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1/2007
on-line
UNIVERSITÀ DELLA CALABRIA
DIPARTIMENTO DI SOCIOLOGIA E
DI SCIENZA POLITICA
DAEDALUS
Quaderni di Storia e Scienze Sociali
Direzione scientifica
Vittorio Cappelli, Ercole Giap Parini, Osvaldo Pieroni
Redattori e collaboratori
Luca Addante, Olimpia Affuso, Rosa Maria Cappelli, Renata Ciaccio,
Bernardino Cozza (†), Barbara Curli, Francesco Di Vasto, Loredana
Donnici, Aurelio Garofalo, Teresa Grande, Salvatore Inglese, Francesco
Mainieri, Matteo Marini, Patrizia Nardi, Saverio Napolitano, Tiziana Noce, Giuseppina Pellegrino, Maria Perri, Luigi Piccioni, Antonella Salomoni, Pia Tucci
Direzione e redazione
Dipartimento di Sociologia e di Scienza Politica dell'Università della Calabria
87036 Arcavacata di Rende (Cosenza).
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Direttore Responsabile Pia Tucci
Amministrazione
DAEDALUS - Laboratorio di Storia
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La rivista è stata fondata nel 1988
dal Laboratorio di Storia Daedalus
Presidente: Vittorio Cappelli
Numero 1/2007 on-line
Numero 20/2007 seguendo la numerazione della precedente edizione cartacea
Pubblicato on line nel DICEMBRE 2007
ISSN 1970-2175
Daedalus 2007
LAVORI IN CORSO
GEMMA MALTESE
RAPPRESENTAZIONE DELL’UMANO E DEL NON UMANO
NELL’ERA DELLA TECNICA
Si definisce spesso la modernità mediante l’umanesimo, sia per salutare la nascita dell’uomo, sia per annunciarne la morte. Ma perfino questo atteggiamento è moderno, in quanto permane asimmetrico, trascurando la nascita congiunta della «non umanità», quella delle cose, degli oggetti o degli animali, e quella non meno strana di un Dio barrato, cancellato, fuori gioco. La modernità
sorge dalla creazione congiunta di questi tre elementi, quindi dall’occultamento di questa triplice nascita e dal trattamento separato delle tre comunità,
mentre al di sopra, continuano a moltiplicarsi gli ibridi, proprio a causa di
questo trattamento separato. É questa duplice separazione che dobbiamo ricostruire, da un lato tra l’alto e il basso, dall’altro tra gli umani e i non umani
(Latour, 1991, p. 25).
Riflettere oggi sul concetto di umano e cogliere il confine – tracciato nella
cultura occidentale dal metodo scientifico moderno – tra la comunità umana
e la comunità del non umano è quanto mai complesso. Cogliere e (decostruire e poi) ricostruire la separazione tra gli umani e i non umani, attualmente, significa addentrarsi all’interno della vita quotidiana, nei tempi
1
più familiari degli individui, e scandagliare ciò che questi danno per scontato: il rapporto continuo con il non umano, il loro essere totalmente e continuamente inseriti all’interno di un’ecologia materiale fatta di cose che mette
1
Secondo la definizione di Peter e Brigitte Berger la vita quotidiana è «il tessuto di
abitudini familiari all’interno delle quali noi agiamo e alle quali noi pensiamo per la
maggior parte del nostro tempo. Questo settore dell’esperienza è per noi il più reale: è
il nostro habitat usuale e ordinario». P. L. BERGER e T. LUCKMANN, La realtà come
costruzione sociale, trad. it. Bologna, il Mulino, 1969.
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in ombra l’umano che sta dietro l’artificiale . Il non umano – inteso qui in
quanto comunità entro cui si collocano (anche) beni e prodotti tecnico–
scientifici –, travolto dal totalizzante processo d’intellettualizzazione della
realtà, ha incorporato in sé un sapere che all’uomo profano non è visibile.
L’uomo convive e vive in una realtà a lui incomprensibile, se non attraverso i
discorsi che su di essa, dalle differenti voci che emergono nell’attuale villaggio globale, vengono prodotti.
In tale ecologia, da dove viene l’essere umano che interpreta oggi il non
umano differente da sé, e che, al contrario, riconosce nei sui simili l’essenza
della sua natura?
L’uomo dell’età della tecnica discende culturalmente dall’essere mortale
per cui Prometeo ha rubato il fuoco e a cui ne ha fatto dono, rendendolo co3
struttore, attraverso la tecnica, del suo destino . In questo senso, l’umano è
figlio della tecnica quanto della natura. Arnold Gehlen, in L’uomo nell’era
della tecnica (1957), propone l’umano in quanto comunità, genere, specie
biologicamente tecnica. L’uomo mancando di organi e istinti specializzati si
costituisce attraverso un’essenza tecnica: egli «(...) non è conformato per un
ambiente naturale, e di conseguenza non ha altra risorsa che trasformare con
4
la sua intelligenza qualsivoglia stato di cose da lui incontrato nella natura» .
Questa non–specializzazione si riferisce alle prestazioni organiche ed istintive dell’uomo. Dalla prospettiva di Gehlen, quindi, la tecnica è
nell’essenza stessa dell’essere umano: egli fa della realtà strumento e, a partire da questa relazione, l’uomo e la natura possono essere rappresentati in
quanto reciprocamente estranei. L’uomo dell’età della tecnica, in particolare,
può essere definito innaturale, poiché la sua condizione, il suo essere umano,
è dettata, culturalmente e materialmente, dall’artificiale che secolarmente egli stesso ha costruito.
Il concetto di umano in quanto comunità al di sopra di Dio e del non u5
mano è una rappresentazione moderna . Dall’Umanesimo all’Illuminismo si
gettarono le fondamenta per la costruzione di un nuovo mondo edificato dalla
2
Cfr. J. BAUDRILLARD, Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano, 1968; e J.
BAUDRILLARD, La società dei consumi, tr. it. a cura di Gozzi G., Stefani P., il Mulino,
Bologna, 1976.
3
Cfr. U. GALIMBERTI, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano, 2004.
4
A. GEHLEN, L’uomo nell’era della tecnica, Sguarco, Milano, 1984, p. 11.
5
Cfr. B. LATOUR, Non siamo mai stati moderni. Saggio di antropologia simmetrica,
Eleuthera, Milano, 1995.
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razionalità soggettiva degli uomini; fatto di cose, di strutture e di discorsi
prodotti dagli uomini: l’umano è creatore consapevole del nuovo mondo moderno. Dalla nascita congiunta dell’umano e del non umano, barrando progressivamente dio dalla terra, l’uomo ha inaugurato, attraverso questa consapevolezza, una nuova epoca: l’epoca in cui egli dà forma alla sua seconda
natura, alla sua essenza tecnica.
A te, Adamo, non ho assegnato un posto determinato, né un aspetto e neanche
una dote particolare, e ciò affinché sia tu stesso a volere, a conquistare e a
possedere da solo il tuo posto, il tuo aspetto e le tue doti. La natura contempla
altre specie entro le leggi da me stabilite. Ma tu che non hai alcun confine
come limite definirai te stesso secondo il tuo arbitrio, nelle cui mani io ti ho
posto. (…) Non ti ho creato né celeste, né terrestre, né mortale né immortale,
affinché, sovrano di te stesso tu possa completare liberamente la tua forma,
come un pittore o uno scultore. Potrai degenerare in forme inferiori, come
quelle bestiali, oppure, rigenerato, potrai raggiungere le forme superiori e divine (Pico della Mirandola, 1486, p. 41).
Pico della Mirandola, in Discorso sulla dignità dell’uomo (1486), riscrive
il libro della Genesi proponendo, attraverso le parole del creatore, l’assoluta
e totale indeterminazione dell’uomo. In modo opposto a tutte le altre creature, l’uomo, nel pensiero di Pico, non ha una natura che deve necessariamente
seguire: egli ha, piuttosto, la libertà di auto–determinarsi, di fare di sé (e da
sé) ciò che vuole, fino a degenerare in forme inferiori o fino a raggiungere
forme superiori, divine, facendo dell’intero creato uno strumento di autodeterminazione.
Questo Discorso anticipa il pensiero moderno: la dignità dell’uomo non
dipende più da una posizione prefissata nell’ordine creato, ma dal suo agire
nel tempo, dalla sua capacità di superarsi continuamente e di vincere progressivamente contro ogni forza nemica che si contrappone alla realizzazione di
ciò che egli considera una vita degna e felice.
La Genesi dell’umano tracciata da Pico porta con sé il paradosso della
modernità, pur essendo calata in una epoca in cui dio rappresentava ancora il
creatore e l’uomo la creatura. Per trovare affermazione la dignità umana, per
raggiungere la libertà rispetto alle autorità, agli irrazionalismo e alla tradizione, l’uomo di Pico deve svincolarsi da ogni “natura”, deve costituirsi in quanto “terra di nessuno”: l’umano non si distingue come forma né dalle bestie né
dagli dei, se libero può assumerne entrambe le forme. In questo senso, ciò
che lo caratterizza è l’arbitrio, la contingenza – e per svincolarsi da
quest’ultima – la possibilità di essere e di fare sempre altrimenti. Il parados107
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so della modernità, a partire dall’Umanesino, per secoli, rimane adombrato
poiché tali caratteristiche legate all’indeterminatezza e alla natura tecnica
dell’uomo vengono assorbite dalla nuova fede illuminista e positivista nella
conoscenza razionale, e vengono proiettate nel potere e nel controllo tecnico
del mondo esterno, affermatosi in quanto progresso infinito.
Tuttavia, le alternative, le diverse forme assumibili dall’umano si sono
tradotte in un’unica alternativa, che però promette di perpetuarsi all’infinito:
il miglioramento e il potenziamento delle condizioni di vita dei singoli e dei
popoli, raggiungibile esclusivamente grazie alla continua innovazione tecnologica. Ebbene, il paradosso moderno risiede esattamente in questo: l’idea
moderna di umano, simboleggiata qui dal pensiero di Pico, esprime la irrefrenabile spinta al superamento di ogni limite e confine e al perfezionamento
continuo. Questa illusione produce l’artificializzazione, la proceduralizzazione della vita umana, la trasformazione dello stesso organismo umano in una
macchina, e ciò riduce lo spazio dell’arbitrio, del non programmato, della
libertà. L’uomo moderno che programma e preordina il proprio futuro lo fa
progettando sé stesso, e dunque rifacendo dell’uomo un essere dal destino
biologico e culturalmente predeterminato, pur trattandosi di un destino di
“potenziamento”. Così, se l’essenza umana è l’autodeterminazione, l’uomo
programmato attraverso la tecnica perde ciò che è proprio dell’umano.
Nel riflettere su tali processi, la prospettiva che vorrei suggerire induce a
considerare la condizione dell’umano nell’età della tecnica come effetto dovuto all’incompiuto tentativo moderno di separazione tra l’umano e il non
umano, e, da ciò, alla profusione del non umano. In un ecologia fatta di cose,
in cui entra fortemente in crisi il rapporto soggetto–oggetto, la non umanità si
dota di oggettività fino a costituirsi in quanto “quasi–soggetto”, in quanto
soggettività ibrida (cfr. Latour, 1991). A partire da tale prospettiva, l’umano,
nella storia che narra la costruzione moderna di questa ecologia artificiale, si
è indirizzato verso uno stadio di ricongiungimento alla sua (seconda) natura
tecnica. Esso si confonde con il non umano, e questa confusione viene letta
qui in quanto ricongiungimento – nell’impossibilità a tenere separati le due
comunità – dell’umano alla sua essenza tecnica, strumentale. Il mondo da
questa edificato è frutto della predisposizione umana all’agire, ed è oltremodo simbolo della natura tecnica dell’uomo. «Il mondo della tecnica per così
dire è il “grande uomo”: geniale e ricco d’astuzia promotore ed insieme distruttore della vita come l’uomo stesso, come lui in rapporto poliedrico con
6
la natura vergine. Anche la tecnica è, come l’uomo, nature artificielle» .
6
A. GEHLEN, L’uomo nell’era della tecnica, Sguarco, Milano, 1984, p. 13.
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Mutuando il pensiero di Gehelen, l’uomo ha ed è una seconda natura,
con leggi e caratteristiche proprie. In prima istanza, l’uomo è mosso
all’azione: la sua incompiutezza e la sua non–specializzazione, il suo dover
necessariamente prendere posizione, l’urgenza di dover compiere un’interna
autointuizione, l’impossibilità di vivere in un suo ambiente caratteristico, se
non costruendo “protezioni” tra esso e la natura, fanno si che l’uomo si contraddistingua per il suo essere in azione. Inoltre, poiché egli è aperto al mondo, è costretto ad esonerarsi dalle incombenze che la natura di volta in volta
gli presenta, ed infine, essendo costantemente soggetto al rischio, è anche
obbligato ad antivedere ed a provvedere.
Così, l’uomo incontra il mondo e lo percorre attraverso un’attività motoria plastica: un’attività di manipolazione. Oggi questa attività non è più determinata immediatamente da bisogni biologici. La manipolazione della realtà, nell’età della tecnica, è il processo attraverso cui la stessa realtà viene riprodotta. Ciò che l’uomo riproduce – al di la di ciò che materialmente produce – è la cultura. L’uomo trasforma la natura in cultura, e l’azione a cui è
mosso è volta a strumentalizzare la realtà al fine di far prevalere la sua seconda natura sulla limitatezza biologica che lo caratterizza. «L’insieme della
natura da lui trasformata con il proprio lavoro in tutto ciò che riesca utile
alla sua vita dicesi cultura, è il mondo della cultura è il mondo umano (...)
La cultura è pertanto la sua “seconda natura” – vale a dire: la natura umana, dall’uomo elaborata autonomamente, entro la quale egli solo può vivere;
e la cultura “innaturale” è il prodotto di un essere unico al mondo, lui stesso
7
“innaturale”, costruito cioè in contrapposizione all’animale» .
Pertanto, se l’uomo ha ed è una natura tecnica, e se la tecnica è di per sé
un elemento essenziale della sua “natura”, ovvero l’elemento più precipuo
alla seconda natura dell’uomo, e se, infine, la tecnica è la “natura
dell’uomo”, quali problemi può sollevare l’uomo nell’età della tecnica?
Tale questione, posta in questi termini, deve essere connessa agli orientamenti temporali sociali degli individui e alle trasformazioni che questi subiscono nelle differenti fasi della modernità. In effetti, la natura tecnica
dell’uomo presuppone che la costruzione della forma dell’uomo avvenga in
progresso, in una dimensione futura. Il futuro, in quanto rappresentazione
sociale temporale del divenire, e in quanto dimensione entro cui l’uomo può
7
Ivi, p. 64.
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8
progettare di agire è un elemento tipicamente moderno . Gli orientamenti
temporali sociali nel corso della modernità, nel cambiamento accelerato e
continuo che essa porta con sé, subiscono permanentemente piccoli mutamenti: il presente, il passato, il futuro e il modo di connettere tra loro tali dimensioni, dall’epoca moderna in poi, mutano al ritmo scandito dal tempo
9
dell’innovazione tecnologica .
Così, se la modernità, rispetto all’epoche passate, è percezione e consapevolezza da parte degli individui del cambiamento continuo entro cui le loro
vite sono immerse, è in tale epoca che il concetto di avvenire può essere concepito, connesso e distinto dal presente e dal passato: il futuro è nelle mani
dell’uomo; esso, al di là del passato che ha alle spalle e al di là della condizione presente, si costruisce attraverso il progettare, il prevedere. Dal superamento di una visione del tempo lineare, ciclica, in cui il passato e il futuro
si perdevano nel mito, nella leggenda, nel sacro, e il presente non consentiva
di fare progetti a lungo termine, nel mondo moderno l’uomo è in quanto essere collocato e costruttore del tempo storico, e in quanto essere potenzialmente
in grado di compiere nel futuro ogni azione. É in virtù di un dominio totale
dell’umano sul non umano, sulla natura, su dio che il tempo futuro assume il
significato che i moderni ad esso attribuiscono: in questo dominio la parola
d’ordine impressa sulla cultura occidentale è produttività, sempre maggiore
produttività, da raggiungere attraverso l’efficienza, la calcolabilità, la razionalizzazione e la programmazione del tempo.
L’idea del tempo come lineare, nella fase di modernità industriale, viene
liberata da ogni concezione legata a motivi religiosi, e assume come proprio
presupposto la linearità temporale del progresso. In questa sostituzione, il
futuro aperto solo se in termini di trascendenza, caratterizzante la concezione
dell’avvenire umano nelle epoche passate, diviene futuro aperto nella realtà
storico–sociale entro cui gli individui agiscono.
10
In questa laicizzazione del tempo lineare , il futuro aperto, in una realtà
progettabile dall’uomo, lascia il soggetto vulnerabile al rischio di un futuro
completamente nelle mani delle possibilità tecniche dell’uomo. Così, dopo
secoli di dominio dell’idea di futuro impressa dall’utopia del progresso, in8
Cfr. C. LECCARDI, Sull’interpretazione del futuro, Working paper di sociologia e
scienza politica, Università degli Studi di Messina, Università degli studi della Calabria, 1997.
9
Cfr. N. ELIAS, Saggio sul tempo, il Mulino, Bologna, 1986.
10
Cfr. C. LECCARDI, Sull’interpretazione del futuro, Working paper di sociologia e
scienza politica, Università degli Studi di Messina, Università degli studi della Calabria, 1997.
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sieme alla percezione di un futuro sempre migliore del presente, nelle fasi di
modernità più tarda, si percepisce come mai prima la rischiosità insita nel
progettare il tempo e, in particolare, nel programmare l’avvenire esclusivamente sulla base della razionalità strumentale dell’uomo. In modo più evidente, a partire dal secondo dopoguerra, la linearità del tempo, l’idea di un
futuro sinonimo di progresso entrano inesorabilmente in crisi: l’uomo dell’età
della tecnica riemerge dalla macerie della guerra con la sensazione che il suo
farsi agente tecnico ha innescato processi di mutamento e dinamiche di potere per cui il futuro, così come può essere progettato e volto al miglioramento
del genere umano, può anche essere pianificato secondo una logica di distruzione totale.
In questo senso, la deterrenza, la sfiducia nell’utopia del progresso, e la
minaccia continua di un’immanente e imminente catastrofe nucleare, ecologica, economica rappresentano l’immaginario collettivo entro cui fermenta la
crisi del concetto di avvenire della modernità più matura, e dunque la crisi
dell’uomo–tecnica, il quale può farsi umano solo se può immaginare, pianificare il suo futuro.
All’interno di tale crisi – per cui l’idea di avvenire aperto e lineare
11
dell’epoca moderna cede il passo ad un futuro apertamente temuto –
l’umano, immerso completamente in un’ecologia materiale e fittizia, in cui
paradossalmente sono gli oggetti a rappresentare e ad incorporare il sapere,
progressivamente va perdendo i tratti della propria umanità. L’umano è messo in ombra dal fatto che il futuro, dimensione entro cui la sua natura tecnica
può realizzarsi, non può essere più interpretato come sinonimo di miglioramento. Piuttosto l’avvenire è sinonimo di rischio: «essere moderni vuol dire
trovarsi in un ambiente che ci promette avventura, potere, gioia, crescita,
trasformazione di noi stessi e del mondo; e che, al contempo, minaccia di distruggere tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che conosciamo, tutto ciò che siamo. Gli ambienti e le esperienze moderne superano tutti i confini etnici e geografici, di classe e di nazionalità, di religione e di ideologia. in tal senso si
può davvero affermare che la modernità accomuna tutto il genere umano. Si
tratta, comunque, di un'unità paradossale, di un'unità della separatezza, che
ci catapulta in un vortice di disgregazione e rinnovamento perpetui, di con12
flitto e contraddizione, d'angoscia e ambiguità» .
11 Ivi, p. 10.
12 M. BERMAN, L'esperienza della modernità, Bologna, il Mulino, 1985, p. 25.
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In questa sensibilità, in questo tipo di esperienze ambigue e conflittuali
caratterizzanti la vita quotidiana degli individui nel mondo della modernità,
che cosa distingue l’umano dal non umano?
Davide Sparti, nella sua riflessione su L’importanza di essere umani, pone tale dubbio al fine di far luce sulle ambiguità che attualmente attraversano
in modo totale gli individui, fino alle radici bio–antropologiche della persona
umano: «come posso avere la piena certezza di avere a che fare con un’altra
persona, invece che con – poniamo – un robot?», o in altri termini, «disponiamo di una risposta diretta alla domanda: “Esiste un dato di fatto che ci
13
dice se un individuo particolare, al tempo t, è o non è un essere umano?”» .
La questione formulata da Sparti inerisce all’umano in quanto persona, e
non all’umano in termini di soggetto appartenente biologicamente alla specie
homo sapiens. Ciò che egli vuole cogliere ne L’importanza di essere umani
sono particolari attribuiti della persona umana. Così, Sparti, riprendendo
l’analisi di Daniel Denett, tenta di comprendere «cosa differenzia la classe
delle persone da altre classi per certi versi confinanti, o quantomeno affini:
istituzioni, macchine intelligenti, primati, animali domestici, embrioni, neonati, portatori di handicap, individui senili o in stato di coma (…)», e se «esiste un minimo vitale bio–antropologico cui potersi appellare per sancire la
personhood di un individuo».
La prima condizione è la presupposizione normativa di razionalità: non posso
neppure iniziare a descrivere un individuo come persona se non la considero
un soggetto razionale, che crede in ciò che crede, desidera cose desiderabili e
agisce secondo intenzione. La seconda condizione è l’ascrivibilità di predicati
intenzionali. I predicati riferiti alle persone appartengono a famiglie olistiche
collegate fra loro in nessi concettuali: non posso predicare “pensa” a una creatura di cui non posso predicare anche “crede”, “vuole”, “ama” ecc. (…) La
terza condizione per attribuire personalità a qualcuno è il considerarlo una
persona. L’assumere certi atteggiamenti e il trattarlo in certi modi sarebbe
cioè costitutivo del suo essere persona. Queste tre prime condizioni sono (…)
tra loro interconnesse.
La persona umana è un soggetto razionale, in quanto crede, desidera e agisce coerentemente alla sua ragione. L’uomo non è solo in quanto pensa, ma
è in quanto, in connessione al suo pensiero, crede, vuole e ama: la persona
umana è poiché capace di empatia e di pensiero. L’uomo, inoltre, si costrui13
D. SPARTI, L’importanza di essere umani. Etica del riconoscimento, Feltrinelli, Milano, 2003, p. 119.
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sce come persona solo attraverso il riconoscimento esplicito e implicito da
parte degli altri. Tali condizioni sono in stretta relazione tra loro e devono
essere connesse alla capacità dell’individuo di riprodurre gli atteggiamenti
che gli altri assumono nei suoi confronti e l’insieme delle capacità comunicative, interpretative e di attribuzioni di significato rispetto alla realtà di cui solo l’essere umano è capace.
La quarta condizione è che l’individuo deve essere in grado di contraccambiare l’atteggiamento assunto nei suoi confronti. La quinta condizione è la
capacità di comunicazione verbale. La sesta e ultima è che la persona si distingue per un modo particolare di essere cosciente (…). Ciò significa due cose: da una parte, che deve sempre poter riferire cosa sta facendo per poter partecipare in modo privilegiato a qual gioco di domande e risposte che è il fornire ragioni sui motivi dell’agire. Dall’altra parte, significa che l’individuo attribuisce non solo credenze, desideri e intenzioni ma anche credenze, desideri
e intenzioni riguardo a credenze, desideri e intenzioni (Sparti, 2003, p. 121).
L’uomo è tale poiché attribuisce significato alla realtà che lo circonda attraverso interpretazioni e rappresentazioni. Ciò significa che comprendere
come l’umano sia mutato, in particolare nel suo rapporto con il non umano,
nel corso del tempo, significa tentare di cogliere come le rappresentazioni
dell’umano si siano trasformate in relazione alle differenti condizioni e ai diversi
linguaggi attraverso cui gli uomini, interpretando, costruiscono la realtà.
L’uomo (…) non ha mai abitato il mondo, ma sempre e solo l’interpretazione
che le varie epoche hanno dato al mondo. Quando nel mondo antico il mondo
era descritto dal mito, quando nel Medioevo era descritto dalla religione,
quando nell’età moderna era descritto dalla scienza e oggi dalla tecnica, gli
uomini non hanno mai abitato il mondo, ma la sua interpretazione prima mitica, poi religiosa, quindi scientifica e ora tecnica. (…) Dagli antichi a noi, ad
esempio, la natura ha sempre ribadito il suo ciclo, ma la sua interpretazione
l’ha inserita in scenari a tal punto diversi da farla apparire come qualcosa di
completamente diverso. Una cosa infatti è pensare alla natura come
quell’ordine immutabile posto a misura di tutte le cose, altra cosa è pensarla
come creatura di Dio posta al servizio dell’uomo, altra ancora è pensarla come fondo disponibile di risorse all’interno di quella progettualità tecnica che
include anche l’uomo tra i materiali disponibili (Galimberti, 1999, pp. 353-54).
L’uomo dall’essenza tecnica interpreta la realtà come uno strumento, in
tal senso egli non ha tempo: il suo essere umano lo induce ad interpretare il
tempo come divenire, entro cui gli accadimenti e la realtà futura possono es113
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sere determinati essenzialmente attraverso l’azione e la programmazione. Così, se si considera «l’insufficiente dotazione dell’uomo, (…) sarà facile avvedersi che egli deve riconoscere per essere attivo e deve essere attivo per poter vivere l’indomani. Questa semplice formula si complica alquanto
all’inevitabile osservazione che già questo stesso riconoscere è assai condizionato: nel caos del profluvio di stimoli non c’è dapprima proprio nulla da
riconoscere, e solo il gradualissimo padroneggiamento di tale caos per mezzo di movimenti di maneggio e sperimentali fa nascere i compendiosi simboli,
con i quali può avviarsi ciò che può chiamarsi conoscenza (...). L’uomo che
“già la fame futura rende affamato” (Hobbes, De homine, X, 3), “non ha
tempo”: se non predispone il ‘domani’, questo domani non conterrà nulla di
14
cui egli possa vivere» .
Così, nel tempo della tecnica, l’orizzonte entro cui collocare l’uomotecnica senza tempo, non è più la natura, «nella sua stabilità e inviolabilità»,
né la storia, «che abbiamo vissuto e narrato come progressivo dominio
dell’uomo sulla natura», ma la tecnica, «che dischiude uno spazio interpretativo che si è definitivamente congedato sia dall’orizzonte della natura che da
15
quello della storia» .
Nell’era della tecnica gli individui vivono al ritmo scandito dal tempo che
16
invecchia : l’orizzonte, sia in quanto sfondo che in quanto dimensione futura che essi intravedono, lo spazio che si dischiude mette in luce la grandezza
delle costruzioni umane, ma pone in ombra l’umano che sta dietro
l’artificiale. L’illimitata capacità di produzione attuale, materiale e simbolica, prosciuga la capacità d’immaginazione umana. Ed è nell’infiacchirsi di
tale capacità che l’umano perde il suo essere inventore di sé stesso, piuttosto
17
si riduce alla «più importante materia prima» . L’oggetto, lo strumento, il
non umano, il prodotto tecnico determinano il presente e il futuro dell’uomo.
Questo capovolgimento nel rapporto soggetto–oggetto, è, in ultima analisi,
intrinseco alla natura tecnica dell’uomo, per cui il fine primo diviene da subito il perseguimento dei mezzi. Tutti gli altri fini si subordinano ad esso: la re-
14 Cfr. A. GEHLEN, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (1940), tr. it. di
C. Mainoldi, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 378.
15
U. GALIMBERTI, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano,
2004, p. 46.
16
ESCHILO, (v. 981) Le supplici, Prometeo incatenato, Agamennone, Palamede, in
Tragedie e frammenti, Utet, Torino, 1987.
17
M. HEIDEGGER, Oltrepassamento della metafisica, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1976.
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altà, l’uomo vengono costruiti secondo la sottoposizione a tale ordine. La
soggettività si sottopone all’oggettività del mezzo.
Le innumerevoli alternative a cui Pico si riferiva nella sua rappresentazione dell’umano, si traducono in un’unica forma: l’uomo, in un mondo costruito sulla base della razionalità strumentale, si costruisce anch’egli in
quanto strumento. L’essenza tecnica dell’umano fa si che sia ciò che l’uomo
fa e che è capace di fare che determini l’uomo stesso: il soggetto è così determinato dall’oggetto. In tal senso, se la parabola dell’umano inizia con il
narrare che il verbo – il logos, la scienza, il suono, la parola, il pensiero – si
è fatto carne, essa sembra concludersi attraverso l’immagine della carne che
si fa verbo: la creatura si fa nuovamente creatore, l’oggetto si fa soggetto
determinante l’essere che lo ha generato.
Dall’illusione di una totale manipolabilità della realtà attraverso la tecnica, l’uomo si tramuta esso stesso in oggetto di manipolazione. L’umano e il
non umano appaiono entrambi, in sintesi, come sfondo entro cui soggettività,
situazioni e realtà ibridate, sovrapposte, interagiscono tra loro, e tendono a
ricongiungersi, o meglio, a non poter stare separate: la natura tecnica li accomuna, l’empatia li divide. La ragione strumentale li domina e, sottraendo
all’uomo empatia poiché riduce il suo sentire e agire a puro calcolo, li rende
sempre più funzionalmente vicini.
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Riferimenti bibliografici
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ADORNO, T., POPPER, DAHRENDORF, HABERMAS, ALBERT, PILOT, (1972),
Dialettica e positivismo in sociologia. Dieci interventi nella discussione, Einaudi, Torino.
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