell’essere umano: da un lato, è l’essere umano che deve scegliere la vita religiosa, dall’altro è Dio che sceglie/elegge l’essere umano nella Grazia della fede. Se questa è l’esperienza esistenziale umana che riproduce il paradosso proprio del Cristo, allora il cristianesimo rivela la struttura stessa dell’esistenza: contraddizione, paradosso, scandalo, dubbio, angoscia sono le caratteristiche dell’esistenza e del cristianesimo, non solo della vita religiosa ma anche della vita estetica e della vita etica. L’esperienza esistenziale è esperienza di una contingenza radicale, contingenza della propria esistenziale e contingenza delle cose. L’esperienza non solo non è sufficiente per delineare alcunché di necessario, ma è tale da dover escludere la necessità: tutto accade in quanto possibilità. A sua volta, anche la storia è il regno della possibilità, in quanto propria del divenire: il divenire è sempre un annientamento parziale delle possibilità soppiantate dalla realtà: il passato non è necessario neanche dopo essere accaduto, altrimenti necessario sarebbe anche il futuro; il necessario, proprio dell'essere immutabile, non include il possibile del divenire, come erroneamente pensava Aristotele, ma ne è l’opposto. Il passato resta sempre possibile e quindi la sua stessa realtà è la realtà di una possibilità (per questo Dio può cambiare anche il passato, come per la teologia di Pier Damiani). Il passato non è che un futuro che è accaduto: la dimensione fondamentale del tempo, come sarà ripreso da Heidegger, è così il futuro. Come regno del possibile, il divenire non ammette causalità: Kierkegaard segue e va oltre Hume. Il divenuto è conoscibile nel suo darsi immediato alla percezione, ma il divenire non è conoscibile: il cambiamento non è conoscibile. Non c’è una scienza del divenire della Natura: nessuna logica dialettica hegeliana può stabilirsi, ma neanche una scienza della Natura basabile sulla continuità e sulla causalità che non sono tracciabili. Questa prospettiva sarà alla radice della filosofia quantistica della Natura di Niels Bohr (1885-1962) di fronte alle evidenze di impossibilità sperimentali del mondo atomico e microfisico: è possibile descrivere l’elettrone solo negli stati stazionari dell’atomo, e mai nelle transizioni da uno stato all’altro, che non sono descrivibili tramite funzioni matematiche continue o connessioni causali prevedibili e si configurano come i salti di Kierkegaard fra i vari stati d’esistenza; l’elettrone verrà poi pensato da Bohr, secondo il principio di complementarità del 1928, come avente una doppia natura di corpuscolo e di onda come la doppia natura del Cristo in cui la contraddizione è pensata in termini appunto di complementarità. Anche la storia come divenire non può essere quindi oggetto di scienza, in quanto niente del nonessere o distruzione delle possibilità che si sono realizzate, passaggio dal niente a una possibilità multipla. La storia non è quindi oggetto di scienza. La struttura dell’esistenza è quindi la possibilità, che sottostà alle varie possibili scelte alternative di vita: l’angoscia che caratterizza l’esistenza è legata all'indeterminazione e all’infinità delle possibilità che si concretizzano nell'avvenire, a ciò che non è ma può essere nel futuro, al nulla che è possibile o alla possibilità nullificante, a cui si collega la morte. Il passato non può angosciare: ha potuto angosciare nel suo essere possibile futuro che stava accadendo o può angosciare nel suo possibile ripetersi futuro. L'angoscia è, come la disperazione, una categoria esistenziale che ci fa comprendere, come per Luther, che nella vita può accadere di tutto e che la perdizione e l'annientamento sono in ogni momento possibili per la struttura stessa dell'esistenza. L'angoscia è relativa alla condizione di possibilità esistenziale dell'essere umano in relazione al mondo, la disperazione è invece correlata alla condizione di possibilità esistenziale interna a sé stesso: la disperazione è la malattia mortale non perché comporti la morte effettiva, ma perché è la possibilità impossibile di affermare o negare sé stesso rispettivamente nella propria autosufficienza o insufficienza che comporterebbe essere altro da sé e autosufficienza; si tratta di "vivere la morte dell'io come autosufficienza". Solo la fede permette di superare la disperazione in quanto fede in un Dio a cui tutto è possibile. Ma la fede sconfina al di là della ragione ed è sempre paradosso e contraddizione: così, costituisce un capovolgimento dell’esistenza per cui al possibile come fonte di radicale instabilità si sostituisce la stabilità del possibile dipendente da Dio che può tutto. Fede e dubbio non sono due categorie gnoseologiche ma passioni contrarie, ma la fede è anche decisione che esclude il dubbio che non si risolve razionalmente. Il rapporto fra Dio ed essere umano non si verifica nella storia o nel divenire ma nell'istante in cui l'eternità incontra il tempo, la verità di Dio si impone sulla non-verità umana che è propria del peccato, per cui non si può raggiungere la verità attraverso una maieutica socratica che presuppone la presenza della verità come interna all'essere umano, ma solo attraverso la redenzione operata dal Cristo. Dio non è dimostrabile razionalmente dall’essere umano perché caratterizzato come non verità: le dimostrazioni presunte presuppongono già Dio e sono quindi sviluppi idealistici e non prove. Dio è follia impensabile, differenza assoluta rispetto all'essere umano. Con la fede, possiamo accedere alla doppia natura del Cristo, uomo e Dio, che resta per noi paradossale e non risolvibile teoreticamente, ed il Cristo è il paradigma dell’incontro esistenziale dell’essere umano e di Dio, dell’incontro fra Natura e Grazia nell’esistenza umana. L’esistenza umana, così, secondo Kierkegaard, si può comprendere attraverso l’esempio del paradosso e della contraddizione che la persona di Gesù vive in sé e che il cristiano ripercorre: anche Gesù, secondo i Vangeli, ha vissuto pienamente l’esperienza dell’angoscia. Secondo Kierkegaard, è così il cristianesimo che svela la struttura dell’esistenza umana: questo tema verrà ripreso da Heidegger che costituirà la struttura trascendentale dell’esistenza sulla base della fenomenologia della vita religiosa che rappresenta la forma di esistenza autentica. La fenomenologia di Edmund Husserl La fenomenologia di Edmund Husserl (1859-1938) va situata storicamente per essere compresa pienamente: si tratta di una reazione alla crisi del pensiero moderno, scientifico e filosofico. In fisica, dopo la costruzione della termodinamica e dell’elettromagnetismo a partire da metà Ottocento, si delineò la crisi del meccanicismo: la concezione meccanicistica della Natura non poteva più costituire il fondamento del pensiero fisico. D’altra parte, la costruzione delle geometrie non-euclidee, delle algebre non-commutative, di nuove teorie dei numeri, già nella prima metà dell’Ottocento, determinò una crisi dei fondamenti della matematica e quindi dell’intera scienza moderna: logicismo, formalismo, intuizionismo-costruttivismo si fronteggiarono proponendo soluzioni che non si rivelarono positive. La fondazione della filosofia teoretica era invece crollata sotto le critiche di Arthur Schopenhauer, Karl Marx, Søren Kierkegaard, Friedrich Nietzsche. Il dubbio teoretico con cui Husserl si confrontava era quindi prima di tutto un dubbio storico: il legame con Cartesio, ancora prima che teoretico, è storico: si era riaperto l’abisso di un mondo non razionale e non razionalizzabile. Husserl tenta una rifondazione della filosofia teoretica nello spirito greco, ma in termini della moderna metafisica soggettivistica. A partire dalle Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, il cui primo volume fu pubblicato nel 1913 (altri due, postumi, appariranno nel 1952)27, Edmund Husserl così aveva proposto il metodo della cosiddetta “riduzione fenomenologica” (la sospensione del giudizio dello scetticismo antico, l’epoché) per accedere a una dimensione in cui i fenomeni si mostrano come tali a una coscienza pura: secondo Husserl, si devono “mettere fra parentesi” i pre-giudizi e i giudizi del senso comune e anche delle teorie scientifiche che presuppongono già un mondo di cui l’essere umano è parte. Unico modo per accedere al mondo vero è ricostituirlo a partire dagli atti intenzionali della coscienza pura che lo costituiscono come tale (il mondo si coglie solo come il correlato oggettivo di una coscienza pura che s’intenziona verso di esso e che si presenta come un’intersoggettività originaria): Husserl vuole partire da una correlazione originaria soggettomondo, sperando così di superare l’astratto realismo delle cose in sé e l’astratto idealismo di una coscienza in sé a cui il mondo è interno, ma comunque il mondo si costituisce solo attraverso il soggetto come fenomeno per una coscienza pura. Secondo Husserl, il mondo vero non è quello descritto dall’esterno dalla scienza moderna, ma quello “vissuto” dall’interno, dalla coscienza interiore dell’essere umano. Questa prospettiva di Husserl vuole superare con l’idealismo post-kantiano la metafisica distinzione (kantiana) fra fenomeno e noumeno, e si ripropone, in un contesto storico mutato, una rifondazione filosofica della conoscenza scientifica da un punto di vista che resta soggettivistico e che certamente non tiene conto che indirettamente della problematica humeana ormai lontana. Husserl segue il dubbio metodico cartesiano e si arresta allo stesso modo all’indubitabile certezza dell’io, seppure 27 E. HUSSERL, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und Phänomenologischen Philosophie. Erstes Buch: Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, in Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung, Niemeyer, Halle 1913; tr. it. a cura di E. Filippini, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino 1965. trascendentalizzato alla Kant. C’è, poi, secondo Husserl, oltre l’intuizione sensibile kantiana, un’intuizione categoriale (non dell’intelletto kantiano) che permette di accedere, oltre l’intuizione empirica, alle universali e a priori modalità d’essere “oggettive” in cui si struttura l’esperienza, cosicché si ha una riduzione eidetica dei singoli dati empirici alle “essenze oggettive” (dei “trascendentali oggettivi”, ontologici) delle cose per come si danno allo sguardo teoretico disinteressato. Solo questa intuizione eidetica permette di fondare una scienza rigorosa, che non è possibile fondare a partire dall’esperienza come vorrebbero le scienze naturali. Che fosse possibile fondare una scienza rigorosa era per Kant una fiducia assoluta nella scienza newtoniana, ma per Husserl, che non ritiene fondate le scienze naturali, resta una mera petizione di principio, come anche il fatto che ci sia un’essenza ideale delle cose coglibile da un’intuizione eidetica e che lo porta a un realismo delle idee, ovvero a una sorta d’idealismo platonico senza iperuranio, un idealismo trascendentale che ha un risvolto ontologico. Questo aprirà la strada all’ontologizzazione del trascendentale kantiano da parte di Heidegger. Tuttavia, per Husserl la fenomenologia resta, per esempio, pre-copernicana, perché la base su cui si costituisce poi la conoscenza scientifica è quella dei vissuti di coscienza dell’essere umano che è radicato nella Terra come punto d’osservazione28: questo chiarimento mostra, come già detto, perché fosse fuorviante l’analogia posta da Kant tra la sua prospettiva e la “rivoluzione copernicana”. Si ha così il paradosso per cui per l’essere umano il fenomeno del tramonto è reale seppure apparenza29, e il moto rotatorio della Terra intorno al suo asse, che sta dietro quel 28 E. HUSSERL (1934), Umsturz der koperkanischen Lehre in der gewöhnlichen weltanschaulichen Interpretation, pubblicato postumo con il titolo Grundlegende Untersuchungen zum phänomenologischen Ursprung der Raumlichkeit der Natur, in Philosophical Essays in Memory of Edmund Husserl, ed. M. Farber, Cambridge Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1940, pp. 307-325; Rovesciamento della dottrina copernicana nell'interpretazione della corrente visione del mondo, tr. it. a cura di G. D. Neri, in aut-aut 245 (1991), pp. 1-18; il titolo completo dato da Husserl suonava: Rovesciamento [Umsturz] della dottrina copernicana nell'interpretazione della corrente visione dei mondo. L'Arca originaria Terra non si muove. Ricerche fondamentali circa l'origine fenomenologica della corporeità, della spazialità, della natura nel senso primario delle scienze naturali. 29 Si veda la corrispondente discussione, sul tempo del mondo, da parte di Heidegger nel § 80 di Essere e Tempo, che fa pensare ad una prospettiva di pensiero a cui quanto meno non interessa nulla del copernicanesimo: M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 1927, 2001; a cura di F.-W VON HERMANN, in Gesamtausgabe, vol. II, Klostermann, Frankfurt am Main 1977 (la prima con le glosse a margine dell’Hüttenexemplar - esemplare della baita - di Heidegger); tr. it. di P. CHIODI, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1970; con aggiornamento bio-bibliografico di A. MARINI 1976; nuova edizione italiana a cura di F. VOLPI sulla versione di P. CHIODI con le glosse a margine dell’Hüttenexemplar di fenomeno, non ha realtà effettiva ma astratta perché non riferita al senso che ha per l’essere umano conoscente. Così, tutta la prospettiva delle teorie fisiche della relatività, sia di Bruno e Galileo sia di Poincaré ed Einstein, è considerata astratta e non restituente la realtà e il senso effettivi delle cose. Il fenomeno tematizzato dalla fenomenologia non è più il fenomeno oggettivo del senso ordinario o della scienza e neppure quello kantiano, ma è un fenomeno completamente soggettivistico. La fenomenologia era nata per comprendere i fenomeni psicologici o logici interni alla coscienza (gli atti intenzionali della coscienza erano già stati introdotti per quelli da Franz Brentano che però li considerava immanenti alla coscienza e non correlativi ad essa come Husserl), ma applicata ai fenomeni naturali si è rivelata riduttiva e antropocentrica. Il tentativo di ripristinare una metafisica ontologica: Martin Heidegger Martin Heidegger (1889-1976) di fronte alla crisi del pensiero moderno ha ritenuto che fosse necessario abbandonare la metafisica soggettivistica e ritornare ad un’antica metafisica ontologica: la crisi della modernità viene affrontata con una critica assoluta della modernità. Heidegger tenta così di mettere insieme trascendentalismo kantiano e poi hegeliano, fenomenologia husserliana, l’ermeneutica di Wilhelm Dilthey (1833-1911), ed esistenzialismo kierkegaardiano all’interno di una prospettiva metafisico-ontologica. Dalla modernità Heidegger ha ripreso a suo modo il tema di una pre-comprensione del mondo di tipo pratico: tuttavia, connotò questo rapporto pratico in senso puramente strumentale legato all’uso del mondo da parte dell’essere umano, ontologizzandolo trascendentalmente30. Heidegger, in Essere e tempo, sostituisce alla correlazione coscienza-mondo di Husserl, la correlazione essere umano – mondo, che si costituisce nell’essere-nel-mondo che è il Da-sein: il soggetto si correla al mondo nel Heidegger, Longanesi, Milano 2005; tr. it., con testo tedesco a fronte, a cura di A. MARINI, Essere e tempo, Mondadori, Milano 2006. 30 M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 1927, 2001; a cura di F.-W VON HERMANN, in Gesamtausgabe, vol. II, Klostermann, Frankfurt am Main 1977 (la prima con le glosse a margine dell’Hüttenexemplar - esemplare della baita - di Heidegger); tr. it. di P. CHIODI, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1970; con aggiornamento bio-bibliografico di A. MARINI 1976, § 7 pp. 46-47, § 7 C, p. 55; nuova edizione italiana a cura di F. VOLPI sulla versione di P. CHIODI con le glosse a margine dell’Hüttenexemplar di Heidegger, Longanesi, Milano 2005; tr. it., con testo tedesco a fronte, a cura di A. MARINI, Essere e tempo, Mondadori, Milano 2006, in particolare §§ 14-22. suo esistere. L’analitica dell’esistenza di Kierkegaard è ripresa e riformulata: la concreta esperienza esistenziale di Kierkegaard è sostituita in Heidegger da un’analitica trascendentale della struttura ontologica dell’esserci (non gnoseologica come in Kant), che prescinda dall’esperienza. Al di fuori della concreta dinamica esistenziale considerata da Kierkegaard nei suoi salti da una vita estetica ad una etica e a una religiosa, l’angoscia e la morte stessa vengono trascendentalizzate in uno struttura ontologica dell’essere-per-la-morte che in qualche modo le neutralizza. L’epoché del mondo operata da Husserl è quindi rifiutata, perché la costituzione del mondo come fenomeno non è operata dalla coscienza, ma sul piano stesso dell’esistere nel mondo stesso. Il logos che può opera questa costituzione, così, per Heidegger, non è quello della tradizione razionalistica, ma quello proprio a una comprensione del senso dell’esistenza, e quindi ermeneutico, perché anche il mondo si costituisce come fenomeno in termini del suo senso esistenziale per l’essere umano che si dà all’interno di un pensiero poetante, ovvero del linguaggio poetico (in una sorta di trasformazione linguistico-ermeneutica del kantismo). Tuttavia, anche l’ermeneutica fenomenologica di Heidegger, pur superando l’intellettualismo coscienzialistico di Edmund Husserl, presenta, come si è accennato, problemi analoghi per raggiungere le “cose stesse”: se la costituzione del mondo come fenomeno è un fatto dell’esserci umano, allora si comprende come Heidegger possa giudicare “poveri di mondo” gli altri esseri animali, restando in una prospettiva antropocentrica; anche il linguaggio poetico, analizzato soprattutto dall’ultimo Heidegger, non lo apre a superare l’orizzonte antropocentrico, perché è solo l’essere umano che ‘poeticamente abita’ fra terra e cielo, nell’incontro con gli dèi che è dei soli veramente mortali, per Heidegger gli esseri umani. Nel § 43 di Essere e Tempo, Heidegger si confronta sia con il realismo sia con l’idealismo: da una parte, Heidegger concorda con il principio realistico per cui il mondo esiste anche se la sua esistenza non va dimostrata ma piuttosto è costitutiva dell’esserci come essere-nel-mondo; dall’altra parte, Heidegger condivide il principio idealistico per cui l’essere è “nella coscienza”, cioè si dà solo nella comprensione dell’esserci. Solo all’interno della comprensione dell’esserci si danno per Heidegger le cose stesse, le cose in sé, che altrimenti resterebbero indeterminabili e indeterminate. Nel § 44c, Heidegger afferma altresì che “ogni verità è relativa all’essere dell’esserci”, che prima e dopo l’esserci non c’è verità, che è apertura o scoprimento del mondo nell’esserci: come esempio, Heidegger dice che le leggi di Newton, il principio di non contraddizione non erano veri prima che fossero scoperti. L’ermeneutica fenomenologica di Heidegger ha quindi una connotazione idealistica trascendentale che comunque resta soggettivistica e umanistica, seppure il legame al soggetto umano non si situi su un piano gnoseologico ma piuttosto di una (pre-)comprensione ontologica. Heidegger è consapevole che il mondo si incontra prima nella prassi che nel pensiero, ma nel passare dalla pre-comprensione della prassi alla comprensione ontologica dell’essere, ontologizzando la prassi, Heidegger subordina ancora la prassi alla teoria (ontologica) e riconduce il mondo stesso alla comprensione ontologica che ne ha l’esserci. Heidegger effettua un doppio movimento: segue la prospettiva gnoseologica che aveva ricondotto l’ontologia alla gnoseologia, ma poi ontologizza la gnoseologia. Così, Heidegger crede di poter superare l’aporia che oppone idealismo e realismo, ma invero, in quanto l’ontologizzazione è comunque teoretica, Heidegger non riesce a superare il paradigma teoretico greco e resta imprigionato in un soggettivismo gnoseologico: la sua ontologia resta nascostamente gnoseologia, è gnoseologia travestita; ontologizzare il soggetto gnoseologico non implica soltanto una contraddizione nel ridurlo a oggetto, ma anche un ridurre le cose alle forme conoscitive del soggetto umano; anziché evitare i due errori del realismo e dell’idealismo, Heidegger li compie entrambi31. La questione dell’essere, riproposta da Heidegger, è, se non la più antica, la questione storicamente più importante della filosofia occidentale. Da dove ha origine? Essere è un verbo, una parte fondamentale di un linguaggio umano legato a una scrittura alfabetico-fonetico-lineare, un concettorelazione fra altre parole-concetti, il concetto più generale che è incluso nella definizione di tutti gli altri concetti che esprimono invenzioni fantastiche, enti puramente linguistici o pensati, o cose reali. Questo concetto ha assunto un significato filosofico per l’interpretazione della Physis/Natura, a 31 G. CALOGERO, Leggendo Heidegger, in Rivista di filosofia XLI, n.2 (1950), pp. 136-149; poi ristampato nella seconda edizione de La scuola dell’uomo, in Scritti di Guido Calogero I, Sansoni, Firenze 1956, pp. 231-249. partire dalla teorizzazione del divenire e del mutamento da parte di Eraclito in termini di essere e di non essere, e poi dell’immutabilità da parte di Parmenide in termini di essere. Martin Heidegger, seguendo la scia di Soren Kierkegaard, ha cercato di ridare concretezza all’essere, in un’interpretazione ontologica dell’esistenza: non si tratterebbe più di un concetto teoretico, ma ciò che solo è irriducibile a concetto, che resta quando sospendiamo tutti i concetti e tutte le teorie. Questa concretezza però può sussistere solo intendendo l’essere come “essere qualcosa o qualcuno”, in una sua determinazione singolare, individuale. Tuttavia, nel momento stesso in cui Heidegger pone come fondamentale, invero già in Sein und Zeit,32 la differenza ontologica tra essere ed ente, astrae l’essere dall’ente, considera l’essere come indeterminato e quindi lo riduce a concetto, a universale seppure non esistente platonicamente in sé, ma sempre connesso a un individuo: non basta dire che l’essere è sempre l’essere di un ente, perché nel dire questo non si specifica mai l’essere nella singolarità dell’ente cui si riferisce, tanto da poterlo pensare come essere (generale, universale) degli enti. Essere un particolare essere umano è diverso dall’essere un altro essere umano, come essere un essere umano è diverso dall’essere una farfalla: perché l’essere sia concreto non può essere neanche un universale di specie, deve essere considerato sempre e comunque nella sua singolarità individuale. Nella originaria comunanza-partecipazione dell’essere a tutti gli enti, Heidegger sperava di dare un fondamento ontologico-trascendentale all’etica, implicata nell’originario conessere sicuramente degli esseri umani; eventualmente estendibile illimitatamente, anche oltre Heidegger, a un con-essere di tutti gli enti: un fondamento ancora più profondo, trascendentale, precedente alla, e indipendente dall’osservazione empirica, fatta propria dalla teoria evoluzionistica dell’origine delle specie, di una comune e unica origine di tutti gli esseri viventi. 32 M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 1927, 2001; a cura di F.-W VON HERMANN, in Gesamtausgabe, vol. II, Klostermann, Frankfurt am Main 1977 (la prima con le glosse a margine dell’Hüttenexemplar di Heidegger); tr. it. di P. CHIODI, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1970, con aggiornamento bio-bibliografico di A. MARINI 1976; nuova edizione italiana a cura di F. VOLPI sulla versione di P. CHIODI con le glosse a margine dell’Hüttenexemplar (esemplare della baita) di Heidegger, Longanesi, Milano 2005; tr. it., con testo tedesco a fronte, di A. MARINI, Essere e tempo, Mondadori, Milano 2006; E. GIANNETTO, Un fisico delle origini. Heidegger, la scienza e la Natura, Donzelli, Roma 2010. Purtroppo, questa fondazione trascendentale ontologica escogitata da Heidegger per l’etica si è rivelata illusoria. L’essere di Heidegger si è dimostrato un concetto etno-linguisticamente e storicamente determinato all’interno degli sviluppi di un’etno-filosofia greca. Guido Calogero aveva già fatto notare che quella di Heidegger era una metafisica neo-parmenidea, e che quelle di Eraclito e Parmenide erano delle proto-logiche ontologizzate, delle onto-logiche sorte da un’ipostatizzazione della più comune funzione verbale.33 Se l’essere è questa ipostatizzazione indebita, allora la filosofia non è rivelazione dell’essere, pensiero dell’essere, e il linguaggio non è la dimora dell’essere né una sua rivelazione: il logos greco, presocratico, della physis, era solo un discorso umano, un logo umano proiettato sulla Natura; solo il logos cristiano era carne, era vita, era amore, era rivelazione e non può essere ricompreso insieme a quello greco. Lo stesso pensiero dell’essere di Heidegger si è manifestato quale un mero ferro ligneo, che aveva tentato di mettere insieme intellettualismo greco e prassi etica d’amore del Cristianesimo: la rivelazione di Dio nella Natura non si può pensare in termini della physis greca ridotta intellualisticamente a un logos ontologico. Se l’essere è questa ipostatizzazione indebita, allora la storia degli enti e dell’esserci umano o dell’umanità non è riconducibile storia dell’essere, come fa Heidegger dopo la svolta degli anni trenta, traducendo nel suo linguaggio ontologico la ‘storia dello spirito’ di Hegel; né la storia concreta dell’esistere umano può essere compresa in termini di una sua fondazione trascendentale nella storia dell’essere che ne determinerebbe così le condizioni di possibilità: con la conseguente de-responsabilizzazione dell’individuo umano dalle sue scelte esistenziali, perché condizionate dallo stesso essere che determina la storia mondiale dell’umanità. Questa prospettiva filosofica della storia trascendentale dell’essere permette di capire perché Heidegger non si sia mai scusato del proprio errore dell’adesione al nazismo: non solo la verità, secondo Heidegger, appartiene all’essere, ma anche l’errore ha un suo fondamento ontologico; è l’essere stesso che nell’umanità 33 G. CALOGERO, Studi sull'eleatismo, La Nuova Italia, Firenze 1932, seconda edizione 1977; G. CALOGERO, Parmenide e la genesi della logica classica, in Annali della Regia Scuola Normale Superiore di Pisa, serie II, v. 5 (1936), pp. 143185; G. CALOGERO, Storia della logica antica, Laterza, Roma-Bari 1967. erra e si oblia, come massimamente nell’età moderna della tecnica distruttrice di cui il nazismo sarebbe solo un’epifenomeno. La condizione post-moderna Le reazioni di Husserl ed Heidegger alla crisi del pensiero filosofico moderno, pur nella loro parziale originalità, non costituivano che la riproposizione di precedenti metafisiche e non hanno potuto arginarla che momentaneamente. Nel frattempo, la crisi delle scienze è esplosa, nella prima metà del Novecento, in una serie di rivoluzioni fra cui spiccano quelle della fisica, quali le teorie della relatività, la fisica dei quanti. D’altra parte, gli eventi storici della seconda guerra mondiale con la soluzione finale dello sterminio di milioni di ebrei, il cui simbolo è Auschwitz, hanno decretato nei fatti il crollo del paradigma dominante della modernità quale auto-affermazione dell’umanità occidentale nel dominio tecnico della Natura con la falsificazione dei suoi miti di progresso e di emancipazione politca. A questi eventi ne sono poi seguiti altri che hanno ulteriormente aggravato la situazione: primi fra tutti, la falsificazione del marxismo nell’esito sovietico e la crisi ecologica. L’abisso del male del mondo si è riaperto in una forma ancora più sconvolgente. Questo crollo del paradigma dominante della modernità può essere interpretato o nel senso dell’apertura di una nuova fase della modernità, una tardomodernità in cui possono acquisire nuova rilevanza paradigmi prima minoritari, o nel senso dell’apertura di una nuova età post-moderna. Le due locuzioni alternative enfatizzano rispettivamente maggiori elementi di continuità o di discontinuità rispetto alla modernità, ma corrispondono comunque a una stessa situazione storica. Jean-François Lyotard (1924-1998) ha caratterizzato questa situazione come la “condizione postmoderna” (La condizione post-moderna. Rapporto sul sapere, 1979): si tratterebbe, dal punto di vista filosofico, della fine delle “grandi narrazioni” o dei “metaracconti”, ovvero delle “ideologie”, cioè di quei sistemi di pensiero religiosi, filosofici, scientifici, psicoanalitici, tecnico-economici o politici, che, presentandosi come fondati su principi assoluti, cercavano di legittimare la prassi di vita umana. Si tratterebbe cioè della fine non solo della fede religiosa come sistema di pensiero, come all’origine della modernità, ma anche di tutti quei sistemi di pensiero laici che ne avevano preso il posto e che si rivelano quali altrettante forme di fede laica senza fondamento teoretico. Questi sistemi sono caduti sotto il peso di una critica teorica interna dei fondamenti e di una critica esterna che li ha falsificati nella prassi sullo scenario della storia stessa. Quello che ne risulta è non solo la frammentazione dei saperi che non possono essere più onnicomprensivi, la loro pluralità irriducibile, ma anche la loro temporalizzazione e la localizzazione, la loro etnicizzazione, la loro relativizzazione in termini di pratiche discorsive o non discorsive legate a forme di vita e a contesti etnico-culturali senza fondamento teoretico. La trasformazione delle nostre società in società multiculturali e multietniche, a partire dalla seconda metà del Novecento, ha portato alla relativizzazione non solo della religione, ma anche della filosofia e delle scienze.