Gli angusti confini dell`autonomia contrattuale

Gli angusti confini dell'autonomia contrattuale
Articolo di Arcangelo Giuseppe Annunziata 24.11.2006
GLI ANGUSTI CONFINI DELL’AUTONOMIA CONTRATTUALE
di Arcangelo Giuseppe Annunziata
“L’idea del contratto come pura e piena soggettività dell’individuo, immune da qualsiasi condizionamento
obiettivo fattuale o legale, è un’idea astratta che non ha mai trovato riscontro ad oggi nella realtà.”1
L’art. 41 della Cost. stabilisce che “l’iniziativa economica privata è libera, ma non può svolgersi in
contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Ai sensi dell’art. 1322 c.c. “le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei
limiti imposti dalla legge, esse possono pure concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi
una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo
l’ordinamento giuridico”.
È questo il principio dell’autonomia contrattuale, vale a dire la possibilità per le parti di regolare
liberamente i propri interessi, provvedendo alla costituzione, modifica, estinzione di rapporti giuridici a
contenuto patrimoniale.
L’autonomia contrattuale è volta a garantire il massimo sviluppo dei rapporti economici affidandosi alla
libera e volontaria collaborazione degli interessati.
L’ampiezza del suo contenuto non si esaurisce semplicemente nella possibilità di stipulare o meno
contratti, ma più specificamente nel consentire alle parti di darsi proprie regole.2
Ma passando dall’astratto al concreto si può realmente parlare di libertà contrattuale? È realmente
configurabile l’idea che due o più soggetti si accordino senza condizionamenti esterni per regolare
parte dei propri interessi? O si deve, invece, intendere il contratto come un “ contenitore” per dare
forma e rilevanza giuridica a rapporti che sorgono per via di fatto, per mera necessità, il più delle volte
del tutto indipendenti dalla nostra volontà?
Quante persone sono davvero consapevoli di concludere quotidianamente negozi giuridici per soddisfare
i più semplici dei propri bisogni?
Nella maggior parte dei casi l’atto di autonomia si esaurisce nella scelta del prodotto o nella necessità
di risoluzione di un problema.
La dottrina maggioritaria ritiene che oggi l’autonomia privata sia più limitata che in passato. Lo sviluppo
di un’economia moderna e globalizzata ha inciso in maniera penetrante sulla tradizionale idea del
contratto inteso come “fusione delle volontà delle parti”.
L’economia di massa ha generato la massificazione dei beni e dei servizi offerti sul mercato
determinando la spersonalizzazione dei singoli contratti: il testo contrattuale, nella maggior parte dei
casi, non esce più da una trattativa individuale tra i contraenti, ma il negozio viene predisposto
unilateralmente dall’impresa e il cliente lo accetta così com’è, senza poter incidere, con la propria
volontà, sul suo contenuto.3
Anche quando il contratto è il risultato di una libera e paritaria trattativa economica tra soggetti di
uguale forza contrattuale, esistono una serie di condizionamenti e limiti giuridici - formali che spesso
tendono ad allontanare il testo contrattuale dalla persistente volontà dei contraenti.
L’ originaria volontà delle parti va per così dire “purificata”, resa cioè compatibile con i principi e le
direttive giuridiche – morali imposte dall’ordinamento nell’ambito del quale il singolo negozio dovrà
trovare il proprio riconoscimento giuridico.
La maggior parte dei più recenti interventi legislativi sulla disciplina del contratto hanno
essenzialmente ristretto la libertà negoziale privata e contribuito a confinare i singoli individui
all’interno di ben determinate categorie socio-economiche, accrescendo il potere del giudice di
sindacare il contenuto dell’autonomia privata sotto il profilo dell’equità contrattuale.
Per lungo tempo la causa del contratto è stata considerata lo strumento attraverso il quale realizzare il
controllo sociale o pubblico dell’autonomia privata, in armonia con l’orientamento dominante, nella
dottrina italiana, che concepiva la causa come funzione economico- sociale, vale a dire come funzione
tipica ed astratta del contratto.
L’art. 1418 c.c. dispone, infatti, la nullità del contratto che abbia causa illecita, “ciò significa che il
meccanismo di controllo dell’ordinamento passa attraverso la valutazione della meritevolezza della
causa”.4
Tale teoria è stata oggetto di profonde critiche: se, infatti, la causa è intesa come funzione economicosociale, in una dimensione funzionale astratta, è sufficiente la corrispondenza del contratto al modello
indicato dal legislatore per garantire la liceità del rapporto e il riconoscimento dello stesso da parte
dell’ordinamento giuridico.
“Tale interpretazione di causa si rende, pertanto, incompatibile con le ipotesi di illiceità della causa nei
contratti tipici, oltre, ovviamente, il limite della compatibilità di tale concezione con i contratti atipici, i
quali, non avendo un modello legale tipizzato, dovrebbero ritenersi privi di fondamento giuridicocausale.”5
Oggi si ritiene più confacente concepire la causa come ragione pratica che il singolo negozio è diretto in
concreto a realizzare. Non è più sufficiente verificare l’esatta corrispondenza dell’atto negoziale con
uno dei modelli tipici previsti dal legislatore, ma è necessario individuare il complesso d’interessi che
costituiscono il reale fondamento dell’operazione negoziale.6
La causa, pertanto, va riferita al contenuto concreto dell’accordo e non più al modello astratto di
riferimento.
Attraverso la causa si esercita ugualmente il controllo di liceità previsto dall’art. 1343 c.c., ossia sulla
non contrarietà a norme imperative, all’ordine pubblico, al buon costume: “ un controllo che dalla
struttura del singolo negozio si estende fino a toccare i suoi risultati economici e giuridici.”7
Quindi una volta intesa la causa come ragione giustificativa è possibile stabilire quali, tra accordi e
promesse, possono meritare il riconoscimento dell’ordinamento. Il riferimento alla liceità, invece,
impone di verificare se un dato interesse, una volta reso evidente, sia lecito o meno.8
Nei contratti a prestazioni corrispettive il controllo sulla causa impone, altresì, la necessità di
accertare l’adeguatezza, in termini di valore, di ciascuna prestazione rispetto all’altra. Recentemente la
giurisprudenza e la dottrina ritengono che l’eccessiva sproporzione tra le prestazioni sia causa di nullità
del contratto in quanto la corrispettività sussisterebbe soltanto al livello formale.
È nullo per mancanza di causa il contratto di compravendita se il prezzo sia puramente simbolico, o
comunque notevolmente inferiore all’effettivo valore del bene trasferito. La determinazione di un
prezzo irrisorio equivale a mancanza di prezzo, qualora la sproporzione tra le due prestazioni non sia
dovuta a spirito di liberalità (Corte di Appello di Napoli 21 dicembre 1989; Cass. civ. 24 novembre 1980,
n. 6235; Cass. 6492 /87; Cass. civ. 20 novembre 1992, n. 12401).
Nei contratti a prestazioni corrispettive, il difetto di equivalenza delle prestazioni, almeno tendenziale,
e a maggior ragione il difetto tout court di un corrispettivo, comporta l’assoluta mancanza della causa
del contratto, e quindi la nullità dello stesso (Coll. Arb. Roma, 29.07.1996).
Il prezzo della compravendita deve ritenersi inesistente, con conseguente nullità del contratto per
mancanza di un elemento essenziale ( art. 1418 e1470 c.c.), non nell’ipotesi di pattuizione di prezzo
tenue, vile ed irrisorio, ma quando risulti concordato un prezzo obiettivamente non serio, o perché privo
di valore reale e perciò meramente apparente e simbolico, o perché programmaticamente destinato
nella comune intenzione delle parti a non essere pagato; la pattuizione di un prezzo notevolmente
inferiore al valore di mercato della cosa compravenduta, ma non privo del tutto di valore intrinseco, può
rivelare sotto il profilo dell’individuazione del reale intento negoziale delle parti e della effettiva
configurazione ed operatività della causa del contratto, ma non può determinare la nullità del medesimo
per la mancanza di un requisito esenziale; del pari, può incidere sulla validità del contratto la
circostanza che il prezzo, pur in origine seriamente pattuito, non sia stato più in concreto pagato.
(Cass., sez. II, 28.08.1993, n. 9144).
In passato il giudice non poteva sindacare e quindi incidere sull’equilibrio delle prestazioni poiché le
valutazioni di equità e congruità dell’accordo rientravano nel potere discrezionale delle parti, in
aderenza al c.d. principio della “signoria della volontà”, secondo cui le parti sono libere di esprimere la
propria volontà senza alcun condizionamento (concezione liberale).
L’affermazione dello Stato sociale e dell’idea che anche il potere pubblico debba intervenire nella vita
economica dei privati, al fine di garantire quella libertà di uguaglianza di tutti i cittadini intesa in senso
sostanziale e non meramente formale (art. 3 co. II Cost.), unita alla concezione secondo la quale
l’esercizio dell’autonomia negoziale va considerata come strumento di realizzazione di “interessi
socialmente accettabili”, teleologicamente orientata all’attuazione della solidarietà sociale ( art. 2 Cost.
), ha portato a ritenere non soltanto possibile ma doveroso il controllo sull’equilibrio contrattuale
ritenendo che non si debba dare riconoscimento o esecuzione a pattuizioni oggettivamente inique.9
Il potere conferito al giudice dall’art. 1384 c.c. di ridurre la pena manifestamente eccessiva è fondato
sulla necessità di correggere il potere di autonomia privata riconducendolo nei limiti in cui opera il
riconoscimento di essa, mediante l’esercizio di un potere equitativo che ristabilisca un congruo
contemperamento degli interessi contrapposti, valutando l’interesse del creditore all’adempimento, cui
ha diritto, con riguardo all’effettiva incidenza di esso sull’equilibrio delle prestazioni e sulla concreta
situazione contrattuale; tale apprezzamento sull’eccessività dell’importo fissato con clausola penale
dalle parti contraenti, per il caso di inadempimento o ritardo nell’adempimento, rientra nel potere
discrezionale del giudice del merito e non è censurabile in sede di legittimità se adeguatamente
motivato in relazione agli anzidetti criteri e parametri di riferimento, (Cass., sez. II, 09.11.1994, n.
9304).
In questa direzione la dottrina si è sforzata di dare valore al principio della buona fede intesa non
soltanto come criterio di valutazione del comportamento delle parti e d’interpretazione del contratto,
ma anche come strumento di controllo del programma contrattuale e di equa corrispettività delle
prestazioni.
L’esigenza di protezione delle categorie contrattualmente più deboli ha portato ad una serie
d’interventi legislativi che hanno accresciuto il potere del giudice di incidere nella sfera di autonomia
delle parti. Si pensi alla disciplina di cui agli artt. 1469 c.c. e ss. (ora Codice del consumo, D.L.vo. 6
settembre 2005, n. 206), che ha rafforzato la posizione contrattuale del consumatore di fronte alla
posizione dominante del professionista: “ sono vessatorie le clausole che non siano state oggetto di
trattativa individuale e che, malgrado buona fede, determinano a carico del consumatore un
significativo squilibrio dei diritti e obblighi derivanti dal contratto.”
La legge sulla subfornitura, (L. 192, 18 giugno 1998), il cui art. 9 dispone che “ è vietato l’abuso di una o
più imprese dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi o nei loro riguardi,
un’impresa cliente o fornitrice.”
Il Dec. Lgs. n. 231 del 9 ottobre 2002, lotta contro i ritardi nelle transazioni commerciali, che prevede
“ la nullità dell’accordo sulla data del pagamento o sulle conseguenze del ritardato pagamento che, alla
luce di tutte le circostanze del caso, risulti gravemente iniquo in danno del creditore.”10
Le trasformazioni della società e dell’economia hanno manifestato la palese insufficienza della
disciplina codicistica a tutelare i bisogni dei singoli. La tutela meramente formale prevista dagli artt.
1341 e 1342 c.c. si è dimostrata inadeguata a rispondere all’esigenza di protezione del consumatore in
un’economia di massa che, inevitabilmente, ha generato la concentrazione del potere contrattuale nella
sfera della classe imprenditoriale.
La salvaguardia del concetto classico di autonomia privata e dell’idea tradizionale del contratto inteso
come incontro delle reciproche volontà delle parti, ha generato da un lato un rafforzamento concreto
della posizione contrattuale dei singoli consumatori, e dall’altro una sensibilizzazione della classe
imprenditoriale al rispetto leale delle regole di mercato, attraverso non solo interventi mirati ad
evitare l’abuso di posizione dominante a tutela della sana concorrenza, ma anche elevando i principi di
correttezza, trasparenza ed informazione ad obblighi giuridici sia nella fase delle trattative sia
d’esecuzione del contratto.
________________
1 ROPPO V., Il contratto, Giuffrè, Milano, 2001, p. 41 e ss.
2 TRABUCCHI A., Istituzioni di diritto civile, Cedam, Padova, 2000.
3 ROPPO V., op. cit.
4 BIANCA C. Massimo, Il contratto vol. 3, Giuffrè, Milano, 2000
5 CARINGELLA F., Studi di diritto civile, Tomo II, Giuffrè, Milano, 2005
6 ROPPO V., op. cit.
7 DI MARZIO F., i contratti in generale, vol. VI, Utet, Torino, 2000, p. 240 e ss.
8 BESSONE M., Il contratto in generale, vol. XIII, tomo III, Giappichelli, Torino, 1999
9 CARINGELLA F., op. cit.
10 Per approfondimenti v. CARINGELLA F., op. cit.
( da www.altalex.it )