Untitled - Facoltà di Giurisprudenza

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LA DISCIPLINA DEI LICENZIAMENTI INDIVIDUALI
NELL’EPOCA DEL BILANCIAMENTO
TRA I «PRINCIPI» COSTITUZIONALI
di Luca Nogler
1. Un nuovo modo d’intendere la relazione tra «principi» costituzionali e rapporti interprivati. Piano dell’indagine. I I principi costituzionali in tema di licenziamenti. 2. Libertà
d’impresa e fondamento del potere di licenziare: pluralità dei criteri di bilanciamento? 3. I
limiti collegati al bilanciamento precostituito di cui al 2° c. dell’art. 41 cost. 3.1. Forma, motivi e garanzie procedurali collegate al licenziamento per inadempimento. 3.2. I divieti di
licenziamento discriminatorio e di tutela della personalità del lavoratore. 4. I limiti derivanti
dal bilanciamento non precostituito tra i principi della libertà d’impresa e della stabilità
dell’impiego: la giustificatezza del licenziamento quale garanzia del «sostrato esistenziale»
del lavoratore. II. Le «causali» del licenziamento: disciplina legale e diritto vivente. 5. Le
causali del licenziamento ed il negozio di recesso: causa, motivi e limiti esterni. 6. Le ragioni soggettive. 6.1. La giusta causa. 6.2. Il giustificato motivo soggettivo. 6.3. Licenziamento
per ragioni soggettive e principio dell’extrema ratio: la regola dell’adeguatezza. 7. Le ragioni oggettive. 7.1. Gli impedimenti fortuiti relativi alla persona del lavoratore. 7.2. Il licenziamento conseguente ad una modifica organizzativa (dimostrazione della sua sussistenza ed
eccezione di fraudolenza). 7.3. Licenziamento per g.m.o. e principio dell’extrema ratio: la
regola del repêchage. 8. La g.c. e il g.m. fra clausole generali e norme elastiche. 9. La prospettiva dell’unificazione dei licenziamenti economici. III. L’art. 18 st. lav. e l’azione
«d’impugnazione» del licenziamento. 10. L’accertamento della persistenza del contratto di
lavoro. 11. La condanna alla reintegrazione. 12. La condanna al risarcimento del danno per
l’inadempimento nell’uso del potere di licenziamento. 13. Conclusioni sull’inquadramento
dell’azione d’impugnazione del licenziamento (con riflessi in ordine alla qualificazione
dell’indennità sostitutiva della reintegra). 14. I punti critici dell’art. 18 st. lav. IV. Brevi rilievi di politica del diritto. 15. Stabilità dell’impiego e analisi critica dei dati sul declino del
lavoro: la nuova frontiera dei contratti sociali di durata.
1. Non essendo possibile affrontare tutte le questioni collegate al tema assegnato, ho ritenuto opportuno concentrarmi sui riflessi innescati sui licenziamenti individuali da una novità di fondo che si è affermata nei vent’anni che ci separano dal
jhfjf
∗
Questo scritto, con alcune modifiche, rappresenta il testo della relazione svolta alle
giornate di studio dell’Associazione italiana di diritto del lavoro e della sicurezza sociale
(Aidlass) sul tema «Disciplina dei licenziamenti e mercato del lavoro» (Venezia, 25-26
maggio 2007). Dedico la relazione alla memoria di mio padre prematuramente scomparso
mentre mi stavo accingendo a prepararla.
Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali n. 116, 2007, 4
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convegno Aidlass dedicato ai provvedimenti giudiziari in materia di licenziamenti
illegittimi. Essa attiene al modo d’intendere la relazione tra norme (principi) costituzionali e rapporti interprivati. Per esigenze di chiarezza e per poter meglio esporre il programma della relazione, tale novità merita di essere subito illustrata.
In una serie di importanti sentenze delle sezioni unite della Cassazione1, così
come negli scritti di una parte della dottrina giuslavoristica, si ritiene ancor oggi di
poter dar seguito al risalente tentativo di Natoli di conferire alle norme costituzionali, ed in particolare al 1° c. dell’art. 4 ed al 2° c. dell’art. 41, un’efficacia immediata e diretta2. Proprio in tema di licenziamenti si riscontra che tali norme costituzionali attribuiscono al lavoratore posizioni soggettive direttamente azionabili in
giudizio perché incorporate, ai sensi dell’art. 1374 c.c. (ed, eventualmente, dell’art.
1339 c.c.), nel regolamento contrattuale del rapporto di lavoro. Questa forma
mentis regolativa era stata fatta propria anche da una parte della dottrina cd. progressista, che inquadrò il potere di licenziamento come «costituzionalmente pericoloso»3. Essa individuò nel 1° c. dell’art. 4 cost., il diritto assoluto alla stabilità oppure il diritto ad eseguire concretamente la prestazione lavorativa4. In questa seconda prospettiva, piuttosto che il profilo del comportamento del datore di lavoro,
nel focalizzare l’oggetto del diritto del lavoratore, si accentua il profilo dell’entità
materiale (fisicistica5: art. 832 c.c.) in cui si svolge il lavoro stesso (il «posto» di
cui parla il 3° c. dell’art. 51 cost. per designare la stabilità unilaterale). Infine, questa linea di pensiero che individua il fondamento del diritto alla stabilità fuori dalla
logica – che sposerò, invece, in toto, in questa relazione – dei diritti contrattuali di
credito6, inquadra la tutela reale nell’ambito del diritto di godimento dei beni per-
1
Tra le altre, v. Cass., S.U., 10.1.2006 n. 141; Cass., S.U., 7.8.1998 n. 7755, RIDL,
1999, II, 170; Cass., S.U., 22.4.1985 n. 2645, FI, 1985, I, 1290; contra C. Cost. 9.6.1965 n.
45 (rel. Bonifacio), Gcost., 1965, 661.
2
Sul primo c. dell’art. 4 cfr. Natoli 1965, 15 e Id. 1954, 1060; De Angelis 1973, 233,
Chiarloni 1978, 1494. Nel senso dell’efficacia immediata del 2° c. dell’art. 41 Cost. cfr., invece, Natoli 1956, 438; Id. 1951, nonché (se si prescinde dall’utilità sociale) Spagnuolo Vigorita V. 1959, 241; Mancini 1965, 101; D’Antona 1979, 78; De Marinis 1995, 91; Novella
2004, 803; Gazzoni 2006, 75; Federici 2006, 647.
3
Mancini 1965, 95; D’Antona 1979, 77.
4
Nel primo senso: Ghera 1989, 1081-1082 con probabile influenza di Mortati 1954,
171; nel secondo v. De Angelis 1973, 229; Chiarloni 1978, 1478; Id. 1989, 61. La tesi di
Natoli fu, invece, critata da altri con il rilievo che il «diritto al lavoro» può essere inteso come «diritto al mantenimento del posto» solo se si accetta la configurabilità di un «diritto
all’ottenimento del posto» (Mancini 1962, 360; Giugni 1953, 264; Ghezzi 1965, 26; Scognamiglio 1978, 38; ma cfr. ora Santucci 1997, 75 ss.).
5
Per riprendere l’espressione di Napoli 2002, 14.
6
O, comunque, se opera all’interno di quest’ultima, configura, sulla base delle cd. teorie
patrimoniali, l’oggetto del diritto di credito sullo stampo di quelli reali (critici Mengoni 1952
e Breccia 1991, 136).
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ché mira ad attuare l’ordine di reintegra nel propertylike right come «rilascio» indisturbato (art. 608 c.p.c.) del posto di lavoro7.
Natoli accostava le norme costituzionali secondo l’atteggiamento positivistico,
identificando il diritto con le (sole) regole, sulla base del credo che «tutto ciò che
sta prima della regola (sia il fondamento o l’origine) non appartiene alla ricerca del
giurista»8. Sennonché, a partire dagli anni ’70 dello scorso secolo la scienza
giuridica riscoprì di essere – alla stessa stregua della politica, dell’economia o
dell’etica non teologica – una scienza pratica che deve occuparsi anche della zona
(precedentemente considerata «impraticabile») dei fini che persegue e delle
premesse di valore che li giustificano9. Alla luce della teoria del circolo ermeneutico di Gadamer, non si può più disconoscere che le scelte di valore giocano un
ruolo essenziale in fase applicativa («il diritto è più applicazione che norma»10) e,
quindi, è urgente obbligare il giudice e, più in generale, l’interprete ad esplicitare le
scelte stesse. Il giurista tradizionale nega il condizionamento dei valori «(anche se
la scelta è sempre ispirata ad un «valore» o ad una «gerarchia» di valori), mentre il
c.d. giurista «libero» esplica e motiva la sua opzione con precise ed univoche
indicazioni»11.
L’esigenza di non disconoscere l’influsso dei valori ed al contempo di tenere
questo influsso sotto il controllo argomentativo, segna la lenta, ma inarrestabile,
considerazione delle norme costituzionali sui diritti fondamentali essenzialmente
come «principi»12 e cioè come norme che non attribuiscono diritti soggettivi né sono, quindi, qualificabili come imperative13. Accanto ai semplici «programmi» (indirizzati al solo legislatore e privi in quanto tali di precettività) ed alle vere e proprie «regole» invocabili in giudizio14, si è così «creata» una terza categoria di norme costituzionali nella quale ricadono sia l’art. 41, 1° e 2° c., che l’art. 4 cost. e,
più in generale, gli artt. 2 e 3 Cost e tutti i diritti della persona15.
7
Meyer 1964, 1; in senso critico, cfr. Mengoni 1972, 374 ss. Nel senso del diritto di godimento dei beni Mazzotta 1991, 502; Pedrazzoli 1973; Romagnoli 1977, 1053; contra, invece, Simitis 2005, 102; Rodotà 1990, 43; Salvi 1994.
8
Bobbio 1950; una posizione successivamente rivista, come noto, in Id. 1984.
9
In ambito giuslavoristico Ghezzi 1970; in generale Mengoni 1985.
10
Grossi P. 2005, 74.
11
Montuschi 1973, 200.
12
Dworkin 1967; Zagrebelsky 1988, 124 ss.; Id. 1992, 149; Alexy 1994, 71 ss. Sul punto v. anche da ultimo Ars interpretandi, 10/2005 dedicato a Valori, principi e regole nonché,
specie per il rapporto tra valori e principi, Morrone 2001, 278 ss.
13
Cass., S.U., 2.8.2002, n. 11633; contra Lombardi 1970, 100.
14
Sono le due categorie utilizzate da Crisafulli 1954, 76 ed, in genere, dalla cultura giuridica della sua epoca; è sintomatico, invece, che Mengoni 1956, 18 – proprio in relazione
all’art. 4 Cost. – segnalasse, fin dalla metà degli anni Cinquanta, la necessità di isolare «una
terza serie di norme costituzionali, di cui non è certa l’appartenenza alla categoria delle
norme programmatiche oppure alla categoria delle norme immediatamente precettive».
15
Mengoni 1997, 4; Bin R., Petruzzella 2003, 511.
596
Nello stesso ordinamento che ispirò a suo tempo le riflessioni sui diritti fondamentali della linea costituzionalistica, si è da molto tempo preso atto dell’impraticabilità della teoria di Nipperdey e Leisner sull’efficacia immediata delle norme
sui diritti fondamentali16. I rapporti interprivati, infatti, non sono assimilabili alla
situazione giuridica in cui si trova il cittadino dinnanzi all’autorità statale e ciò
neppure quando si sviluppano come relazioni giuridiche di potere17. In un primo
momento, sulla scorta di Düring18, si ritenne di poter tener ferma la Drittwirkung
concependola come mediata dai concetti legali, in primis, della clausole generali
che avrebbero così dovuto fungere da contenitori dei diritti fondamentali. Si pensi
al «modulo in bianco dell’ordine pubblico» di cui all’art. 1345 c.c.19.
Infine è però prevalsa ovunque la consapevolezza che i «diritti» fondamentali –
salvo le poche norme strutturate (anche) in modo regolativo, e cioè gli artt. 36, 1°
c., 37, 1° e 3° c., 39, 40, 51, 3° c. e 52, 2° c. – non possono, in quanto principi, «incidere nei rapporti negoziali privati se non come criteri o direttive di interpretazione delle leggi che li regolano»20. I principi esprimono decisioni obiettive di valore
(Grundentscheidungen) che sono, non solo rivolte nei confronti del legislatore, ma
che condizionano anche l’interpretazione del diritto positivo perché gli organi giurisdizionali hanno l’obbligo di proteggere (Schutzpflicht) i diritti fondamentali21.
Questa correzione di rotta rappresenta una conseguenza della raggiunta consapevolezza che nei rapporti interprivati le parti che possono invocare diritti fondamentali
sono sempre (almeno) due22.
16
Rispettivamente 1950 e 1964.
Mancini 1965, 89 si tratta solo di «un’affinità irriducibilmente sociologica». Non coglie il punto Gazzoni 2006, 23.
18
Düring 1956, 167 ss. La stessa linea costituzionalistica iniziò così ad un certo punto a
battere la via della rivalutazione delle clausole generali (cfr. Natoli 1993 omaggiato da
Mengoni 1993c, 11 come il «battistrada» di questa linea di politica del diritto). In tempi più
recenti, cfr. soprattutto Montuschi 1996b.
19
Mancini 1965, 96; Russo 2001, 586; e da ultimo Cass. 2.5.2006 n. 10108, RGL, 2006,
II, 663. La tradizione pandettistica, rispresa da Lotmar (Lotmar 1902) e Barassi, e consacrata all’art. 152 della Costituzione di Weimar, era, invece, nel senso della valorizzazione della
clausola sul buon costume e quindi del contratto immorale.
20
Così Mengoni 1997, 7 sulla scorta di Canaris 1984, 213; v. ora anche Bin R. 2006; invero, i nostri costituzionalisti tendono impropriamente (v. Amoroso 1998, 91) a parlare di
Drittwirkung anche in relazione all’interpretazione adeguatrice: cfr. Morelli 1996.
21
Da ultimo, in tema di licenziamenti, v. BVerfG 21.6.2006, NZA 2006, 913 in cui si
respinge esplicitamente la teoria dell’efficacia immediata dell’art. 12, 1° c., GG. La teoria
dell’obbligo di protezione risale a Canaris 1984.
22
Cfr. Pera 1967, 204; Persiani 1971a, 603. In tal senso non è esagerato affermare che si
«riscopre», almeno, dal punto di vista valutativo, il datore di lavoro come (l’altro) soggetto
della relazione di lavoro (come invocato da Persiani 2000, 15, Pessi 2006, 1557). Il recupero, sul piano valutativo, del punto di vista del datore di lavoro affonda, comunque, le proprie
radici nella critica (sessantottina) alla mistificante visione del diritto del lavoro tout bon per
la parte debole quando si sottolineò che anche i poteri del datore di lavoro risultavano stori17
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597
Il vincolo costituzionale della legge (2° c. dell’art. 101 cost.) che insieme a
quello sistematico (dogmatico) caratterizza il discorso giuridico è riferito sia al
testo dell’enunciato normativo sia al diritto vivente, almeno per quanto riguarda
gli oneri argomentativi che sorgono in capo a chi intende rompere la continuità
giurisprudenziale23. Tuttavia, le regole vincolanti sono soggette ad una diretta
interpretazione di conformità al complesso bilanciato dei principi costituzionali
che irradiano la «totalità» del sistema positivo24 consentendo così al diritto di
rendere «omaggio alla vita»25. Il bilanciamento è reso necessario dal fatto che i
«principi fondamentali» (cioè tutti quelli sanciti dalla fonte fondamentale26) sono
per definizione caratterizzati dall’indeterminatezza, ovvero dall’impossibilità di
misurarne «in astratto la rispettiva importanza (…) determinando il grado gerarchico di ciascuno, in guisa da coordinarli sistematicamente gli uni con gli altri in
modo stabile»27. L’inverarsi di queste premesse ha contribuito a superare quel
periodo storico in cui «la parola compromesso era considerata un insulto»28 ed ha
aperto la nuova epoca definita del bilanciamento29 che la Costituzione italiana
già prefigurava, anche se «solo» per un «nocciolo duro» di diritti della persona,
all’art. 41, 2° c., cost.30.
Da queste premesse discende anche la struttura della presente indagine.
Nella prima parte della relazione tenterò di mettere a fuoco i contenuti dei principi costituzionali in tema di licenziamenti e la questione centrale del loro bilanciamento. In relazione a quest’ultimo, si tratta di acclarare se si possa o no ancora
parlare di un unico criterio prestabilito di bilanciamento (art. 41, 2° c., cost.) e quale sia, eventualmente, la sua esatta portata. Ciò sarà anche l’occasione per confutare ulteriormente la già criticata tesi delle S.U. della Cassazione sul diritto soggettivo al posto di lavoro tratto dall’art. 4 cost., oppure, all’estremo opposto, quella del
camente «eversivi» rispetto al diritto comune (Collin, Dhoquois, Goutierre, Jeammaud,
Lyon-Caen, Roudil 1980; da noi v. Garofalo M.G. 1999, 13).
23
Ascarelli 1957 ed ora con forza Bin R. 2006; al diritto vivente si ritiene vincolata la
stessa C. Cost. 26.5.1995 n. 193 (rel. Mengoni), resa proprio in tema di licenziamenti; cfr.
anche Pessi 2006, 1560 e, per la nozione di «diritto vivente» Amoroso 1998, 97.
24
Kumm 2006; Wank 1999, 134 (tutti gli enunciati normativi che presentano incertezze
applicative); da noi è in uso parlare di «costituzionalizzazione» dell’ordinamento: v. Guastini 1998, 185.
25
Come auspicato da Pera 1965, 321, 313.
26
De Simone 2001, 3.
27
Zagrebelsky 2002, 890; Id. 1992, 170; Habermas 1993, 310; Alexy 1994, 100 ss.; ma
v. anche Bin R. 2000. Sulle logiche di bilanciamento cfr. Morrone 2001, 279 ss.
28
Elias 1990, 78; tipica l’affermazione di Mancini 1976, 118 secondo cui «la coerenza
dell’ordinamento è un idolo davanti al quale è tempo che il giurista avvertito cessi di genuflettersi».
29
Aleinikoff 1987; Alexy 1994 e, per la materia che ci occupa, Glendon 1979, 6 nonché,
da ultimo, Aimo 2003, 12.
30
V. infra §§ 3, 3.1., 3.2.
598
diritto soggettivo del datore di lavoro, fondato sull’art. 41 cost., di «sfiduciare» il
lavoratore.
Nella seconda parte, procederò alla disamina della disciplina legale e del diritto
vivente sulle cosiddette causali del licenziamento individuale con due obiettivi di
fondo. Anzitutto, saggiare in che misura i due rammentati vincoli del discorso giuridico – del vincolo della legge e del controllo sistematico – siano effettivamente in
grado di esprimere contenuti autonomi. Se l’esito dovesse essere negativo, si dovrà
prendere atto che siamo dinnanzi ad un sistema a clausole generali con una chiara
esaltazione della discrezionalità giudiziale. In secondo luogo, si tratta di verificare
quanto a fondo l’inquadramento delle norme costituzionali come principi contribuisca all’adeguamento del diritto vivente.
Infine, nella terza parte della relazione affronterò l’analisi dell’art. 18 st. lav.
scomponendolo in ragione dei vari provvedimenti invocabili in giudizio contro un
licenziamento illegittimo. Ma tenterò anche di metterne a fuoco i riflessi sul piano
sostanziale, specie per quel che attiene al modo in cui la giurisprudenza concepisce
l’invalidità del licenziamento ingiustificato.
La relazione si chiude nell’ultimo § nel quale invito a de-ideologizzare il dibattito sul presunto declino del lavoro perché l’analisi dei dati reali sollecita direzioni
di marcia di tutt’altro tipo.
I. I PRINCIPI COSTITUZIONALI IN TEMA DI LICENZIAMENTI
2. Passiamo ad analizzare il contenuto dei principi costituzionali in materia di
licenziamenti. A tal proposito è utile prendere le mosse dall’interrogativo su quale
sia il fondamento costituzionale del potere (contrattuale) di licenziamento ed interrogarsi, tra l’altro, sul fatto se esso sia unico o molteplice. È noto che nella concezione pandettistica, consacrata nei codici civili ovvero nelle «costituzioni della società borghese», il diritto di recesso (ordinario) dal contratto di lavoro subordinato
a tempo indeterminato veniva giustificato alla stessa stregua con cui si ragionava
nell’ambito di tutti gli altri contratti di durata (§ 616 BGB; art. 2118 c.c.). Ci si richiamava, infatti, al diritto fondamentale alla libertà personale da cui si ricavava il
principio, che già Mancini qualificava come «di carattere materialmente costituzionale»31, della necessaria temporaneità dei rapporti obbligatori32 la quale non poteva essere garantita da un sistema che contemplava la sola risoluzione per inadempimento.
Ma rispetto al datore di lavoro, tuttavia, non è in questione la libertà personale33
e, quindi, l’esigenza della temporaneità del rapporto obbligatorio34. Infatti, egli non
31
Mancini 1965, 94 ma v. poi la palinodia in Id. 1972, 258.
Carnelutti 1911; Barassi 1917, 831.
33
Romagnoli 1995, 149; v. poi più ampiamente Fergola 1985, 202 ss.
34
Come continua a ritenere la Cassazione quando afferma, in modo sostanzialmente ri32
Luca Nogler
599
impegna nel rapporto di lavoro la propria persona, ma essenzialmente il suo patrimonio35. Pertanto «per lui è in giuoco soltanto il principio della libertà d’iniziativa
economica»36. Né è necessario attribuirgli un potere illimitato di recesso volontario
come reclamavano quei «capi di aziende (…) gelosissimi» della loro autonomia
che Barassi difese per tutta la vita dinnanzi al «salto nel buio» delle «liti inquisitorie» che potevano degenerare, a suo dire, nella tirannia giudiziaria37. Di queste severità resta comprensibile la sola richiesta che la cessazione unilaterale del rapporto di lavoro possa aver luogo anche in via stragiudiziale, per evidenti esigenze di
rapidità imposte dal mercato38.
È il principio della libertà d’iniziativa economica che, estendendosi alle «attività inerenti alla vita e allo svolgimento» dell’impresa39, orienta nella direzione del
riconoscimento di un potere di licenziamento più ampio di quello per «mero inadempimento» degli obblighi del lavoratore. Il principio stesso implica, infatti, sia,
la libertà di dimensionare e di organizzare internamente l’impresa, compresa quella
di scegliere i collaboratori40, nonché gli strumenti di lavoro; sia la libertà di variare
dicolo, che il datore di lavoro non assumerebbe con il contratto di lavoro alcun vincolo perpetuo perché comunque sia ogni obbligo è destinato a cessare al più tardi con la morte del
lavoratore (!?): Cass. 7.3.2002 n. 3296, MGL, 2002, 302; ma il macrabo sintagma è ricorrente nella giurisprudenza della Cassazione.
35
Mancini 1962, 338.
36
Mengoni 1958, 232.
37
Barassi 1917, 836-837; Id. 1936, 403.
38
Tuttavia, con gli opportuni accorgimenti procedurali in ipotesi di licenziamento per
inadempimento: v. infra § 3.1.
39
C. Cost. 30.12.1958 n. 79 (rel. Cosatti).
40
C. Cost. 28.7.1993 n. 356 (rel. Baldassarre), GI, 1994, 281; da ultimo, Cass.
22.12.2006 n. 27197. Sulla fiducia come risorsa crescente cfr. Bruni, Zamagni 2004; Zoppoli L. 2004, 2 ss. In fondo anche Barassi, pur operando in un periodo in cui non era ancora
avvertita l’idea che i beni e gli interessi in conflitto potessero trovare copertura costituzionale, intuì subito che, il fondamento di un potere di licenziamento più ampio di quello per inadempimento, non era rappresentato dalla libertà personale ma dalla tutela dell’esigenza imprenditoriale della sussistenza della fiducia nei confronti delle qualità lavorative, umane e
fisiche del lavoratore (Barassi 1901, 820; Id. 1917, 798). Tuttavia, a partire dalla seconda
edizione egli si adeguò all’opinione ormai maggioritaria interpolando nel testo l’esplicito
«spostamento del perno della giustificazione» verso il principio della temporaneità del rapporto (Barassi 1917, 831; coglie bene il punto Pisani 2004, 68). Nel successivo clima corporativo ostile ai principi liberali, Barassi ebbe poi buon gioco a rintracciare il fondamento del
recesso ordinario nel «potere discrezionale del datore, come capo e responsabile dell’organizzazione aziendale», «degradando» l’ipotesi del venir meno della fiducia ad evenienza in
cui è «a maggior ragione opportuno che il contratto venga sciolto mediante denuncia» (Barassi 1936, 383) e, quindi, con un recesso ordinario in tronco (un vero e proprio paradigma
giurisprudenziale ed, a lungo, anche dottrinale su cui cfr. in senso critico Persiani 1971a,
596; Pisani 2004, 69 ss.). Sul punto v. infra § 6.2.
600
i fattori produttivi in ragione delle esigenze e delle condizioni di mercato41; sia, infine, la libertà di cessare l’attività42.
Tuttavia, la Costituzione controbilancia le esigenze imprenditoriali in materia
di licenziamenti, soprattutto, in virtù dei limiti (a) elencati nel 2° c. dell’art. 41 e di
quelli (b) ricavabili dall’art. 4 cost.43. Ipotizzo una duplicità di limiti costituzionali
perché la Corte costituzionale ha sempre affermato, fin dalla fondamentale sent. n.
45 del 1965, l’estraneità del 1° c. dell’art. 4 rispetto ai limiti richiamati al 2° c.
dell’art. 41 cost.44.
Nell’epoca dei «principi» costituzionali in cui le gerarchie tra valori costituzionali sono necessariamente «morbide» o «mobili»45, le enunciazioni nette «sul modo di porsi del limite» ad un diritto fondamentale, del tipo di quella contenuta nel
2° c. dell’art. 41 cost., non possono, d’altronde, che essere riservate a principi costituzionali assoluti quali la pari dignità sociale dei lavoratori, la libertà personale e
il divieto di discriminazioni (art. 3)46. In tal modo non si assecondano né le interpretazioni «amplificatrici» della linea costituzionalistica, che tentò di inserire nel
2° c. dell’art. 41 cost. tutti i diritti che la Costituzione riconosce al lavoratore47, né
le tesi riduttive che prospettano la piena parificazione della libertà d’impresa a tutti
i valori inerenti alla persona del lavoratore48.
I principi di tutela del lavoro che non vengono richiamati dal 2° c. dell’art. 41
cost. si bilanciano direttamente con la libertà d’impresa contemplata dal 1° c.
dell’art. 41 stesso senza che la Costituzione indichi criteri prestabiliti di bilanciamento. La giurisprudenza costituzionale non ha mai assecondato l’artificiosa scissione tra il momento dell’iniziativa economica e la fase dello svolgimento della
stessa49. E questa premessa consente di affermare che i limiti alla libertà d’impresa
derivano non solo dal 2° c. dell’art. 41 cost., ma dallo stesso normale «gioco» del
41
Andreoni 2006a, 144; Gianfrancesco 2005, 2212; Cass. sez. lav. 30.3.2006 n. 7536 per il
sistema tedesco v. Gamillscheg 1964, 395 e per quello francese Favennec-Hery 1998, 253.
42
Sulla triade v. già Pera 1969, 17 e molto chiaramente Cass. 16.12.2000 n. 15894.
43
Per la necessità del bilanciamento C. Cost. 14.12.1998 n. 420 (rel. Santosuosso).
44
Successivamente ritroviamo il medesimo modulo argomentativo nella sent. n. 194 del
1970 così come nelle molte altre più recenti delle quali mi limito qui a richiamare ancora la
sent. n. 189 del 1990 perché contiene l’ulteriore precisazione che i limiti di cui al 2° c.
dell’art. 41 Cost. si oppongono piuttosto alle ragioni illecite di licenziamento sulle quali tornerò più avanti.
45
Alexy 1994, 142 e Guastini 1998, 206.
46
Così Mengoni 1992, 9; sembrano negare, invece, la prospettabilità di qualsiasi criterio
prestabilito di bilanciamento, Persiani 2000, 21 (che muta qui l’orientamento espresso in Id.
1971a) e, sulla sua scia, Marazza 2002, 215.
47
Natoli 1956, 444; Smuraglia 1958, 59; Lombardi 1970, 117; Di Majo 1970, 523;
D’Antona 1979, 69; poi anche Papaleoni 1991, 223; Scarpelli 1996, 21; Aimo 2003, 12;
Novella 2004, 799; Carinci M.T. 2005, 129; Gragnoli 2006; De Angelis 2007, 479.
48
Così, invero negando l’autorità del punto di vista costituzionale, Persiani 1995, 28 ss.
49
Così Gianfrancesco 2005, 2216; ma cfr. già D’Antona 1979, 70.
Luca Nogler
601
bilanciamento tra il principio della libertà d’impresa contemplato dal 1° c. dell’art.
41 cost. e gli altri principi costituzionali ad iniziare da quello della stabilità
dell’occupazione disciplinato dal 1° c. dell’art. 4 cost.50 oppure da quelli previsti
per specifiche categorie di lavoratori come, ad esempio, il principio di cui al 2° c.
dell’art. 3851. Come si vede, l’intrapresa economica privata è bensì libera, ma non
rappresenta, neppure al di fuori del nocciolo duro dei limiti di cui al 2° c., l’oggetto
di un principio illimitato52.
Sul punto spicca, da ultimo, una presa di posizione engagé di Proto Pisani che
ha criticato la tendenza contemporanea a porre sullo stesso piano gli artt. 4 e 41
cost.53 data la diversa collocazione delle due tipologie di disposizioni: il diritto al
lavoro incluso tra i «Principi fondamentali» e la libertà d’iniziativa economica relegata nel titolo III della cost. Ma, in realtà, l’esposta teoria dei diritti fondamentali
intrinsecamente limitati54 induce a concludere che la libertà d’impresa svolge «una
funzione parallela» al principio della stabilità del posto55 e, quindi, a mettere tra
parentesi la suddetta diversa collocazione delle due norme costituzionali. D’altronde, la tendenza della giurisprudenza costituzionale a procedere al bilanciamento tra questi due principi senza criteri pre-costituiti56 è in linea con la tradizione costituzionale comune degli stati membri dell’Ue57.
La stessa dottrina costituzionalistica segnala così che, proprio alla luce della
giurisprudenza costituzionale, l’art. 41 cost., pur attribuendo al legislatore ordinario un ampio potere di intervento normativo, non prefigura la libertà economica
come gerarchicamente inferiore ai principi di tutela del lavoro che non vengono
richiamati dal 2° c. del medesimo art. 4158. A questo esito si è giunti, circoscrivendo tale principi al «nocciolo duro» dei diritti della persona in senso stretto e non
dando mai una particolare importanza alla collocazione topografica delle norme
50
Sul quale mi soffermerò infra § 4.
Secondo C. Cost. 8.4.1993 n. 153 (rel. Spagnoli) questo principio prevale senz’altro
rispetto all’esigenza di efficienza e di economicità dei costi dell’impresa. Sul punto si dovrà
tornare nell’affrontare il problema della sopraggiunta inabilità all’esercizio delle mansioni
(v. infra § 7.1).
52
Come riteneva sostanzialmente Mengoni in 1958, 279.
53
Proto Pisani 2006, 147; v. già Di Majo 1970, 523, ed ora soprattutto Ferrajoli 2007,
249, che poi prospetta astoricamente (il costrutto è notoriamente d’origine corporativa) il
rapporto di lavoro come rapporto pubblico.
54
C. Cost. 14.6.1956 n. 1 (rel. Azzariti) ed ora anche Cgce 12.6.2003, causa C-112/00,
punti 79-80.
55
Così già Mancini 1976, 19 e, significatamente, Smuraglia 1958, 145 che parla di
«stesso piano» di rilevanza.
56
Gianfrancesco 2005, 2214.
57
Cfr., da ultimo, Conseil Constitutionnel n. 2005-509 del 13.1.2005, DS, 2005, 375 e
Bundesverfassungsgericht 21.6.2006 in cui viene chiaramente enunciata la suddetta funzione parallela dei due principi.
58
Pace 1992, 476; Grossi P.F. 1972, 176 ss.; Mengoni 1993a, 48; Gianfrancesco 2005, 2214.
51
602
costituzionali. Né si possono richiamare, allo scopo qui indagato, i criteri elaborati
per risolvere il differente problema dell’individuazione dei diritti costituzionali il
cui nucleo essenziale è sottratto alla revisione costituzionale.
3. Molto si è scritto sul primo limite (l’«utilità sociale») evocato dal 2° c.
dell’art. 41 cost. che in passato veniva richiamato – oltre che impropriamente come
porta d’ingresso dell’art. 4 nei limiti di cui all’art. 41, 2° cost.59 – anche per giustificare la funzionalizzazione del potere di licenziamento ovvero per imporre «la
condizione minima di legittimità»60. Superata questa impostazione con il riconoscimento che il limite in parola è riferito al solo legislatore61, si assiste a null’altro
che ad un’applicazione dei principi della ragionevolezza e della proporzionalità
che, invero, non richiederebbero neppure di essere esplicitamente richiamati62.
Nell’elenco dei limiti di cui al 2° c. dell’art. 41 cost., dopo l’utilità sociale, viene richiamata la «sicurezza» che viene tradizionalmente intesa come tutela
dell’integrità fisica. Invero, il tentativo di Natoli, rilanciato successivamente da
Smuraglia, D’Antona e Luciani, di riferire il termine alla «sicurezza della propria
esistenza»63 non ha mai avuto seguito nella giurisprudenza costituzionale.
Infine, vengono in considerazione la «libertà» e la «dignità umana» che, a differenza degli altri due termini, impongono la previsione legislativa di una serie di
limiti dettati dal coinvolgimento della personalità umana nella vicenda del licenziamento64. Non si tratta solo delle regole minime di forma e di comunicazione dei
motivi. La personalità del lavoratore può venire in gioco, anzitutto, nell’ambito del
rapporto obbligatorio quando il presupposto del licenziamento consiste in un inadempimento ossia nell’incapacità (professionale) del lavoratore di tener fede ai patti contrattuali. Ma può addirittura accadere che, a prescindere dalle modalità di
svolgimento del rapporto di lavoro, il licenziamento risulti lesivo della persona del
59
Ballestrero 1975, 381.
Natoli 1956, 438 quale limite immediatamente operativo nei confronti dei poteri datoriali.
61
Mancini 1962; Id. 1975b, 234 ss.; Hernandez 1968, 212 ss.; D’Antona 1979, 72-73;
Zoli 2004, 293.
62
Cfr. ancora Gianfrancesco 2005, 2212; sulle tre dimensioni della proporzionalità dei
principi cfr. Alexy 1994, 100 ss.
63
Rispettivamente 1956, 445; 1958, 144; 1979, 82 e 1983, 73; in senso critico cfr. Santucci 1997, 73-75.
64
In quanto tale, potrebbe addirittura apparire giustificato il fatto di prevedere una forma di tutela più intensa in caso di licenziamento disciplinare o discriminatorio, rispetto invece al licenziamento economico: è quanto si prevede nella proposta relativa al cosiddetto
«unico contratto a tempo indeterminato» in relazione al secondo periodo di lavoro successivo a quello di prova (mentre nel terzo «si rafforza ai livelli attuali la protezione contro i licenziamenti economici»); cfr. Treu 2007. Sennonché la tutela differenziata appare difficilmente attuabile nella pratica se si considera che essa incentiverebbe il datore di lavoro ad
adottare sempre i più facili e meno onerosi licenziamenti economici.
60
Luca Nogler
603
lavoratore sotto il profilo – più immediato – della sua dignità ed identità (licenziamento discriminatorio).
3.1. Alla forma scritta del licenziamento (prescritta dall’art. 2, 1° c. l. n. 604 del
1966 che si applica anche ai dirigenti) la C. Cost. attribuisce un «essenziale valore»
– ovvero una garanzia informata al rispetto della personalità umana, indice «del
valore spettante al lavoro nella moderna società industriale»65 – che esige di essere
rispettato anche laddove, «proprio a causa del più diretto rapporto con il datore di
lavoro, questi finisca per trascurare elementi formali»66.
Ora, nel sistema precedente la l. n. 604 del 1966, che era incentrato sul recesso
ad nutum e sulla libertà di forma, gli esponenti della linea costituzionalistica sostenevano che il lavoratore non poteva avere «l’onere di rendersi conto di essere licenziato»67. Si tendeva, perciò, ad adottare una nozione quanto più restrittiva possibile del «licenziamento». Una volta approvata la disciplina limitativa, e codificata
l’imposizione della forma scritta, l’istanza garantistica si è spostata nella direzione
diametralmente opposta sposando una condivisibile configurazione funzionale del
negozio di recesso: il semplice comportamento del datore di lavoro di «estromissione del lavoratore dal posto di lavoro» può dichiarare per fatti concludenti
l’esistenza del licenziamento. Esistenza la quale, in caso di azione d’impugnazione
del licenziamento stesso, deve essere provata dal lavoratore che può così limitarsi a
dimostrare «la mancata accettazione della propria prestazione lavorativa»68.
Un discorso analogo a quello sulla forma scritta del licenziamento deve essere
svolto in relazione alla comunicazione dei motivi (art. 2, 2° c., l. n. 604 del 1966
privo di riferimento ai dirigenti) che è strumentale alla regola dell’immodificabilità
delle ragioni poste a fondamento del licenziamento69. La ratio comune si riflette
anche nell’orientamento che nega l’applicazione del termine d’impugnazione (recte: di contestazione) di sessanta giorni alle ipotesi del licenziamento non intimato
per iscritto o di cui non siano stati comunicati, sempre per iscritto, i motivi70.
Sempre al rispetto della dignità umana (della «sfera morale e professionale del
lavoratore») è stata, infine, ricondotta dalla C. Cost. l’applicazione, a prescindere
dal numero dei lavoratori, delle garanzie procedimentali previste dai primi tre cc.
dell’art. 7 st. lav.71 nonché, a partire da Cass., S.U., n. 3965/1994, anche del 5° c.
65
C. Cost. 14.7.1971 n. 174 (rel. Trimarchi); C. Cost. 7.7.1986 n. 176 (rel. Greco).
C. Cost. 23.11.1994 n. 398 (rel. Santuososso).
67
Natoli 1967, 1107 facendo leva sugli artt. 1334 e 1345 c.c., i quali pretendono la comunicazione del recesso.
68
Cass. 13.4.2005 n. 7614; v. infra § 10. Sull’estromissione v. C. Cost. 15.7.2005 n. 283
(rel. Bile); Cass., 29.11.2000, n. 14977; critico Vallebona 2006b, 46.
69
Cass. 14.8.1999 n. 8641; Ghera 1992, 464.
70
Inopportuna l’estensione prevista, invece, dall’art. 10 d.d.l. S. 1163. In tema v. ora
Angiello 2007.
71
C. Cost. 30.11.1982 n. 204 (rel. Andrioli); 25.7.1989 n. 427 (rel. Greco); 23.7.1991 n.
364 (Pescatore).
66
604
Invero, la teoria sulla natura ontologicamente disciplinare del licenziamento per
colpa72 ha finito con il «tabuizzare» le premesse argomentative di una qualificazione che, al contrario, dovrebbe essere ricondotta, dal mondo delle modalità fondamentali dell’essere, a quello delle sue ragioni strumentali.
Il licenziamento conseguente al notevole inadempimento degli obblighi del lavoratore corrisponde e, secondo i più, riassorbe73, in ambito giuslavoristico, la risoluzione giudiziale per inadempimento dei contratti sinallagmatici, ma rappresenta,
in relazione alle garanzie procedimentali di cui all’art. 7 st. lav., solo un equivalente funzionale del potere disciplinare74. I due poteri, pur essendo entrambi di natura
contrattuale, restano strutturalmente, e dal punto di vista causale, distinti come ben
ha affermato C. Cost. n. 586/1989. Il primo è, infatti, strumentale alla predisposizione del substrato aziendale che consente al lavoratore di adempiere alla sua obbligazione principale75 e si esprime, perciò, anzitutto, nella formazione del codice
disciplinare. Il potere di licenziamento per g.m.s. e per g.c.76 salvaguarda, invece,
la possibilità della parte fedele a mettere in discussione la sopravvivenza del contratto in caso d’inadempimento degli obblighi fissati nel regolamento contrattuale e
prescinde, pertanto, dal contenuto del codice disciplinare.
La comunanza tra i due poteri, che giustifica l’applicazione ad entrambi del
principio audiatur et altera pars, non risiede nel carattere sanzionatorio, che è
inesistente in quello risolutorio per inadempimento77. Essa va, piuttosto, cercata
nel comune presupposto dell’inadempimento nonché nel fatto che i due poteri
vengono esercitati in via stragiudiziale78. Trattandosi di provvedimenti idonei a
riverberarsi sulla «personalità stessa del lavoratore» al quale viene imputato di
aver violato la legge contrattuale79, è necessario che il legislatore preveda speci72
C. Cost. 30.11.1982 n. 204 (rel.Andrioli); 23.7.1991 n. 364 (rel. Pescatore); Cass.
24.7.2006 n. 16864.
73
Mengoni 1958, 262, Mazzotta 2005, 621; se non fosse totalmente irrealistico per la
deformazione dei tempi processuale, si dovrebbe però dar ragione a Mancini 1965, 77 secondo il quale sul punto sono state scritte «molte cose inesatte». Se si ragiona nell’ottica dei
contratti di durata, il parametro dell’art. 3, l. n. 604 del 1966 e quello di diritto comune sono,
infatti, equivalenti tra loro (Montuschi 1973, 238; Tullini 1994a, 200 ss.). L’affermazione
giurisprudenziale secondo cui l’aggettivo notevole rappresenterebbe una nota differenziale,
in «senso accentuativo a tutela del lavoratore» rispetto al diritto comune dei contratti» (art.
1455 c.c. v. Cass. 24.7.2006 n. 16862) confonde il problema della gravità dell’inadempimento con quello dell’adeguatezza del licenziamento (v. infra § 6.3).
74
Contra, invece, almeno mi sembra Gragnoli 2006, 55, che propende per una piena riconduzione del licenziamento al potere disciplinare; così anche Ichino 2002, 474.
75
Cfr. Montuschi 1991, 12-13.
76
V. infra §§ 6.1, 6.2.
77
Mosco 1950, 18 ss.; nel senso, invece, della teoria sanzionatoria, Auletta 1942, 147148; Pisani 2004, 83.
78
Napoli 1980, 144 ss.
79
Così, in relazione alla giusta causa, Cass., S.U., 18.5.1994 n. 4844.
Luca Nogler
605
fici accorgimenti procedurali che devono essere assolti prima dell’esercizio dei
poteri stessi80.
Il fatto di attribuire al licenziamento per l’(almeno) notevole inadempimento
una natura solo funzionalmente «disciplinare» consente d’imporre tali accorgimenti, ma permette in pari tempo di tenere distinti i criteri d’individuazione dei
presupposti costitutivi del potere di licenziamento da quelli propri del potere disciplinare.
In più chiare parole, non è vero, in primo luogo, che ai sensi dell’art. 3, l. n. 604
del 1966 sono legittime, come quando il datore di lavoro fa ricorso al potere disciplinare, «valutazioni di notevolezza dell’inadempimento che dal punto di vista
dell’art. 1455 non sarebbero fondate»81 (alla stessa stregua di ciò che avveniva, invece, Oltràlpe quando regnava la nota scissione d’impronta istituzionalistica82 ora
definitivamente archiviata83).
In secondo luogo, la predisposizione del codice disciplinare non ha una rilevanza costitutiva del potere di licenziamento per inadempimento84. È coerente con
quest’ultima conclusione il più recente orientamento giurisprudenziale secondo
cui, preso atto che il contratto collettivo non può che specificare gli obblighi derivanti dalla legge, le fattispecie legali già assolvono alla funzione della preventiva
pubblicità degli stessi85. Si supera, così, lo stato di totale incertezza creato dal ricorso alle belle formule delle «regole fondamentali del vivere civile» oppure dei
«doveri fondamentali»86. Formule che sembrano ispirate all’errata idea di fondo
che il potere disciplinare punisca non solo il mancato rispetto degli obblighi scaturenti dal sinallagma contrattuale, ma anche la violazione dei doveri extracontrattuali87 i quali, peraltro, non dovrebbero essere riformulati nel codice disciplinare. In
80
Napoli 1980, 227.
Così, invece, Mengoni 1990, 63; Tullini 1994a, 223.
82
Che riecheggia, nel tentativo di prospettare un «potere di licenziare il lavoratore per
una mancanza disciplinare», autonomo rispetto al potere contrattuale di licenziamento per
inadempimento; potere che dovrebbe rinvenire il proprio fatto costitutivo nel «rapporto tra il
capo dell’impresa e l’insieme dei lavoratori che in questa operano» (Tremolada 1993, 120).
V. in senso critico Bellomo 1995, 168-169.
83
I «manuali di Hueck-Nipperdey e di Nikisch che dominarono vent’anni or sono sia la
dottrina che la giurisprudenza», rappresentano il «passato» e sono «più una reliqua che un
utile arnese di lavoro» (Gamillscheg 1998, 2).
84
E, quindi, è inopportuno formulare l’art. 10 del progetto di legge S 1047 nei termini
che «in caso di licenziamento disciplinare si applica l’art. 7» st. lav.; si rischia in tal modo di
rinnegare la teoria dei limiti di intrinseca riferibilità (stabilmente nel sistema a partire da
Cass., S.U., 26.4.1994 n. 3966; Cass. n. 4844/1994 cit. a nt. 79).
85
Cfr. Cass. 25.9.2004 n. 19306; Cass. 8.6.2001 n. 7819.
86
V. rispettivamente, Cass. 17.11.2006 n. 24460 e Cass. 18.1.2007 n. 1094; Cass.
13.1.2005 n. 488. Cass. 9.7.2007 n. 15334, NGL 2007, 332, relativa all’utilizzo del telefono
cellulare per usi personali, fa riferimento alla «comune etica».
87
Cass. 4.6.2004 n. 10663.
81
606
tal modo si nega ab imis lo stesso sforzo contrattualistico profuso dalla dottrina
giuslavoristica. Ma, soprattutto, l’incertezza che accompagna questi criteri è dimostrata dal fatto che, in base ad essi, la Cassazione è, ad esempio, giunta al punto di
dichiarare illegittimo il licenziamento di una guardia giurata che aveva aggredito
un collega costringendolo a medicarsi all’ospedale88.
Contraddice il principio della gerarchia delle fonti, invece, l’ulteriore orientamento giurisprudenziale che impone di indicare nel codice i «comportamenti,
che non sarebbero – di per sé – riconducibili a dette nozioni legali, ma – in relazione alle peculiarità della attività e/o dell’organizzazione dell’impresa – possono integrare comunque specifiche ipotesi di giusta causa o giustificato motivo
soggettivo»89. Né tale orientamento diminuisce l’incertezza come testimonia il
fatto che in base ad esso si è, ad esempio, esclusa la legittimità del licenziamento
per colluttazione sul luogo di lavoro con la rottura della protesi dentaria del collega90.
Infine, risulta coerente con la proposta spiegazione sulla procedimentalizzazione del potere di licenziamento per inadempimento, l’applicazione della contestazione dell’addebito e del termine a difesa previsti dall’art. 7 st. lav. anche all’ipotesi del licenziamento, sempre per inadempimento, del dirigente compreso quello
cosiddetto medio91. Tuttavia, a differenza di come argomenta Cass., S.U., n.
7880/2007, l’impostazione qui seguita consente di sostenere questo esito interpretativo prescindendo dalla questione della sussistenza o meno in capo al datore di
lavoro del potere disciplinare92.
La nozione di «giustificatezza» del licenziamento, quando quest’ultimo rappresenta lo strumento di reazione nei confronti di un inadempimento, fonda, alla stessa
stregua dei concetti legali di g. c. e di g. m. s., anche una dimensione procedurale
88
Cass. 21.6.2006 n. 14305.
Cass. 25.9.2004 n. 19306; Cass. 21.7.2004 n. 13526; Cass. 24.5.2004 n. 10201; in
dottrina sulla sindacabilità dei contratti collettivi cfr. Napoli 1980, 118; 1993, 91; né trovo
corretto l’orientamento secondo cui il lavoratore avrebbe l’«onere della prova di circostanze
tali da fondare lo scostamento dalle valutazioni operate dall’autonomia collettiva» (così, invece, Vallebona 2005, 386 sulla scorta di certa giurisprudenza di Cassazione puntualmente
documentata). Le cicliche proposte di legge che impongono al giudice di far riferimento alle
tipizzazioni presenti nei contratti collettivi (apprezzate da Liso 2002; Zoppoli L. 2000, 431)
dovrebbero specificare che ciò riguarda le sanzioni conservative ed è riferito al giudizio di
adeguatezza del licenziamento (v. infra § 6.3).
90
T. Tivoli 20.9.2005, RIDL, 2007, II, 224.
91
Cass., S.U., 30.3.2007 n. 7880, RGL, 2007, II, 630. È escluso, invece, il pseudo dirigente (sul punto cfr. Zoppoli A. 2000). Quello medio era stato, per così dire, dimenticato da Cass.
29.5.1995 n. 6041 (Papaleoni 1998) dando così fiato ad un’impropria nozione legale restrittiva
di dirigente (Cass. 11.2.1998 n. 1434; Cass. 27.11.1997 n. 12001; critico Amoroso 1995) tipologicamente utilizzata anche in relazione all’art. 10, l. n. 604/1966 (Cass. 9.8.2004 n. 15351).
92
Nel primo senso Montuschi 1996c, 30 e Amoroso 1995, nel secondo Zoppoli A. 2000,
168-169.
89
Luca Nogler
607
di protezione della persona del lavoratore che si sostanzia in un requisito (non
strutturale come la forma ma) di regolarità93 che assume la medesima qualificazione giuridica – differenziata per ambito di tutela94 – delle causali del licenziamento
perché il rispetto delle prescrizioni procedurali non segna mai l’inizio di una forma-procedimento che è già parte del negozio95.
Nell’area della tutela reale si tratta di presupposti esterni al negozio di recesso
che, allo stesso modo di quelli sostanziali, contribuiscono a far maturare il potere
di licenziamento96 che verrà poi esercitato in via negoziale rispettando, anzitutto, il
requisito della forma scritta. L’atto negoziale presuppone la procedura ma non la
incorpora. Non a caso, la giurisprudenza tende ad includere tra gli elementi costitutivi del potere di licenziamento, specie di quello per giusta causa, anche l’immediatezza97. Nell’area – in cui ricade il licenziamento del dirigente – della tutela
contrattuale, il criterio della consustanzialità tra giustificazione e procedura comporta la regola, adottata dalle sezioni unite, secondo cui dal mancato rispetto delle
garanzie procedimentali derivano le «sole» conseguenze risarcitorie previste
dall’autonomia collettiva98.
Attraverso la giustificatezza si riesce così a rendere effettivo il principio costituzionale audiatur et altera pars che le sezioni unite considerano una «indefettibile
garanzia di ogni prestatore di lavoro incolpato di un addebito prima che il datore di
lavoro determini, con un suo atto unilaterale, conseguenze negative nella sua sfera
soggettiva» che possono ripercuotersi, tra l’altro, anche sulla futura collocazione
dello stesso nel mercato del lavoro. Prima di Cass., S.U., n. 7880/2007 questa solu93
Su questa categoria cfr. C. Cost. 17.3.1988 n. 311 (rel. Mengoni) ed ovviamente
Giorgianni 1968, 996. In tal modo la regola della sanzione d’area, ormai stabilmente accolta dalla giurisprudenza (da ultimo v. Cass. 5.10.2006 n. 21412, NGL, 2006, 857; Cass.
19.9.2002 n. 13732), non risulta più ispirata solo da ragioni d’opportunità (Montuschi
1996a, 173; per ulteriori critiche cfr. Magnani 1996, 59; Angiello 2005, 80; egli autori citati
da Bellomo 1995, 156 nt. 10), espresse da Pera 1990, 257 con il rilievo che sarebbe «stramba» una sanzione per vizio di procedura più forte di quella per l’ingiustificatezza nel merito.
Occorre comunque riconoscere che anche la giurisprudenza costituzionale si è espressa a
favore della tesi in modo puramente assiomatico: v. C. Cost. 25.7.1989 n. 427 (rel. Greco);
C. Cost. 13.7.1989 n. 398 (rel. Casavola); C. Cost. 26.5.1995 n. 193 (rel. Mengoni).
94
V. infra § 5.
95
Come sostiene Mazzotta 1994, 2708-2709.
96
Nell’area della tutela obbligatoria, gli accorgimenti procedurali sono parte dell’obbligo accessorio della g.c. e del g.m.s., così come in quella residuale del recesso ad nutum il
loro mancato rispetto comporta il pagamento della indennità sostituiva del preavviso (contra
C. Cost. 31.5.1996 n. 172 (rel. Mengoni) che prospetta un licenziamento ingiurioso ma su
questa figura v. infra alle nt. 429 e 486).
97
Cass. 20.6.2006 n. 14115; Cass. 17.6.2002 n. 8730; sul punto cfr. Alleva 1970. Contra
l’orientamento che spiega l’immediatezza con la rinuncia tacita al potere di licenziamento che
realizza notoriamente da noi gli effetti dell’exceptio doli sub specie di Verwirkung richiamata
da Montuschi 1999, 731; v. da ultimo Cass. 19.12.2006 n. 27101, NGL, 2006, 858.
98
V. già così Cass. 2.3.2006 n. 4614; Cass. 3.4.2003 n. 5213.
608
zione veniva frequentemente accompagnata – benché, a rigore, non fosse necessario – dal richiamo alle clausole di correttezza e buona fede99.
3.2. Pur essendo, l’evoluzione storica della disciplina antidiscriminatoria100,
frutto di stagioni diverse, che non è qui possibile ripercorrere, risalta la struttura
sempre più unitaria di questa normativa. Permangono talune differenze interne
(soprattutto fra la discriminazione di genere e le altre), ma risultano ormai soverchianti le corrispondenze fra i diversi nuclei normativi, al punto che la dottrina più
attenta propone di parlare sul piano degli effetti, al singolare, dell’illecito «di discriminazione»101 che si fonda sulla nullità dell’atto, sulle tutele, risarcitoria (comprensiva del danno non patrimoniale) e specifica, di cui all’art. 18 st. lav.
La prima norma in materia commina(va) la nullità per qualsiasi «licenziamento
determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza ad un
sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali»102. Il divieto è stato poi
esteso103 ai licenziamenti «dettati a fini di discriminazione (…) sindacale, politica,
religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali». A tali disposizioni si sono, infine,
aggiunti gli artt. 3, l. n. 108 del 1990 e 5, l. n. 135, sempre del 1990, sulle infezioni
da HIV. A questo nucleo centrale di norme si affiancano, a pieno titolo, dopo le
indicazioni fornite dalla direttiva 2002/73/Ce104, anche la previsione della nullità
del licenziamento, rispettivamente, attuato a causa di matrimonio, che tutela il
diritto fondamentale della donna di dar vita ad una nuova famiglia105, così come di
quello che lede il diritto alla maternità o alla paternità106: una tutela che dovrebbe
essere finalmente estesa anche alle lavoratrici ed ai lavoratori addetti ai servizi
domestici malgrado le note incertezze della C. Cost.107.
Al 2° c. dell’art. 41 cost. vanno, infine, ricondotti pure la tutela dei dirigenti
delle rappresentanze sindacali aziendali (art. 18 st. lav.) nonché quella, addirittura
di natura costituzionale, del lavoratore eletto a funzioni pubbliche.
Ora, prima dell’affermarsi della logica dei principi, si tentò a lungo di conferire
al motivo illecito determinante, che può rendere nullo il licenziamento ai sensi
99
Così, ad es., Cass. 20.12.2006 n. 27197; Cass. 28.10.2005 n. 21010.
Sull’evoluzione del divieto di licenziamento discriminatorio, v. De Simone 2001, 104 ss.
101
In tal senso v. Del Punta 2006, § 6. Cfr. anche Izzi 2005, 351 ss. e, anche per i profili
di politica del diritto, Amato 2005, 298 ss.
102
Art. 4, l. 15.7.1966 n. 604.
103
Dall’art. 15 st. lav. come modificato dall’art. 13, l. 9.12.1977 n. 903, e dall’art. 4, c.
1, d. lgs. 9.7.2003 n. 216.
104
Bellocchi 2006.
105
Art. 1, 2° c., l. 9.1.1963 n. 7, ora confluito nell’art. 35, 2° c., d. lgs. n. 189 del 2006.
106
Art. 54, d. lgs. 26.3.2001 n. 151.
107
Cfr. da ultimo De Luca Tamajo 2006, 86. Prima C. Cost. 15.3.1994 n. 86 (rel. Mengoni) caldeggiò il tutto, ma poi C. Cost. 26.5.1995 n. 193 (rel. Mengoni) ha respinto
l’incostituzionalità dell’art. 2110 c.c.
100
Luca Nogler
609
dell’art. 1418, c. 2, c.c.108, l’importante funzione residuale di strumento di chiusura
rispetto alla legislazione antidiscriminatoria109. A quel periodo risalgono anche le
teorie sul carattere non tassativo dell’elencazione delle ragioni discriminatorie110.
In particolare, passando attraverso la clausola generale dell’ordine pubblico, si tentò di rendere azionabile in giudizio l’intero limite della libertà e della dignità in
senso sostanziale richiamato dal 2° c. dell’art. 41 cost.111, così come le «condizioni
personali» di cui all’art. 3 cost.112.
Ma questa operazione interpretativa risulta ormai infruttuosa per due ordini di
ragioni.
Il primo attiene al già considerato superamento della teoria della Drittwirkung,
anche solo mediata, dei diritti fondamentali. Il secondo ordine di ragioni è tutto interno alla formulazione dell’art. 1345 c.c. Quest’ultima disposizione gioca un ruolo
rilevante al fine di rendere possibile la sindacabilità della risoluzione del rapporto
per scadenza del periodo di prova113. Tuttavia, l’art. 1345 presenta da sempre i
grandi limiti: di essere costruito, non sulla base di dati di fatto obiettivamente verificabili, bensì richiamando la sfera soggettiva dei contraenti che diventa pressoché
inafferrabile quando il negozio è unilaterale114; di richiedere l’efficacia determinativa illecita esclusiva115; e di accollare l’onere della prova al lavoratore116.
108
Cfr. soprattutto Montuschi 1981, 43 ss. Gli artt. 1345 e 1418 c.c. sono applicabili
grazie all’art. 1324 c.c.: v. da ultimo Cass. 19.10.2005 n. 20197, e per il licenziamento per
ritorsione, Cass. 3.5.1997 n. 3837.
109
Cfr. da ultimo Vallebona 2006b, 35. Non ha avuto, infine, seguito il pur ingegnoso,
ed invero anche dirigista, tentativo di Fergola 1985 di argomentare la sindacabilità del recesso ad nutum sulla sola base dell’art. 1322, 2° c., c.c. che trova però applicazione esclusivamente in relazione ai negozi atipici (Sacco 2001, 365; Zoli 1988, 190).
110
Sul fatto che soltanto da una compiuta scelta normativa può discendere l’attitudine di
un dato fattore di rischio a connotare di illiceità una diversificazione di trattamento, v. da
ultimo Del Punta 2006, 223 ss.
111
C. Cost. 19.12.1990 n. 548 (rel. Corasaniti) riferisce il limite ai «valori primari attinenti alla persona umana». È la posizione di Natoli 1954.
112
V. ad es. Montuschi 1981, 41.
113
Fino all’assunzione (anche se obbligatoria) definitiva e comunque non oltre sei mesi
dall’inizio del rapporto, cfr. Montuschi 1981, 51; C. Cost. 28.7.1976 n. 204 (rel. Volterra);
C. Cost. 11.6.1980 n. 89 (rel. Bucciarelli Ducci); Cass., S.U., 2.8.2002 n. 11633; per
l’abuso, v. invece Del Punta 1997, 426. Sull’inquadramento del recesso come risoluzione
del rapporto per scadenza del termine, come tale priva dell’obbligo di comunicare i motivi,
v. Corte 4.12.2000 n. 541 (rel. Sntosuosso) che si rifà sul punto a Corte n. 172/1996 cit. a nt.
96; è salvo, invece, l’obbligo di motivazione in caso di un lavoratore assunto obbligatoriamente cfr. C. Cost. 18.5.1989 n. 255 (rel. Greco). Sul tutto cfr. da ultimo Brun 2003.
114
Ballestrero 1979, 250; Barbera 1991, 57 ss.; Scarponi 1992, 49 ss.; Pessi 1994, 444 ss.
115
Cass. 14.7.2005 n. 14186.
116
Se si prescinde dalla normativa particolare delle discriminazione per ragioni di sesso
(art. 4, c. 5, l. 10.4.1991 n. 125), l’onere della prova è ancor oggi del lavoratore che al più
può far ricorso alla prova indiziaria (Zoli 1988, 330 ss.; Scognamiglio 2005a, 445).
610
I divieti che ho elencato in precedenza sono piuttosto da inquadrare nella differente logica, rispetto a quella sottesa all’art. 1345 c.c., della causa in concreto dell’atto di
licenziamento che in queste ipotesi vìola vere e proprie norme imperative che contengono limiti esterni alla causa tipica del licenziamento stesso. La «causa in concreto»,
nata in contrapposizione alla causa tipica117, si è sostanzialmente affiancata a
quest’ultima quale strumento di governo dei casi di frode alla legge subentrando al
«motivo fraudolento» con il quale Francesco Santoro Passarelli interpretava l’art.
1344 c.c. considerandolo non più il motivo determinante del negozio in fraudem legis,
ma facendolo coincidere con gli «interessi concreti che esso è atto a soddisfare»118.
In tal modo, l’accertamento giudiziale è stato emancipato dall’esistenza della
realtà psicologica del motivo illecito determinante119 e si è superato finalmente il
consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale una volta che sia stata
accertata la g.c. o il g.m., non sarebbe più possibile eccepire il carattere discriminatorio del licenziamento120. È, infine, al pari, sicuramente escluso che, una volta accertata la oggettiva ragione discriminatoria, si debba ulteriormente richiedere la
sussistenza del motivo illecito del datore di lavoro121.
Se il problema dell’onere della prova risulta parzialmente alleggerito in virtù
della legislazione speciale contro le discriminazioni, occorre, infine, reimpostare la
questione, per così dire, della «clausola di chiusura». Si tratta d’individuare nella
legislazione vigente, al di là della serie di fattori di rischio introdotti in attuazione
delle direttive di seconda generazione, una clausola normativa più ampia (la personalità morale di cui all’art. 2087 c.c.122?) tale da potersi parlare di «terzo tipo» di
discriminazione vietata123, quella che tende cioè a sganciarsi dalla necessità di un
tertium comparationis124.
117
L’allusione è a Ferri G.B. 1966 e poi in sintesi Id. 1986; per riferimenti più ampi v.
ora Rolli 2007; Treu 1974, 123; Id. 1991, 127 ss.; Isenburg 1984, 57; Pessi 1994.
118
Così con sintesi mirabile Santoro Passarelli 2002, 192; la tesi del motivo fraudolento
è sostenuta anche da Suppiej 1982, 247; Id. 2005, 175 sebbene in un’accezione più volontaristica. Per lo spostamento verso la causa in concreto v. Roppo 1980; Id. 2001, 372 nonché
gli autori citati dalla Rolli 2007, 441 ss. al cui scritto rinvio anche per l’analisi della giurisprudenza più recente. Nella dottrina giuslavoristica v. Treu 1974, 123; Id. 1991, 127 ss.;
Isenburg 1984, 57; Pessi 1994.
119
Si pensi, ad es., all’intento di rappresaglia; Treu 1991, 127 ss.; Scarponi 1992, 50.
120
Cass. 8.3.2007 n. 5288; Cass. 22.8.2003 n. 12349; Vallebona 2005, 418; l’orientamento
è la conseguenza del carattere esclusivo del motivo illecito. Critici: Montuschi 1981, 54 che tiene peraltro fermo il riferimento all’art. 1345 c.c.; De Simone 2001, 118; Mazzotta 2005, 660.
121
Cfr. ad es., Cass. 13.12.2000 n. 15689 che rispetto ad una discriminazione per ragioni sindacali richiede l’intento di rappresaglia.
122
In senso positivo riguardo all’art. 2087 c.c. De Cristofaro 2005, 457 che ritiene applicabile il 1° c. dell’art. 1418 c.c. In tale ambito andrebbe ricondotto anche il licenziamento
per ritorsione.
123
Sull’origine dell’espressione cfr. Aimo 2003, 319.
124
Del Punta 2006, 219 nt. 161 ispirato da Barbera 2003, 404 alla quale deve essere ri-
Luca Nogler
611
4. Esaurita l’indagine sul significato del 2° c. dell’art. 41 cost., concentriamoci
sul 1° dell’art. 4 cost. Malgrado l’enunciato si riferisca esplicitamente a tutti (e,
quindi, senza discriminazione) i cittadini, riconoscendo loro sia un diritto (civile)
ad agire che quello (sociale o – secondo una diversa ed, invero, superata, sfumatura
– pubblico) al lavoro, la giurisprudenza costituzionale ricava costantemente
dall’enunciato stesso anche un ulteriore diritto fondamentale (economico) a favore
– per riprendere le parole utilizzate nella prima sentenza del 1965 – «di quelli di
essi che siano già occupati».
Fin dalla prima sentenza in materia, la C. Cost. escluse che si trattasse di un diritto soggettivo. Questa conclusione è stata poi ribadita, in modo particolarmente
netto, nella successiva sentenza sulle norme legislative relative ai contratti collettivi gestionali. La pronuncia nega la sussistenza di un’impropria disposizione di diritti individuali dei lavoratori, proprio sulla base dell’assunto della non preesistenza (denominata nella sentenza anche come «autonomia concettuale»), rispetto alla fonte regolativa collettiva, del diritto (soggettivo) alla stabilità del posto125.
Contrariamente a quanto si sostiene nella già citata Cass., S.U., n. 141 del 2006, il
diritto alla stabilità del posto non pre-esiste, ma deriva dalla disciplina subcostituzionale sia essa di fonte collettiva o legislativa.
La stabilità dell’occupazione venne, piuttosto, elevata dalla sent. n. 45 del 1965
al rango di un principio costituzionale126 il quale, per riprendere verbatim le parole
della C. Cost., «esige» che il legislatore assicuri «a tutti la continuità del lavoro, e
circondi di doverose garanzie (…) e di opportuni temperamenti i casi in cui si renda necessario far luogo a licenziamenti». Insomma, la garanzia di non perdere il
sostrato esistenziale senza un «fondamento pressante»127. Un principio che, invero,
in considerazione dell’espressione lata utilizzata dal Costituente, si potrebbe, mutatis mutandis, estendere («come la luce della stella polare»128) a tutti i titolari di un
impiego remunerativo della loro attività personale129.
Ora, purtroppo, la sent. n. 45 del 1965 fu inizialmente letta con le rigidi lenti
del doppio aut aut tra le coppie, rispettivamente, accoglimento/rigetto e diritti di
libertà/diritti sociali. Sicché, essa non poteva che generare un certo disorientamento
che veniva, e viene invero spesso ancora oggi, malcelato dietro la generica afferconosciuto il merito di aver segnalato che le direttive comunitarie di seconda generazione,
che sono all’origine dei recenti provvedimenti italiani in materia, si basano «su un’assunzione radicale del punto di vista dei diritti umani, che bandisce, in quanto discriminatorio,
qualsiasi pregiudizio o svantaggio che derivi dal possesso di qualità costitutive dell’identità
della persona, e che perciò si ponga come lesivo della sua dignità».
125
C. Cost. 30.6.1994 n. 268 (rel. Mengoni).
126
C. Cost. 28.12.1970 n. 194 (rel. Rocchetti); Dell’Olio 1976, 96; Giugni 1998, 60.
127
Gamillscheg 1964, 391; 1989, 58.
128
Scognamiglio 2005b, 710. Di qui la legittimità dell’art. 27 del disegno di legge n. C
104 del 28.4.2006 sulla Carta dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori (RGL, 2006, I, 937).
129
Ichino 2000, 21 che non esita a trarre tutte le conseguenze derivanti da questa premessa.
612
mazione che il 1° c. dell’art. 4 cost. garantisce una (non meglio precisata) «giustificazione» all’interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro. Non si
percepì immediatamente che la Corte stava inaugurando un tertium genus di sentenze le quali affermano che «una norma, non costituzionalmente illegittima allo
stato, potrebbe diventarlo ove non fosse, entro un ragionevole limite di tempo, opportunamente modificata o interpretata in rispondenza a direttive costituzionali di
protezione di certi interessi»130. Né fu subito colto che la sent. n. 45 del 1965 aveva
individuato nel 1° c. dell’art. 4 cost. un esempio di quelle che la dottrina tedesca
chiama le norme che contengono decisioni obiettive di valore e cioè principi precettivi131 sul contento positivo delle discipline afferenti ad una determina questione.
Invero, la C. Cost. successivamente al monito iniziale del 1965 è stata a lungo
alla finestra, ovvero molto clemente nella valutazione della ragionevolezza dei
tempi, riproponendo, epperò, con la sent. n. 2 del 1986 un secondo – meno perentorio («resta auspicabile») – monito in relazione all’ambito residuale di sopravvivenza del recesso ad nutum. Infine, a smentire per sempre la dottrina della rilevanza solo programmatica, e ad allineare definitivamente la nostra giurisprudenza costituzionale allo standard proprio della tradizione costituzionale comune degli stati
membri dell’UE132, è sopraggiunta la dichiarazione d’illegittimità costituzionale
dell’art. 11, c. 1°, della l. n. 604 del 1966 nella parte in cui escludeva l’applicabilità
degli artt. 2 e 5 della legge stessa nei riguardi dei prestatori di lavoro che, senza
essere pensionati o in possesso dei requisiti di legge per avere diritto alla pensione
di vecchiaia, avessero superato il 65° anno di età133.
Dopo la l. n. 108 del 1990, la nostra C. Cost. – sempre in aderenza agli orientamenti registrabili presso la giurisprudenza delle Corti degli altri paesi europei –
parla ormai apertis verbis di «garanzia costituzionale» del «diritto di non subire un
licenziamento arbitrario» ovvero di «essere estromesso dal lavoro ingiustamente e
irragionevolmente»134. Si consideri, peraltro, che, nel linguaggio adottato dalla giurisprudenza costituzionale, «arbitrario» sta per «ingiustificato»135 e non «semplicemente» per «discriminatorio»136 o «immotivato»137 anche perché queste ultime
130
Mengoni 1987, 64.
Contra la precettività Scognamiglio 1978, 46; Santucci 1997, 75 ss.; Pera 1980, 2 e
De Angelis 2007, 478.
132
BVerfG 21.6.2006 e BVerfG 27.1.1998, AuR, 1998, 207-210 entrambe nel senso che
l’art. 12, 1° c., GG protegge l’interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro.
Per l’orientamento della C. Cost. spagnola, molto netta sul punto, cfr., invece, Baylos 2003, 36.
133
C. Cost. 5.7.1971 n. 174 (rel. Trimarchi); C. Cost. 27.6.1986 n. 176 (rel. Greco).
134
V., rispettivamente, C. Cost. 4.12.2000 n. 541 (rel. Santosuosso); C. Cost. 10.2.2006
n. 56 (rel. Quaranta) e C. Cost. 8.2.1991 n. 60 (rel. Spagnoli).
135
C. Cost. 6.2.2003 n. 41 (rel. Zagrebelsky); sul nesso giustificazione-stabilità cfr. Persiani 1971a, 684 ss.; Baldassarre 1989, 15.
136
Così, invece, Mazzotta 2005, 641 ed, in riferimento alla Carta sociale europea, Zoppoli L. 2000, 434.
137
D’Antona 1999.
131
Luca Nogler
613
ipotesi sono, come abbiamo visto, ancorate ad un autonomo bilanciamento dei valori costituzionali.
Si afferma spesso riduttivamente che la garanzia costituzionale riguarderebbe la
sola garanzia per il lavoratore di non subire un licenziamento ingiustificato138. Indipendentemente dallo spazio di discrezionalità che viene riconosciuto al legislatore, sul quale tornerò nel § 14, la giustificazione è però nella giurisprudenza costituzionale sempre in funzione della stabilità. Sicché è corretto individuare il punto di
bilanciamento tra gli artt. 41 e 4 cost. nel principio dell’extrema ratio che, incidendo direttamente sulla portata dell’art. 3, l. n. 604 del 1966 contribuisce alla configurazione delle regole del repêchage139 e dell’adeguatezza del licenziamento per
inadempimento140.
Si delinea in tal modo, proprio sulle orme (se non dell’efficacia almeno) dei
contenuti che Natoli attribuì alla norma costituzionale141, il nucleo essenziale del
principio della stabilità al quale l’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea conferirebbe visibilità. Esso si oppone, inoltre, sia alla logica,
propria dell’utilitarismo neo-classico, del pollueur payeur142 già in auge in passato143, sia alle cicliche proposte parlamentari di liberalizzare una mini-area di recedibilità ad nutum144.
Comunque sia, all’epilogo del riassunto percorso costituzionale, all’aureo principio della necessaria giustificatezza del licenziamento sfuggono ormai solo tre ipotesi assai disomogenee tra loro. I lavoratori domestici ed i dirigenti che peraltro
non sono esclusi dal suddetto art. 30 della Carta Ue. Pienamente conforme alla
ratio sottesa alla disciplina limitativa dei licenziamenti è senz’altro l’ipotesi relativa ai lavoratori che abbiano maturato il diritto al reddito pensionistico e non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto, fermo restando, senza onere di opzione,
la regola della giustificatezza nei confronti delle lavoratrici che hanno compiuto
l’età pensionistica fino al raggiungimento dell’età lavorativa massima145.
138
V. ad es., Cass. 2.5.2006 n. 10108.
Così Cass. 9.6.2005 n. 12136; Mengoni 1992, 5; Gamillscheg 1989, 59; contra Scognamiglio 2005a, 442.
140
Come si legge spesso enfaticamente nei lodi arbitrali americani, il licenziamento equivale in ambito professionale alla pena di morte (industrial equivalent of capital punishment).
141
Natoli 1955, 156.
142
Ballestrero 2000, 570; su tendenze analoghe in Francia cfr. Martelloni, Pasquier
2006, 789 ss.
143
Barassi 1936.
144
Sia, infine, alla policy (austriaca) dei termini di decadenza troppo brevi. Non appaiono, invece, esserci ostacoli ad introdurre, salvo che per l’ipotesi del licenziamento discriminatorio o illecito (De Simone 2001, 127. Ma v. contra l’art. 10 d.d.l. S 1163), termini ragionevoli di decadenza dall’impugnazione giudiziale.
145
V. rispettivamente C. Cost. 27.4.1988 n. 498 (rel. Greco) e C. Cost. 18.6.1986 n. 137
(rel. Greco), (Cass. 1.6.2006 n. 13045; contra però Cass. 6.2.2006 n. 2472).
139
614
Prima di ultimare l’analisi del quadro costituzionale resta da precisare che cosa
s’intende con l’espressione dianzi evocata «sostrato esistenziale». Non occorre attardarsi in divagazioni particolareggiate sul concetto contemporaneo di lavoro, per
giustificare l’assunto che in un’economia sempre più dipendente dal capitale umano la possibilità di esercitare un’attività lavorativa è legata in modo decisivo allo
sviluppo della professionalità. Insomma il rapporto di lavoro garantisce il sostrato
esistenziale delle persone sia per il reddito che produce sia perché consente di sviluppare attitudini professionali così come di mantenere attiva la fondamentale capacità di apprendere146. Ciò reclama, rispetto al passato, la continuità – non solo
del rapporto bensì – anche dell’adibizione concreta alle mansioni, erodendosi così
l’antica libertà del datore di lavoro di lasciare il lavoratore a casa. In Germania fin
dalla metà degli anni ’80, l’obbligo d’esercizio del potere direttivo, in analogia a
quanto avviene in Francia con l’obligation de fournir du travail, s’inserisce perfettamente in una visione ormai integralmente contrattuale del rapporto di lavoro147.
Infine, l’art. 4.2 a) dello statuto dei lavoratori spagnolo riconosce esplicitamente al
lavoratore il diritto a la ocupacion efectiva e cioè, come afferma il Tribunal Supremo, a non essere privato dell’attività professionale148.
Nella nostra dottrina giuslavoristica continuano, invece, a contrapporsi due posizioni. Da un lato, si nega la configurabilità del diritto a lavorare149, e cioè a svolgere effettivamente la prestazione lavorativa (all’esercizio effettivo delle cd. «mansioni concrete»), perché esso sarebbe privo di valide basi testuali e sistematiche.
Semplici dati indiziari inducono a generalizzare una situazione d’interesse che non
sarebbe tipica di tutti i rapporti di lavoro150. Dall’altro lato della disputa, si colloca
chi sostiene che nell’ordinamento vi sono sicure «tracce» dell’affermazione del
suddetto diritto il quale si inserirebbe nell’acquisita consapevolezza di base che «il
lavorare insieme (cioè il collaborare) altro non è che esplicazione di professionalità
come peculiare modalità di espressione della personalità»151.
In verità, più che indizi o tracce (ad esempio, l’ordine di reintegrazione di cui
146
Molto chiaro in tal senso, Zamagni 1996, 498.
La svolta risale a BAG 21.1.1993, in Arbeitsrechtliche Praxis Nr. 53 zu § 615 BGB.
148
Baylos 2003; decisiva la sentenza del TS (STS) 2.7.1981 n. 22, Boletin Oficial de Estado 20.7.1981.
149
L’espressione è di Pera 1991, 418 che però non scioglie il dubbio se si tratti o no di
un obbligo principale.
150
Grandi 1987, 337; da ultimo in tal senso De Margheriti 2006 con ulteriori indicazioni.
151
Romagnoli 1977, 1052; ma già Mengoni 1972, 383; Montuschi 1989, 64; Napoli
1995, 1122; Scognamiglio 2005a, 177. Né è probabilmente irrilevante la precomprensione
negativa che è indotta dal fatto che la dottrina tedesca giustificò molti anni addietro
l’obbligo di occupare il lavoratore (Beschäftigungspflicht) con il contesto comunitaristico.
Ma chi ancora rinnova questo pregiudizio, magari riproducendolo per l’ordinamento interno
nel testo di importanti sentenze (Cass., S.U., n. 7755/1998 cit. a nt. 1), incorre in un evidente
atteggiamento di pigrizia mentale giacchè anche in Germania domina ormai una visione totalmente contrattuale (v. retro nt. 83).
147
Luca Nogler
615
all’art. 18 st. lav.), esiste nell’ordinamento un chiaro dato letterale, ovverosia l’incipit
dell’art. 2103 c.c., ai sensi del quale «il prestatore di lavoro deve», e non semplicemente può, «essere adibito alle mansioni». Lo strano connubio tra vari tipi di precomprensioni, di tipo liberista, marxista (lavoro come alienazione e pena) ed, infine,
neodogmatico152, impedisce a buona parte della dottrina di leggere la norma dello
statuto secondo l’esito più consono al significato proprio del verbo utilizzato dal legislatore. Si continua così a dar per scontata (ma quale sarebbe il valore retrostante?)
una libertà del datore di lavoro di «lasciare il lavoratore a casa» che è, invece, clamorosamente smentita dal linguaggio con cui è formulato l’art. 2103 c.c. secondo una
lettura avallata dal diritto vivente153 e da C. Cost. n. 113/2004. Et de hoc satis.
Fissato questo punto che, come dovrebbe risultare da successivi sviluppi relativi al repêchage, all’ordine di reintegra ed alla tutela per equivalente conseguente
all’illegittimità del licenziamento154, mi sembra centrale, resta solo da precisare che
l’obbligo contrattuale a far lavorare è suscettibile di tutela autonoma sia per mezzo
dell’eccezione di inadempimento che attraverso la domanda di adempimento 155.
Infine, l’obbligo del datore di lavoro di adibire il lavoratore alle mansioni non corrisponde all’interesse a liberarsi di un debito, ma a realizzare in concreto la propria
professionalità 156. Ciò è, tra l’altro, reso palese dal modo ellittico con cui si sinte152
Rispettivamente, Vallebona 1995, 117 ss.; Bin M. 1978, 84 e Speziale 1992; contra
Alessi 2004, 113 e Nogler 2006.
153
Cass. 16.5.2006 n. 11430; Cass. 6.3.2006 n. 4766, MGL, 2007, 33 con nota critica
(ma con mera petizione di principio) di Vallebona; altri riferimenti in Alessi 2004, 3 ss. Non
è corretto citare in senso contrario Cass. 25.9.2006 n. 20804, MGL, 2007, 33 che giunge ad
opposta conclusione solo perché ragiona nei binari della responsabilità extracontrattuale e
non perché non riconosca il diritto all’esecuzione della prestazione lavorativa come afferma
Vallebona nella nota alla sentenza stessa. Siccome all’esito positivo della configurabilità del
diritto a prestare il lavoro si giunge indipendentemente dall’art. 2087 c.c., non è poi neppure
necessario confrontarsi con il rilievo (Vallebona 1995, 118; Papaleoni 1999, 1365) secondo
cui questa fondamentale norma del codice è applicabile solo una volta che al lavoratore siano state assegnate le mansioni.
154
V. rispettivamente infra §§ 7.3 e 11.
155
Sull’eccezione di inadempimento v. Cass. n. 11430/2006 cit. alla nt. 153 e in dottrina
cfr. Ferrante 2004. Più in generale per quanto riguarda anche la domanda di adempimento si
può ragionare in analogia con l’obbligo di sicurezza; la dottrina giuslavorisitica, a partire da
Montuschi, tende a qualificare quest’ultimo come principale (per i riferimenti cfr. Mazzotta
2004, 447-448) tuttavia un autorevole dottrina civilistica sostiene che anche la qualificazione come obblighi di protezione non preclude i medesimi esiti operazionali (Castronovo
1990, 7; Mengoni 1982, 130 testo e nt. 11); la precisazione contenuta in Mengoni 1988,
1096 nt. 159 non si riferisce, a mio parere, ai rapporti di lavoro.
156
Cass. 2.8.2006 n. 17564 richiama proprio l’art. 4 Cost. in contrappunto alla giurisprudenza che fa più genericamente leva sull’«esigenza umana di manifestare la propria utilità nel contesto lavorativo»: Cass. n. 5.10.2004 n. 19899; Cass. 8.11.2004 n. 21253; Corte
cost. 6.4.2004 n. 113 (rel. Amirante); Alleva 2005, X . Questa esigenza rappresenta lo specifico interesse che ispira l’attribuzione da parte dell’ordinamento del diritto soggettivo a lavorare; si supera così l’obiezione di Dell’Olio 1979, 544-545.
616
tizza generalmente il contenuto della posizione soggettiva del lavoratore richiamando, non il facere positivo del datore di lavoro che è propriamente l’oggetto del
diritto 157, bensì l’attività dello stesso lavoratore.
II. LE «CAUSALI» DEL LICENZIAMENTO: DISCIPLINA LEGALE E DIRITTO VIVENTE
5. Con le precedenti considerazioni, l’indagine sui principali contenuti dei principi
costituzionali che possono venire in gioco in tema di licenziamenti può dirsi terminata
almeno nelle sue linee generali. Si tratta ora di entrare nel merito della disciplina legislativa dei licenziamenti individuali. La qualificazione delle norme costituzionali come «principi» ispiratori delle regole, legali e di diritto vivente, concretamente applicabili, attribuisce un’indubbia neo-centralità ai vincoli che derivano al discorso giuridico
dagli enunciati legislativi e dal contesto sistematico («l’autorità del punto di vista giuridico»)158. Tuttavia, è anche vero che l’influsso interpretativo dei principi costituzionali consente al sistema positivo di non chiudersi in una visione puramente neodogmatica159, come proverò tra l’altro ad illustrare con la successiva disamina.
Per le ragioni già esposte, il fondamento positivo del potere di licenziamento
non risiede né nella parte generale del codice civile relativa ai contratti ed alle obbligazioni, né, tanto meno (se si prescinde dalle tre ipotesi citate nel precedente §)
negli artt. 2118 e 2119 c.c. e, tanto meno, nell’art. 2106 c.c., né, infine, nell’art. 41
cost. che non è dotato di efficacia immediata. Attualmente rilevano a tal fine l’art.
1, l. 15.7.1966 n. 604 e l’art. 18 st. lav. che si inseriscono, con le restanti norme
della legge del 1966, nel regolamento contrattuale in virtù dell’art. 1374 c.c.
Più precisamente, l’attuale assetto legislativo contempla, nell’area a tutela forte,
il riconoscimento legislativo al datore di lavoro di un potere formativo sostanziale
(stragiudiziale) di porre fine al rapporto, situazione con cui si traduce la parola tedesca Gestaltungsrecht160. Rischia, invece, di essere imprecisa l’usuale denominazione di diritto potestativo che non a caso la processualistica concepisce come diritto ad ottenere dal giudice una sentenza basata sull’art. 2908 c.c. che modifichi la
situazione giuridica altrui161. Comunque sia, il suddetto potere consiste nella possibilità di attribuire rilevanza – se del caso in modo «procedimentalizzato»162 – a
157
Santoro Passarelli F. 1985, 188.
Cfr. Persiani 1995; Id. 2000.
159
Sul punto sia consentito rinviare, per ulteriori riferimenti, a Nogler 2007.
160
Molitor 1935. Il licenziamento è dotato di efficacia costitutiva che peraltro non ha effetto «limitatamente alla porzione di prestazione eseguita e goduta prima del recesso» (così
Roppo 2001, 548 in funzione correttiva dell’art. 1373, c. 2 c.c. il quale, preso alla lettera,
renderebbe impraticabile il recesso nei contratti a esecuzione continuata in cui la prestazione
è unitaria) e dal quale non discendono, quindi, effetti retroattivi (art. 1458, c. 1).
161
Cfr. per tutti Consolo 1991, 570 e, più in generale, Id. 2006a.
162
Romagnoli 1977; sull’inquadramento dogmatico cfr. però retro § 3.1 in corrispondenza alle nt. 93 e 96.
158
Luca Nogler
617
precisi fatti (la giusta causa e il giustificato motivo) al fine di provocare l’estinzione del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Il diritto a licenziare si esercita con un atto al quale si può attribuire natura negoziale163 e, più precisamente, con una dichiarazione recettizia che si perfeziona nel momento in cui
giunge, o dovrebbe giungere secondo l’uso normale, a conoscenza dell’altra parte e
che non è revocabile se non per accordo tra le parti164. L’insussistenza dei fatti costitutivi del potere toglie efficacia al suo esercizio e costituisce, pertanto, un limite
esterno la cui assenza rende il negozio di recesso inidoneo a produrre effetti165.
Nell’area a tutela debole, la giusta causa e il giustificato motivo non rappresentano, invece, presupposti del potere di licenziamento. Essi costituiscono, al contrario, solo il contenuto di un onere accessorio ed esterno allo stesso potere di licenziamento166 il cui esercizio negoziale, in caso di insussistenza delle «causali», è
comunque – con una formula che si trascina appresso tutte le critiche usualmente
rivolte alle doppie qualificazioni (Doppelwirkungen) – valido ed efficace, sebbene
illecito167. Alla luce della teoria della doppia scelta l’illiceità del valido negozio di
licenziamento è, bensì, sanzionata dall’obbligazione alternativa tra riassunzione
(ovvero formulazione di una nuova proposta contrattuale) e corresponsione
dell’indennità, ma il lavoratore ha, al contempo, la possibilità, dinnanzi alla prima
opzione, di scegliere tra la riassunzione e la corresponsione dell’indennità168. In tal
modo, qualora il rapporto non si ripristini, il pagamento della penale è comunque
sempre dovuto senza che a nulla rilevi quali siano il soggetto e le ragioni che hanno determinato tale situazione. Infine, l’importo della penale si somma con
l’indennità sostitutiva del preavviso se il licenziamento è stato intimato in tronco169
ed ha strutturalmente la natura di una sanzione afflittiva civile; in altri termini, tale
penale è prevista al fine di dissuadere il soggetto obbligato dalla violazione del
precetto.
In entrambe le aree di tutela, la funzione dell’atto unilaterale di recesso consiste
nel determinare il termine finale di scioglimento del(l’intero) rapporto di lavoro170:
l’espressione giurisprudenziale «recedibilità a-causale»171 rappresenta, pertanto,
una contraddizione in termini. I tentativi anche recenti di ricondurre la g.c. e il g.m.
al profilo causale del negozio di recesso172, strumentali all’obiettivo di far ricorso
163
Cass. 14.6.2005 n. 12781; v. ora anche Mazziotti 2005, 653.
Cass. 18.5.2006 n. 11664; Cass. 10.5.2005 n. 9717; contra Cass. 2.2.2007 n. 2258.
165
Cfr. Zoli 1988, 90 ss. V. infra § 10.
166
Cfr. per tutti, Tullini 1994a, 181.
167
Ghera 1992, 465.
168
C. Cost. 28.12.1970 n. 194 (rel. Rocchetti); C. Cost. 23.2.1996 n. 44 (rel. Santosuosso); Ghezzi 1968.
169
Cass. 8.6.2006 n. 13380; Cass. 14.6.2006 n. 13732, RGL, 2007, II, 263.
170
Mazzotta 2005, 625.
171
Cass., S.U., 2.08.2002 n. 11633.
172
Zangari 1974, 86 ma da ultimo ripiomba in questa visione anche Carinci M.T. 2005,
115 ss.
164
618
alla tecnica superata dei limiti interni173, non sono provvisti di sufficiente forza persuasiva oltre che «sistematica». Queste teorie partono, infatti, dall’errato presupposto
che prima della l. n. 604 del 1966 il recesso legale con preavviso del datore di lavoro
fosse il frutto, a differenza di quello straordinario per g.c., di un negozio astratto174.
Frequentemente s’identifica, inoltre, impropriamente l’insindacabilità dei motivi che
inducono il datore di lavoro a far ricorso al potere di recesso con l’astrattezza del relativo negozio175. Ma consimili conclusioni sono palesemente errate perché
l’astrattezza attiene alla causa del negozio e non ai relativi motivi176.
Vien fatto allora di concludere che la g.c. e il g.m. attengono ai motivi del negozio di recesso? Senza la pretesa di esaurire il problema, possiamo dire che il presupposto di tale qualificazione è che per «motivo» si intenda anche un antefatto del
negozio, come pure propone parte della dottrina177. Se, invece, si tiene ferma la
tradizionale definizione di motivo incentrata sulla realtà strettamente psicologica
l’ascrizione delle causali del licenziamento ai motivi del negozio di recesso rischia
di farle «evaporare» dal piano del fatto a quello del «ragionamento» del datore di lavoro. Si giunge per tale via all’eccesso, ad esempio, in tema di g.m.o., di presentare
la stessa organizzazione, non più come «una sostanza oggettiva», ma quale «meccanismo concettuale di inquadramento delle riflessioni dell’imprenditore». L’errore
dogmatico iniziale si riflette, poi, sull’ambito del sindacato giudiziale che dalla veridicità delle allegazioni viene esteso da Gragnoli alla «consistenza argomentativa e la
linearità della tesi addotta dall’impresa»178. Infine, non si comprende la ragione sistematica per cui Gragnoli stesso affermi che alla negazione dell’ascrizione del
g.m.o. alla causa del licenziamento debba corrispondere l’abbandono della sua, ormai
usuale, qualificazione come presupposto di validità dello stesso179.
173
Critiche definitive in Persiani 1971a, 599; Pera 1982, 3, Zoli 1988, 197; Del Punta
1997, 422-423. Sulle origini della teoria dei limiti esterni alla causa dell’atto negoziale attraverso il quale viene esercitato il potere del datore di lavoro, cfr. Giugni 1963, 318.
174
Cfr. in tal senso Mortati 1954, 171 nt. 27 e Natoli 1951; contra Barassi 1936, 378 nt.
5; Mengoni 1958, 236.
175
Natoli 1954, 1061; Id. 1967, 1108.
176
Mengoni 1958, 236.
177
De Nova 2004, 689.
178
Più precisamente, impresa e giudice entrerebbero a tal fine in «dialogo». Non si tratta,
peraltro, della nota verità dialogica di Gadamer 1979. Bensì di una sorta di rapporto «confessionale» innescato dal fatto che il ragionamento addotto dal datore di lavoro è per sua natura opinabile e, quindi, tale da ingenerare immediatamente il sospetto che il motivo addotto sia quello
effettivo. Per provare il contrario il datore di lavoro dovrebbe moralisticamente provare di essere
«leale», «sincero e meditato» (le espressioni virgolettate nel testo ed in nota sono di Gragnoli
2006, 15, 16, 13, 44, 95 e 87).
179
Gragnoli 2006, 34 il quale identificando i due profili finisce per ascrivere autori che
sostengono la tesi del presupposto di fatto tra coloro che affermano la riconduzione del g.m.
alla causa del negozio. Ciò avviene, ad es., a p. 34 nt. 139 con Zoli 1988, 90 ss. che pure
nega con fermezza tale riconducibilità. In Zoli 2006 l’opportuna replica critica.
Luca Nogler
619
Ad un’altra recente analisi va riconosciuto il merito di aver sottolineato
l’importanza di dar conto anche dei casi in cui il giudice non si limita ad accertare
la sussistenza o meno del g.m.o., ma accerta se vi sia stato o meno uno sviamento
del negozio di recesso180. Sennonché, questa intuizione viene giuridicamente sviluppata nel contesto della figura, poco proficua, dell’abuso del diritto. A negare il
ricorso a questa categoria, che conduce dritti alla teoria dei limiti interni, dovrebbe
già indurre l’abbandono delle visioni giusnaturalistiche che avevano caricato il concetto di diritto soggettivo di sfumature antropomorfiche ed, appunto, moralizzanti. Se
si accede ad una nozione normativista dello stesso, per cui il diritto soggettivo viene
identificato con la «pretesa di un soggetto a che altri assuma il comportamento prescritto da una norma»181, l’abuso – non di una situazione di fatto, quale potrebbe essere la dipendenza economica, ma di una posizione giuridica – si dissolve, e non consente di andare oltre, un semplice giudizio di conformità di quest’ultima ad una norma precostituita. Agli occhi degli stessi civilisti tradizionalmente più sensibili ai
francesismi, la dottrina dell’abuso del diritto appare così «superflua»182.
Ma l’errore – invero assai diffuso tra gli interpreti – sta proprio nella premessa
di tutte le successive riduzioni al g.m.o.: l’aver assunto che il sindacato giudiziale
sia sempre di accertamento dei presupposti della fattispecie di cui all’art. 3, l. n.
604 del 1966. In realtà, sorge spesso l’esigenza di svolgere un’ulteriore e diversa
valutazione che attiene al fatto se il negozio di recesso rappresenti o meno il mezzo
per realizzare elusioni, aggiramenti, violazioni mediate e indirette, non apparenti e
occulte. A questa esigenza – che abbiamo già incontrato discorrendo del licenziamento discriminatorio – il diritto vivente fa fronte con il divieto della frode alla
legge (art. 1344 c.c.)183 che costituisce un autonomo limite esterno184 del negozio
180
Carinci M. T. 2005, 115 ss.
Galgano 1994, 306; Zoli 1988, 19.
182
Così Sacco 2001, 373 all’esito di un’approfondita indagine. D’altronde, le esemplificazioni proposte sono ampiamente coperte dal g.m.o., dal motivo illecito (che rende sindacabile la risoluzione del rapporto per lo spirare del periodo di prova) v. Carinci M.T. 2005,
153-154 e, come vedremo nel testo, dalla frode alla legge.
183
Che risulta senz’altro applicabile anche agli atti unilaterali grazie all’art. 1324 c.c.
(Morello 1992, 505) e che trova applicazione allorquando più negozi, singolarmente leciti,
«nella loro particolare combinazione realizzano il risultato aborrito dalla norma imperativa»
(Roppo 2001, 410). Sul punto v. anche Nardi 2006, spec. p. 68 ss., il quale evidenzia che la
frode alla legge presuppone una operazione economica complessa – un collegamento negoziale -, poiché ove il giudizio di fraudolenza «si fermasse al (la funzione del) singolo negozio, finirebbe per confondersi con quello di diretta contrarietà alla legge» (p. 71).
184
Insomma si rimane nell’ambito dell’illiceità della causa, ma senza pagare il prezzo di
passare dai limiti esterni a quelli interni. Cfr. Ferri L. 1957, 312: «il problema della liceità
della causa non è un problema di corrispondenza di fini o di scopi, corrispondenza che si
tradurrebbe in una limitazione finalistica o funzionale, ma è un problema di contrarietà di
uno scopo ad una norma imperativa e ciò implica libera scelta degli scopi con esclusione
solo di» quelli illeciti. L’autore chiama scopo ciò che successivamente si denomina, a partire
dalla monografia di Ferri G.B. 1966 come causa in concreto.
181
620
di recesso stesso e che assume così un suo spazio di utilizzabilità anche nel contesto odierno in cui prevale ormai una condivisibile interpretazione funzionale delle
disposizioni legislative185. Si tenga conto, infine, che alla disposizione sulla frode
alla legge, si può far riferimento grazie alla qualificazione, nell’area della tutela
reale, della normativa protettiva come imperativa. Una conclusione giustificata sia
dai principi costituzionali che ispirano la normativa stessa sia dal dato, per così dire, di diritto vivente, secondo cui l’annullabilità prevista dall’art. 18 st. lav. viene
interpretata dalla giurisprudenza, sostanzialmente, come una nullità186.
6. Reperito su basi dogmatiche l’ambito di rilevanza delle causali del licenziamento, possiamo passare a considerare il loro contenuto. A tal proposito riformulo,
anzitutto, il principale quesito su cui ho già richiamato l’attenzione nel § introduttivo: si può sostenere che le definizioni legali della g.c. e del g.m. esprimano, anche nell’applicazione giurisprudenziale, un significato autonomo nel senso che
quest’ultimo è il frutto, e non la mera fonte, del bilanciamento dei valori costituzionali che sono concretamente in gioco?
6.1. In relazione alla giusta causa di licenziamento, Cass., S.U., n. 4844/1994
sostenne che solo nell’area della libera recedibilità essa integra un presupposto di
fatto; una Tatsache la cui mancanza comporta l’obbligo di pagamento dell’indennità
sostitutiva del preavviso187. Vero è, invece, che la g. c. rappresenta sempre un «presupposto di fatto» la cui insussistenza determinava nel regime anteriore al 1966 il solo
effetto dell’esonero del recedente dal preavviso188. In sua assenza, il datore di lavoro
deve, infatti, apporre un termine di efficacia iniziale al licenziamento in modo tale
che l’effetto estintivo si produrrà soltanto allo spirare di un certo periodo di tempo189. Questa regola tutela l’interesse del lavoratore a dedicarsi per tempo al reperimento di un’altra attività lavorativa190 nel senso che, accanto al diritto accessorio
al preavviso, matura un vero e proprio «diritto a qualche ora quotidiana di libertà
per cercarsi un posto in cui reimpiegarsi»191. In coerenza con queste premesse, si è
185
V. in particolare infra § 7.2. Cfr. poi, sebbene nell’ottica del motivo (v. retro nt. 118),
Suppiej 1982, 246-247 nonché, nell’ambito del licenziamento, Vallebona 2005, 416-417.
186
Tornerò a spiegare funditus il punto al successivo § 10.
187
Aderisce Tiraboschi 1994b, 602.
188
Sulla tesi del recesso ordinario cfr. Mengoni 1958, 243 e Napoli 1980, 99.
189
Mengoni 1958, 238; Mancini 1962, 325 ss.; Persiani 1971a, 606-607.
190
Cass. 6.2.2004 n. 2318. In quanto tale, il preavviso è strumentale alla concretizzazione del diritto sociale al lavoro. Esso viene, pertanto, coerentemente escluso quando, ad es., il
lavoratore ha ricevuto la garanzia del passaggio ad un altro impiego oppure consegue la pensione (v. rispettivamente, Cass. 7.2.1997 n. 1150 e Cass. 6.2.2004 n. 2318).
191
Barassi 1917, 843 e 854 e poi la raccomandazione O.I.L. n. 166 del 1982.
Luca Nogler
621
ancor oggi dell’opinione che il preavviso si inserisca automaticamente nel negozio
di recesso indipendentemente dalla volontà del recedente192.
Dopo l’approvazione dell’art. 3, l. n. 604 del 1966 la giusta causa svolge l’ulteriore
funzione di causale del licenziamento e nell’area della tutela forte ci si interroga se la
sua sussistenza rilevi o no193 anche ai fini dell’efficacia del potere di licenziamento
attribuito dal contratto di lavoro sine die. Fermo restando che non risulta contraddittorio assegnare alla g.c. una duplicità di funzioni all’interno dell’art. 2119 c.c.194, a favore della prima tesi militano, indubbiamente, le formulazioni letterali degli artt. 1, l. n.
604 del 1966 e 18 st. lav. D’altra parte, se ci concentriamo sul contenuto del concetto
di g. c. non corrisponde assolutamente al vero il timore, che ispira la teoria contraria di
Napoli, che si tratti di una clausola generale195. Il significato del termine elastico «causa» va, infatti, determinato anche sulla base del contesto sistematico. Ed a tal proposito l’interpretazione più convincente e plausibile resta quella di Persiani secondo cui, se
il licenziamento con preavviso è consentito solo in presenza di un g.m., quello senza
preavviso deve essere giustificato «da quegli stessi motivi, quando essi non consentono la prosecuzione anche provvisoria del rapporto»196. Anzi, per la medesima ragione
«quegli stessi motivi» sono solo quelli legati al g.m.s. Infatti, le ragioni che sono alla
base del g.m.o., siano esse scelte organizzative oppure impedimenti oggettivi che riguardano la sfera del lavoratore, non sono, per definizione, suscettibili di una graduazione quantitativa. Non a caso la giurisprudenza sulla g.c. richiede costantemente
l’imputabilità del fatto al lavoratore197. I tentativi, anche recenti, di individuare una
192
Cass. 23.7.2004 n. 13883; Mengoni 1958, 240; Mancini 1962, 312 che, oltre
all’efficacia immediata, ipotizzò la nullità (ma è soluzione troppo tedesca; nel BGB non c’è
l’art. 1339 c.c.). Anche se quest’ultimo offre l’indennità sostitutiva, il rapporto cessa così
solo allo spirare del termine di preavviso (non lavorato) consentendo, come noto, al lavoratore di beneficiare dei vantaggi collegati ad eventuale sopraggiunte nuove regolamentazioni
collettive. Infine, date queste premesse, la pratica, sostenuta dalla stessa contrattazione collettiva, dell’alternatività del preavviso e dell’indennità, è legittima solo se risulta individuabile un accordo, anche tacito, delle parti di far cessare il rapporto immediatamente per mutuo consenso (art. 1372, 1° c.). Cfr. Mengoni 1956, 197; Persiani 1971a, 607; Cass.
23.7.2004 n. 13883; Cass. 24.1.2005 n. 1373 e Cass. 8.5.2004 n. 8797, NGL 2004, 820 (accordo tacito); Cass. 15.5.2007 n. 11094; Cass. 7.11.2007 n. 23150; contra, e cioè nel senso
della non necessità dell’accordo e quindi del consenso della parte non recedente Cass.
19.1.2004 n. 741 e Cass. 21.5.2007 n. 11740 che attribuisce troppo importanza al «contesto
temporale in cui è stata emanata la disposizione» quando qui siamo in presenza di un’interpretazione evolutiva (v. Betti 1991, 572).
193
Nel primo senso, soprattutto Tullini 1994a, 163 ss. ed ora Pisani 2004, 38 ss.; nel secondo Napoli 1980, 104 ss.
194
Mengoni 1958, 240 ed ora anche Pisani 2004, 38.
195
V. infra §§ 6.2 e 6.3. Napoli 1980, 107 teme un aggiramento del contenuto restrittivo
che caratterizza il giustificato motivo.
196
Persiani 1971a, 680. Non tiene, invece, conto del vincolo sistematico, Vallebona
2005, 388-389.
197
Piacci 2006, 172; Galantino 2006, 406; Scognamiglio 2005a, 437.
622
sorta di g.c. per ragioni aziendali198 non tengono conto del descritto contesto sistematico e rispolverano, sostanzialmente, la categoria pandettistica dell’impossibilità soggettiva della prestazione del lavoratore.
La giusta causa di licenziamento è dunque caratterizzata dall’inadempimento che
deve essere però talmente grave da non consentire la prosecuzione anche provvisoria
del rapporto (cd. teoria del notevolissimo inadempimento199). In relazione all’an del
licenziamento, l’analisi del controllo giudiziale relativo alla sussistenza o meno della
g.c. o del g.m.s. può, dunque, essere svolta unitariamente. Infine, proprio in ragione
di questa relazione di «continenza» tra le due fattispecie, quella che viene usualmente
denominata come conversione della g.c. nel g.m.s. deve essere più propriamente
prospettata, non come una vera e propria conversione ai sensi dell’art. 1424 c.c, ma
quale «mera» riqualificazione giudiziale del titolo giuridico che comporta la
cessazione del rapporto con l’unica conseguenza del plus del preavviso200.
6.2. Nel giudizio sulla sussistenza del g.m.s. (e, per le ragioni esposte, della
g.c.) è opportuno distinguere tra: la ricostruzione del regolamento contrattuale; la
sussistenza o meno dei presupposti di fatto richiamati dalla norma (inadempimento e
carattere notevole dello stesso); ed, infine, il controllo di adeguatezza che sarà
considerato nel prossimo §.
Iniziando dal primo profilo, la formulazione letterale dell’art. 3, l. n. 604 del
1966 è nel senso dell’inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di
lavoro e, quindi, non è possibile distinguere tra obblighi, rispettivamente, di prestazione (primari e secondari non autonomi quali, ad esempio, l’obbligo di cura
degli strumenti di lavoro che sempre più spesso sono di tipo informatico e telematico) e accessori di correttezza201. In relazione all’inadempimento di questi
ultimi obblighi ed, in particolare, non tanto di quelli preparatori all’adempimento
della prestazione principale e di conservazione della possibilità della stessa, bensì,
di quelli di protezione o di sicurezza, solo parzialmente tipizzati dall’art. 2105 c.c.,
riaffiora, peraltro, ancora oggi, di tanto in tanto, la figura della giusta causa in
senso oggettivo202. Si tratta di un’interpretazione che potremmo definire «civilistica» della g. c. perché conferisce rilievo al fatto che l’art. 1453 consentirebbe «la
risoluzione solo per l’inadempimento degli obblighi sinallagmatici»203. Ma – anche
198
Pisani 2004, 44, 148 ss. nella scia di Vallebona 2005, 388.
Cass. 13.5.2002 n. 6889.
200
Cass. sez. lav. 19.12.2006 n. 27104; Alleva 1970, 687; Pera 1980, 71; Tullini 1994a,
175 con utili precisazioni dogmatiche.
201
Betti 1953, 96; Mengoni 1954; Mancini 1957; Napoli 1980, 173 ss.; Grandi 1987.
202
Cass. 7.11.2000 n. 14466. Cass., S.U., 29.5.1995 n. 6041 («area della giusta causa
che non riguardi l’inadempimento»); v. anche Mazzotta 2005, 652 che parla di una concezione giurisprudenziale «più vicina alla teoria cd. oggettiva».
203
Mengoni 1956, 203; Santoro Passatelli F. 1961, 1110 si riferiva sia ai comportamenti
del lavoratore che non costituiscono inadempimento che ai fatti che non siano imputabili a
nessuna delle parti (oggi pacificatamene confluiti nel giustificato motivo oggettivo).
199
Luca Nogler
623
ammesso, benché non concesso, che si possa prescindere dal vincolo, qui
veramente molto stringente, della formulazione letterale – la sezione lavoro della
Cassazione potrebbe prendere atto che la dottrina, e la stessa giurisprudenza, per
così dire, «civilistiche» ammettono ormai la possibilità del ricorso al rimedio
risolutorio anche in relazione all’inadempimento degli obblighi accessori di
correttezza204.
Al medesimo obiettivo di dar rilievo all’inadempimento (specie) degli obblighi
protettivi del lavoratore è poi da sempre preordinato il tanto criticato riferimento
giurisprudenziale alla «fiducia»205 che appare, effettivamente, precluso proprio dagli evidenziati vincoli, rispettivamente, del significato letterale delle parole e sistematico. Ben inteso, come chiarì a suo tempo Mancini, la fiducia gioca, in realtà,
sia relativamente alla g. c. che al g. m. s.206, una pluralità di funzioni. Ad esempio,
per dar rilevanza ad un inconfigurabile obbligo di conservare la generica fiducia207,
oppure ad un altrettanto improprio208 potere di recesso (distinto da quello «per inadempimento») che sarebbe attribuito al datore di lavoro per «difendere l’affidabilità dell’impresa»209 o per generiche ragioni aziendali210. Tra le varie funzioni
argomentative effettivamente praticate dalla giurisprudenza, gioca poi ancor oggi
un ruolo rilevante – sebbene emergano segnali di superamento di questo modo
semplificato di ragionare211 – quella di dar rilievo a comportamenti che sono, in
realtà, riconducibili proprio agli obblighi di correttezza; distinguibili questi ultimi in
obblighi, come noto, rispettivamente, preparatori dell’adempimento della prestazione
principale (e di conservazione della possibilità della prestazione stessa212) e di protezione e di sicurezza. Ma il richiamo alla fiducia serve solo a «saltare» il problema
qualificatorio perché imputa sbrigativamente alla volontà del datore di lavoro una
decisione che, se il giudice avesse la pazienza di ricostruire gli obblighi complessivi del lavoratore, anche quelli secondari e di protezione, risulterebbe quasi sempre
imputabile all’ordinamento positivo. Dietro questo modo di procedere riecheggia la
204
Cannata 1999, 238; Mengoni 1988, 1098; da ultimo, Nanni 2007, 24 e Sicchiero
2007, 560-561.
205
Non è necessario ripercorrere a tal proposito vicende arcinote, già innumerevoli volte
ricostruite dalla letteratura in argomento, cfr. Tullini 1994a e da ultimo Pisani 2004.
206
Cass. 13.5.2002 n. 6889; T. Bolzano 30.6.2006, GL, 2006/6, 51; Mancini 1965, 117
nt. 273; da ultimo Pisani 2004.
207
Contro la sua prospettabilità v. da ultimo Zoppoli L. 2004, 13.
208
V. retro, § 5.
209
A cui sembra alludere Gragnoli 2006, 57.
210
Vedi Cass. 14.6.2004, n. 11220 (che al posto della fiducia poteva richiamarsi al principio della continenza sostanziale) e Cass. n. 21.7.2004 n. 13526 relativa a gravissimi reati
estranei al rapporto di lavoro.
211
Cfr. in particolare Cass. 21.7.2004 n. 13526.
212
Che peraltro si arrestano dinnanzi all’interesse del lavoratore, non a godere del semplice riposo, ma anche a realizzare la propria personalità (Pisani 2004, 105; cfr. più ampiamente Del Punta 2006).
624
tendenza a conferire impropriamente un’efficacia immediata all’art. 41 cost. dal
quale viene ricavato il potere del datore di lavoro di «sfiduciare» il lavoratore213.
Ma come abbiamo visto nella prima parte della relazione, non è corretto ragionare
in questi termini ed occorre, al contrario, prendere le mosse proprio dall’ordinamento positivo e, quindi, dalla configurazione del regolamento contrattuale. Finalmente, nell’affrontare la spinosa questione della rilevanza o meno dei comportamenti «privati» del lavoratore, anche la Cassazione afferma che questi ultimi assumono rilevanza quando «pur estranei alla prestazione, possono riflettersi sul rapporto in quanto incidono sui doveri accessori, complementari, e strumentali al
compimento della prestazione principale»214.
A quest’ultimo proposito viene poi in considerazione l’art. 1375 c.c. che è in
grado di integrare gli obblighi previsti dall’art. 2105 c.c.215 tra gli altri, con
l’obbligo di protezione nei confronti, rispettivamente, oltre che della persona fisica
del datore di lavoro, del suo patrimonio (si pensi, alla casistica relativa ai furti di
beni aziendali di natura materiale o immateriale216), della sua organizzazione tecnico-produttiva e della sua posizione sul mercato (e quindi dell’immagine e
dell’avviamento dell’impresa e dell’azienda)217. L’obbligo di protezione non può
comprendere, invece, doveri di prestazione o comunque «condotte conniventi o
omissive, intese a coprire situazioni di irregolarità»218.
Alla luce di questa precisazione, si può condividere la giurisprudenza, sviluppatasi, in particolare, nel settore bancario, che giudica, di volta, in volta, legittimo, ad
esempio, il licenziamento del funzionario di banca condannato per ricettazione oppure che ha emesso assegni a vuoto o ha reiteratamente concesso prestiti di denaro
a fini di lucro, del lavoratore che aveva criticato in un articolo di giornale il proprio
datore di lavoro, superando i limiti del rispetto della verità oggettiva, del lavoratore
con incarico di sorvegliante e magazziniere resosi responsabile di reati contro il
patrimonio, del lavoratore che ha commesso molestie sessuali nei confronti della
213
Cass. 22.8.2002 n. 12414; Cass. 14.5.1998 n. 4881; Scognamiglio 2005a, 405 che riconoscono al datore di lavoro la possibilità di sindacare costantemente la «personalità professionale del lavoratore».
214
Cass. 21.7.2004 n. 13526 che non rinuncia alla fine a richiamare oltre agli obblighi
accessori anche il vincolo fiduciario.
215
Sugli obblighi di protezione collegati all’art. 1375 c.c. cfr. Castronovo 1976; Mengoni 1988, 1098 e, nella dottrina giuslavoristica, per tutti, Mattarolo 2000, 39 ss. e Pisani 2004.
Ne deriva un ampliamento della responsabilità contrattuale a scapito di quella extracontrattuale.
216
Sul caso dell’abusivo impossessamento dei dati informatici, v. Cass. 9.1.2007 n. 153.
217
Pisani 2004, 127; anche Mazzotta 2005, 651 sottolinea la necessità di dar rilievo al
diuturno contatto tra le due sfere di interessi contrapposti; Grandi 1987, 343; Persiani 1966,
248; Mancini 1957, 131.
218
Ichino 2006b, 945. Per fare solo un’esemplificazione emblematica: è illegittimo il licenziamento del lavoratore che ha prodotto in giudizio documenti aziendali (Cass. 7.12.2004
n. 22923).
Luca Nogler
625
figlia del cliente del datore di lavoro, del cassiere che ha tentato un furto in un altro
supermercato219. La valutazione va, comunque, condotta caso per caso in stretta
aderenza alle mansioni esercitate dal lavoratore220. Ad esempio, non costituisce
giusta causa di licenziamento la condotta del commesso bancario addetto, come
tale, a mansioni di carattere elementare, collocate al livello più basso dell’organizzazione aziendale e non sottoposto a particolari vincoli di fiducia, che abbia subito protesti bancari per prestiti non onorati221. La valutazione diventa, infine, molto delicata in relazione ai reati sessuali, ma qui si tende a distinguere a seconda delle mansioni esercitate dal lavoratore222. Un orientamento confermato dall’art. 3, 6°
c., d. lgs. 9.7.2003 n. 216223.
Volgendo ora l’attenzione all’ulteriore fase in cui abbiamo precedentemente
scomposto il controllo giudiziale, e cioè la sussistenza o meno del notevole inadempimento, iniziamo con il precisare che in assenza di un’autonoma definizione
d’«inadempimento»224 occorre far riferimento ai criteri di imputabilità previsti dal
diritto comune (art. 1218 c.c.) sebbene calati nelle specificità del rapporto di lavoro.
In materia si assiste ad un’impropria «commistione»225, favorita dall’innesto nel
rapporto di lavoro dei doveri di protezione226, tra il modo d’intendere i presupposti
della responsabilità contrattuale e quella extracontrattuale. Nella prima la diligenza
s’inserisce, notoriamente, in un contesto di doverosità segnato dal rapporto obbligatorio la cui violazione già configura la responsabilità senza necessità di misurare
la colpevolezza (rimproverabilità subiettiva) del debitore-lavoratore227 e, quindi,
219
Rispettivamente, Cass. 13.4.2002 n. 5332; Cass. 18.11.1994 n. 9773; Cass. 26.4.2007
n. 10023, NGL 2007, 327; Cass. 14.6.2004 n. 11220; T. Firenze 8.7.2004, RCDL 2004,
1023 che si richiama esplicitamente alla teoria oggettiva della giusta causa; Cass. 19.6.1987
n. 5428.
220
Cass. n. 9.8.2006 n. 17956 esclude la rilevanza dell’aggressione di un collega per ragioni estranee al lavoro e fuori dall’orario di lavoro; così anche Cass. 28.11.1998 n. 12132;
Cass. 7.7.1987 n. 5919.
221
Cass. 22.11.1996 n. 10299.
222
Legittimo il licenziamento dell’avvocato dipendente dell’ENEL (Cass. 14.7.2001 n.
9590) ed illegittimo quello dell’operaio privo di rappresentanza esterna dell’azienda, T. Livorno 17.9.2002, OGL, 2003, 411.
223
La norma conferma la legittimità del licenziamento per reati concernenti la libertà
sessuale dei minori e la pornografia minorile in relazione allo svolgimento di una serie di
attività che sono di contatto diretto con utenti minorenni.
224
V. retro, § 3.1.
225
Cfr. da ultimo Nicolussi 2006, 814 ss.; in precedenza Mengoni 1954 e Castronovo
2006, 449 ss.
226
Oltre che, a livello teorico, dall’unificazione di vicende distinte sotto l’unica disposizione dell’art. 1176 c.c. e dall’improprio ricorso alla nozione penalistiche di cui all’art. 43
c.p.: v. Visintini 2006, 139.
227
Così, infine, pure Cester 2007, 264 (in relazione all’ipotesi dell’inesatto adempimento la prova a carico del datore di lavoro non significa «in senso proprio, prova della colpa
del lavoratore»). Nel senso che non rileva la colpa soggettiva v. Pera 1980, 73.
626
l’imputazione dell’inadempimento si pone nei termini della circostanza oggettiva
della possibilità della prestazione. A tal fine viene in considerazione un criterio oggettivo che si può anche chiamare «colpa» (sempre oggettiva), ma solo per distinguerlo dal caso fortuito. Il significato soggettivo della colpa stessa assume, invece,
un’importanza centrale nel contesto della responsabilità extracontrattuale in relazione alla quale il comportamento negligente rappresenta uno dei presupposti costitutivi della responsabilità stessa. Orbene, così come avviene per la responsabilità
per violazione dei doveri di protezione del datore di lavoro228, anche per quella del
lavoratore, non sarebbe corretto prospettare (o anche solo ragionare implicitamente
sul presupposto di) un’enclave extracontrattuale nel contesto del contratto di lavoro.
Passando a considerare la prestazione principale, se il licenziamento è
giustificato dall’assenza del lavoratore l’onere della prova del datore di lavoro si
può ritenere assolto, dal punto di vista dell’imputazione della responsabilità al
lavoratore, con la dimostrazione, oltre che della sussistenza del contratto di lavoro,
dell’assenza stessa229; così come, ovviamente, degli elementi utili (ad esempio la
durata) a far qualificare l’inadempimento come notevole. Spetta poi al lavoratore
dimostrare la ragione legittima d’astenzione dal lavoro, salva ovviamente la
possibilità per il datore di lavoro di contestare la reale sussistenza della stessa230.
Se il licenziamento è, invece, dovuto all’inesatto adempimento si dovrebbe
evitare di denominarlo come «per scarso rendimento», considerato che «di un
dovere di rendimento da aggiungere al dovere di prestazione non vi è traccia nella
legge»231. Il datore di lavoro dovrebbe provare, secondo la parte maggioritaria della
giurisprudenza, non solo il mancato raggiungimento del risultato atteso e la sua
oggettiva esigibilità232, ma anche, eventualmente in via di presunzioni, che «la
causa di esso derivi da colpevole e negligente inadempimento degli obblighi
contrattuali da parte del lavoratore»233. Tuttavia, siccome l’art. 5, l. n. 604 del 1966
non contempla un’inversione dell’onere della prova234, a ben vedere, è il lavoratore
a dover provare che l’inadempimento è dipeso da un fatto a lui non imputabile235
ovvero che è dovuto all’organizzazione236. Il datore di lavoro, oltre all’esigibilità
228
Mengoni 1988, 1098.
Cester 2007, 263.
230
V. ad es. il frequente contenzioso sullo svolgimento di attività lavorative durante
l’assenza per malattia che peraltro può assumere rilevanza anche rispetto all’obbligo di non
ritardare la guarigione; oppure, ancora, quello relativo alla certificazione medica falsificata
(rispettivamente, Cass. 1.7.2005 n. 11747 e T. Roma 20.12.2002, NGL, 2003, 221).
231
Napoli 1980, 184-185; per qualche apertura ora Marazza 2005.
232
Che viene misurata con il confronto con gli altri lavoratori, Cass. 22.1.2006 n. 3876.
233
Cass. 9.8.2004 n. 15351; Cass. 3.12.2004 n. 22752; contra T. Torino 3.5.1995,
RIDL, 1996, II, 172.
234
V. infra § 10.
235
Cass. 20.8.1991 n. 8973; T. Cassino 28.10.1988, RIDL, 1989, II, 510.
236
Sul punto cfr. Viscomi 1997, 293.
229
Luca Nogler
627
del risultato237 (che, in genere, si prova in via presuntiva sulla base della media
delle attività dei vari dipendenti238), deve dimostrare, non la causa, ma il carattere
notevole dell’inadempimento239.
Lo scarso rendimento è un fatto imputabile al lavoratore; un fatto che non può
essere riconducibile anche alle ragioni oggettive240, così come non risultava fondata la teoria pandettistica dell’impossibilità soggettiva. Invero, Cass. n. 3250/
2003241, su cui poggia questa teoria, ipotizza il g.m.o. solo perché nel caso di specie la lavoratrice aveva subito un impedimento fisico. Né è possibile, infine, la riqualificazione del licenziamento intimato per g.c. come licenziamento per g.m.o.
perché occorre tener conto del principio dell’immutabilità della motivazione e,
conseguentemente, delle esigenze di difesa del lavoratore242.
I casi in cui il lavoratore è impossibilitato a svolgere le sue mansioni per cause
a lui imputabili (ad esempio, il ritiro del tesserino di accesso all’area aeroportuale
perché il lavoratore è stato denunciato in flagranza per tentato furto dei bagagli)
sono da ascrivere al g.m.o. solo a partire da quando l’impossibilità è definitiva. In
tal caso, si può, peraltro, convenire con la giurisprudenza sul fatto che il recedente
non debba fornire la prova di non aver potuto adibire il lavoratore ad un altro posto
di lavoro243. Se, invece, recede quando l’impossibilità non è ancora definitiva, il
datore di lavoro deve procedere secondo le regole proprie del licenziamento per
inadempimento244.
In relazione alla notevolezza o meno dell’inadempimento, emerge ancora la
tendenza giurisprudenziale a servirsi del concetto di «fiducia», questa volta al fine
di volgere l’argomentazione sulle conseguenze future dell’eventuale decisione giudiziale. Si tratta di un modo di procedere corretto per ragioni che non hanno però
237
In uso anche la formula della «diligenza normalmente richiesta per la prestazione lavorativa» (Cass. 9.9.2003 n. 13194).
238
Così Cass. 22.2.2006 n. 3876; P. Milano 6.5.1996, LG, 1997, 674.
239
Così mi sembra Cass. 10.11.2000 n. 14605; contra Cass. 9.9.2003 n. 13194.
240
È la teoria della fattispecie (concreta) anfibia di Ichino 2003; Pisani 2004, 158 ss.;
2005, 295; Aurilio 2007, 134.
241
Contra, implicitamente, Cass. 22.2.2006 n. 3876; Cass. 10.11.2000 n. 14605.
242
Cass. 14.6.2005 n. 12781, RIDL, 2007, II, 126 ss.
243
Cass. 6.6.2005 n. 11753; v. anche Cass. 3.2.1992 n. 1115 e Cass. 26.6.1986 n. 4249.
244
Nell’ottica dell’inadempimento andrebbe criticata anche la qualificazione del licenziamento del dipendente per incompatibilità con l’ambiente di lavoro come ipotesi di g.m.o.
(Cass. 25.7.2003 n. 11556, RIDL, 2004, II, 142; Cass. 11.8.1998 n. 7904, RGL 1999, II, 37;
Pera 1969, 34). È impropria l’analogia con la doppia possibilità del trasferimento per incompatibilità ambientale e dell’applicazione della sanzione conservativa, perché il licenziamento rappresenta solo un equivalente funzionale del potere disciplinare (v. retro § 3.1.).
Non è possibile, se si giunge alla conclusione che l’inadempimento non è notevole, prospettare il ricorso al licenziamento per g. m. o. (Cass. 5.3.2003 n. 3250. Contra Tosi 1974, 193;
Napoli 1980, 352-353) perché in tal modo si negherebbe la necessità stessa della notevolezza dell’inadempimento contro la chiara previsione legislativa.
628
nulla a che vedere con la fiducia stessa, ma che attengono alla premessa secondo la
quale «l’inadempimento del contratto di durata si configura sempre come inadempimento dell’unica prestazione durevole». Risulta, quindi, «logico che, ai fini della
risoluzione, esso sia vagliato con riguardo alla durata della prestazione»245; e ciò
indipendentemente dalla presenza o meno di un espresso richiamo ai successivi adempimenti, come avviene nell’art. 1564 c.c. Va, insomma, valutata la plausibilità
o meno dell’affidamento nella corretta esecuzione della prestazione246.
6.3. Come già adombrato discorrendo del licenziamento cosiddetto disciplinare,
non ritengo che il licenziamento «determinato da un notevole inadempimento degli
obblighi contrattuali del prestatore di lavoro», così come quello per «giusta causa
ai sensi dell’art. 2119 c.c.», integrino le più gravi sanzioni disciplinari previste
dall’ordinamento, né si può ricavare alcunché, a favore di questa tesi, dalla
specialissima disposizione dell’art. 4, 1° c., l. 12.6.1990 n. 146.
Anche se non si applica l’art. 2106 c.c., il licenziamento resta però assoggettato
ad un giudizio di proporzionalità o, per meglio dire, di adeguatezza in ragione
dell’interpretazione conforme al principio dell’extrema ratio247 dell’art. 3, l. n. 604
del 1966. La direttiva risponde alla medesima logica con cui ha ragion d’essere,
nell’ambito del g.m.o., la regola del repêchage. Dalle comuni premesse scaturisce
la regola secondo cui solo quando il ricorso alle sanzioni più propriamente
qualificabili come disciplinari (quelle, per intenderci, conservative) risulti sufficiente a tutelare l’interesse del datore di lavoro, non è possibile ricorrere al
licenziamento per g.m.s. o per g.c.248.
Questa impostazione induce ad assecondare l’indicazione dottrinale secondo
cui è, in realtà, improprio confondere tra loro la questione della giustificatezza e
quella della proporzionalità del licenziamento249 anche se per ragioni pratiche in
sede decisoria i due giudizi spesso si fondano tra loro. Solo nel secondo, il licenziamento viene confrontato con le sanzioni conservative e con la relativa ratio che
conferisce rilevanza alla gravità del comportamento del lavoratore in funzione degli effetti che esso «ha provocato fuori del rapporto e sull’organizzazione del lavoro»250.
La necessità di non confondere i due giudizi è segnalata anche da chi evidenzia
il diverso modo in cui viene in essi in considerazione la «colpa» del lavoratore. A
245
Cfr. Mancini 1965, 66; Napoli 1980, 362; Id. 1993, 235; Tullini 1994a, 155; contra
Pisani 2004, 83.
246
Cass. 20.7.2004 n. 13482 (bancario che autorizza operazioni in contrasto con specifiche direttive scritte e che fornisce al superiore informazioni non veritiere); Cass. 14.9.2007
n. 19232, GL 2007/41, 27.
247
Così esplicitamente Cass. 25.5.2005 n. 5753.
248
Così Cass. 2.11.2005 21213.
249
Chieco 1991, 77 ss. che peraltro si muove nell’ottica dell’elemento psicologico; Tullini 1994a, 194.
250
Montuschi 1991, 23.
Luca Nogler
629
tal proposito Viscomi ritiene che quest’ultima indichi, nel controllo sulla giustificatezza, il «fatto stesso dell’inadempimento», mentre nel giudizio di adeguatezza
la colpa venga in considerazione nelle vesti della colpevolezza (o rimproverabilità)
soggettiva251. Invero, riguardo a quest’ultimo appare opportuno rifarsi alla distinzione, messa a punto dalla dottrina penalistica, tra la colpevolezza, rispettivamente,
come elemento costitutivo del reato ed, invece, criterio di commisurazione della
pena in cui la consapevolezza «assurge a categoria di sintesi di tutti gli elementi,
imputabili al soggetto, da cui dipende la gravità del singolo fatto di reato». In
questa seconda accezione, che rileva ai fini del giudizio di proporzionalità, la
gravità andrebbe valutata, alla luce dell’art. 27, 1° c., dando prevalenza agli indici
dell’intensità del dolo o del grado della colpa252.
Entrambe le indicazioni trovano conferma nella giurisprudenza in tema di g.c. e
g.m.s. In particolare Ichino ha individuato una serie di casi in cui l’intensità
minima del dolo esclude la legittimità del licenziamento253, così come la giurisprudenza ammette l’attenuante della provocazione254. Il giudizio è, comunque,
complesso e non attiene alla sola presunta misurazione dell’intensità del grado di
colpevolezza del lavoratore, ma anche ad altri fattori, come, ad esempio, la
posizione occupata dallo stesso; oppure, rispetto al licenziamento per abusivo
impossessamento di beni aziendali, il valore economico del bene; ancora, i costi e
le difficoltà che il datore di lavoro incontrerebbe nel predisporre difese idonee nei
confronti dei furti255. In sostanza, si utilizzano una pluralità di indici, alcuni dei
quali possono anche mancare, se la presenza di altri consente comunque di
considerare individuata l’inesigibilità da parte del datore di lavoro della
prosecuzione del rapporto. Un giudizio di sintesi che deve sia valorizzare la
funzione tipizzante dei contratti collettivi256, che essere condotto entro i fatti
contestati. Ciò anche al fine di non dare impropriamente257 rilevanza alla recidiva
come avviene, ad esempio, quando si legittima il licenziamento per il continuo
rifiuto di fornire informazioni sul procedimento penale alla stregua di quanto è
previsto nel contratto collettivo oppure si favorisce la cd. valutazione globale ed
unitaria della condotta258.
251
Viscomi 1997, 291.
Fiandaca, Musco 2004, 172, 737.
253
Ichino 2006b, 945.
254
Cass. 13.9.2006 n. 19553.
255
Rispettivamente, Cass. 10.6.2005 n. 12263; n. 1407/2003 (furto di 25 litri di gasolio;
se il valore è scarso il licenziamento è però in genere illegittimo: così ad es. Cass. 18.2.2000
n. 1892 in riferimento ad alcune confezioni di lamette da barba); Cass. 27.12.1999 n. 14567.
256
V. da ultimo, rispettivamente, Cass. 25.3.2007 n. 6621, MGL, 2007, 631 secondo cui
se il contratto collettivo prevede la sanzione conservativa non è possibile considerare la condotta del lavoratore quale presupposto di un licenziamento e Cass. 26.3.2007 n. 7300, GL,
23, 65 che valorizza il giudizio di adeguatezza predeterminato dall’autonomia collettiva.
257
Montuschi 1973, 205.
258
Rispettivamente Cass. 10.8.2006 n. 18150 e Cass. 10.6.2005 n. 12263 (contra, con252
630
7. Se si prescinde dall’evenienza dell’inadempimento, il licenziamento può essere giustificato solo da «ragioni oggettive» ovvero «inerenti all’attività produttiva,
all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa» (art. 3, l. n. 604
del 1966), una formula che la giurisprudenza utilizza in modo sostanzialmente indistinto259.
7.1. Il fatto che l’art. 3, l. n. 604 del 1966, richiami la circostanza tecnica
dell’«inadempimento» induce subito a domandarsi se la disciplina sui licenziamenti individuali influisca o no sulle conseguenze legate a quelle forme fortuite di
impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa che dipendono da
impedimenti che hanno colpito la persona del lavoratore.
Iniziamo a precisare che la giurisprudenza, senza fornire particolari spiegazioni
dogmatiche, esclude qualsiasi prospettiva risolutoria se questa tipologia d’impossibilità sopravvenuta è imputabile al datore di lavoro260. E ciò ispira probabilmente la
lettura del 7° c. dell’art. 1, l. n. 68 del 1999 come previsione di un obbligo incondizionato del datore di lavoro di garantire la conservazione del posto di lavoro al lavoratore che, non essendo disabile al momento dell’assunzione, abbia successivamente acquisito, per infortunio sul lavoro o malattia professionale, eventuali disabilità a prescindere dalla possibilità di adibire il lavoratore stesso a mansioni diverse da quelle di assunzione261.
Invero, l’ordinamento italiano non conosce, a differenza di quello tedesco, la fattispecie dell’impossibilità della prestazione di cui deve rispondere il creditore (§ 324
ed ora 2° comma del § 326 BGB) 262. Tuttavia, si giunge al medesimo esito ragionando nei seguenti termini: l’applicazione dell’art. 1463 c.c. presuppone che
l’impossibilità non sia imputabile a nessuna delle parti contrattuali, mentre
nell’ipotesi in cui essa risulti imputabile al creditore il contratto si conserva; ne consegue l’obbligo di corrispondere la controprestazione, dedotti i risparmi realizzatisi
ed i guadagni ottenuti oppure ottenibili con un impiego alternativo delle proprie risorse263. Tuttavia, va precisato che ciò presuppone una impossibilità non definitiva
come è dimostrato dal fatto che la determinazione del raggio d’applicazione dell’art.
1463 c.c. viene individuata sulla base dell’art. 1207 c.c. Quando l’impossibilità è,
invece, definitiva si applica – anche per le ragioni che vedremo più avanti – l’art.
1256 c.c. con la particolarità, anche questo sarà spiegato poco oltre, che la cessazione
del rapporto deve essere resa certa dall’adozione di un licenziamento per g.m.o.
divisibilmente, Cass. 21.4.2005 n. 8303). Ragiona indipendentemente dal «rilievo formale
della recidiva» anche Cass. 14.9.2007 n. 19232, GL 2007/41, 27.
259
Così Carinci M.T. 2005, 10.
260
Ciò vale anche in caso di superamento del comporto v. Cass. 19.12.2006 n. 27150;
Cass. 19.1.2002 n. 572; Cass. 18.4.2000 n. 5066.
261
De Cristofaro 1999, 344 nt. 9; Pasqualetto 1999, 102; contra Vallebona 1999, 480;
Bellomo 2000, 1361.
262
Cfr. sul punto Stella 1995, 159 ss
263
Cfr. Mengoni 1956, 190 ed ora Delfini 2003, 49 ss.; Cabella Pisu 1998, 559.
Luca Nogler
631
A ben vedere, lo stesso 7° c. dell’art. 1 l. n. 68 del 1999 non regola, a differenza
del 4° c. dell’art. 4 della stessa legge, un’ipotesi d’impedimento definitivo o (per
utilizzare la formula legislativa) un’inabilità allo svolgimento delle proprie mansioni. La norma disciplina, piuttosto, la diversa evenienza che insorge quando le
mansioni svolte dal lavoratore possono essere conservate nonostante le sopraggiunte disabilità (che non rendono il lavoratore computabile nella quota d’obbligo).
Quest’interpretazione evita, tra l’altro, l’incostituzionalità della disposizione264.
Passiamo, quindi, a considerare le ipotesi di impossibilità della prestazione collegate ad impedimenti che colpiscono la persona del lavoratore, ma che non sono
imputabili a nessuno dei due contraenti. Sul punto, tutti gli autori convengono che,
se si dovesse guardare, per così dire, «indietro» si dovrebbe concludere che le opere non prestate a tempo debito si consumano e si perdono irreparabilmente (operae
praeteritae)265. Tuttavia, si è altrettanto unanimi nel riconoscere che un’impossibilità non definitiva è comunque prospettabile se (in ragione del fatto che l’obbligazione di prestare l’attività lavorativa è unitaria perché ad esecuzione continuata) la valutazione del singolo impedimento viene proiettata verso le opere future.
Questo principio rappresenta, in particolare e come torneremo a vedere più avanti,
una direttiva interpretativa rispetto alle norme del codice civile che hanno principalmente in mente obbligazioni contrattuali che esauriscono la loro vita uno actu.
Nell’ipotesi in cui l’impossibilità è temporanea prevale per il periodo cd. di
comporto, su qualsiasi altra normativa, sia essa di diritto comune o relativa ai licenziamenti, quella speciale che stabilisce la traslazione a carico del datore di lavoro del rischio collegato a singoli impedimenti, appunto, temporanei che colpiscono
la persona del lavoratore. È il caso delle specifiche ipotesi previste dagli artt.
2110266 e 2111 c.c. (richiamo alle armi ed ipotesi equiparate in via legislativa o di
sentenze additive). Ad esse si aggiungono, eccezionalmente, una serie di altre tassative ipotesi di impossibilità soggettiva267 .
Superato il limite di comporto, e perdurante l’impossibilità della prestazione di
lavoro, tuttavia, il rapporto non si estingue ipso iure perché lo stesso 2° c. dell’art.
2110 c.c. richiede l’atto di recesso, pienamente soggetto alla l. n. 604 del 1966.
Con la sola particolarità che la giustificazione è precostituita per legge ed integrata
dal semplice superamento dello stesso periodo di comporto268, dato dal quale si può
trarre, ancora oggi, il corollario che il licenziamento intimato durante la malattia è
264
Nel senso dell’incostituzionalità: Cester 2004, 585; Maretti 2005, 532; v. anche Tursi
1999, 749-750 che risolve però il problema in via interpretativa
265
Mengoni 1953, 278 e 282; Ghezzi 1965, 132; Balandi 1980, 918; Ghezzi, Romagnoli
1995, 306; Vallebona, 1995, 127; Cester 2004, 563; da ultimo v. Ferrante 2004, 354 ss..
266
La malattia prescinde dalla stessa colpa pur grave del lavoratore: Del Punta 1992, 97
ed ora Pisani 2004, 106. Di qui la tendenza dei civilisti ad inquadrare le ipotesi come di impossibilità soggettiva: cfr. Visintini 2006, 382.
267
Di cui dà notizia Mazziotti 1982, 112 ss.
268
Senza la necessità di richiamare la figura della clausola risolutiva espressa: cfr. Del
Punta 1992, 381; da ultimo per un’attenta analisi giurisprudenziale, v. Nunin 2006.
632
inefficace in senso proprio269. La giustificazione, pur ascrivibile al genus del
g.m.o.270, proprio perché precostituita, non include la prova dell’impossibilità di
adibire il lavoratore a mansioni diverse271. Ciò induce a criticare sia l’orientamento
giurisprudenziale che accolla al datore di lavoro l’onere di avvertire il lavoratore
dell’approssimarsi del termine massimo di comporto272, sia quello secondo il quale
la motivazione del licenziamento deve indicare in modo specifico tutte le assenze
del lavoratore in base alle quali ha ritenuto superato il periodo di comporto273. Diverso è, ovviamente, il discorso se il datore di lavoro ha deliberatamente impostato
il licenziamento come per g.m.s. contestando sua sponte l’addebito al lavoratore.
Dalla malattia e dall’infortunio, la giurisprudenza tende a distinguere l’ipotesi
della sopraggiunta infermità permanente del lavoratore che subentrerebbe quando
vi sia la certezza, o anche la semplice rilevante probabilità, che l’adibizione alle
mansioni contrattuali comporti un aggravamento della condizioni di salute del lavoratore274. Ma – prima di svolgere ogni altra considerazione – occorrerebbe prendere atto che il legislatore ha introdotto la fattispecie della sopraggiunta inabilità
allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia
(art. 4, 4° c., l. 12.3.1999 n. 68). Il legislatore non distingue tra inabilità per causa,
rispettivamente, di lavoro o civile ed a ciò dovrebbero attenersi anche gli interpreti275 perché, tra le altre considerazioni possibili, è la soluzione più conforme al
quadro costituzionale in cui – come già detto al § 2 – il 1° c. dell’art. 41 cost. deve
bilanciarsi con il 2° c. dell’art. 38 cost.276 In ogni caso, afferma la disposizione analizzata, «per i predetti lavoratori l’infortunio o la malattia non costituiscono giustificato motivo di licenziamento nel caso in cui essi possono essere adibiti a mansioni equivalenti ovvero in mancanza a mansioni inferiori».
Questa disposizione assume, anzitutto, per almeno due ragioni, un importante
rilievo sistematico. In primo luogo, perché conferma che anche in caso di impossibilità definitiva (oltre che temporanea, come si vedrà tra un attimo) la l. n. 604 del
1966 impone, per dare rilevanza estintiva all’impossibilità definitiva stessa,
l’adozione del licenziamento. Siamo così in presenza di una regola che deroga al
diritto comune in base al quale l’obbligazione di prestare l’attività lavorativa dovrebbe, al contrario, una volta che l’impossibilità è diventata definitiva, estinguersi
269
Cass. 24.1.2005 n. 1373.
Cass. 26.5.2005 n. 11092; contra Roccella 2005, 408.
271
Cass. 23.4.2004 n. 7713; contra P. Milano 17.2.1989, DPL, 1989, 505.
272
Cass. 10.4.1996 n. 3351; contra Cass. 28.6.2006 n. 14891, NGL, 2006, 780, che fa
salva l’ipotesi in cui l’obbligo sia fissato contrattualmente.
273
Cass. 3.8.2004 n. 14873; Cass. 20.12.2002 n. 18199, che richiede l’indicazione di
tutte le assenze; contra A. Milano 21.2.2003, RCDL, 2003, 390, che ritiene sufficiente
l’indicazione complessiva delle assenze.
274
Cass. 13.12.2000 n. 15688.
275
Ghera 2006, 362; Cester 2004, 585; contra Pasqualetto 1999, 102; Tursi 1999, 751;
Vallebona 1999, 480.
276
C. Cost. 8.4.1993 n. 153 (rel. Spagnoli).
270
Luca Nogler
633
ipso iure (art. 1256, 1° c.) e quindi, essendo essa legata da un nesso di corrispettività a quella del creditore, far cadere l’intero rapporto (art. 1463 c.c.). In secondo
luogo, la nuova fattispecie legale toglie fiato, e fondamento, al rilievo (che non aveva mai trovato eco in giurisprudenza) secondo cui l’art. 2110 c.c. non distingue
affatto tra le due ipotesi dell’impedimento definitivo e temporaneo277. Solo ora
questa distinzione è stata, infatti, introdotta esplicitamente nel sistema legislativo
facendo corrispondere alle due fattispecie discipline differenziate: rispettivamente,
l’art. 4, 4° c., l. n. 68 del 1999 che nel caso in cui non sia possibile l’assegnazione a
mansioni equivalenti o inferiori contempla implicitamente un’ipotesi legale di licenziamento per giustificato motivo oggettivo278, e l’art. 2110 c.c. che prevede la
sospensione del rapporto di lavoro senza possibilità di adottare licenziamenti con
preavviso279 prima della fine del periodo di comporto280.
Occorre, tuttavia, riconoscere che, in ragione dell’unitarietà della prestazione
lavorativa, è in pratica arduo differenziare l’impedimento definitivo (inabilità allo
svolgimento della mansione) da quello solo temporaneo. Lo dimostrano le stesse
difficoltà mediche a distinguere, in posterum tempus, tra infermità guaribile e
non281 tant’è che la giurisprudenza, alla stregua di quanto accade in altri ordinamenti282, è costretta a richiamare parametri valutativi (e non naturalistici) tutt’altro
che certi quali il «tempo ragionevole» entro il quale dovrebbe riprendere
l’attività283, oppure la durata imprevedibile dell’impedimento284. Alla fine la decisione è comunque rimessa al consulente tecnico d’ufficio. Se non sussistessero ostacoli costituzionali, e se inoltre la pubblica amministrazione funzionasse, sarebbe
questo il campo elettivo per introdurre una sorta di certificazione ex ante della sussistenza dei presupposti del licenziamento285. Ma siccome il giudice è, alla luce
dell’art. 111 cost., peritus peritorum – e, quindi, ad esempio, anche l’accertamento
previsto dell’aggravamento della salute del lavoratore disabile previsto dall’art. 10,
c. 3°, l. n. 68 del 1999 è destinato a non essere vincolante – chi volesse coltivare
questa impervia prospettiva dovrebbe provare a ragionare nei termini delle perizie
arbitrali286.
Nel passare a considerare, infine, gli effetti provocati dagli impedimenti non
277
Ichino 1990, 3; Id. 2002, 486-487.
Cfr. Tursi 1999, 750.
279
Così, nel coonestare la possibilità del licenziamento per giusta causa, Cass. 1.6.2005
n. 11674; Cass. 25.8.2003 n. 12481.
280
Contra Cass. 17.6.1997 n. 5416; Cass. 24.1.2005 n. 1373.
281
Cfr. già Del Punta 1992, 352-353 ed ora Cester 2004, 563; Nunin 2006, 957.
282
Cfr. Gamillscheg 2000, 608 in relazione al parametro dell’esigibilità di cui al § 626
BGB.
283
Così Cass. 24.1.2005 n. 1373.
284
Per riferimenti cfr. Vallebona 1999, 480.
285
Maretti 2005, 536; sulla non vincolatività del controllo previsto dall’art. 5, 3° c., st.
lav., Cass.24.1.2005 n. 1373; C. Cost. 23.12.1998 n. 420 (rel. Santosuosso).
286
Sul punto cfr. Bove 2001.
278
634
contemplati dagli artt. 2110-2111 c.c.287 s’inciampa in una vecchia disputa, che
meriterebbe, invero, ben altri approfondimenti. L’originaria impostazione, favorevole all’applicazione dell’art. 1464 c.c., risale a Torrente nel contesto, peraltro,
d’un inquadramento ancora parzialmente istituzionale del rapporto di lavoro 288. A
questa dottrina si contrappose Mengoni sulla base dell’indivisibilità ratione obiecti
dell’obbligazione di prestare l’attività lavorativa che si oppone alla configurabilità
di un’impossibilità parziale ai sensi dell’art. 1464 c.c.289 giacché l’impossibilità cosiddetta temporanea della prestazione di lavoro non pregiudica la qualità delle opere (future). Sennonché l’applicabilità dell’art. 1464 c.c. fu poi rilanciata da Mancini
con l’argomento che il recesso previsto da questa norma potrebbe essere esercitato
anche quando la prestazione sia soggettivamente indivisibile perché «non è possibile apprezzare l’interesse di un soggetto a un bene senza tener conto della destinazione che il bene acquista nel disegno di lui»290.
Ora, quest’ultimo rilievo, sovente ripreso dalla dottrina successiva, non attiene,
a ben vedere, ai presupposti della fattispecie regolata dalla norma sull’impossibilità
parziale, bensì «solo» al modo in cui devono esserne valutati i relativi effetti e, più
in specifico, l’interesse del datore di lavoro all’adempimento parziale291. Vero è
allora che l’interpretazione mengoniana favorevole all’applicazione del 2° c.
dell’art. 1256 c.c. non è stata ancora convincentemente revocata in dubbio: sia,
come appena visto, relativamente alla non equiparabilità dell’impossibilità temporanea a quella parziale (che, al contrario della prima, modifica il rapporto292); sia,
in secondo luogo, per quanto riguarda il rilievo che l’impossibilità ben può essere
temporanea perché il ritardo richiamato dall’art. 1256 c.c. deve essere sempre riferito alle opere future293.
Tuttavia, anche accettando le premesse «mengoniane», l’impossibilità temporanea della prestazione lavorativa, sebbene perduri, non determina mai la risolu287
Ad es. sospensione del porto d’armi: v. Cass. 25.7.2006 n. 16924.
Torrente 1950, 120 che infatti giustificava la continuità del rapporto richiamando il
piano collettivo dell’organizzazione.
289
Mengoni 1953; Napoli 1980, 364 ss. Nell’art. 1464 c.c. l’impossibilità è rapportata
ad una diminuzione oggettiva di valore della prestazione ed in quanto res le operae non sono divisibili.
290
Mancini 1962, 76-77; Id. 1965, 129-130 in parziale adattamento della tesi di Sgroi
1953; aderisce Balandi 1980, 917.
291
Il rilievo è estendibile anche alle argomentazioni recentemente proposte da Cester
2004, 564 nt. 10.
292
Cfr. da ultimo Breccia 1991, 746.
293
Giacché la prestazione è unitaria: Mengoni 1956, 186; Mazziotti 1982, 107; né il
rapporto si prolunga nel tempo (così Balandi 1980, 920) perché ciò sarebbe contrario al
principio che l’obbligazione è comunque unitaria. Cade quindi anche la tesi dell’inapplicabilità dell’art. 1256 c.c. ai contratti di durata (Torrente 1950, 111; Ichino 2002, 487). In genere
la dottrina si limita a rilevare il profilo del ritardo (v. ad es. Mazzotta 2005, 630; Del Punta
1992, 39 nt. 116), senza considerare che il ritardo stesso potrebbe essere riferito alle opere
future.
288
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635
zione ipso iure del rapporto per la semplice ragione – non ho la pretesa di scoprire
niente di nuovo – che l’ordinamento si è, nel frattempo, arricchito di nuove disposizioni. In sintesi, In sintesi, dalla disposizione dell’art. 1256, 2° comma, possiamo
ricavare due norme: (a) se l’impossibilità è solo temporanea, essa non determina lo
scioglimento del contratto294; (b) quando il creditore non ha più interesse a conseguire (in relazione al titolo dell’obbligazione o alla natura dell’oggetto) la prestazione, quest’ultima si estingue. La prima regola è ancor oggi pienamente applicabile alle impossibilità fin qui considerate, e forse non a caso la giurisprudenza spesso
richiama accanto all’art. 1464 c.c. anche il 2° c. dell’art. 1256 c.c. La seconda è
stata, invece, superata dalla l. n. 604 del 1966295 che non consente più al datore di
lavoro di considerare cessato il rapporto ipso iure per il semplice fatto che egli
«non ha più interesse a conseguire la prestazione». Infatti, l’art. 3 della legge del
1966 condiziona l’effetto estintivo della situazione creatasi in seno all’organizzazione del datore di lavoro alla dichiarazione negoziale da parte di quest’ultimo
che la situazione stessa incide irreparabilmente (extrema ratio) sul regolare funzionamento della seconda296. Si realizza così un principio, adottato anche in altri sistemi giuslavoristici evoluti297.
La giurisprudenza che ancor oggi richiama, in funzione di superamento di quella che, in precedenza, ho chiamato la «seconda regola ricavabile dal 2° c. dell’art.
1256 c.c.», l’art. 1464 c.c. o inserisce un medium argomentativo inutile visto che
poi conviene comunque che debbano sussistere i presupposti di cui all’art. 3, l. n.
294
Cass. 11.7.2001 n. 9704, RCDL, 2001, 181 (scadenza permesso di soggiorno).
Cass., S.U., 7.8.1998 n. 7755; Cass. 13.12.2000 n. 15688; Cester 2004, 566; Fergola
1985, 297-298.
296
Cass. n. 9704/2001, cit. alla nt. 294; Cass. 13.3.1999 n. 2267, NGL, 1999, 343 (temporaneo ritiro del tesserino di accesso agli spazi doganali); Cass. n. 9453/1993 (inidoneità
fisica). Il licenziamento non sarà mai motivabile per il solo sopraggiungere dell’impossibilità relativa alla persona del lavoratore e, pertanto, anche gli argomenti, pur sottili, rilevati
da Napoli 1980, 351 ss. in relazione alla formulazione letterale dell’art. 3 l. n. 604 del 1966
perdono di spessore. In realtà, anche il rilievo sistematico secondo cui «se la terza ipotesi di
giustificazione permettesse di valutare il comportamento del lavoratore alla luce della sua
incidenza sull’organizzazione del lavoratore, sarebbe senza significato la previsione del notevole inadempimento degli obblighi contrattuali» (Napoli 1980, 352; Balandi 1980, 930 ss.;
Tiraboschi 1994a, 1075; contra, da ultimo, Pisani 2004, 155 ss.), non tiene conto del fatto
che la possibilità di valutare il comportamento del lavoratore sotto il profilo della sua ripercussione sul regolare funzionamento dell’organizzazione del lavoro attiene solo a quei fatti
che non siano qualificabili come inadempimenti. Se il datore di lavoro licenzia un lavoratore
inadempiente per g.m.o., questi può senz’altro eccepire che deve essere valutato il carattere
notevole o meno dell’inadempimento oltre che, più in generale, se sono state applicate o no
le garanzie contemplate dall’art. 7 st. lav.
297
Che invero era già stato argomentato persino da Molitor nel suo celebre studio del
1935 facendo giusnaturalisticamente leva sul principio retrostante alla regola e cioè
l’esigenza, dettata da ragioni di sostentamento, del lavoratore di avere certezza riguardo alle
sorti del rapporto (pp. 24-25).
295
636
604 del 1966298, oppure tenta impropriamente di prescindere dalla verifica della
sussistenza delle stesse causali sostanziali del licenziamento.
L’art. 24, l. 8.8.1995 n. 332 ha, infine, introdotto il controverso art. 102 bis
c.p.p. che in ipotesi di ingiusta detenzione attribuisce al lavoratore licenziato, per il
fatto stesso della sottoposizione del medesimo a custodia cautelare o all’arresto
(«per ciò stesso»), il «diritto di essere reintegrato nel posto di lavoro». La giurisprudenza ha, opportunamente, chiarito che l’uso del termine «reintegrato» non
determina l’applicazione dell’art. 18 st. lav. anche perché l’accertamento dell’ingiusta detenzione non può incidere sulla validità del licenziamento299. Nel caso deciso da questa importante sentenza, non era, peraltro, in discussione la ricostruzione del rapporto di lavoro, già intervenuta, ma solo la spettanza o meno del risarcimento del danno per il periodo intermedio. Se, al contrario, la Cassazione avesse
dovuto affrontare anche la questione dei presupposti del diritto alla «reintegrazione» avrebbe dovuto chiarire che in base al significato letterale della norma ed, in
particolare, all’espressione «per ciò stesso», letta in conformità al necessario bilanciamento dei principi di cui agli artt. 41 e 4 cost., il diritto alla «reintegrazione»
sorge solo se il licenziamento è stato intimato per l’esclusiva ragione dell’avvenuta
sottoposizione del dipendente alla misura cautelare300. Un’evenienza, insomma,
molto rara e difficile da provare.
Da quest’ultimo punto di vista, si può al più prospettare una valutazione presuntiva nel caso in cui sia stato dimostrato che il ritardo (delle opere future del
lavoratore detenuto) non incide sull’organizzazione del lavoro, e sul suo regolare
funzionamento, in modo così grave da indurre ad adottare l’extrema ratio e cioè
il licenziamento. Questa valutazione deve, peraltro, prescindere dalla successiva
accertata ingiustizia della detenzione ed essere condotta – tornando, per così dire,
indietro nel tempo alla situazione sussistente al momento dell’adozione del licenziamento301 – con una prognosi che tenga conto della possibilità di affidare
temporaneamente ad altri dipendenti i compiti svolti dal lavoratore detenuto302.
Solo all’esito negativo di tale giudizio può, infine, conseguire l’accertamento del
diritto alla reintegrazione ovvero dell’inefficacia sopravvenuta del licenziamento303 con effetto automatico a partire dal momento del pronunciamento della sentenza penale.
298
Cass. 19.1.2002 n. 572 relativa ad un impedimento fisico; Cass. 24.10.2000 n. 13986
relativa al ritiro alla guardia giurata del porto d’armi; Del Punta 1992, 352 parla giustamente
di binomio «un po’ maccheronico».
299
Cass. 2.5.2000 n. 5499; in dottrina v., per tutti, in tal senso, Pisani 1998, 177 e Mazzotta 2005, 632.
300
Così Pisani 1998, 178.
301
Cfr. Ichino 2002, 489.
302
Cass. 1.9.1999 n. 92399. In tal modo si evitano gli eccessi segnalati da Ichino 2002,
490-491.
303
Pisani 1998, 180; Ghera 2006, 360-361.
Luca Nogler
637
7.2. La definizione del g.m.o., in continuità con gli accordi collettivi precedenti
alla legge del 1966, richiede, secondo un’interpretazione consolidata, una modifica
organizzativa304. Questo quid novi – come afferma Gragnoli – non deve, peraltro,
necessariamente investire la parte materiale dell’organizzazione (determinare, ad
esempio, un licenziamento tecnologico), ben potendo riguardare la sola componente personale della stessa con la soppressione, la redistribuzione (rispettivamente, tra
i lavoratori che rimangono in azienda305 oppure direttamente in capo al datore di
lavoro) o l’esternalizzazione a terzi (contratti d’opera, anche in forma di collaborazione continuativa e coordinata, o di appalto306) delle attività svolte dal dipendente
licenziato307. Possiamo, pertanto, fin d’ora escludere che la disposizione sulle ragioni obiettive rappresenti una sorta di norma procedurale che rinvia al giudice il
contemperamento degli interessi contrapposti secondo un criterio sostanzialmente
d’equità sociale308.
Le risposte all’interrogativo su quale sia l’ambito del sindacato giudiziale oltre
al mero accertamento della sussistenza al momento del licenziamento della modifica organizzativa sono, da un lato, tributarie all’interpretazione conforme al diritto
alla libertà d’impresa, che raggiunge qui la sua massima intensità (e frequenza) e,
dall’altro, storicamente polarizzate intorno ad una nota disputa che merita di essere
brevemente ripensata.
In proposito, abbiamo, anzitutto, la presa di posizione di Mengoni del 1958, che
fu parzialmente fatta propria anche da Pera nella sua fondamentale relazione al
convegno dell’associazione del 1968. Premesso che l’imprenditore è sovrano sia in
relazione alla valutazione dell’interesse dell’impresa, sia per quanto riguarda il
mezzo prescelto (licenziamento) per realizzarlo, M. chiamò in causa la contrappo-
304
Da ultimo v. Cass. 10.5.2007 n. 10672, GL, 2007, 27, 42; per ulteriori riferimenti cfr.
Carinci M.T. 2005, 12 ss.; sul formante giurisprudenziale cfr. De Rosa 2006; Calcaterra
2005; Brun 2002.
305
Opzione ritenuta possibile da Cass. 2.10.2006 n. 21281, FI Mass., 2006, 1738; Cass.
23.3.2005 n. 6245; Cass. 24.2.2005 n. 3848.
306
Cass. 13.10.1997 n. 9967; Cass. 30.3.1994 n. 3128; Cass. 24.6.1995 n. 7199, MGL,
1995, 393 richiede anche lo smantellamento delle componenti materiali (caso relativo
all’addetto alle autovetture che non sono state vendute); in dottrina per tutti Albi 2006.
307
Cfr. anche per gli ampi riferimenti giurisprudenziali, l’ottima sintesi di Carinci M.T.
2005, 12 ss. la quale include peraltro anche il ridimensionamento temporale (da tempo pieno
a part-time o viceversa) delle attività svolte dal dipendente licenziato, sul punto, tuttavia,
cfr., da un lato (da tempo pieno a part-time), l’art. 5 d.lgs. 25.2.2000, n. 61 e dall’altro
(nell’ipotesi opposta) Cass. 9.7.2001 n. 9310 e Cass. 17.6.2005 n. 12999 che negano, in tali
casi, la sussistenza del g.m.o.
308
E non semplicemente individuale. La posizione esclusa nel testo, che ricorda l’equità
come veniva intesa nel diritto romano, risale a Romagnoli 1969, 75 che evoca, appunto, il
parametro del vantaggio sociale; Ballestrero 1975, 364 ss.; ed ora il rilancio di Gragnoli
2006, 77, 82. Il modello equitativo viene fatto proprio anche dal 3° c. dell’art. 1 del d.d.l. S.
1163.
638
sizione tra giudizio di legittimità e giudizio di opportunità309 che, secondo una parte della dottrina amministrativistica, contraddistinguerebbe (se non tutte, molte de)
le ipotesi di giurisdizione di merito310. Il ragionamento mirava a sostenere che, in
tema di licenziamenti, il legislatore avrebbe potuto introdurre al più un sindacato di
legittimità.
I sostenitori dell’inquadramento totalmente contrattuale delle posizioni delle
parti, non hanno dubbi sulla correttezza di questa conclusione311. Il giudice civile
non può sindacare il merito (e cioè il motivo imprenditoriale) della modifica organizzativa posta a base del licenziamento, per il semplice dato che quest’ultimo è
riconducibile all’autonomia privata del datore di lavoro. L’adozione del negozio di
recesso – a differenza di quanto avviene quando l’atto è connesso al potere amministrativo discrezionale – non risulta vincolata al miglior conseguimento dell’interesse pubblico o, comunque, al raggiungimento di un risultato prefissato dall’ordinamento312. Quest’ultimo, essendo ispirato all’economia sociale del mercato, non
adotta, insomma, in analogia ai principi indicati dall’art. 97 cost. per il settore pubblico, il criterio del «buon andamento dell’impresa»313.
Semmai può dirsi superata in tale disputa la posizione espressa al convegno del
1968 da Minervini, secondo il quale, in virtù della l. n. 604 del 1966, il controllo
giudiziale non poteva considerasi limitato al «semplice» eccesso di potere; posizione formalmente omaggiata dallo stesso Pera che nella replica finale diede, per
così dire, un colpo al cerchio ed uno alla botte. Egli affermò, infatti, in quell’occasione, da un lato, che il sindacato giudiziale era qualificabile come di merito, ma
soggiungendo, dall’altro, che all’operato del giudice era comunque imposto il limite, derivante dal 1° c. dell’art. 41 cost.314, per il quale (come l’a. aveva spiegato
nella relazione, e come si suol ancora oggi ripetere) lo stesso controllo giudiziale
riguarda: in primo luogo, l’effettività e la non pretestuosità della modifica organizzativa e, quindi, in secondo luogo, il nesso causale tra quest’ultima ed il licenziamento315.
309
Mengoni 1958, 279.
Nel giudizio di opportunità il giudice amministrativo valuta se l’atto amministrativo
sia stata realizzato o no in modo opportuno, efficace, economico, adeguato etc.
311
Tra i primi Giugni 1963, 320-321; mentre ora v. Scarpelli 1996, 28; Zoli 2004, 294;
Cass. 16.12.2000 n. 15894.
312
Zoli 2004, 294; Del Punta 1998, 705.
313
Cfr. per tutti, Carinci M.T. 2005, 130; Zoli 2006.
314
Cfr. Pera 1969, 179 incalzato, come detto, da Minervini 1969 e poi anche Trioni
1967, 124; Mancini 1972, 258 e Persiani 1971a, 690 (ma v. poi Id. 1995, 1 ss.); Santoro Passarelli 1985, 252; di sindacato di merito tornano recentemente a parlare anche Novella 2004,
802 e Alleva 2006. Il tutto si spiega, come si dirà nel testo, con la frode alla legge.
315
Così ora Cass. 26.7.2006 n. 17013; Cass. 4.11.2000 n. 21121, NGL, 2005, 288. Al
giudice sarebbe, invece, precluso risalire alle ragioni ed alle finalità che stanno a monte della
innovazione organizzativa: ad es. la volontà di aumentare i profitti in un’impresa in bonis;
volontà/necessità di ridurre le perdite e, più in generale, di sollevare le sorti di un’impresa
310
Luca Nogler
639
Invero, lo stesso eccesso di potere viene ormai considerato una categoria meramente descrittiva che si conserva per semplice rispetto alla tradizione perché raccoglie una serie eterogenea di vizi il più risalente dei quali è rappresentato dallo
sviamento del potere. Ebbene, il caso classico di manifestazione di quest’ultimo316
riguarda proprio un comune che aveva licenziato l’addetto alla biblioteca, allegando come motivazione la necessità di ridurre l’organico e la scarsa utilità della biblioteca, dato l’esiguo numero degli utenti. Poco tempo dopo lo stesso comune deliberava l’istituzione di una nuova biblioteca bandendo il concorso per l’assunzione
del relativo impiegato. Il licenziamento era dunque pretestuoso o, per meglio dire,
era stato adottato per un fine diverso da quello previsto dalla legge.
Come spiega sempre Falcon, la categoria dell’eccesso di potere richiama oggi
giorno una congerie di figure sintomatiche ulteriori rispetto allo sviamento del potere. Figure, in parte, riconducibili all’art. 97 cost. ed, in altra parte, all’art. 3 cost.
(ragionevolezza e proporzionalità). I casi tipici «di vero e proprio sviamento, del
tipo classico descritto, sono rimasti quantitativamente di scarsa rilevanza: come del
resto è ovvio, non essendo poi vicenda così frequente che un’autorità amministrativa provveda con un fine deviato»317.
Diverso è il discorso per le autorità private, rispetto alle quali questa forma di
controllo avviene, come preannunciato alla fine del § 5, grazie al divieto di frode
alla legge. Il licenziamento, formalmente intimato per ragioni organizzative, risulta, infatti, diretto ad eludere la particolare tutela imperativa predisposta dall’ordinamento in caso di licenziamento per inadempimento (nell’ambito della tutela reale, sono imperative sia le norme dell’art. 7 st. lav., che l’art. 1, l. n. 604 del 1966 la
cui violazione inibisce la produzione degli effetti dell’atto318). Prendiamo così atto
che oltre al giudizio di integrazione dei requisiti materiali e formali dell’atto, risulta prospettabile un diverso sindacato giudiziale attinente all’oggettivo sviamento
fraudolento del licenziamento che non attiene al semplice motivo illecito, ma
all’operazione economica complessiva posta in essere dal datore di lavoro e di cui
il licenziamento è una delle componenti319. Questo ulteriore giudizio assume una
rilevanza pratica molto maggiore di quanto lascerebbe intendere chi ragiona artificialmente sulla base di un modello in vitro di imprenditore ispirato ad una razionalità astratta che semplifica eccessivamente la complessità umana.
che versi in una situazione critica etc. In realtà, le posizioni espresse da Pera e Minervini
erano lontanissime, ed assolutamente inconciliabili tra loro perché, a ben vedere, il primo
tendeva, comunque, ad escludere qualsiasi sindacato d’opportunità.
316
Le cui origini risalgono al periodo a cavallo tra ottocento e novecento quando il diritto amministrativo era ancora largamente tributario alle categorie privatistiche e che si trasmette da allora da manuale in manuale: cfr. Falcon 2005, 152-153.
317
Falcon 2005, 154-155.
318
V. infra § 10.
319
Sul punto cfr. Gabrielli 2003, 102, il quale, nel sottolineare la funzione qualificante e
non meramente descrittiva della categoria operazione economica, parla di qualificazione in
concreto delle singole cause dei negozi collegati che la compongono.
640
Poiché in questo ulteriore ambito del sindacato giudiziale non si discute sulla
sussistenza o meno della modifica organizzativa, grava, peraltro, sul lavoratore
l’onere della prova del carattere fraudolento del licenziamento320. Infatti, la pretestuosità della modifica organizzativa non attiene all’effettività della stessa321, ma
viene in gioco quando il datore di lavoro utilizza la modifica in questione quale
pretesto per perseguire con il licenziamento uno scopo ulteriore322.
Lo stesso Pera, pur non sviluppando il punto, ricondusse comunque la «non
pretestuosità» del licenziamento, non al motivo illecito323, ma proprio alla frode
alla legge324. In assenza di ulteriori indicazioni legislative325 non sono, invece, mai
state seriamente aperte le porte ad un controllo di vera razionalità326, né, per le considerazioni svolte nella prima parte della relazione, potrebbe a tal fine, richiamarsi
in via immediata il 2° c. dell’art. 41 cost.327 come affermò in modo troppo semplicistico C. Cost. n. 103 del 1989.
E le clausole di correttezza e buona fede? Il loro raggio d’azione varia a seconda del contesto normativo complessivo in cui esse sono inserite e, quindi, le relative norme non rappresentano, in realtà, dei dati omogenei che possano essere oggetto di una proficua comparazione328 e questo vale, naturalmente, anche per i Principles of European Contract Law sui quali tornerò nel paragrafo di chiusura. Il nostro art. 1374 c.c. è idoneo ad includere nel regolamento contrattuale i soli obblighi
di protezione collegati all’art. 1375 c.c.329, ma giammai a far nascere nuovi obblighi di prestazione330, come pare sostenere, ad esempio Gragnoli quando accolla al
320
Cfr. sul punto Bolego 1995, 177 ed ivi ulteriori indicazioni dottrinali e giurisprudenziali.
In tal senso, invece Carinci M.T., 2005, 14, che riconduce la modifica pretestuosa a
quella semplicemente dichiarata, ma non realizzata.
322
Ad es., se il datore di lavoro sostituisce un lavoratore con un altro la modifica organizzativa c’è – v. Carinci M.T., 2005, 134 – ma essa è presumibilmente fraudolenta.
323
È la tesi, riduttiva, di Ichino 1999, 6.
324
Pera 1969, 32.
325
Sullo stampo delle norme «civilistiche» dell’art. 1469-bis c.c. e (secondo una parte
della dottrina e della giurisprudenza: T. Trieste 20.9.2006, in corso di stampa in FI) dell’art.
9, l. n. 192 del 1998 oppure come ha recentemente rilevato Perulli 2005, degli esempi «giuslavoristici» quali l’art. 3, 3° e 6° c., d. lgs. 9.7.2003 n. 216 in materia di discriminazioni (v.
anche Izzi 2005, 175).
326
Contra Perulli 2005, Andreoni 2006b; inizialmente anche Persiani 1971a, 688-690
(ma v. poi Id. 1995, 1 ss.). Sull’impossibilità di far riferimento alle clausole di correttezza e
buona fede per controlli esterni di razionalità cfr. Cass. 19.6.2001 n. 8296; Cass. 26.4.2004
n. 7907; Cass 20.5.2004 n. 9643.
327
Così, invece, De Angelis 2007 peraltro nel contesto di una decisa svalutazione
dell’obbligo di repêchage.
328
Cfr. Castronovo 2005.
329
V. retro, § 6.2
330
Cfr. da ultimo Cass. 14.11.2006 n. 24274: i «precetti di buona fede e correttezza […]
possono integrare il contenuto delle obbligazioni ma non determinarne di nuove», con conseguenze al più risarcitorie (Zoli 1988, 347-348; Vallebona 2006b, 36).
321
Luca Nogler
641
datore di lavoro il dovere di coinvolgere i lavoratori nel processo formativo del licenziamento economico331. Al più sarebbe possibile, per come è strutturata la fattispecie del g.m.o., un controllo di congruenza generalmente espresso nei termini
della sussistenza di un nesso di causalità tra la modifica organizzativa e l’atto di
licenziamento. Nesso che, peraltro, stenta ormai ad emergere in giurisprudenza332.
Posto che la regola del repêchage va inquadrata nell’ambito della cooperazione
creditoria333, viene meno, in effetti, il problema per il quale principalmente Giugni
aveva richiamato le «comuni regole tecniche»334.
Ora, se analizziamo le rationes decidendi delle sentenze in tema di licenziamenti legati a modifiche organizzative alla luce di questi chiarimenti relativi al
raggio d’azione del sindacato giudiziale, l’orientamento della sezione lavoro della
Cassazione appare molto meno invasivo delle prerogative imprenditoriali di quanto
viene spesso adombrato in dottrina335 e può essere riassunto nelle seguenti tre regole: (a) quando non sono stati provati elementi che mettano in discussione l’effettiva
realizzazione della modifica organizzativa, oppure addirittura il suo carattere non
fraudolento, la Cassazione si accontenta, di norma, della prova della sussistenza
della medesima senza entrare nel merito del motivo imprenditoriale che sta a monte336; (b) l’intensità del richiamo ai motivi imprenditoriali è direttamente proporzionale alla maggior o minore evidenza del quid novi (esso è, ad esempio, pressoché escluso nell’ipotesi dell’ammodernamento tecnologico337); (c) quanto più numerosi sono gli indizi concreti sulla non veridicità o sul carattere fraudolento del
licenziamento tanto più intensamente il datore di lavoro tenta di far valere i motivi
imprenditoriali.
Soffermiamo l’attenzione sulla terza regola. Si pensi, ad esempio, al caso dei
tre impiegati che non avevano mai lavorato in contemporanea, mentre l’impresa
sosteneva che aveva adottato la scelta organizzativa di redistribuire le mansioni
svolte dai tre lavoratori soltanto su due; inoltre l’impresa, pur sostenendo che il licenziamento rientrava in un «generale programma di riduzione dei costi del personale», aveva poi proceduto al licenziamento del solo lavoratore che aveva promos-
331
Gragnoli 2006, 81-82 che allarga, in realtà, il tiro ad uno «spettro di doveri» prospettando in via giudiziale un sistema simile a quello legale francese.
332
Cfr., per i riferimenti giurisprudenziali, Novella 2004, 806 che parla efficacemente di
nesso «blindato».
333
V. infra § 7.3
334
E le «massime d’esperienza, che attengono alla buona gestione della impresa e che
impongono di determinare, quando, data una certa premessa di tipo organizzativo, debba o
non conseguire il licenziamento» (Giugni 1969, 103; ma v. già Id. 1963, 321); contra mi
sembra Scognamiglio 2005a, 442.
335
Stolfa 2003, 120; Ichino 2004; Gragnoli 2006, 50; De Angelis 2007, 473.
336
Cass. 11.4.2003 n. 5777; Cass. 29.3.2001 n. 4670; Cass. 30.3.1994 n. 3128.
337
Cass. 14.6.2005 n. 12769; Cass. 17.6.1997 n. 5419; Cass. 26.4.1996 n. 3896; così anche Ichino 2002, 479-480.
642
so il giudizio338. La Cassazione afferma ad un certo punto una direttiva ormai ricorrente secondo cui rientrerebbe nella nozione di g.m.o. l’ipotesi del riassetto organizzativo (modifica organizzativa) attuato «al fine di una più economica gestione
dell’azienda e deciso dall’imprenditore non semplicemente per un incremento del
profitto, ma per far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, imponendo un’effettiva
necessità di riduzione dei costi»339. Ma con quest’ultima formula, la Cassazione
intende semplicemente affermare che, nei casi prospettati, ovvero alla luce dei fatti
provati, per potere prendere in considerazione l’eventualità di spostare la decisione
sulla non veridicità ci vorrebbe ben altro: ad iniziare dalla dimostrazione di «sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva», che impongono «un’effettiva necessità di riduzione dei
costi» (una formula che viene poi riprodotta in altre sentenze anche se il più delle
volte non c’entra nulla con la ratio decidendi concretamente adottata340). Non è
dunque corretto estrarre dalla motivazione della sentenza la massima secondo cui il
licenziamento per redistribuzione delle mansioni è possibile solo se è diretto a
fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti341.
Spostiamoci ora a considerare un’ipotesi di licenziamento fraudolento. Dinnanzi, ad esempio, al caso del lavoratore licenziato, e sostituito dopo poco tempo da un
apprendista, la Cassazione trova modo di affermare che «l’unico obiettivo
dell’imprenditore» non può consistere nel «risparmio delle retribuzioni del personale»342. Ma in tal modo non si intende affermare che il licenziamento non può mai
essere giustificato dalla riduzione dei costi343 (sindacato nel merito), bensì più
semplicemente che quest’ultima motivazione non vale a scongiurare il giudizio di
fraudolenza della modifica organizzativa. Un altro caso simile è quello del licenziamento sorretto dalla redistribuzione di mansioni fra lavoratori già in forze
all’azienda. Si potrebbe essere tentati ad affermare che Cassazione si sta «orientando» nel senso di non ritenere che la sostituzione di un lavoratore con un altro infici
ex se la legittimità del licenziamento344 e che essa tende ora ad instaurare, piuttosto,
338
Cass. 7.7.2004 n. 12514.
Cass. 2.10.2006 n. 21282; e di nuovo Cass. 7.7.2004 n. 12514.
340
Per un esempio recente v. ancora Cass. 2.10.2006 n. 21282, cit. a nt. 339 Più degli
artifici motivazionali, ipotizzati da De Angelis 2007, 474 si riscontrano ingenuità o sovrabbondanze argomentative. Così, ad es., in un caso in cui il datore di lavoro prospetta una cessazione dell’attività aziendale smentita dalle risultanze istruttorie e dalle sue stesse dichiarazioni, la Corte richiama solo ad abundantiam o obiter anche il fatto che egli ha omesso di
produrre la documentazione rilevante – bilanci, stato patrimoniale, dichiarazioni reddituali –
per provare la pretesa grave contrazione della lavorazione e delle vendite (Cass. 20.8.2003
n. 12270).
341
Così De Angelis 2007, 473.
342
Cass. 17.3.2001 n. 3899.
343
Alleva 2006, 72.
344
Così, invece, Ichino 2002, 479.
339
Luca Nogler
643
una presunzione semplice di fraudolenza. Ma è facile riscontrare che essa, decide,
infine, pressoché sempre per l’illegittimità del licenziamento anche perchè è arduo
intravedere i contenuti di una possibile prova contraria se solo si pensa che tali evenienze si trascinano appresso il sospetto di aggiramento delle regole sul licenziamento per scarso rendimento345.
In casi siffatti è fuori luogo sollevare la questione dell’insindacabilità dei motivi chiamando in causa, in funzione interpretativa, il 1° c. dell’art. 41 cost.346. Si
dovrebbe, infatti, por mente alla circostanza che si tratta quasi sempre di ipotesi in
cui il datore di lavoro ha interesse ad «agganciare» il licenziamento ad un motivo
imprenditoriale, al fine di tentare di superare i dubbi insorti sulla non veridicità o
fraudolenza della modifica organizzativa.
Affermare che in tal modo la norma sul presupposto sostanziale è «svuotata di
ogni effetto limitativo della facoltà di recesso del datore di lavoro»347 rappresenta
un’esagerazione sia perché così opinando si dimentica la regola del repêchage che
sarà analizzata nel prossimo §, sia perché si omette una considerazione non trascurabile. Vincolando il potere di licenziamento alla sussistenza delle ragioni oggettive, si costringe il datore di lavoro a compiere la modifica organizzativa in modo
inequivocabile e senza possibilità di dare indirettamente rilevanza alla persona del
lavoratore348. Ciò non esclude, ben inteso, che l’orientamento giurisprudenziale,
così come può essere difeso sulla base del valore dell’efficienza economica349, possa essere contrastato già a livello interpretativo. Ma a tal fine, più che a colpi di necessità logiche o prospettando presunti contenuti assicurativi del rapporto di lavoro, si dovrebbe procedere sulla base di spiegazioni dogmatiche che filtrino i valori
di riferimento350.
Tornando al quadro giurisprudenziale, reali problemi di eccesso del sindacato
giudiziale insorgerebbero qualora dovessero essere inclusi nella fattispecie del
g.m.o., come viene variamente proposto dalla dottrina, elementi che, a rigore, devono rimanere esterni allo stesso. Se si ritenesse, ad esempio, che spetta al datore
di lavoro provare il carattere non pretestuoso del licenziamento. Magari facendo
valere la «vera rottura»351 che ispirerebbe l’art. 5, l. n. 604 del 1966 presentandolo
345
V. retro, § 6.1. Per l’illegittimità della sostituzione di un lavoratore con uno giovane
v. Cass. 17.3.2001 n. 3899; Cass. 11.4.1994 n. 3353.
346
Così, ad es., Stolfa 2003, 120. Sul fatto che in caso di illiceità è consentito il sindacato di merito v. C. Cost. n. 172/1996 cit. alla nt. 96. Più in generale cfr. comunque le puntuali
osservazioni di Dieterich 2007, 67-68.
347
Così Ichino 2002, 474 e 481 e sulla sua scia Ogriseg 2003, 394-395.
348
Tentazione, invero, acuita dalla nuove forme di organizzazione del lavoro: v. Scarpelli 1994; Del Punta 1998, 718.
349
Cfr. Mengoni 2004, 4177.
350
Ci provano Roccella 2005, 406 che si richiama all’utilità sociale e Del Punta 1998,
719.
351
Così enfaticamente Di Majo 1970, 524 e poi, soprattutto, Mancini 1972. Giustamente
critico Pera 1980, 78.
644
impropriamente come una norma che inverte l’onere della prova352 e che instaura
«una presunzione di pretestuosità»353. Ecco come si sviluppa la tendenza ad includere nella fattispecie del g.m.o. – allargando indirettamente l’oggetto dell’onere
della prova – anche le circostanze che consentono di escludere il carattere fraudolento del licenziamento. La modifica organizzativa, oltre che effettiva, dovrebbe
allora essere necessariamente anche definitiva, stabile o permanente354. Infine, in
relazione a questi elementi negativi, il datore di lavoro non avrebbe altra via
d’uscita che tirare in ballo il motivo imprenditoriale identificato, per lo più, nello
stato di crisi perché è quello che gode, per ovvie ragioni, della maggior persuasività355. In altre parole, egli dovrebbe provare il fatto negativo relativo al carattere non
fraudolento con lo speculare fatto positivo del motivo imprenditoriale che rende
necessaria la scelta organizzativa e, pertanto, a valle, il licenziamento.
Chi si incammina, più o meno inconsapevolmente, su questo iter argomentativo
giunge, infine, ad includere nella fattispecie del g.m.o. lo stesso motivo imprenditoriale ovvero a postulare che il controllo sul g.m.o. non sarebbe conciliabile con
l’insindacabilità dei motivi imprenditoriali356. Il giudice dovrebbe, quindi, cercare
le «ragioni profonde»357 del licenziamento. Si arriva per questa via, a suggerire al
giudice stesso di analizzare i conti e la politica aziendale per saggiare se la prosecuzione del rapporto di lavoro comporti o no una perdita in termini di costiopportunità358.
Tuttavia, come già detto, questi percorsi dottrinali, non corrispondono al diritto
vivente in tema di licenziamenti conseguenti ad una modifica organizzativa359, sicché non ha neppure senso porsi il problema della conformità o meno dell’art. 3, l.
n. 604 del 1966 all’art. 41, 1° c., cost.360 Complessivamente il nostro trend giurisprudenziale converge con quello tedesco; mentre, secondo il prezioso Rapporto
alla Commissione europea elaborata da Ulrich Zachert nel 2004, i sistemi in cui il controllo giudiziale è più incisivo e, come dire, pervasivo rispetto alle prerogative imprenditoriali, sono quelli spagnolo e francese.
Il punto più critico – perché siamo effettivamente in presenza di una lacuna le352
V. infra § 10. Nel senso (scorretto) dell’inversione, Cass. 29.5.1997 n. 4782.
Novella 2004, 800.
354
Cfr. Carinci M.T. 2005, 16-17 che a p. 157-158 mostra di ragionare nei termini
dell’inversione dell’onere della prova non riuscendo, infine, per questo a spiegare il caso
della sostituzione di un lavoratore con un altro richiamando l’art. 39 Cost. aprendosi, così,
alle critiche di Ichino 2005.
355
Cfr. Gragnoli 2006, 51.
356
Così a più riprese Ichino 2002; Id. 2005; «drammatizzazione degli elementi disfunzionali», commenta efficacemente Del Punta 1998, 720.
357
Gragnoli 2006, 104.
358
T. Palermo 10.12.2003, RIDL, 2004, II, 627; Ichino 2002, 478 ss. ed ora anche Gragnoli 2006, 100 ss. pur con qualche distinguo legato alla prospettazione di un sindacato di lealtà.
359
Per un giudizio equilibrato cfr. De Luca Tamajo, Bianchi D’Urso 2006, XV.
360
La questione è sollevata da Ichino 2006a, 363.
353
Luca Nogler
645
gislativa – emerge, infine, nei casi in cui il controllo del nesso di causalità si arresta
ad un’area più o meno ampia di posti equivalenti, non fornendo ulteriori punti di
riferimento per l’individuazione del lavoratore da licenziare361. Un problema destinato ad acuirsi in relazione alle nuove forme di lavoro che rendono più difficile
connettere la soppressione del posto a un singolo lavoratore362.
Sul punto si registra la sempre più diffusa tendenza a far riferimento ai criteri di
scelta previsti per i licenziamenti per riduzione di personale 363. In genere, al fine di
argomentare questa soluzione si esordisce richiamando la clausola di correttezza e
buona fede, ma poiché ciò porta (per diritto vivente ispirato all’art. 1338 c.c.)
all’inappagante risultato del «semplice» risarcimento del danno, si tenta di articolare la giustificazione anche in altre direzioni. Ad esempio, c’è chi osserva che i criteri di scelta «trovano la loro ragion d’essere nella particolare natura della decisione imprenditoriale» comune alle due fattispecie di licenziamento364. Altri fanno,
invece, leva sulla «piena coerenza fra le figure» del licenziamento individuale per
ragioni economiche e di quello collettivo «che ineriscono ad una stessa fattispecie»365. Ma sulla base di tale premesse si dovrebbe, in realtà, concludere nel senso
dell’applicabilità dell’intera disciplina dei licenziamenti collettivi e diventerebbe,
sostanzialmente, arbitrario distinguere tra profili di disciplina estensibili e non. Ciò
a prescindere dall’ulteriore considerazione che i criteri indicati dall’art. 5 hanno un
rilievo solo suppletivo all’interno di un sistema che ammette la loro derogabilità ad
opera dell’accordo collettivo366.
In realtà, essendo le caratteristiche tecnico-professionali «interne» al valore
dell’efficienza organizzativa, la loro adozione risulta tutelata dalla stessa norma sul
g.m.o.367. Si può al più pensare ad un controllo di liceità nell’applicazione dei criteri stessi. La soluzione proposta trova, tra l’altro, conforto nella giurisprudenza, oramai consolidata, che, con riferimento principalmente all’istituto del licenziamento collettivo, ritiene valide le clausole dei contratti collettivi che assumano come
unico o, comunque, prevalente criterio quello delle esigenze tecnico-organizzative368.
Se si prescinde dalle ragioni illecite, l’ulteriore scelta che dovesse residuare al
361
Sul punto cfr. Stolfa 2003, 124 ss.; Gragnoli 2006, 195 ss.
Scarpelli 1994, 50 ss.; Del Punta 1998, 717 ss.
363
Art. 5 della l. n. 223 del 1991; Cass. 11.6.2004 n. 11124; Cass 21.12.2001 n. 16144;
Cass. 21.11.2001 n. 14663.
364
Così Carabelli 1994, 265; in senso analogo, Del Punta 1993, 382.
365
Gragnoli 2006, 216.
366
In dottrina contra la possibilità di applicare in via analogica i criteri di scelta di cui
all’art. 5 stesso, Brun 2002, 144
367
L’estraneità sostenuta da Carinci M.T. 2005, 145 vale solo per i criteri «sociali».
368
Cass. 19.5.2005 n. 10590 ed in relazione all’individuale Cass. 9.5.2002 n. 6667; ma
le esigenze tecnico-organizzative «più che un criterio, finiscono con l’essere un prius rispetto all’applicazione dei criteri sociali»: cfr. Natullo 2004 e poi soprattutto Focareta 1992b.
362
646
datore di lavoro deve essere, infine, su richiesta del lavoratore, motivata (art. 2, l.
n. 604 del 1966) e, quindi, sindacata sebbene solo e sempre dal punto di vista della
non pretestuosità e dell’eventuale lesione di un divieto legale369.
7.3 In analogia con quanto avviene nei sistemi francese e tedesco370, il diritto
vivente prevede che le evenienze oggettive richiamate dall’art. 3, l. n. 604 del 1966
possano essere considerate valide ragioni di licenziamento solo se sono tali da precludere effettivamente all’imprenditore – all’interno del nuovo assetto organizzativo da lui concretamente predisposto – di adempiere all’obbligo di utilizzare altrimenti la professionalità del prestatore di lavoro371 convenuta nel contratto (regola
definita con terminologia infelice, ma fortunata, del repêchage)372.
A partire da Cass., S.U., n. 7755/1998 questa regola riguarda anche le ipotesi in
cui il licenziamento dipende «da cause che incidono autonomamente sulla identità
della prestazione» e non origina da una scelta organizzativa del datore di lavoro.
Nell’affermare questa soluzione le S.U. si mantengono sostanzialmente nell’alveo
dogmatico tradizionale finché fanno leva sull’obbligo – e non semplicemente
sull’onere373 – di cooperazione del datore di lavoro pur riformulato nei termini di
un vincolo di «utilizzare appieno le capacità lavorative del dipendente»374. Le criticità si presentano su altri percorsi argomentativi, come l’ulteriore obbligo, ipotizzato dalla sentenza ora considerata, di non «rifiutare l’attività alternativa offerta» dal
lavoratore divenuto inabile375. Tornerò funditus sul punto. Per il momento limitiamoci a prendere ulteriormente atto che le S.U. chiudono il ragionamento specificando che il ripescaggio si esercita nei soli «limiti dell’art. 2103 c.c.» e, quindi,
369
V. retro, § 3.2 e in linea teorica Giugni 1963, 323. Di qui la legittimità dell’effettiva
adozione del criterio della prossimità al pensionamento: v. Cass. 15.6.2007 n. 13989, GL
2007/38, 33.
370
Per il sistema tedesco v. ancora Gamillscheg 1989, 59; per quello francese, Conseil
Constitutionnel 13.1.2005, n. 509, cit. in cui si afferma, se non erro per la prima volta, che il
diritto del lavoratore al reclassement (il nostro diritto al repêchage «rafforzato» però dal dovere alla riqualificazione del lavoratore che spetta nell’ordinamento francese al datore di
lavoro) deriva direttamente dal principio costituzionale del diritto ad ottenere un impiego.
371
Cass. 14.7.2005 n. 14815; Giugni 1953, 246; Trioni 1967, 124; Persiani 1971a, 688;
Mancini 1972, 259; Liso 1982, 80.
372
Nell’ottica del regolamento contrattuale, l’oggetto del contratto s’identifica in funzione dell’equivalenza delle mansioni, cfr. Napoli 1995, 1122 cui aderisce Marazza 2002,
301; per la valorizzazione del contenuto professionale quale limite all’obbligo di ripescaggio, v. Cass. 20.11.2001 n. 14592; Trib. Milano 25.11.2002, NGL, 2002, 344.
373
V. retro, § 4.
374
Così anche Cass. 20.11.2001 n. 14592, cit. a nt. 372; Cass. 6.3.2007 n. 5112 che si
richiama però poco convincentemente all’art. 2087 c.c. Infine, sulla premessa secondo cui
«nella varia gamma di compiti riconducibili alla prestazione convenuta, possono rientrare,
indirettamente vari ed alternativi tipi di organizzazione del lavoro» v. Giugni 1963, 325.
375
Poi anche Cass. 15.11.2002 n. 16141; Cass. 19.1.2002 n. 572; contra Scognamiglio
2005a, 443.
Luca Nogler
647
condivisibilmente, degli obblighi contrattuali. Sicché, se al lavoratore è stato, ad
esempio, sospeso il tesserino necessario per accedere all’area aeroportuale, il licenziamento risulta precluso unicamente se il regolamento contrattuale prevedeva anche la possibilità dell’utilizzabilità in mansioni che prescindessero dal possesso del
tesserino stesso376. È al contrario sicuramente escluso l’obbligo del datore di lavoro
di dotarsi di nuove tecnologie così come quello di modificare le modalità di esecuzione dell’attività lavorativa377.
Non convince, invece, il tentativo delle sezioni unite, indirettamente ribadito da
Cass., S.U., n. 25033/2006, di estendere l’ambito del ripescaggio anche al di fuori
della mansioni «contrattuali» ed, in particolare, a quelle inferiori. A tal fine non
risulta, infatti, sufficiente richiamare, genericamente, l’«adeguamento del contratto»378 e la prevalenza dell’art. 4 cost.379; per poi rafforzare il tutto, da un lato, con
l’argomento empirico delle «notorie difficoltà in cui versa oggi il mercato del lavoro» e, dall’altro, con quello tecnico-giuridico della funzione integrativa (art. 1374
c.c.) del principio di buona fede (art. 1375 c.c.)380.
Ex post è agevole richiamare una serie di innovazioni legislative che sembrano
aver risolto il problema in radice: il già citato art. 4, 4° c., l. n. 68 del 1999 che rende il licenziamento invalido nell’ipotesi in cui i lavoratori divenuti inabili alle proprie mansioni «possono essere adibiti a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza,
a mansioni inferiori». È il caso, in secondo luogo, della previsione contenuta
nell’art. 10, 3° c., l. n. 68 del 1999 che, in caso di aggravamento della condizione
di salute del disabile, ne prevede il reinserimento «anche attuando i possibili adattamenti all’organizzazione del lavoro»381. Infine, viene in considerazione l’art. 4, c.
5°, lett. c) che obbliga il datore di lavoro, «nell’affidare i compiti ai lavoratori», a
tener conto «delle capacità e delle condizioni» degli stessi «in rapporto alla loro
salute e alla sicurezza».
Se si prescinde dalle rammentate ipotesi legislative di deroga al modo in cui
376
Contra Cass. 24.1.2005 n. 1378 che accolla, inoltre, tutto l’onere della prova a carico
del datore di lavoro.
377
Cass. 9.4.2003 n. 5532.
378
Di adeguamento alle sopravvenute esigenze dei contraenti parlano anche Cass.
5.8.2000 n. 10339 e Cass. 8.3.2007 n. 5288. La sentenza citata nel testo è Cass., S.U.,
24.11.2006 n. 25033, RGL, 2007, II, 193 ss., a cui ha fatto seguito Cass. 8.3.2007 n. 5285.
379
Efficacia immediata della norma costituzionale riaffermata da Vidiri 2002, 214.
380
Infine, la Corte cost., richiamandosi all’art. 41 Cost., e quindi, ancora una volta, scivolando nell’applicazione immediata dei principi costituzionali, sebbene bilanciati tra loro, limita
le possibilità di offerta alternativa del lavoratore inabile nel senso che l’adibizione a tale posto
non dovrà comportare «aggravi organizzativi ed in particolare il trasferimento di singoli colleghi dell’invalido» stesso; successivamente le formule variano, v. Cass. 19.1.2002 n. 572 (buon
andamento dell’impresa); Cass. 30.3.2006 n. 7536 (assenza di aggravio creditorio).
381
Cfr. Cester 2004, 581 secondo il quale entrambe le possibilità valgono sia per
l’ipotesi della sopraggiunta inabilità che per il lavoratore disabile con condizioni aggravate
di salute.
648
l’art. 2103 c.c. configura l’obbligo di cooperazione del datore di lavoro, resta comunque fermo che il datore di lavoro non è de iure condito obbligato ad offrire al
lavoratore un posto di lavoro che corrisponda a mansioni inferiori e ciò indipendentemente dalle opportunità offerte dall’organizzazione concretamente realizzata382. Le parti individuali ben possono, tuttavia, accordarsi spontaneamente nel senso dell’adibizione a mansioni inferiori al fine di evitare il licenziamento. A ciò non
è d’ostacolo l’art. 2113 c.c. che non regola quest’ipotesi383. Al riguardo, quindi,
non è neanche necessario sollevare il problema dell’applicazione analogica dell’art.
4, c. 11, della l. n. 223 del 1991384.
Tornando ai profili generali della regola del ripescaggio, la diffusa tendenza
dottrinale a presentare il rispetto di quest’ultima come ragione ostativa della rilevanza di una situazione che sarebbe, altrimenti, ex se perfettamente in grado di legittimare il licenziamento è, a ben vedere, impropria. Il discorso deve, infatti, essere invertito: la possibilità di continuare ad occupare il lavoratore non consente neppure di prospettare la riconducibilità delle ragioni d’un eventuale licenziamento
alle evenienze richiamate dall’art. 3, l. n. 604 del 1966. Insomma, siamo in presenza di un limite esterno385, imposto dall’art. 3 stesso, ma distinto dalla sussistenza
della modifica organizzativa che porta alla soppressione del posto di lavoro386. Né
serve, almeno a tal fine, riformulare la teoria dell’oggetto del contratto di lavoro
individuandolo nella collaborazione richiamata dall’art. 2094 c.c.387, sebbene si
debba riconoscere che questa teoria colga il trend civilistico più generale, per il
quale «l’obbligazione pone fra le parti un certo “programma”: il creditore ha interesse e diritto allo svolgimento di questo programma»388.
In un sistema ispirato e vivificato dai «principi» costituzionali il problema posto dall’art. 3, l. n. 604 del 1966 non è (più) quello di stabilire se la ratio iniziale
includesse o meno la prospettazione del licenziamento come rimedio estremo389,
oppure se la risposta affermativa a questo dubbio rappresenti o no un’interpretazione praeter legem390. Il vero quesito è se la regola di diritto vivente sia o meno
382
Del Punta 1998, 712; Papaleoni 1998b; Stolfa 2003, 113 ss.; Brun 2002, 154-155.
Contra Cass. 28.9.2006 n. 21035, NGL, 2006, 804; Cass. 10.10.2005 n. 19686.
383
Su questa riduzione teleologica dell’ambito di applicazione della norma cfr. già Persiani 1971b, 271 nonché Cass. 9.3.2004 n. 4790.
384
Gragnoli 2006, 221 ss. che conclude in senso positivo.
385
Liso 1982, 72 ss.; Zoli 1988, 158; contra Carinci M.T. 2005, 136.
386
Ciò risulta molto chiaro nell’ipotesi della scadenza dell’appalto che non esonera dal
repêchage, cfr. Cass. 9.6.2005 n. 12136; v. anche Brun 2002, 150, che parla di duplice accezione dell’effettività delle ragioni oggettive.
387
Napoli 1995, 1124-1125; Ferrante 2004, 86; contra Cester 2007, 10 nt. 9.
388
Cannata 1999, 37; cfr. anche Scalisi 2006.
389
Per la risposta negativa, Carinci M.T. 2005, 105 ss. nonché Ichino 2005, 143 che parla di incompatibilità logica.
390
Persiani 2000, 34 con un’evidente palinodia rispetto a Id. 1971a, 688, De Angelis
2001, 123; Ogriseg 2002, 622.
Luca Nogler
649
riconducibile ad un’interpretazione conforme al quadro costituzionale. E il nostro
ordinamento, avallando la soluzione positiva391, non fa altro che allinearsi con altri
sistemi, in alcuni dei quali la materia è ab antiquo disciplinata dalla legge (v. ad
esempio il § 1, 2° c. della Kündigungsschutzgesetz = KSchG).
D’altro canto, il principio dell’extrema ratio ha generato, altrove, regole molto
più incisive di quelle praticate dalla nostra giurisprudenza tra le quali va, in primis,
annoverato l’obbligo di porre in essere tutti gli sforzi di adattamento e formativi.
Obbligo previsto in Francia a livello legislativo ed in Germania dalla giurisprudenza. Il solo richiamo al principio dell’extrema ratio392 non è, per le ragioni esposte
nella prima parte della relazione, sufficiente a fondare siffatto ampliamento
dell’obbligo di ripescaggio. Occorre semmai muoversi in coerenza con la configurazione del contenuto dell’obbligazione principale del lavoratore393.
Effettivamente, nell’epoca in cui l’innovazione tecnologica non si incorpora più
tanto nelle merci quanto, piuttosto, nella mente degli individui394, una parte sempre
più rilevante delle prestazioni lavorative non sarebbe, in realtà, possibile se il lavoratore non s’impegnasse (il più delle volte anche solo tacitamente), al momento
dell’instaurazione del rapporto di lavoro, ad aggiornare continuamente il proprio
modo di prestare l’attività lavorativa (la propria professionalità) in connessione
all’ormai continuo processo innovativo. Orbene sarebbe incongruo addossare tutto
il rischio indotto dall’innovazione in capo al lavoratore, dovendosi al contrario ritenere che in queste ipotesi (e, quindi, non nella generalità dei rapporti di lavoro
subordinato) l’obbligo di cooperazione del datore di lavoro si arricchisce del profilo formativo in connessione, peraltro, ad un ben preciso interesse di quest’ultimo a
far acquisire le nuove conoscenze al lavoratore395. Il tutto si riverbera poi
sull’ambito entro il quale deve operare il ripescaggio. Ma ciò non nel senso della
riconversione che è estranea all’oggetto del contratto396. L’estensione riguarda,
391
Per un inquadramento dell’obbligo nel contesto del bilanciamento tra artt. 41 e 4
Cost. v. Cass. 11.4.2003 n. 5777. Sul collegamento tra l’interpretazione adeguatrice e quella
conforme a Costituzione cfr. da ultimo Esposito 2006, 3424 a cui si rimanda anche per
l’analisi della giurisprudenza costituzionale.
392
Era l’impostazione di Giugni 1969, 103; Mancini 1972, 259; 1975a, 193 a cui aderisce Liso 1982, 90 nt. 28.
393
Garofalo M.G. 2005, 273.
394
Zamagni 1996, 484; molti riferimenti anche in Carabelli 2004.
395
Cfr. ancora Garofalo M.G. 2005, 273. I timori di Carabelli 2004, 73-74 ss. sui riflessi
retributivi appaiono dogmaticamente ingiustificati se si considera che, anche dal lato delle
prestazioni del datore di lavoro, «in presenza di più obbligazioni tipiche o di obbligazioni
accessorie affiancate alle prime, l’equilibrio contrattuale ha di regola carattere globale e non
può quindi ritenersi priva di causa una prestazione sol perché nella previsione dei contraenti
ad essa non corrisponde una precisa controprestazione», v. Cass. 8.11.1997 n. 11003.
396
Anche in Francia si esclude, d’altronde, l’obbligo di assegnare un addetto alle vendite di prodotti informatici al posto di programmatore, oppure di far apprendere perfettamente
la lingua inglese a chi ha conoscenze solo elementari: cfr. Alix 2002.
650
piuttosto, il suddetto aggiornamento (l’adaptation dell’ordinamento francese prevista dall’art.L. 932-2 del code du travail) della professionalità, per così dire, contrattuale397 che, sia detto per inciso, non si vede perché dovrebbe essere aprioristicamente circoscritto a pochi giorni398 dovendosi piuttosto prestare attenzione alle particolarità del caso399.
Una volta prospettata la riconducibilità dell’adaptation formativa all’obbligo di
cooperazione del datore di lavoro, non ha più senso porsi il problema dell’alterazione del profilo causale del contratto400. Il punto più rilevante risiede, invece,
nel suo fondamento pattizio che deve essere individuato in base all’interpretazione
del contratto individuale e, più precisamente, all’esatto contenuto delle prestazioni
a cui le parti sono tenute401, cosicché si può ben dire che il ripescaggio resta circoscritto nei rigorosi limiti del regolamento contrattuale così come liberamente voluto dalle parti402. Lo stesso discorso si può poi riprodurre a livello collettivo. Cass.,
S.U., n. 25033/2006, legittimando le clausole di fungibilità, ha indirettamente allargato l’ambito del ripescaggio estendendolo a tutte le mansioni che rientrano
nell’area della professionalità potenziale.
Chiariti questi punti, resta, in conclusione, da considerare il profilo dell’onere
della prova. In caso di impugnazione del licenziamento, l’impossibilità di adibire il
lavoratore alle mansioni contrattuali costituisce, insieme alla modifica organizzativa, un fatto impeditivo della persistente vigenza del rapporto di lavoro la cui prova
è carico del datore di lavoro. Tradizionalmente, la giurisprudenza richiedeva che il
datore di lavoro provasse, in realtà, i fatti positivi rilevanti e cioè che le posizioni
di lavoro equivalenti erano, al momento del licenziamento, stabilmente occupate e
che relativamente ad esse non erano state effettuate nuove assunzioni. In aderenza
al nuovo trend, propugnato da Cass., S.U., n. 13543/2001, per cui piuttosto che
gravare un soggetto dell’onere di provare il fatto negativo sarebbe più opportuno
spostare sulla controparte l’onere della prova del fatto positivo, anche nella materia
che ci occupa la giurisprudenza accolla al lavoratore l’onere di indicare i posti di
397
Amato 2006, 14; Cass. 7.9.1993 n. 9386; contra Cass. 14.9.1995 n. 9715.
De Angelis 2007, 479 contra Alessi 2004, 142 secondo la quale la formazione deve
sviluppare le potenzialità professionali del lavoratore in coerenza con la concezione dinamica dell’equivalenza.
399
A. Firenze 25.10.2005, RCDL, 2006, 581 esclude il dirigente prossimo alla pensione
dal programma di riconversione professionale
400
Caruso 2007; Amato 2006, 13; Alessi 2004, 140 ss.; Galantino 2006; Guarriello
2000, 222; Napoli 1995 (che qui fornisce una spiegazione alle scelte interpretative in tema
di g.m.o. affermate in Id. 1980, 315-316); contra Garofalo D. 2004, 339 ss. (al quale si rimanda anche per ulteriori riferimenti); Carabelli 2004, 72; 2001, 213 ss.; Balandi 2007.
401
Di qui la necessità di tener conto del contesto aziendale sottolineato da una parte della
dottrina, cfr. Scarpelli 1997, 42; ma già Id. 1994, 55; Del Punta 1998, 718; Amato 2006, 13.
402
Non è il sindacato giudiziale che comprime le scelte datoriali (Novella 2004, 801),
bensì il regolamento contrattuale.
398
Luca Nogler
651
lavoro nei quali potrebbe essere ricollocato a seguito della riorganizzazione403. Un
onere, dunque, di allegazione404 che, peraltro, se teniamo conto della «lontananza»
del lavoratore dalla prova, e cioè del criterio stesso che giustifica l’applicazione,
sebbene attenuata, del principio negativa non sunt probanda, non appare, affatto,
conforme al modo in cui è necessario leggere l’art. 2697 c.c. alla luce del principio
di cui all’art. 24 cost.
8. L’analisi giurisprudenziale ha dimostrato che la g.c. e il g.m. rappresentano
parametri certamente elastici e malleabili, ma, grazie al modo in cui sono enunciati, ed al contesto sistematico (dogmatico) in cui devono essere inseriti, essi non
possono, ed invero non vengono, intesi alla stregua di pure formule procedurali che
rinviano al giudice il bilanciamento in concreto degli interessi contrapposti405.
Malgrado le sempre più ricorrenti denunce sull’incertezza giuridica provocata
dai mutevoli orientamenti giurisprudenziali – segno di una cultura giuridica che
stenta ancora a ragionare, anche dal punto di vista dei vincoli per lo meno argomentativi, nei termini del diritto vivente – concordo con la conclusione positiva a
cui è giunta, da ultimo, Maria Teresa Carinci nel suo studio sul g.m.o.
Il trend della qualificazione delle «causali» di licenziamento come clausole generali – fatto proprio, da ultimo, dall’art. 1 d.d.l. S 1163 – è stato avallato, soprattutto, dalla dottrina processualistica406 ad un fine peraltro diverso dal chiarimento
del significato della g.c. e del g.m.: l’esigenza di ridisegnare l’ambito del giudizio
di legittimità. Uno scopo in relazione al quale è, in realtà, sufficiente il ricorso –
nella nostra ipotesi più appropriato – al concetto di norma elastica407. E tale è, a
ben vedere, anche la qualificazione utilizzata da Cass. n. 3645/1999 che per prima
avallò l’ammissibilità di censure incentrate sul contrasto con i principi cornice e
con la c.d. civiltà del lavoro. In sostanza, si postula l’esistenza di «specificazioni
del parametro normativo», si attribuisce loro una natura giuridica e si conclude nel
senso che possono essere utilizzate come parametro dell’error in iudicando408. Ragionando in tal modo, si parte dall’inconfessato presupposto che le «specificazioni
del parametro normativo» o gli «standards valutativi esistenti nella realtà sociale»409 siano esterni ed indipendenti dalla disposizione legislativa presa in considerazione (art. 2119 c.c.), che assume al più la funzione di rendere possibile un bilan403
Cass. 22.2.2006 n. 3866; Cass. 23.3.2005 n. 6245; aderiscono De Angelis 2001, 130;
Zoppoli L. 2000, 431.
404
Cass. 4.8.2006 n. 13468; Cass. 20.1.2003 n. 777.
405
Molto netti Persiani 1971a, 612; Barbera 1991, 58; Carinci M.T. 2005, 3 ss.; contra,
mi pare, Andreoni 2006b.
406
Cfr. per tutti il pur autorevole Consolo 2006b, 181.
407
Cfr. in tal senso le precisazioni di Marinelli 2005 sul riferimento improprio al significato tecnico delle clausole generali.
408
Cass. 21.11.2000 n. 15004; cfr. anche Casola 2006.
409
Cass. 18.1.1999 n. 434.
652
ciamento giudiziale di principi (costituzionali)410. Ad esempio, nel caso di specie
giudicato da Cass. n. 3645/1999, il giudice di merito, nel valutare legittimo il licenziamento di un impiegato di banca per l’uso di sostanze stupefacenti, aveva dato, secondo la Cassazione, erroneamente la prevalenza all’interesse datoriale
all’espulsione del lavoratore dall’ambiente di lavoro (art. 41 cost.), omettendo di
prendere in considerazione la «specificazione del parametro normativo» costituita
dal rispetto del diritto del lavoratore a reinserirsi nell’ambiente stesso (art. 4 cost.).
Ma allo stesso risultato della censurabilità della sentenza di merito si poteva giungere mantenendosi more solito nell’ambito delle possibilità interpretative del criterio di bilanciamento contenuto nell’art. 2119 c.c.411 e, quindi, rispettivamente: (a)
se si riteneva di dover prender le mosse dal classico richiamo alla fiducia, si poteva
chiarire che quest’ultima riguarda solo i fatti rilevanti ai fini dell’idoneità professionale del lavoratore; (b) se, invece, come dovrebbe essere412, si prescinde dalla
fiducia, si poteva porre la questione dal punto di vista della puntualizzazione interpretativa del notevolissimo413, oppure, secondo un’altra variabile, del solo notevole414, inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore. Il ragionamento avrebbe potuto continuare specificando, da un lato, che il lavorare non ha un obbligo di mantenere nella vita privata una condotta rispondente ad un certo standard di
moralità (tanto meno a quello imposto dal datore di lavoro), e, dall’altro, che obblighi di protezione ulteriori rispetto a quelli regolati dall’art. 2105 c.c. possono
sussistere solo in connessione ad ipotesi particolari di lavoro415.
Vero è che la Cassazione scopre, in realtà, il dato (innegabile alla luce della nota teoria del circolo ermeneutico di Gadamer) che l’interpretazione della legge necessita di essere condotta in connessione alle particolarità del caso concreto416. Sicchè già in sede interpretativa vi è spesso la necessità di entrare nel merito del caso
di specie, peraltro al sol fine di puntualizzare la fattispecie legislativa ovvero di individuare il criterio o la regola di giudizio (per usare il linguaggio della Cassazione: «i canoni generali e astratti»). Ciò determina l’opportunità di ridisegnare
l’ambito del sindacato di legittimità a scapito di quello di incensurabilità del giudi410
Cass. 22.12.2006 n. 27452, GL, 2007/7, 66; nel senso del bilanciamento tra gli artt. 4
e 41 Cost. anche Cass. 2.11.2005 n. 21213; Cass. 4.12.2002 n. 17208.
411
Così mi sembra Cass. 15.11.2001 n. 14229 che identifica la giusta causa con il notevole inadempimento.
412
V. supra, § 6.2.
413
Persiani 1971a, 680; Mazziotti di Celso 1966, 292; Montuschi 1972, 260; Pera 1980,
63; Fergola 1985, 309.
414
Napoli 1980, 107; Ghezzi, Romagnoli 1997, 298.
415
Cfr. sul punto Pisani 2004, 118 ss. che giunge a proiettare gli obblighi di protezione
anche al di fuori dell’orario di lavoro, ma con molte cautele ed attenzione alle particolarità
dei singoli rapporti di lavoro.
416
Cfr. Cass. 15.4.2005 n. 7838: la soluzione del singolo caso partecipa al processo interpretativo «nella misura in cui da essa sia possibile estrarre una puntualizzazione della
norma».
Luca Nogler
653
zio di merito417 che si riferisce alla riconduzione del caso nell’ambito della regola
(astratta) di giudizio. Ma tutto ciò non comporta la necessità di partire sempre dal
presupposto che la norma di riferimento assegni «un notevole ambito di discrezionalità» al giudice418 rimuovendo il vincolo di legge che riguarda, non solo
l’enunciato linguistico della disposizione, ma anche il controllo sistematico imposto dal principio kantiano di universalizzazione («l’esigenza di giustizia, che vuole
trattamento uguale dei casi oggettivamente uguali»), il quale impone che la soluzione valutativa ipotizzata passi al vaglio della dimostrazione della capacità, pur in
presenza della regola considerata, di tenere insieme tutto il complesso sistematico419.
Il senso d’arbitrio, evocato dalle stesse belle formule della «civiltà del lavoro» o
della «coscienza generale», è proprio figlio della manchevole analisi dogmatica
degli ambiti di riferimento dei dati normativi420 che viene avallata con il criticabile
uso troppo disinvolto del concetto di clausola generale.
9. L’analisi che precede induce a ricondurre i licenziamenti per g.c. e per g.m.s.
ad un’unica categoria, che si potrebbe denominare del licenziamento per inadempimento, alla quale la C. Cost. riconnette, in virtù del 2° c. dell’art. 41 cost.,
l’obbligo del legislatore di prevedere una procedura che il datore di lavoro deve
esperire prima dell’adozione del negozio di recesso. La ragione di questa procedura
risiede nel fatto – come ha affermato da ultimo anche Cass., S.U., n. 7880/2007 –
che il presupposto del licenziamento (la sua «causale») tocca la personalità stessa
del lavoratore al quale viene, infatti, imputata l’incapacità di tener fede al regolamento contrattuale.
Questa esigenza viene meno in relazione al licenziamento per ragioni oggettive,
che è a sua volta bipartito a seconda che esso origini da impedimenti fortuiti relativi alla persona del lavoratore oppure direttamente da modifiche organizzative. Dal
punto di vista del lavoratore, non è in gioco la lesione della sua personalità, ma direttamente concrete esigenze esistenziali, legate sia al reddito che alla professionalità, che la Costituzione tutela in via autonoma in virtù degli artt. 4 e 38 cost.
La disamina della giurisprudenza dimostra che attualmente, anche in ragione
della pariordinazione dei valori in gioco421, l’aspettativa di conservazione del rapporto di lavoro deve essere riposta soprattutto nella regola del repêchage, mentre i
presupposti sostanziali del licenziamento per g.m.o. assecondano sostanzialmente
le esigenze organizzative dell’impresa422.
417
Bove 1993, 455.
Cass. 2.11.2005 n. 21213; sulla qualificazione come norma elastica v. anche, tra le
molte, Cass. 13.5.2005 n. 10058.
419
Cfr. Mengoni 1996, 33; Zaccaria 1995.
420
Mengoni 1993a, 53.
421
V. retro, § 2.
422
Eccessive dunque le aspettative nutrite da Alleva 2006 in tema di causalità.
418
654
In relazione agli impedimenti che riguardano la persona del lavoratore, l’analisi
precedente evidenzia l’esigenza di razionalizzare la legislazione intervenuta successivamente alla l. n. 604 del 1966 (ad esempio, l’art. 102 bis disp. att. c.p.p. e la
l. n. 68 del 1999), spesso frammentaria e difficile da ricomporre dal punto di vista
sistematico. Inoltre, emerge una chiara esigenza di certezza in ordine alla distinzione tra impedimenti temporanei e definitivi.
Per quanto attiene ai licenziamenti dettati da modifiche organizzative, la possibilità di fruire effettivamente di più ampi «strumenti e provvidenze alternative»423
appare in gran parte legata alla prospettiva dell’unificazione dei licenziamenti economici. La rilevanza dei requisiti sostanziali del licenziamento collettivo, ed i suoi
rapporti con il g.m.o., sarà oggetto della relazione di Maurizio Ricci. Possiamo però fin d’ora affermare che la cosiddetta causalità del licenziamento individuale per
g.m.o. tutela da comportamenti non veritieri o, addirittura fraudolenti, ma non rappresenta un ostacolo particolarmente gravoso per un datore di lavoro che intenda
procedere alla cessazione del rapporto di lavoro al fine di adeguare effettivamente
la propria struttura organizzativa alle esigenze di mercato. Come già detto, la tutela
del lavoratore si concentra – nei limiti contrattuali – sulla regola del repêchage che,
al contrario di quanto afferma una parte della dottrina, andrebbe rinvigorito delineando in modo più chiaro la sua ormai ineludibile «proiezione» formativa.
Sul lato imprenditoriale primeggia l’interesse a minimizzare la conflittualità sui
presupposti sostanziali, come è avvenuto per i licenziamenti collettivi424 dove il
filtro collettivo scoraggia ab imis il comportamento non veritiero o, addirittura,
fraudolento. I lavoratori – più che a tenere in vita rapporti di lavoro improduttivi –
ambiscono ad usufruire di reali sostegni finanziari e professionali che consentano
loro di ridurre l’impatto destabilizzante sul proprio sostrato esistenziale del provvedimento espulsivo.
D’altronde, se guardiamo al nostro sistema dall’esterno emerge immediatamente che una delle sue più vistose anomalie è rappresentata dalla dicotomizzazione
dei licenziamenti economici in individuali e collettivi425. La stessa differenza con i
sistemi a più bassa litigiosità non consiste nella tecnica della formulazione generale
dei presupposti del potere di licenziamento, bensì nell’adozione di filtri preventivi
di carattere amministrativo o collettivo che riducono effettivamente la conflittualità, come dimostrano i dati francesi426. Nel citatissimo studio dell’Ocse del 1999,
sono i Paesi Bassi a svettare nella classifica degli oneri procedurali con l’indice 5,5
contro l’1,5 dell’Italia, il 2,5 della Francia ed il 3,5 della Germania. Ma il dato asettico della «tabellina» non ci dice che la regola olandese secondo cui il recesso or423
Alleva 2006, 86.
Suppiej 2002, 15; Id. 2003, 408. Per una valutazione critica, Alleva 2006.
425
Liso 1994, 146; Di Stasi 2005, 569.
426
In Francia, ad esempio, dove il filtro preventivo è presente, in misura più o meno accentuata, per la quasi totalità dei licenziamenti, emerge un tasso molto basso di ricorsi per
licenziamento economico (appena il 3% del totale delle controversie): cfr. l’Annuaire statistique de la justice, anno 1998.
424
Luca Nogler
655
dinario è ancor oggi condizionato all’adozione di una preventiva autorizzazione da
parte del direttore dell’ufficio regionale del lavoro svolge, in realtà, il virtuoso ruolo di certificazione della correttezza giuridica del licenziamento particolarmente
apprezzata dalle piccole imprese. E l’autorizzazione amministrativa, pur non essendo formalmente vincolante nei confronti del giudice, esprime su quest’ultimo
una notevolissima forza persuasiva427.
Da noi l’unico filtro praticabile appare quello sindacale, così come le novità più
promettenti giungono sempre più spesso dai vincoli esterni. Alludo alla direttiva
2002/14/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 marzo 2002428. L’art.
4, 3° c., lett. c) d. lgs. 6.2.2007, n. 25 afferma che l’informazione e la consultazione
– le cui modalità saranno stabilite dai contratti collettivi conclusi dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale – riguardano «le decisioni dell’impresa che siano suscettibili di comportare rilevanti cambiamenti dell’organizzazione del lavoro, dei contratti di lavoro, anche
nelle ipotesi di cui art. 7, c.1» (si tratta di un errore materiale perché il riferimento
esatto è all’art. 8, c.1 che richiama il trasferimento d’azienda ed il licenziamento
collettivo). La formulazione prescelta dal legislatore include senz’altro nell’oggetto
dell’informazione e consultazione anche i licenziamenti individuali per modifiche
organizzative. Una conclusione che non è contraddetta dal richiamo esplicito del
solo licenziamento collettivo che è dettato da una semplice esigenza di coordinamento resa necessaria dal fatto che i licenziamenti collettivi stessi sono notoriamente, oggetto di autonome direttive comunitarie.
III. L’ART. 18 ST. LAV. E L’AZIONE D’IMPUGNAZIONE DEL LICENZIAMENTO
10. La disciplina di cui all’art. 18 st. lav. si iscrive interamente, sebbene, come
si vedrà, con notevoli profili di specialità, nell’ottica della responsabilità
contrattuale. Ritengo che quest’ultima sia incumulabile, per regime speciale, con
quella extracontrattuale anche in considerazione del fatto che gli stessi danni
contrattuali possono essere di natura personale429. Come osservò già Barassi: «se
contratto vi fu è questo che obbliga alla correttezza di contegno tra le parti, durante
427
Jacobs 2003, 329. D’altra parte, lo sviluppo economico del paese è tale da garantire
in tempi abbastanza rapidi una nuova occupazione, così come, non essendo il welfare sbilanciato sui trattamenti di vecchiaia ai lavoratori, vengono garantiti adeguati ammortizzatori
sociali.
428
Che si applica alle imprese che impiegano almeno 50 lavoratori.
429
Si supera così la vetusta figura del licenziamento ingiurioso (v. ad es., Mengoni
1958, 237-238 e, quindi, C. Cost. n. 172/1996 cit. alla nt. 96). Infatti, quando si afferma che
quest’ultimo consiste nella lesione dell’onore si richiama un’evenienza che può essere
senz’altro protetta all’interno della logica contrattuale. Né il licenziamento è mai in grado
produrre un danno in senso proprio morale.
656
il lavoro e riguardo al licenziamento»430. Invero, nella stragrande maggioranza dei
casi il riconoscimento del concorso di azioni è solo strumentale all’obiettivo di
spogliarsi impropriamente del problema d’inquadrare la natura della responsabilità431 e, quindi, le causae petendi dell’azione esperita.
È noto che D’Antona scomponeva la generica azione di impugnazione del licenziamento con richiesta di applicazione dell’art. 18 st. lav. in due azioni: rispettivamente, quella di inadempimento, a carattere speciale (perché l’art. 18 riconnette
al contratto in virtù dell’art. 1374 obblighi diversi da quelli che esso produce staticamente432) e quella di manutenzione del rapporto. La prima azione tenderebbe
contemporaneamente: a) all’accertamento negativo dell’illegittimità del licenziamento; b) all’accertamento positivo della continuità del rapporto; c) alla condanna
– di tipo restitutorio piuttosto che risarcitorio – al pagamento di un’indennità commisurata alle retribuzioni globali di fatto non percepite per effetto del licenziamento. L’azione di manutenzione del rapporto avrebbe la funzione di condurre, invece,
a) alla condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro, di natura inibitoria e b) alla
condanna in futuro al pagamento di un’indennità commisurata alle retribuzioni
globali di fatto fino alla reintegrazione effettiva. In questa visione l’ordine di reintegra ha natura prettamente inibitoria (di rimedio puro) con natura costitutivo433 –
determinativo434.
Della ricostruzione di D’Antona resta valida, anzitutto, l’idoneità riconosciuta
al dictum giudiziale di produrre la piena demolizione degli effetti estintivi del licenziamento già affermata da Cass., S.U., n. 2645/1986 e C. Cost., n. 7/1989 e, poi,
pienamente confermata dal nuovo testo dell’art. 18 st. lav., tra l’altro, laddove prevede la condanna (accessoria rispetto a quella al risarcimento del danno) del datore
di lavoro al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del
licenziamento al momento dell’effettiva reintegra. L’affermazione del pieno ripristino ex tunc della continuità del rapporto di lavoro con la negazione della temporanea estinzione del rapporto stesso435 comporta «l’avvicinamento tra il licenziamento ingiustificato e i licenziamenti nulli» data anche anche la natura relativa del430
Barassi 1936, 399 nt. 22.
Visintini 2006, 74. Per le ragioni contrarie al concorso d’azioni si consentito, per non
appesantire la nota, rinviare a Nogler 2006, 76 ss.
432
D’Antona 1994, 5.
433
Perché trasforma in obbligo quel che nel contratto è il potere creditorio del datore di
lavoro.
434
Perché limita la trasformazione del potere in obbligo a quanto è strettamente necessario perché la sequenza del licenziamento si ripeta a ritroso. Sul punto è d’obbligo il rinvio a
Montesano 1985.
435
Tra le molte, v. Cass. 18.5.2005 n. 10394; Cass. 5.7.2003 n. 10628. Lo stesso presupposto è alla base di Cass., S.U., 5.7.2007 n. 15143, MGL 2007, 732 che – sebbene in relazione al testo originario dell’art. 18 st. lav. – afferma la necessità di calcolare i contributi
previdenziali in relazione al normale livello retributivo e non all’importo del danno liquidato
in applicazione dei criteri di risarcimento fissati dalla legge.
431
Luca Nogler
657
la nullità del licenziamento discriminatorio e di quello «inefficace» ai sensi del 3°
c. dell’art. 2, l. n. 604 del 1966436. D’altronde, se fossimo effettivamente in presenza di un licenziamento temporaneamente efficace fino alla sentenza costitutiva,
come si giustificherebbe la commisurazione, sebbene solo presuntiva, del risarcimento del danno alle retribuzioni perdute437 così come, più in generale, la reductio
ad unitatem delle tre ipotesi di illegittimità operata dal 4° c. dell’art. 18 st. lav.?
Ma si tratta solo di alcuni degli indici – ai quali se ne potrebbero aggiungere altri,
quali, ad esempio, la riconosciuta rilevanza disciplinare dei comportamenti posti in
essere medio tempore dal lavoratore438 – che portano ad intravedere l’oggetto del
giudicato, non più nel Gestaltungsrecht del datore di lavoro a risolvere il rapporto di
lavoro oppure nel diritto potestativo del lavoratore di chiedere l’annullamento
dell’atto di licenziamento, ma direttamente nel rapporto di lavoro: la sentenza, accogliendo l’impugnazione del licenziamento, accerta l’esistenza del rapporto di lavoro439 (come se si trattasse sostanzialmente della dichiarazione della nullità del licenziamento). E questo orientamento – ispirato dal carattere non solo inderogabile ma
(nell’area della tutela reale) imperativo della normativa sui licenziamenti individuali
– è conforme all’inquadramento del potere di licenziamento come potere modificativo sostanziale440 che si sottrae, in quanto tale, al giudizio di validità essendone, invece, sindacabile l’efficacia-inefficacia ovvero la sussistenza o meno del potere.
V’è poi, a confermare il nuovo modo d’inquadrare l’oggetto del giudicato, anche l’art. 5, l. n. 604 del 1966 che, lungi dal provocare un’inversione dell’onere
della prova, in perfetta corrispondenza all’art. 2697 c.c.441 riferisce l’onere della
436
L’«inefficacia» di cui all’art. 2, c. 3, l. n. 604 del 1966 è, ormai, comunemente declinata nel senso della nullità con conseguente risarcimento del danno, che viene quantificato
sulla base delle retribuzioni perse alle quali si può, tra l’altro, decurtare l’aliunde perceptum:
C. Cost. 23.11.1994 n. 398 (rel. Santosuosso) e C. Cost. 23.4.1998 n. 143 (rel. Santosuosso);
sul risarcimento v. Cass. 8.6.2005 n. 11946; Cass. 28.11.2001 n. 15065. In relazione alle
varie ipotesi elencate nel testo Mazziotti 2005, 652 preferisce utilizzare la categoria unitaria
degli atti inefficaci.
437
V. infatti Scognamiglio 1990, 121.
438
Cass. 4.6.2004 n. 10663 e meglio argomentata Cass. 4.4.1997 n. 2949. Ulteriori indici, di carattere letterale, vengono argomenti da Oriani 2003, 162 ss. Non è qui possibile, per
ragioni di spazio, soffermarsi sulle evoluzioni subite dal regime delle nullità che pure meriterebbero di essere illustrate. Si pensi, per limitarci ad un esempio, all’art. 2379 c.c. che contempla un vero e proprio termine di decadenza di tre anni.
439
Cfr. Consolo 1991, 579; ma v. anche Proto Pisani 1991, 30-31. Scioglierei il dubbio
posto da Buoncristiani 2003, nel senso che il giudizio è riferito al momento del licenziamento.
440
V. retro, § 5.
441
Già Pera affermava che il suo contenuto corrispondeva a quello che si può desumere
dall’art. 2697 c.c. perchè «ogni volta che l’esercizio del potere è condizionato alla sussistenza di una giustificazione, grava su chi pretende di esercitarlo di dare la prova della situazione giustificante», v. Pera 1982, 19 sulla scorta di Centofanti 1977. Questa affermazione, a
differenza di quanto ritiene Vallebona (2006c, 34; Id. 1988, 62), non è, peraltro, compatibile
con l’assunto secondo cui l’oggetto del giudizio consiste nell’annullamento del licenziamen-
658
prova, non all’assenza della g.c. o del g.m. ovvero al vizio dell’atto che sarebbe al
centro del giudizio d’annullamento, ma in positivo alla loro sussistenza.
Dunque, l’azione basata sull’art. 18 st. lav. tende, anzitutto, alla pronuncia dichiarativa (e non costitutiva) della persistente vigenza del rapporto di lavoro e cioè,
per quel che qui interessa, degli obblighi contrattuali originari al pagamento della
retribuzione ed a far lavorare il lavoratore. Ne viene che i fatti costitutivi
dell’azione d’impugnativa del licenziamento che il lavoratore deve provare sono
rappresentati dal contratto di lavoro e dall’evenienza che ha interrotto la funzionalità del rapporto (il licenziamento, quand’anche orale)442; viceversa spetta al datore
di lavoro provare l’efficacia dell’atto di recesso ovvero la sussistenza di tutti i suoi
presupposti, formali, sostanziali (g.c. o g. m.) oppure l’esistenza di altre cause di
estinzione (ad esempio: dimissioni).
Cass. S.U., n. 141/2006 sostiene che anche i limiti dimensionali, inferiori a
quelli indicati dall’art. 18, costituiscono fatti impeditivi del diritto soggettivo dedotto in giudizio e devono essere, perciò, provati dal datore di lavoro. Essa fa leva,
da un lato, sull’affermazione – ripresa da Proto Pisani443 – secondo cui è speciale la
disciplina di cui all’art. 8, l. n. 604 del 1966, e non quella di cui all’art. 18 st. lav.,
dal momento che l’ordine di reintegra è inquadrabile come condanna all’adempimento dell’obbligo originario del datore di lavoro. Qui peraltro la sentenza confonde la continuità del rapporto con quella della prestazione intesa come adibizione
concreta alle mansioni444. Conta la prima445 e non la seconda che dovrebbe essere
connaturata al rapporto stesso446. Dall’altro lato, e questo è l’argomento in realtà
decisivo, la sentenza delle S.U. si richiama all’art. 24 cost., che connette al diritto
di azione in giudizio il divieto di interpretare la legge in modo da renderne impossibile, o troppo difficile, l’esercizio447 imponendo così al giudice di privilegiare
l’interpretazione che accolla l’onere della prova dei requisiti dimensionali al datore
di lavoro anziché al lavoratore-attore in giudizio in quanto quest’ultimo è privo
della disponibilità dei fatti idonei a provare il numero dei lavoratori occupati
nell’impresa448.
to: in quest’ultima ipotesi la giustificazione non sarebbe inquadrabile quale fatto impeditivo,
essendo piuttosto l’assenza della stessa ad offrire la prova del vizio denunciato: cfr. ancora
Consolo 1991, 579.
442
Proto Pisani 1991, 32; Mazziotti 2005, 653.
443
Proto Pisani 1991, 34.
444
Sulla necessità della distinzione, decisiva ai fini dell’evoluzione della disciplina limitativa, cfr. Natoli 1951, 116; Mengoni 1958, 270; Mancini 1962, 234; Id. 1972, 300; Persiani 1971a, 607.
445
Che Vallebona 2006a, 450 esprime nei termini del regime di diritto comune delle invalidità quando in realtà in relazione al g.m.s. e alla g.c. è necessario far riferimento alla risoluzione per inadempimento.
446
Come visto retro, § 4.1.
447
C. Cost. 21.4.2000 n. 114 (rel. Marini).
448
Cass. 17.5.2002 n. 7227; Cass. 24.1.2007 n. 1579, NGL 2007, 335 che per altro ver-
Luca Nogler
659
Accanto ai profili di accertamento, l’art. 18 st. lav. contempla poi i provvedimenti di condanna alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro (1° c.) ed
al risarcimento del danno (4° c.), che richiedono di essere esaminati separatamente.
11. Secondo una recente prospettazione, che si pone esplicitamente nella solida
scia di Consolo, al datore di lavoro verrebbe intimato di adeguare la realtà fattuale
alla realtà giuridica del contratto, accertata nella sentenza, non solo con la condanna alla riparazione del danno, ma anche con l’ordine di reintegra (di ripristino del
rapporto)449. In questa visione la pronuncia dell’ordine di reintegra non ha più, come affermava D’Antona (e con lui buona parte della dottrina giuslavoristica450),
natura inibitoria, ma rappresenterebbe una pronuncia (conseguente all’accertamento dell’inefficacia dell’atto) restitutoria. Essa riguarderebbe l’obbligo derivato
e coercibile di fare (o di pati) di riammettere il lavoratore in azienda che si distingue da altri obblighi che sono presenti anche nella fase fisiologica dello svolgimento del rapporto e che sarebbero – tornerò sul punto più avanti – per lo più insuscettibili di esecuzione forzata ai sensi dell’artt. 612 ss. c.c. e, pertanto, bisognosi di
mezzi di coazione indiretta.
La costruzione è suggestivamente pensata in un’ottica d’incastro geometrico
con la questione dell’esecuzione in forma specifica tradizionalmente impostata in
virtù di una sottile scomposizione dell’obbligo di cooperazione del datore di lavoro451. Tuttavia – specie alla luce della teoria della priorità dell’adempimento tanto
acutamente argomentata dalla Pagni – si pone l’interrogativo se l’adeguamento della realtà fattuale alla realtà giuridica del contratto non riguardi, per caso, anche
l’obbligo di far lavorare. E ciò specialmente alla luce del fatto che la distinzione tra
la fase in cui il lavoratore si presenta in servizio e quella dedicata allo svolgimento
della prestazione di lavoro ruota tutta intorno al luogo fisicistico del posto di lavoro
ed al «falso problema» della partecipazione alle assemblee sindacali452. Si rammenti, infine, che la logica sottesa al distinguo tra accesso e svolgimento, riferibile al
lavoro industriale453, diede la stura alla criticabile teoria secondo cui il lavoratore
non sarebbe obbligato a svolgere una determinata attività, bensì semplicemente a
so riproduce l’errore delle S.U. di non distinguere la continuità del rapporto da quella della
prestazione.
449
Cfr. Pagni 2004, 85 ss.
450
Napoli 1993, 71; Taruffo 1996, 3, De Angelis 2001, 136; Speziale 2004, 106.
451
Speziale 2004, 97-98; T. Latina 5.12.1997, RGL, II, 1999, 63 e Trib. Milano
28.7.2004, OGL, 2004, 621.
452
Il giudizio è di Cerreta 2004, 76-77 il quale osserva che nessun datore di lavoro si
esporrebbe così microscopicamente al ricorso per la condotta antisindacale.
453
Al distinguo si collegano, invero, anche le note teorie scissionistiche le quali portarono a distinguere la zona del contratto e quella dell’incorporazione nell’organizzazione,
teorie che riecheggiano ancor oggi in alcune ricostruzioni dell’art. 18 st. lav.: cfr. Dell’Olio
1979, 547.
660
mettersi a disposizione per lo svolgimento dell’attività stessa, ovvero ad immettersi
nell’entità materiale dove si svolge la prestazione di lavoro, per lo svolgimento
dell’attività stessa (teoria espressa, ben inteso, al fine principale di affermare che
una volta accertata la detta disponibilità scattava l’obbligo corrispettivo della retribuzione)454.
In realtà, l’inquadramento contrattuale del potere di licenziamento, e la prospettazione positiva del diritto a lavorare in capo a qualsiasi titolare di un contratto di
lavoro subordinato455, consentono, da un lato, di superare la presunta irriducibilità
dell’art. 18 st. lav. ai rimedi relativi alle disfunzionalità del rapporto contrattuale456
e, dall’altro lato, di attribuire una portata normativa (di diritto comune) all’ordine
di reintegrazione, distinto dall’accertamento della sussistenza del rapporto di lavoro457. Con l’unica precisazione che lo stesso art. 18 riconnette al contratto, in virtù
dell’art. 1374 c.c. – riprendendo così (se non i contenuti sostanziali) la soluzione
tecnica di fondo prospettata da D’Antona –, la particolarità del 5° c. ovvero il diritto alla monetizzazione della reintegra.
A questo punto lo sviluppo del tema può essere così articolato: a) le considerazioni riportate nella prima parte della relazione segnalano che è maturo il tempo di
riconoscere che l’ordine di reintegra rimanda ad una preesistente posizione di diritto sostanziale458; b) questa (autonoma) posizione di diritto sostanziale si deve giuridicamente realizzare interamente nel rapporto obbligatorio complesso di durata
che lega il lavoratore al datore di lavoro senza necessità di ricorrere al diritto dei
beni (e, quindi, ad una logica di status) essendo sufficiente riconoscere la centralità
che il codice civile assegna alla tutela in forma specifica; tra l’altro, al contrario di
quanto adombrato dalla stessa Cass., S.U., n. 141/2006, è ormai superata la semplicistica459 contrapposizione tra tutela in pristino delle situazioni a contenuto reale e
tutela risarcitoria dei diritti obbligatori; c) essendo il diritto a lavorare espressione
del bilanciamento legislativo tra, da un lato, la libertà d’iniziativa economica e,
dall’altro, un diritto fondamentale del lavoratore, la sua lesione può determinare – e
non quindi: determina senz’altro – danni personali risarcibili.
Ora, se si accetta la premessa sostanziale fin qui argomentata, il datore di lavoro che non adibisce il lavoratore alle mansioni a cui quest’ultimo ha diritto, incorre
in una situazione di ritardo nell’adempimento la cui rilevanza – a secondo che si
accetti o meno la distinzione tra ritardo imputabile e mora debendi460 – prescinde
454
De Angelis 1973, 81 ss. e Cattaneo 1964, 83 ss. Sui limiti insiti in questa premessa
cfr. Napoli 1980, 30 nt. 44.
455
V. retro, § 4.1.
456
Affermata, invece, da D’Antona 1979, 64, 67.
457
Contra Dell’Olio 1988, 16 su cui criticamente Pedrazzoli 1988.
458
Chiarloni 1989, 62. V. retro, § 4.
459
Perché il c.c. presenta in realtà «una profonda antinomia»: Proto Pisani 1983, 130 ed
ora Id. 2004, 40.
460
Rilevante, soprattutto, ai fini della possibilità di chiedere i danni per il ritardo: cfr.
Visintini 2006, 498.
Luca Nogler
661
dalla più qualificata situazione della mora debendi461 oppure, invece, incorrere automaticamente in quest’ultima situazione senza necessità, per disposizione legislativa speciale, dell’intimazione alla controparte. Il datore è in ritardo nella prestazione durevole di far lavorare il lavoratore a cui si è impegnato concludendo il contratto ed il suo ritardo, che sarebbe inconcepibile se lo sguardo fosse rivolto al passato462, incombe sulla proiezione futura del rapporto463.
L’ordine di reintegrazione e, quindi, la tutela in forma specifica del diritto a lavorare464 prescinde dalla specifica richiesta del lavoratore licenziato465. Tutela e
non risarcimento in forma specifica, come sostiene ancora una volta Cass., S.U., n.
141/2006, sulla scorta soprattutto di Castronovo, il quale ragiona peraltro nella sola
logica delle obbligazioni uno actu466. Ciò perché come ha chiarito, tra gli altri, da
ultimo, Nicolussi467, tornando sostanzialmente alla posizione di Mengoni che richiamerò tra un attimo, il creditore (nel nostro caso: il lavoratore attraverso la reintegrazione) pretende proprio il risultato originariamente dovuto.
È apprezzabile la critica che Cass. S.U. n. 141/2006 avanza nei confronti della tesi della non riducibilità al diritto civile del rimedio della reintegra sulla base dell’art.
24 cost. Sennonché, come detto, la sentenza erra laddove argomenta sulla base
dell’art. 2058 c.c. che potrebbe semmai venire in considerazione se l’azione fosse
impostata in via solo risarcitoria468. A tal proposito preciso che, secondo il mio modesto avviso, non si può assecondare il filone giurisprudenziale per cui – intervenuta
la decadenza per mancata impugnazione del licenziamento – resta comunque esperibile, entro i termini di prescrizione, l’azione risarcitoria per i danni469. Preclusa, per
quanto ho detto all’inizio del § 10, l’azione extracontrattuale, quella contrattuale è a
sua volta esclusa perché la decadenza impedisce di far accertare l’inadempimento che
è il primo presupposto dell’azione per il ristoro dei danni470.
L’interrogativo principale consiste nell’effettiva possibilità o meno del ricorso
all’azione di condanna all’adempimento e, quindi, alla tutela satisfattoria anche re461
Breccia 1991, 589.
Contra, almeno se ben intendo, Ferrante 2004, 362.
463
Ghera, Liso 1976, 978; Vallebona 1995, 127.
464
E bastino questi rilievi per escludere qualsiasi proiezione pubblicistica dell’ordine
stesso; così, invece, Ales 2000, 41 che deraglia dai binari civilistici.
465
Cass. 16.11.1991 n. 12294, DPL, 1992, 125; Taruffo 1996.
466
Nicolussi 2006, 809 ss. sulla premessa che l’effetto giuridico indefettibile dell’inadempimento è la responsabilità; nel senso dell’art. 2058 c.c. anche Napoli 1993, 72; Taruffo
2006, 3; come genus a specie pure Speziale 2004, 94.
467
2003, 565 ss.
468
Contra Zoli 1988; in tema cfr. Marella 2000 e D’Adda 2002.
469
Cass. 10.1.2007 n. 245; Cass 12.10.2006 n. 21832, RGL, 2007, II, 235; contra Cass.
30.1.2006 n. 1821 e da ultimo, Cass. 14.5.2007 n. 11035, MGL 2007, 722 che accoglie
l’argomento espresso nel testo.
470
Cfr. Cass. 21.8.2006 n. 18216. In dottrina cfr. da ultimo Oriani 2003, 89 a cui si rimanda per una più completa illustrazione delle posizioni favorevoli alla tesi espressa nel testo.
462
662
lativamente a obbligazioni non suscettibili, per loro intrinseca natura, in toto o comunque in massima parte, di esecuzione forzata in forma specifica (il cosiddetto
contratto unerfüllbar). Depongono a favore della risposta positiva a questo quesito
solidi argomenti sistematici, incentrati sul combinato disposto degli artt. 1218 e
1256 c.c.471 e – ecco ancora una volta l’interpretazione conforme ai principi costituzionali – l’aderenza della stessa al principio costituzionale dell’effettività della
tutela giurisdizionale472. È sullo sfondo della condivisione di queste premesse argomentative che la stessa giurisprudenza, sospinta da una parte della dottrina, ha,
infine, rimosso il dogma della necessaria correlazione tra condanna ed esecuzione
forzata, ammettendo la possibilità di chiedere l’ordine giudiziale di reintegrazione
nelle mansioni originarie o quantomeno equivalenti473. La giurisprudenza perde,
invece, la consapevolezza del profilo funzionale dell’istituto quando pretende che
il lavoratore debba essere prima reintegrato nel luogo in cui si era precedentemente
svolta l’attività lavorativa e solo successivamente trasferito, ovviamente se sussistano i presupposti di cui all’art. 13 st. lav.474.
Ora, sono consapevole che nella diffusa ottica dell’all or nothing strategy tutto
quanto detto fin qui è destinato a naufragare dinnanzi all’incoercibilità diretta
dell’obbligo del datore di lavoro475: parturient montes, nascetur ridiculus mus. Sul
punto apro una brevissima parentesi al sol fine di chiarire che tale incoercibilità
degli obblighi di fare infungibili del datore di lavoro, il cui adempimento sarebbe
coessenziale per garantire la continuità della prestazione lavorativa, contrariamente
ad un atteggiamento ancora diffuso, non può, a rigore, essere messo in correlazione
con l’antico brocardo nemo ad factum praecise cogi potest; una massima della quale risulta peraltro controverso il significato storico esteso da molto autori a qualsiasi forma di obbligazione di facere. Infatti, le attività richieste al datore di lavoro
non sono infungibili «per la loro natura, cioè in quanto espressione di qualità personali irripetibili»476. Le obbligazioni del datore di lavoro sono, piuttosto, escluse
471
Mengoni 1989, 151-153, «fino a quando la prestazione sia possibile, la pretesa di adempimento in natura non può essere sostituita con la pretesa di risarcimento dei danni».
472
Cfr. da ultimo e per ulteriori riferimenti, Pagni 2004, 20.
473
V. Cass. 17.6.2004 n. 11364 e, per la giurisprudenza più risalente, Focareta 1992a.
Per lo spostamento a mansioni equivalenti v. Cass. 8.11.2004 n. 21253; Cass. 14.5.2002 n.
6992; contra per tutti Vallebona 1995, 72; dubbioso Napoli 2004, 56-57. Il tutto può avvenire in senso dinamico nel contesto del (nel tempo intercorso tra il licenziamento e la sentenza
di reintegra) mutato assetto organizzativo (Cass. 30.3.2006 n. 7536; Cass. 3.5.2004 n. 8364)
fino al limite estremo della cessazione totale dell’attività aziendale che esclude l’ordine di
reintegra (ma non la condanna al risarcimento del danno), così Cass. 7.6.2007 n. 13297.
474
Cass. 3.5.2004 n. 8364; contra Cass. 25.10.1997 n. 10515.
475
Mazzotta 2005, 617.
476
Mengoni 1989, 154 con ciò scavalcando l’orientamento positivo più convinto il quale comunque sia si arrestava dinnanzi alla prima ri-assegnazione delle mansioni escludendo
la cd. esecuzione forzata prolungata nel tempo (Chiarloni 1989, 66; Proto Pisani 1982; Speziale 2004; De Angelis 2007). V. anche Arieta 1975 e D’Antona 1979, 183 secondo il quale
Luca Nogler
663
dal campo di operatività dell’esecuzione diretta per via di surroga per una precisa
scelta di valore (cd. infungibilità giuridica). In quest’ottica – invero, ancora non
sufficientemente sviluppata dalla dottrina processualistica – occorre confrontarsi
con i seguenti passaggi argomentativi: sul piano dei principi si contrappongono la
libertà d’iniziativa economica e il principio del diritto allo sviluppo della professionalità (artt. 4 e 41, 1° c., cost.); nessuno dei due principi è dotato di efficacia
immediata ed il legislatore deve procedere ad un loro bilanciamento; nell’attuale
fase storico-sociale nessuna disposizione legislativa, neanche l’art. 18 st. lav.477,
prevede esplicitamente la possibilità della surroga478, neppure parziale479 e, quindi,
dobbiamo concludere che il legislatore attribuisce la prevalenza alla libertà di organizzazione e di gestione dell’impresa480.
Malgrado nessuno osi oggi giorno ancora affermare che il clou dell’art. 18 consiste nell’ordine di reintegrazione, vale pur tuttavia la pena di perseverare nel difendere la prospettiva della possibilità di richiedere la tutela in forma specifica; ciò anche a costo di imbellettare argomenti che appaiono tutt’altro che trascinanti481. Intanto, la condanna all’adempimento del contraente infedele non è comunque priva
di effetti positivi perché essa, oltre ad esercitare una pressione psicologica sul debitore, fa sì che la responsabilità per danni sia accertata, e quantificata, con riferimento al momento in cui si constata l’ottemperanza all’ordine del giudice e non a
quello dell’inadempienza originaria482. Né il fatto che il 4° c. dell’art. 18 st. lav.
preveda una forma di liquidazione anticipata toglie valore a quest’ultima considerazione che, semmai, rafforza il meccanismo adottato dal legislatore. Infine, si consideri ancora che la condanna inevasa «costituisce manifestazione di dolo ed il dolo
rappresenta la componente che aggrava il quantum del risarcimento»483.
Ma, la possibilità della condanna del datore di lavoro all’adempimento
dell’obbligo a far lavorare il lavoratore dipendente merita, inoltre, di essere mantenuta in vita soprattutto per quel tanto che potrebbe esprimere – anche in un sistema
che volesse, per ragioni attinenti o meno al bilanciamento tra i principi costituzionali, tener ferma la regola dell’infungibilità giuridica – se solo il legislatore rece-
il potrarsi della dimensione dell’obbligo fa sì che «l’episodio esecutivo possa svolgere al più
una finalità compulsoria». Contra Persiani 1971a, 609.
477
Come ammette anche Chiarloni 1989, 64.
478
Cass. 12.5.2004 n. 9031; Cass. 14.7.1997 n. 6381; in dottrina cfr. Dell’Olio 1988, 16.
479
Mandrioli 1975; Cerreta 2004; Id. 2001, 888 ss. Sui limiti della teoria della surroga
parziale cfr. Ghera 1989, 1084.
480
Mengoni 1989, 154 che sembra, peraltro, non escludere la possibilità della previsione
della surroga nel caso in cui vengano in gioco i beni di cui al 2° c. dell’art. 41 Cost.
481
Fermo restando che, come ha detto Cass. 10.1.2006 n. 141, «la difficoltà di predisporre norme esecutive di più intensa garanzia del creditore non può influire sullo statuto
civilistico del rapporto obbligatorio»; cfr. anche Pedrazzoli 1988, 106; Pagni 2004, 18.
482
Mengoni 1989.
483
Mazzamuto 2004, 28; Speziale 2004, 112.
664
pisse con maggior vigore e sistematicità la logica francese dell’astreinte484. Porre
l’accento sull’azione di condanna, e non semplicemente su quella di mero accertamento, appare, insomma, strumentale all’obiettivo di politica del diritto di evitare
che vengano definitivamente chiusi gli occhi dinanzi alla persistente inadempienza
del legislatore nel predisporre un adeguato sistema di misure coercitive indirette
finalizzate a premere sul datore di lavoro perché adempia spontaneamente.
In attesa di sviluppi legislativi che rendano effettivo il primato dell’adempimento in natura, sia per il periodo precedente alla sentenza di reintegra che (anche grazie alla nuova formulazione dell’art. 18 st. lav.) per il dopo485 – ecco una
ragione a favore dell’innovazione apportata dalla l. n. 108 del 1990 – in ipotesi
d’inottemperanza da parte del datore di lavoro, è inoltre possibile per il lavoratore
chiedere il ristoro del danno per il ritardo ovvero per il pregiudizio alla professionalità conseguente al mancato svolgimento dell’attività lavorativa. Un danno che
non è in re ipsa486 ma che deve, al contrario, essere provato487 risultando quindi di
entità mutevole a seconda delle caratteristiche della singola prestazione lavorativa.
Sicché il «trionfo»488 del diritto comune in tema di tutela degli interessi patrimoniali può essere compensato dalla tutela secondaria dell’interesse allo svolgimento
della prestazione lavorativa. D’altronde, quest’ultima, dopo l’improvvisa svolta del
2003 rappresenta la tutela (compensativa) minima garantita dall’ordinamento489.
12. Accanto alla condanna all’obbligo di facere, v’è anche quella che concerne
l’ulteriore obbligo di dare la somma corrispondente al risarcimento del danno (4° c.
dell’art. 18 st. lav.). Parte della dottrina continua a ritenere che il datore di lavoro si
trovi in una situazione di mora credendi con possibilità del calcolo speciale del ri484
Proto Pisani 2004, 39; Mazzamuto 2004, 29; Pagni 2004, 89; Pisani 2004, 39; ma è
un’invocazione risalente: Persiani 1971a, 613-614; Mancini 1966, 120; Giugni 1966, 256;
Pedrazzoli 1988, 107 ss.
485
Cfr. Cass. 13.7.2002 n. 10203; Cass. 17.12.2007 n. 26561. Cfr. anche Borghesi 2004,
344 e Cerreta 2004, 80.
486
Cass., S.U., 24.3.2006 n. 6572. Questo danno prescinde ormai sicuramente
dall’insorgere di una patologia relativa all’integrità fisica e psichica del soggetto (ferma restando la cautela avvocatesca dell’allegazione del certificato medico). D’altra parte, è rarissimo che il licenziamento provochi addirittura un danno biologico così come è praticamente
escluso il danno morale sicchè si dovrebbe, tra l’altro, mettere definitivamente in soffitta la
vetusta categoria del licenziamento ingiurioso sulla quale v. criticamente anche Tullini
1994b e Albi 2004.
487
Cass. 17.12.2007 n. 26561. Il danno non può essere individuato in via meramente
equitativa, come ha fatto quel giudice di merito che ha condannato il datore di lavoro al pagamento di sessantacinque mensilità per l’impossibilità di reintegrare il lavoratore a causa
del suo decesso (decisione cassata da Cass. 18.8.2005 n. 16992).
488
Napoli 2002, 16.
489
C. Cost. 11.7.2003 n. 233 Rel. Marini.
Luca Nogler
665
sarcimento sulla base dell’art. 6, r.d.l. 13.11.1924, n. 1825: una base giuridica
sempre più fragile490. L’eventualità della mora accipiendi viene, comunque, negata
da un’altra consistente parte della stessa dottrina sulla base della più convincente
considerazione che essa presuppone un atto di intimazione a ricevere la prestazione
(art. 1217 c.c.)491, che tutti concordano essere esplicito, con il quale il lavoratore
faccia valere la sua posizione debitoria, mentre l’art. 18 st. lav. produce i suoi effetti indipendentemente dall’intimazione stessa492.
Ma non è possibile, a ben vedere, neppure tirare in ballo la mora debendi493
perché non ci troviamo, in realtà, in una situazione di inadempimento dell’obbligazione retributiva494. Così come un supplemento di riflessione dovrebbe convincere che è improprio, per non dire naïf, continuare ad attribuire all’ordine di reintegrazione una funzione ripristinatoria non del rapporto già coperto dall’accertamento della mancata estinzione, bensì della funzionalità di fatto del medesimo perché quest’ultimo presuppone per definizione lo svolgimento effettivo delle prestazioni delle parti495.
La soluzione più corretta va, piuttosto, ricercata nell’ambito dell’inadempimento dell’obbligo contrattuale di ricorrere al potere di licenziamento solo in
presenza delle relative condizioni d’efficacia (art. 1218 c.c.). L’attribuzione patrimoniale di cui al 4° c. dell’art. 18 st. lav. è pertanto – per il periodo che va dal licenziamento alla sentenza – compensativa del danno generato dalla lesione del diritto della controparte (ecco il diritto alla continuità del rapporto di lavoro) che discende da questo obbligo contrattuale496.
Coerentemente, come era stato d’altronde subito pronosticato497, si è consolidata la regola operazionale secondo cui le attribuzioni patrimoniali previste dall’art.
18 st. lav. sono governate dalla disciplina codicistica del danno contrattuale (artt.
1218, 1223 e 1227 c.c.) a cui l’art. 18 apporta due sole deroghe: (a) la previsione di
un danno minimo corrispondente alle cinque mensilità la quale più che, come pure
490
Vallebona 1995, 129; in origine: Ghezzi 1965; Mancini 1972, 264; Dell’Olio 1979,
504. Contra Cass. 6.2.2004 n. 2339.
491
O per lo meno che il lavoratore offra la prestazione di lavoro, così Cass. 25.11.2003
n. 17987, NGL, 2004, 350; non equivale a questa offerta la domanda giudiziale di annullamento del presunto licenziamento. Cass. 8.10.2002 n. 14381; Cass. 17.10.2001 n. 12697.
492
Mazziotti 2005, 654 e in precedenza Ballestrero 1975, 113; D’Antona 1979, 34 ss.;
Napoli 1980, 29 ss.; Pera 1980, 189 ss.; Pedrazzoli 1988, 102; Speziale 1992, 147 ed ivi citazioni sull’amplissima bibliografia sul tema.
493
Mazziotti 2005, 654.
494
Così invece D’Antona 1994, 4-5 e Proto Pisani 1991, 21.
495
È l’errore in cui incorre Cass., S.U., 13.4.1988 n. 2925 quando parla di equiparazione
tra effettiva utilizzazione e mera utilizzabilità e che di tanto in tanto ricompare: v. Cass.
16.3.2004 n. 5347.
496
Napoli 1980, 35; non mi sembra che questa prospettazione contrasti con la considerazione del licenziamento quale validità-invalidità come sostiene Mazziotti 2005, 652.
497
Romagnoli 1991, 9; cfr. anche Vidiri 2002, 211 ss.
666
si suol dire, una presunzione assoluta, è da qualificare quale penale di fonte legale498 dovuta anche quando il rapporto di lavoro non abbia avuto alcuna interruzione499; (b) l’esenzione, in via di presunzione legale relativa500, a favore del lavoratore dell’onere di provare il danno effettivamente subito501 nei limiti in cui esso coincide con le retribuzioni (omnicomprensive) perdute che fungono peraltro da mero
parametro di calcolo per la quantificazione del pregiudizio economico sofferto dal
lavoratore. Per il resto, la giurisprudenza applica correntemente, per limitare il discorso alle norme più importanti, sia l’art. 1218 c.c.502 così come l’art. 1223 c.c. e,
quindi, il principio della compensatio lucri cum danno. Quest’ultimo, contrario alla
risarcibilità del lucro cessante integrale, comporta la decurtazione dell’aliunde perceptum se provato dal datore di lavoro purché il reddito conseguito dal lavoratore
possa considerarsi compensativo del danno cagionato dal recesso. A tal fine esso
deve essere stato percepito attraverso l’impiego in un’occupazione equivalente della stessa capacità lavorativa resa libera dal licenziamento. Non può, dunque, essere
presa in considerazione nè la pensione di vecchiaia503 né, nel caso in cui l’attività
fosse già stata svolta prima del licenziamento insieme al rapporto di lavoro504, il
compenso dovuto ad un ulteriore lavoro. Infine, viene in considerazione anche il 2°
c. dell’art. 1227 c.c. che consente di detrarre il danno derivante dalla mancata attivazione del lavoratore, da valutare secondo la diligenza ordinaria505 ed entro i soli
limiti della conservazione della professionalità506, nella ricerca di una nuova occupazione507, ovvero nell’iscrizione alle liste di collocamento508, oppure nell’accettare la proposta di reintegrazione del datore di lavoro nonostante il dissenso
sull’ammontare del risarcimento del danno509. Complessivamente è, comunque,
interessante notare come il sistema tedesco, pur continuando ad ancorarsi alla mora
accipiendi, converga in buona parte, sul piano delle regole operazionali, con il nostro perché prevede la detraibilità dalla retribuzione di tutta una serie di somme (§
498
Cass. 15.7.2002 n. 10260; C. Cost. 23.12.1998 n. 420 Rel. Santosuosso; C. Cost
3.7.1975 n. 178 Rel. Rossi.
499
Cass. 1.7.2004 n. 12102.
500
Cass. 3.5.2004 n. 8364; Cass. 9.4.2003 n. 5532; Cass. 20.11.2001 n. 14592.
501
Che discende dal fatto che la pretesa risarcitoria non si basa sull’obbligazione contrattuale ma su quella diversa generata dal suo inadempimento: cfr. Mengoni 1988, 1096.
502
Colpa in senso oggettivo come criterio di imputabilità dell’inadempimento: Cass.
30.5.2005 n. 11401; Cass. 17.2.2004 n. 3114.
503
Cass. 14.6.2007 n. 13871, GL, 2007, 37, 31; Cass. 25.11.2003 n. 17987, cit. a nt.
491; Cass., S.U., 13.8.2002 n. 12194; Cass 19.5.2000 n. 6548; in tal senso anche Mazziotti
2005, 656.
504
Cass. 11.4.2005 n. 7435.
505
E non straordinarie con esborsi apprezzabili di denaro, Cass. 11.5.2005 n. 9898
506
Così Vidiri 2002, 215; Mazziotti 2005, 657.
507
T. Milano 17.5.2005, OGL, 2005, 357.
508
Cass. 11.5.2005 n. 9898, contra, sorprendentemente, Cass. 9.10.2007 n. 21066.
509
Cass. 17.11.2006 n. 24457.
Luca Nogler
667
11 KSchG). A regole simili si ispira poi anche il sistema inglese laddove il § 114
dell’Employment Rights Act del 1996 prevede che, in caso di reintegra, sia corrisposta la retribuzione detratto l’aliunde perceptum.
La giurisprudenza più recente adotta un orientamento, per così dire, «unitario»,
che non differenzia più tra il periodo precedente e quello successivo alla sentenza
che ordina la reintegra. Si afferma, più precisamente, che l’indennità spettante al
lavoratore illegittimamente licenziato ha natura risarcitoria «piena ed esclusiva del
danno […] subito dal dipendente per effetto dell’illecito civile compiuto nei suoi
confronti dal datore di lavoro»510. Ciò al fine di escludere la ripetibilità delle somme che il datore di lavoro ha corrisposto sponte o in executivis durante il periodo
corrente tra il dispositivo della sentenza provvisoriamente esecutiva di reintegrazione e la sentenza di riforma511. A tale esito altri autori giungono, come noto, indipendentemente dalla natura del titolo, in base al rilievo che, in assenza di una disposizione normativa esplicitamente contraria, la regola è quella della ripetibilità512. Se il lavoratore ha prestato l’attività lavorativa la ripetibilità viene, viceversa,
esclusa more solito, e basti qui solo un accenno, in base all’art. 2126 c.c.513.
Ma a bene vedere, l’unitaria qualificazione dell’attribuzione patrimoniale in
termini risarcitori non esclude che il risarcimento stesso sia dovuto in base a due
titoli diversi. Per il periodo successivo alla sentenza la pronuncia della condanna a
quello che permane pur sempre (per il vincolo del dettato normativo) un risarcimento non si giustifica più in base all’illecito contrattuale legato all’uso illegittimo
del potere di licenziamento, bensì all’eventuale ritardo nell’adempimento
dell’obbligo di far lavorare il lavoratore (ovvero nell’ottemperanza all’ordine di
reintegra) che per norma speciale rileva indipendentemente dall’intimazione.
Resta ancora da precisare che il 4° c. dell’art. 18 prevede una liquidazione preventiva dei danni eventualmente collegati all’inadempimento successivo alla condanna514 quantificata sulla base delle retribuzioni sul presupposto – come si osserva
autorevolmente – della già considerata infungibilità dell’obbligo di reintegrazione515. In tal modo, la condanna svolge anche una funzione compulsiva dell’adempimento dell’obbligo di reintegrazione che è oggettivamente rafforzata dalla riconosciuta possibilità giurisprudenziale di chiedere eventualmente il ristoro dei danni
personali da perdita di professionalità. Tuttavia, il meccanismo – non solo è diverso dal modello francese, dove l’astreinte viene liquidata solo successivamente se
l’inottemperanza si è effettivamente verificata – ma non risulta neppure qualifica510
Cass. 22.7.2004 n. 13736; Cass. 12.5.2004 n. 9062; v. Dell’Olio 1991, 207; Vidiri
2002, 216; Valentini 2004.
511
Certo il recupero delle somme corrisposte per il periodo dal licenziamento alla sentenza: Mazziotti 2005, 658.
512
Pera 1980, 209; Garofalo M.G. 1975, 560; Mancini 1972, 120 ss.
513
Proto Pisani 1991, 24-25; Centofanti 2001; Cass. 13.1.2005 n. 482.
514
Su questa forma di astreinte, cfr., anche per i rinvii all’enorme letteratura in materia,
Speziale 2004, 109 ss.
515
Ghera 2004, 381.
668
bile come avente natura pubblicistica. Esso non è, insomma, utile alla causa di coloro che sostengono l’irripetibilità delle somme in caso di riforma della sentenza di
primo grado o di cassazione della sentenza d’appello.
13. I più rilevanti risultati raggiunti nei §§ precedenti possono essere riepilogati
nei seguenti tre punti.
a) La sentenza, accogliendo l’impugnazione del licenziamento, accerta l’esistenza
del rapporto di lavoro ed ha contenuto dichiarativo della persistente vigenza del
rapporto di lavoro e cioè degli obblighi contrattuali originari, rispettivamente al
pagamento della retribuzione ed a far lavorare il lavoratore516.
b) Con l’ordine di reintegrazione viene intimato all’autore della violazione, che
non ha dimostrato l’efficacia dell’atto di recesso, di adeguare la realtà fattuale
alla realtà giuridica, sicchè detto ordine non ha natura inibitoria, ma di tutela
specifica riguardando l’obbligo di facere del datore di lavoro di far lavorare il
lavoratore517. La tendenza dottrinale ad espungere l’art. 18 st. lav. dalla sfera
contrattuale attribuendogli la funzione di punire l’uso illegittimo del potere privato con misure di tutela reintegratoria «poiché i rimedi sostitutivi non garantiscono gli interessi durevoli e di natura frequentemente extrapatrimoniale sacrificati dall’esercizio di poteri autoritari»518, non ha più ragion d’essere; ciò in
considerazione della valorizzazione giurisprudenziale della tutela (contrattuale)
in forma specifica, nonché di quella per equivalente con la stabile presa in considerazione anche di quei danni che consistono nella privazione o limitazione di
beni o attributi della persona519. Ciò spiega, tra l’altro, perché in passato si era
imposta la forza espansiva, non dell’intero art. 18 st. lav., ma del solo ordine di
reintegra sulla quale richiamò più volte l’attenzione la stessa C. Cost.520. Ad esempio, è pienamente legittima l’emissione dell’ordine di reintegrazione anche
in caso di illegittima inattività del lavoratore, così come di licenziamento nullo
anche se conseguente alla violazione del 2° c. dell’art. 1, l. n. 7 del 1963521 oppure dell’art. 54 del d. lgs. n. 151 del 2001.
516
V. retro, § 7.1.
V. retro, § 7.2.
518
D’Antona 1979, 60-61 che significativamente si dilunga a dimostrare la costituzionalità del presunto surplus di tutela previsto dall’art. 18 st. lav.
519
Cfr. Scognamiglio 1969; Navarretta 2004, 18 ss.; Nogler 2006, 83 ss.; Mazzotta
2004; Cinelli 2006; Del Punta 2006 e da ultimo Pedrazzoli 2007.
520
C. Cost. 22.1.1987 n. 17 Rel. Greco; C. Cost. 24.3.1988 n. 338 Rel. Greco.
521
Cass. 10.5.2003 n. 7176; v. anche T. Firenze 28.2.2004, RCDL, 2004, 411. Ma v. soprattutto l’esemplare Cass. 15.9.2004 n. 18537 che ha avuto modo di affermare che, «se
l’art. 18 prevede l’ordine di reintegrazione, significa che il diritto del lavoratore alla esecuzione della prestazione che con tale ordine viene riconosciuto ed attuato, vi era già prima
come componente del rapporto di lavoro e non come effetto del licenziamento illegittimo.
[…] la prestazione lavorativa, oltre a costituire per il lavoratore l’adempimento della sua
517
Luca Nogler
669
c) La condanna al risarcimento del danno, quantificato nella misura delle retribuzioni perse dal giorno del licenziamento a quello della effettiva reintegra, è
compensativa del danno generato dalla lesione del diritto della controparte alla
continuità del rapporto di lavoro. Tale risarcimento trova giustificazione
nell’illecito civile (illegittimo uso del potere) compiuto dal datore di lavoro fino
al momento della sentenza e, successivamente a quest’ultima, nell’inadempimento da ritardo dell’obbligo di far lavorare o di ottemperare all’ordine di reintegrazione522.
Stabilito ciò resta da considerare che la l. n. 108 del 1990 ha riconosciuto al lavoratore il potere formativo sostanziale di monetizzare l’obbligo di reintegrazione
chiedendo un’indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto.
Sul punto, la giurisprudenza di Cassazione ha fatto propria la qualificazione
dell’opzione riconosciuta al lavoratore come «obbligazione con facoltà alternativa
in capo al lavoratore» espressa da Corte cost. n. 81/1992 che ne trasse la conseguenza che l’adempimento della prestazione pecuniaria «produce, insieme con
l’estinzione dell’obbligazione di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro, la
cessazione del rapporto di lavoro per sopravvenuta mancanza di scopo»523.
Di contro, nella giurisprudenza di merito si è andato formando un orientamento
secondo cui il rapporto si estingue già con l’esercizio dell’opzione venendo così
immediatamente meno, in capo al datore, l’obbligo risarcitorio. Restano ferme, invece, le eventuali ordinarie conseguenze della mora debendi nell’ipotesi di ritardato pagamento dell’indennità sostitutiva (pagamento degli interessi legali e della rivalutazione monetaria)524.
obbligazione, rappresenta anche l’oggetto di un suo diritto cui corrisponde l’obbligo del datore di lavoro di “dare lavoro”». La pronuncia è tanto più significativa perché in aderenza
all’orientamento argomentato nella prima parte della relazione (v. retro, § 4), si richiama
all’art. 2103 c.c. e riporta, quindi, la pronuncia dell’ordine di reintegra alla condanna
all’adempimento dell’obbligo sostanziale (alla stregua dell’impostazione illustrata retro, §
7.2). La sentenza non affronta, infine, la questione dell’indennità sostitutiva della reintegrazione che non appare, però, estensibile oltre l’ipotesi speciale per la quale è stata prevista (il
distinguo gioverebbe all’orientamento contrario alla reintegra, Cass. n. 16540/2006).
522
V. retro, § 7.3.
523
Corte cost. 4.3.1992 n. 81 (rel. Mengoni); l’orientamento è iterato da Cass. 9.2.2007
n. 2899; Cass. 7.3.2003 n. 3487. In dottrina sono state espresse posizioni diversificate: taluni
qualificano l’indennità come obbligazione con facoltà alternativa (Foglia 1991, 14; Ghera
1991, 642); altri la ricostruiscono come un’ipotesi di dimissioni per giusta causa (Garofalo
M.G. 1990, 197; D’Antona 1991, 172; Niccolai 1999, 801) secondo un’impostazione respinta da Corte cost. n. 81/1992 poiché dopo la sentenza di reintegra «il fatto precedente del licenziamento illegittimo non è più idoneo – se mai lo è stato – a fondare una giusta causa
legalmente tipizzata di dimissioni»; altri ancora, infine, hanno assimilata l’indennità in discorso alla risoluzione per inadempimento con risarcimento del danno in base all’art. 1453
c.c. (Ferraro 1990, 64).
524
P. Napoli 22.7.2002, MGL, 2004, 77; da ultima, T. Torino 12.11.2005, RIDL, 2006,
II, 924, secondo cui il rapporto di lavoro si estingue nel momento in cui il lavoratore opta
670
Sebbene sia stato espressa in un obiter dictum di una sentenza interpretativa di
rigetto (ed, in quanto tale, non sia vincolante), la posizione della Corte cost. merita
di essere mantenuta peraltro con la retifica che nelle obbligazioni con facoltà alternativa entrambe le prestazioni sono in obligatione, pur senza trovarsi su un piano
di parità: pertanto «solo una prestazione è dovuta in via principale, e l’altra solo in
quanto il creditore la preferisca, rinunziando alla prima» e, quindi, sostituendo in
via definitiva, la prestazione dovuta. Così si spiega la ragione per cui, nonostante la
scelta irrevocabile del lavoratore per l’indennità sostitutiva, continui a vivere il
rapporto obbligatorio (di lavoro) fino all’effettivo pagamento dell’importo pari a
15 mensilità525.
Questa interpretazione si inserisce, tra l’altro, a pieno titolo nell’impostazione
che ho argomentato nelle pagine precedenti. Nell’ambito di tale disciplina, il 5°
comma dell’art. 18 altro non fa che stabilire la regola secondo cui, una volta dichiarata la persistenza del rapporto obbligatorio (di lavoro), e «fermo restando il
diritto al risarcimento del danno così come previsto dal quarto comma», il lavoratore (creditore del diritto alla reintegrazione) ha il potere di chiedere la sostituzione
della prestazione principale (la reintegrazione) con una secondaria di natura pecuniaria, prequantificata nella misura di 15 mensilità della retribuzione globale di fatto ed eseguibile uno actu. Tuttavia, poiché solo l’esatto adempimento dell’obbligazione (con l’integrale esecuzione della prestazione secondaria preferita dal lavoratore) estingue il rapporto obbligatorio, il datore di lavoro, fintantoché è inadempimente in relazione alla prestazione di corrispondere l’indennità sostitutiva, sarà
comunque tenuto – come afferma l’incipit della norma commentata – ad eseguire
le altre prestazioni accertate nella sentenza e, pertanto, a risarcire il danno (da ritardo) quantificato ex lege nella misura pari alla retribuzione globale di fatto dal
giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegra o dell’effettivo pagamento dell’indennità sostitutiva, ossia, in generale, fino al momento dell’esatto adempimento526. Infatti, nel 4° comma dell’art. 18, il termine «retribuzione» non viene
per l’indennità sostitutiva provocando la trasformazione dell’oggetto della primitiva obbligazione datoriale.
525
Così Rubino 1968, 37-38 il quale non mi sembra che affermi, come vorrebbe Tosi
2006, 426 che l’obbligo principale si estingue solo con l’adempimento di quello accessorio.
Infatti, l’affermazione secondo cui nell’obbligazione con facoltà alternativa non esiste una
scelta significa «solo» che in caso di richiesta dell’adempimento dell’obbligo principale resta in piedi la possibilità di optare per quella accessoria e non viceversa. Di conseguenza,
l’obbligo di reintegra si estingue con la manifestazione della preferenza da parte del lavoratore della prestazione secondaria. Peraltro, a differenza di quanto pare presupporre Tosi,
l’obbligo di risarcire il danno non deriva dall’inadempimento della prestazione di reintegrare
il lavoratore, bensì dall’uso illegittimo del potere di licenziamento. Tant’è che in caso di aliunde perceptum – malgrado l’inadempimento della prestazione di reintegrare – il danno
potrebbe addirittura venir meno.
526
Per una diversa ricostruzione v. il già citato Tosi 2006, 427 ss., il quale, tuttavia, argomenta sulla base della qui criticata tesi di Di Majo e Inzitari 1959, 212, che ricostruiscono
la scelta del creditore come potere di «trasformazione dell’obbligazione originaria in obbli-
Luca Nogler
671
impiegato per individuare il titolo dell’attribuzione patrimoniale527, ma, come visto, quale mero parametro di riferimento per il calcolo del risarcimento dovuto dal
datore di lavoro a causa dell’illegittimo uso del potere di licenziamento ed in relazione all’intero periodo di inadempimento. Risarcimento che non potrà, invece, estendersi al ristoro dei danni alla professionalità derivante dall’obbligo di reintegrazione (v. retro § 11 fine) al quale il lavoratore ha ormai definitivamente rinunciato.
Il rapporto complesso che intercorre tra le parti si estingue con l’esatto adempimento della prestazione istantanea di dare sostitutiva della reintegrazione che è
l’unico scopo sopravissuto alla preferenza espressa dal lavoratore.
14. Per ragioni diverse, tutti e quattro i profili dell’art. 18 st. lav. (continuità del
rapporto; ordine di reintegra; tutela risarcitoria ed indennità sostitutiva delle reintegra) analizzati nei §§ precedenti presentano attualmente elementi di criticità.
In dottrina si tendeva, tradizionalmente, ad affermare che solo una tutela che
incide sull’idoneità del licenziamento ad estinguere il rapporto poteva essere considerata conforme al quadro costituzionale («nell’espressione stabilità obbligatoria
l’aggettivo nega il sostantivo»528). Tuttavia, la C. Cost. ha sempre negato che il bilanciamento tra gli artt. 4 e 41 cost. imponga un determinato regime di tutela529 la
cui messa a punto è affidata alla discrezionalità del legislatore530. Discrezionalità
non significa, tuttavia, libertà totale del legislatore ovvero insindacabilità delle sue
scelte regolative531. Con l’affermarsi della logica dei principi, sempre più spesso
gazione con oggetto diverso, quell’oggetto che avrà prescelto il creditore e che risulterà
l’unico dovuto a parte debitoris».
527
Così, invece, tra le altre, Trib. Torino 12.11.2005, cit.
528
Così Mancini 1972, 245; v. anche Mengoni 1958, 273; Natoli 1966, 108; Persiani
1971a, 697. In tal modo, si perpetuava sostanzialmente un approccio regolativo alle norme
costituzionali. Conforme alla logica dei principi, è, invece, l’assunto che anche un efficace
meccanismo monetario potrebbe dissuadere dall’adozione di licenziamenti ingiustificati. Ad
es. nel Progetto di legge del 26 ottobre 2006 recante nuove norme per il superamento del
precariato e per la dignità del lavoro (RGL, 2006, I, 968) l’accento cade tutto sulla tutela
risarcitoria.
529
C. Cost. 6.2.2003 n. 41 (rel. Zagrebelsky). Nel particolarissimo contesto di un giudizio sull’ammissibilità di un referendum abrogativo, caratterizzato in quanto tale di proprie
specificità, la tutela obbligatoria fu prospettata da C. Cost. 7.2.2000 n. 46 (rel. Vari), con la
criticabilissima tecnica del riempimento dei principi costituzionali «dal basso in alto», «anche alla luce» dell’art. 24 della Carta sociale europea rivisitata (rispetto a quella approvata
nel 1961) dal Consiglio d’Europa il 3.5.1996 (e ratificata nonché resa esecutiva con la l.
9.2.1999, n. 30), dotata di «tendenziale generalità».
530
C. Cost. 13.5.1993 n. 240 (rel. Greco); C. Cost. 14.1.1986 n. 2 (rel. Greco); C. Cost.
8.7.1975 n. 189 (rel. Astuti); C. Cost. 19.6.1975 n. 152 (rel. Reale); C. Cost. 22.3.1971 n. 55
(rel. Mortati).
531
Così Vallebona 2005, 378.
672
tali scelte sono, infatti, sottoposte a controlli di ragionevolezza e di razionalità interna al sistema532. E da questo diverso punto di vista, si dovrebbe prendere definitivamente atto che gli argomenti utilizzati a sostegno del modo in cui è stata esercitata la discrezionalità legislativa nel bipartire le aree di tutela non appaiono più sufficienti533. Essi confondono spesso la continuità del rapporto con quella
dell’adibizione concreta alle mansioni. Inoltre poggiano su una presunta (e mai dimostrata) rilevanza diretta della fiducia del rapporto e sul criterio della compatibilità ambientale534, clamorosamente contraddetta da una serie di dati di diritto positivo afferenti, quindi, proprio alla razionalità interna al sistema. È l’ipotesi dell’unità
produttiva con meno di sedici dipendenti in organizzazioni datoriali con più di sessanta dipendenti nel complesso. Infine, viene chiamato in gioco pure il criterio economico la cui ragionevolezza è stata però anch’essa messa in crisi dalla l. n. 108
del 1990 la quale, con scarsa coerenza, si accontenta, a volte, di sedici dipendenti
mentre, altre volte, ne richiede almeno sessanta535. Né va dimenticato, sempre dal
punto di vista della ragionevolezza, che «oggi non può dirsi marginale l’ipotesi di
un’impresa con alto investimento di capitale e ingente fatturato, e tuttavia con meno di […] 16 dipendenti»536. È ragionevole equiparare, ad esempio, il piccolo bar
di periferia e il laboratorio artigianale pienamente inserito in un distretto industriale537?
È innegabile, infine, che il quantum attualmente previsto nell’ambito della tutela obbligatoria non è realisticamente in grado di esercitare un effetto dissuasivo oltre a non essere proporzionato agli interessi in gioco538. Lo stesso, pur apprezzabilissimo, carattere progressivo della somma non appare pienamente (e cioè «ragionevolmente») in linea con la funzione dissuasiva nel momento in cui opera solo nei
confronti della misura massima e non di quella minima dell’indennità. Non a caso,
il Cnel a metà degli anni ’80 propose di aumentare il risarcimento minimo a 24
mensilità (con possibilità di arrivare al massimo a 36), così come vanno tendenzialmente nella medesima direzione dell’aumento della tutela patrimoniale recenti
proposte di Ichino539. Comunque sia, è tempo di ripensare alla modulazione delle
tutele conferendo al sistema maggior ragionevolezza riguardo alla differenziazione
dei regimi di protezione contro la perdita del «sostrato esistenziale».
Come più volte specificato nel corso della relazione, la configurabilità
dell’obbligo di adibizione alle mansioni fa poi si che l’ordine di reintegra possa assumere rilevanza anche, per così dire, in corso di rapporto di lavoro e, dunque, ben
532
De Luca Tamajo 2006, 45 ss.; Pessi 2006, 1556 ss.; Perulli 2005. Ma v. anche Grossi
P. 2005, 77.
533
Cfr. Napoli 1988, 219 ss.
534
C. Cost. 23.11.1994 n. 398 (rel. Santosuosso).
535
Incalzante Alleva 1991, 15 ss.
536
Mengoni 1987, 72.
537
Cavallaro 2003, 274.
538
V. retro, § 4.
539
A prescindere dall’insindacabilità del licenziamento sulla cui impraticabilità v. retro, § 4.
Luca Nogler
673
al di là della pur gravissima evenienza della cessazione della continuità di
quest’ultimo provocata da un licenziamento540. La stessa giurisprudenza è sostanzialmente nel senso che l’ordine stesso risponde alla logica della condanna
all’adempimento dell’obbligo di adibire il lavoratore alle mansioni contrattuali rispetto alla quale non appare ulteriormente prorogabile un intervento legislativo che
metta in campo, indipendentemente dai limiti dimensionali del datore di lavoro,
strumenti reali di coazione indiretta541, così come sarebbe opportuno fissare i criteri
di quantificazione dei danni legati all’inattività del lavoratore.
Infine, devono essere necessariamente trattate in modo unitario la tutela per equivalente e l’indennità sostitutiva. Quest’ultima più che della reintegra, si riferisce
nella sostanza alla continuità del rapporto e viene spesso additata come il principale incentivo alla litigiosità giudiziale542.
La C. Cost. nella decisione del 1992 negò solo l’irrazionalità manifesta ed irrefutabile di questa «supertutela risarcitoria»543, ma, in mancanza di un termine di
raffronto, non entrò nel merito della ragionevolezza o meno della scelta legislativa
relativa all’indennità. Se ci poniamo nell’ottica del confronto con le altre realtà
dell’Europa comunitaria, emerge, in primo luogo, che l’importo dell’indennità sostitutiva della reintegra è sganciato dall’anzianità aziendale544. In secondo luogo, a
differenza di quanto è previsto sia in Francia che in Germania, l’importo stesso si
cumula con le attribuzioni patrimoniali previste per il periodo intermedio la cui durata rappresenta uno dei punti più critici dell’intero apparato di tutela. In relazione
a quest’ultimo è assolutamente necessario adottare, come è stato fatto in altri sistemi, soluzioni processuali draconiane ad hoc545 quali l’azione sommaria allo studio della Commissione «Foglia 2».
540
Sulla necessità di tener distinta la continuità del rapporto dalla continuità della prestazione intesa come adibizione concreta alle mansioni, cfr. Natoli 1951, 116; Mengoni
1958, 270; Mancini 1962, 234; Id. 1972, 300; Persiani 1971a, 607.
541
V. retro § 7.3. L’articolato allegato alla relazione generale definitiva della cd. Commissione Foglia 2, nella parte relativa ai licenziamenti ed ai trasferimenti non sposa, purtroppo, quest’ottica perché non include, ad es., la possibilità di esperire la nuova azione tipica in caso di inattività o demansionamento. Aleggia ancora la tendenza a sovrapporre tra
loro la continuità, rispettivamente, del rapporto e della prestazione. La relazione inizia enfaticamente affermando che «il diritto alla conservazione del rapporto di lavoro è diritto fondamentale della persona ai sensi dell’art. 2 della Cost.», ma poi si occupa anche dei trasferimenti.
542
Mengoni 2000, 170; Stolfa 2002; critici: Romagnoli 1991; Napoli 2002, 16; Roccella
1991, 62.
543
Ghezzi 2000; Romagnoli 1995, 162 (il legislatore ha «sfoggiato un pragmatismo che,
coerentemente, si tinge del colore dei soldi»).
544
Il § 1° KSchG fissa, invece, la regola di mezzo stipendio mensile per anno di anzianità aziendale.
545
Ghera 2004, 382; Vallebona 2007, 4; Stolfa 2002; in Francia, in concomitanza con
l’abolizione dell’autorizzazione amministrativa, è stata introdotta, tra le altre novità processuali, una procedura d’urgenza per i licenziamenti per motivi economici (L. 516-5; R 516-45).
674
Ora, nel citatissimo raffronto predisposto dall’Ocse nel 1999546 emerge che
l’unico fattore in relazione al quale l’Italia si distacca abbastanza sensibilmente da
tutti gli altri sistemi, esclusi la Svezia (l’indennità sostitutiva della reintegrazione è
compresa tra le 16 e 48 mensilità, a seconda dell’età e della anzianità di servizio
del prestatore) e gli Stati Uniti (ovviamente quando si agisce in via extracontrattuale con il sistema dei torts), consiste nell’importo massimo che può raggiungere la
compensation garantita al lavoratore in conseguenza dell’illegittimità del licenziamento ingiustificato (nella quale lo studio commentato include peraltro impropriamente anche il tfr). Tutti gli altri valori sono più o meno in linea con quelli dei restanti paesi di civil law dell’Europa continentale547.
Attenzione tuttavia all’uso prescrittivo di queste tavole comparative e, quindi,
all’invocazione di «trapianti» giuridici perché occorre tener presente che il «corpo»
sociale in cui si pretende di operare il trapianto stesso è condizionato sia da fattori
istituzionali che dal contesto extra-giuridico (economico, sociologico, culturale e persino geografico)548. Insomma, tout se tient, a partire dal basso livello degli ammortizzatori sociali549, che conferiscono da sempre di fatto una coloritura previdenziale alle
somme erogate al lavoratore a fine del rapporto550 e, più in generale, dalle fragili reti
istituzionali di sicurezza sociale necessarie a rendere accettabile la flessibilità imposta dal riconoscimento del potere di licenziamento per ragioni economiche551. Passando per l’ancora troppo basso tasso di occupazione (58%) e di sostegno alla mobilità552. Insomma, è opportuno condizionare ogni intervento in materia alla preventiva
adozione di adeguate politiche relative agli altri fattori coinvolti553 e ad una riforma
546
Cfr. Oecd 1999.
L’indice generale di protezione contro i licenziamenti è di 2,8 uguale a quello tedesco e
svedese ed inferiore a quello olandese (3,1) nonché di poco superiore a quello austriaco (2,6),
francese (2,3) e a quello spagnolo (2,6). In realtà si tratta di evidenti semplificazioni. Si pensi al
sistema olandese nel quale il filtro dell’autorizzazione (amministrativa o giudiziale) preventiva
più che rappresentare un ostacolo viene considerato un aiuto al datore di lavoro che intende
adottare il licenziamento. Critico sulla metodologia Zoppoli L. 2000, 426, nt. 27.
548
Kahn-Freund 1974, 789.
549
Cfr. la relazione di Miscione nonché Alleva 2006, 68 ss.
550
Così comparativamente Mengoni 1961, 17.
551
Ichino 1996; De Simone 1997, 235; Liso 2002.
552
Cfr. anche D’Antona 1979, 86.
553
Il legame è talmente forte che, nel diversissimo contesto austriaco – incomparabile
con il nostro sia per le sua ridotte dimensioni che per la maggior omogeneità sociale che lo
caratterizza – il § 105 della Arbeitsverfassungsgesetz condiziona la possibilità stessa
d’impugnare il licenziamento alla dimostrazione che quest’ultimo lede «interessi essenziali»
del lavoratore il quale, assistito dai consigli aziendali, deve fornire la prova di trovarsi in una
situazione di «bisogno di tutela». Quest’ultima viene accertata in via giudiziale sia in relazione alla situazione economica personale del lavoratore, che alle prospettive di reimpiego
che vengono offerte allo stesso dal mercato del lavoro in cui opera (cfr. anche per un’attenta
analisi della giurisprudenza, Runggaldier 2006, 83 ss.).
547
Luca Nogler
675
complessiva che coinvolga la stessa distinzione tra tutela reale ed obbligatoria estranea agli altri grandi sistemi dell’Europa continentale.
IV. BREVI RILIEVI DI POLITICA DEL DIRITTO
15. Restano, infine, da sviluppare alcune considerazioni di politica del diritto
con le quali vorrei tentare, tra l’altro, di fornire una spiegazione al diffuso clima di
declino che circonda le riflessioni giuslavoristiche sul tema dei licenziamenti individuali che pure era, in passato, al centro del dibattito civilistico e processualcivilistico. In un recente sfogo, Proto Pisani ha collegato l’interesse declinante per il tema con la perdita di centralità del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato che anche nelle fasi di sviluppo cresce in modo recisamente più contenuto
del passato554. A ciò si assomma il dato specifico del nostro sistema in cui la precarietà sopravanza, come noto, l’ambito dei contratti temporanei di lavoro subordinato per sconfinare, in percentuali patologicamente elevate, nel campo dei meno onerosi contratti di lavoro autonomo, degli stage se non del lavoro sommerso.
Dobbiamo, tuttavia, riporre molta attenzione a non cadere – alla maniera di Rifkin in The End of Work – nel facile metodo dialettico rimuovendo, così, l’analisi
scrupolosa dei dati. Questi ultimi ci segnalano non solo che la stabilità del rapporto
di lavoro degli occupati non ostacola il diritto sociale al lavoro dei disoccupati555,
ma anche che non siamo ancora al «crepuscolo»556 del contratto di lavoro a tempo
indeterminato. Dal 1996 ad oggi, il tasso di lavoro standard è, infatti, aumentato di
un punto di percentuale in un periodo di forte incremento dei tassi di occupazione.
Inoltre, nei dati Istat non si registrano nell’ultimo decennio variazioni significative
della vita media delle imprese, né spostamenti significativi di occupazione tra
l’area forte e quella debole, ma solo variazioni interne alla prima. Restano, quindi,
indimostrati sia il cd. «effetto tappo» della soglia dei più di quindici dipendenti557,
sia il nesso tra disciplina limitativa dei licenziamenti e precarietà dell’impiego558.
D’altronde, come vedremo tra un attimo, la presunta crescita sproporzionata dei
salari reali indotta dal sistema protettivo è ormai clamorosamente smentita, almeno
nel settore privato, dai dati relativi agli ultimi anni. In conclusione, si assiste, piuttosto, al fenomeno che è stato efficacemente denominato come stabilità (solo) «ri-
554
Proto Pisani 2006a.
Cfr. Nickell, Layard 1999, 3080; Sadowki 2004.
556
Così, invece, Romagnoli 2006, 1061.
557
Traù 1999; Sadowski 2004; così anche Liebman 2003, 384; De Angelis 2001, 129;
Manghi 2004, 162; Barbera 2004, 43. Invero, gli economisti segnalano che il maggior ostacolo alla crescita dimensionale delle imprese è rappresentato dalla loro struttura familiare:
Rossi 2006, 69 ss.
558
Non a caso per sostenere il suo dogma il Libro Verde Ce include anche i contratti di
lavoro a tempo parziale (16%).
555
676
tardata», ma – considerando il gap previdenziale che essa spesso determina – si
potrebbe aggiungere anche a cittadinanza sociale «dimezzata».
In altri sistemi questo ritardo, che si riflette sulle scelte di vita delle persone, è
stato, se così si può dire, legalizzato con la previsione di periodi iniziali del rapporto di lavoro d’inapplicabilità della disciplina limitativa dei licenziamenti559: la stabilità è ritardata ma, in genere, senza particolari riflessi sulla «carriera» previdenziale. Tuttavia, questa politica regolativa, auspicata da più parti560, è possibile solo
se non esistono altre vie legali di fuga, altrimenti rischia di tramutarsi in
un’ulteriore possibilità di precarizzazione.
Il fenomeno veramente nuovo dell’ultimo decennio non attiene, tuttavia,
all’instabilità dell’impiego, ma piuttosto al fatto che, tra il passaggio alla società
dei servizi e la successiva affermazione della globalizzazione, il rapporto di lavoro
ha cessato di essere, come affermava Sinzheimer, la causa stessa dell’esistenza di
un gruppo crescente di persone. Se è storicamente vero che nessun altro settore del
diritto ha intrattenuto un rapporto così «intimo»561 con l’esistenza umana,
nell’ultimo decennio il diritto del lavoro ha progressivamente perso il monopolio in
materia.
La principale ragione di tutto ciò è senz’altro da ricercare nella progressiva erosione del reddito garantito dal contratto di lavoro subordinato anche, ed anzi soprattutto, di quello stabile. Per non parlare dell’affermazione strutturale di una quota di lavoro sommerso o «al 23,5%» e cioè di lavoro che non garantisce una cittadinanza sociale. Secondo l’indagine Istat su «Reddito e condizioni di vita», realizzata su un campione di 22.032 famiglie e resa nota alla fine del 2006, il 50% delle
famiglie italiane ha registrato nel 2004 un reddito netto mensile inferiore a 1.863
euro. Il 62,3% guadagna meno di 2.340 euro, mentre il 30% circa si trova in grosse
difficoltà se deve affrontare una spesa imprevista di 600 euro. Negli ultimi 7/8 anni
la redistribuzione del reddito è andata a favore del capitale facendo, tra l’altro, crescere una ricchezza finanziaria sempre più concentrata ed improduttiva per il sistema economico ovvero per la creazione del prodotto interno lordo. I dati surriferiti sono relativi al reddito familiare e già scontano il fenomeno della moltiplicazione delle fonti di reddito (certamente anche di quello sommerso, come dimostrano i dati sui consumi). Ma il fenomeno della globalizzazione non sembra giustificare la speranza di rapide inversioni di rotta in tema di reddito prodotto dallo stesso
contratto di lavoro stabile. Pertanto, la via futura sembra già essere tracciata: spinta
all’aumento del tasso di attività nel frattempo salito nel 2006 al 62,7%, flessibilità
559
In Germania ed in Austria esiste un periodo iniziale di congelamento (Wartezeit) di
sei mesi di anzianità aziendale; in Gran Bretagna (dopo il 1° giugno 1999) il periodo è di un
anno; in Danimarca è tra i 9 ed i 12 mesi; in Francia sono due anni. In Germania, la CDU
propone, infine, con insistenza di portare la seniority che consente di accedere alla tutela
dagli attuali sei mesi a quattro anni.
560
Boeri, Garibaldi 2006 (massimo tre anni); Ribaudo 2006.
561
Così Kohler 1998, 1330.
Luca Nogler
677
nelle scelte personali, in primis familiari562, e disintegrazione della separazione tra
periodo di lavoro e di vecchiaia.
Dato questo quadro complessivo, è gioco forza concludere che il lavoro dipendente stenta sempre di più a rappresentare il rapporto sociale che garantisce una
vita libera e dignitosa alle lavoratrici ed ai lavoratori e, quindi, a fortiori alle loro
famiglie. Insomma, la ragione più preoccupante del declino del lavoro, e con esso
del diritto del lavoro, che contraddistingue l’epoca contemporanea risiede propriamente nella conclamata incapacità – per fasce sempre più ampie della popolazione
– del nostro contratto, anche quando è assistito da tutte le più incisive garanzie di
stabilità, di assolvere alla promessa epocale di garantire al lavoratore quelle che
sono state denominate le new properties563 ed in tal modo all’obiettivo di scalzare
l’istituzione familiare564. Non a caso, recenti studi di Schizzerotto dimostrano i legami familiari tornano ad essere decisivi per il destino professionale e di vita delle
persone. Esce però spiazzato, almeno nel settore privato, bisogna pur rilevarlo,
l’argomento storico secondo cui la disciplina sui licenziamenti è la causa degli alti
tassi di crescita dei salari reali.
Ora, il pendant della descritta erosione del reddito, con la quale, whether we
like it or not, dovremo continuare a fare i conti, consiste nel progressivo aumento
della rilevanza esistenziale di fenomeni che in passato, a differenza del lavoro,
erano relegati in una logica edonistica, totalmente individualistica, tanto da essere evocati con denominazioni che tradivano evidenti pregiudizi etico-economici565. Penso, ovviamente, ad esempio, al consumo ora assunto ad una crescente
importanza esistenziale sotto forma di cosa si consuma, ma anche di come si
produce e si commercializza il bene o il servizio consumato e – last but not least
– di come si finanzia il consumo stesso se è vero che il credito al consumo è in
rapido sviluppo anche nel nostro paese (sempre più spesso grazie ai prestiti che
si estinguono con la cessione del quinto dello stipendio). Ma il discorso è più
profondo: come afferma la dottrina civilistica più sensibile ai profili sociali, «occorrerebbe restituire una sostanza valoriale alla disciplina dei rapporti funzionali
al consumo inteso come disponibilità/uso di beni o servizi di cui la persona fisica
ha bisogno»566.
Dalla dottrina scandinava viene l’invito ad introdurre nel dibattito la categoria
del «diritto contrattuale sociale» che attiene ai contratti, non sempre tutti tecnicamente di durata, che assumono un’importanza centrale per le esigenze esistenziali
della persona (contratti di locazione, di credito al consumo, bancari etc.)567. In que562
Sennet 1998; Salmieri 2006.
D’Antona 1998, 315; Romagnoli 2006.
564
Suggestivo Mengoni 1990 sulla scorta di Glendon 1979; il parallelismo è ripreso anche da Chiarloni 1989, 57-60.
565
Sulle logiche antitetiche che hanno connotato storicamente il lavoro e il consumo cfr.
Reifner 1988.
566
Cfr. Nicolussi 2007 sulle orme di Reifner 2007.
567
Cfr. Wilhelmsson 1995 e per l’ampia letteratura successiva Reifner 2007.
563
678
sto contesto, il contratto di lavoro cessa di essere, se non l’unico, comunque quello
a cui si addice paradigmaticamente la qualificazione come «nervo della vita sociale»568. Una centralità storicamente scolpita dal fatto che il 1° c. dell’art. 36 cost. è
l’unica norma della cost. che utilizza la parola esistenza e che il primo articolo
«fanfaniano» della cost. stessa utilizza la parola «lavoro», quale espressione
dell’intera, dal punto di vista assiologico, persona umana569.
Ma sarebbe totalmente errato inferire che questo contesto renda old style la pretesa di assegnare all’impiego un grado rigido di stabilità. Chi poggia il giudizio di
valore del declino della disciplina limitativa dei licenziamenti sulla constatazione
empirica del suaccennato duplice declino – della diffusione e della capacità di produzione del reddito – del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato
incorrerebbe in un evidente salto logico. Dal fenomeno descritto deve essere tratta
una conseguenza di segno totalmente opposto: aumentano i rapporti di diritto privato – oltre che commerciali570 – in cui si riproducono le ragioni «giuslavoristiche»
che suggeriscono, da un lato, di limitare le obbligazioni delle parti in funzione di
rispetto della personalità umana571 e il potere di recesso del creditore con «un cenno del capo» e, dall’altro, di realizzare la traslazione del rischio dell’impossibilità
sopravvenuta legata a specifici eventi che riguardano la persona del debitore da
quest’ultimo al creditore. Giustamente si denuncia l’inconcludenza della monocultura dei doveri di informazione e si prospetta l’esempio del rischio legato al licenziamento non imputabile al lavoratore che l’impresa finanziatrice del credito monetario sarebbe meglio in grado di controllare in ragione delle previsioni sugli andamenti dell’economia. E il discorso dovrebbe, anzi, essere esteso alle malattie gravi
del debitore medesimo o degli stretti familiari ed eventuali altre significative sopravvenienze di carattere esistenziale572. Il tutto anche con la tecnica dell’inesigibilità, che ben può dirsi giuslavoristica se solo si rammentano i primi casi nella
Germania imperiale e weimariana in cui la stessa fu presa in considerazione.
Ed è proprio su questo piano che, malgrado il descritto (ed ahimè irreversibile)
ridimensionamento del lavoro, la dottrina non dovrebbe abbandonare la funzione
d’avanguardia che ha sempre giocato nell’evoluzione del diritto privato573, anche
se in una direzione diversa da quella perseguita nell’era industriale.
568
Sinzheimer 1911, 1236.
Mengoni 1998, 64. Poco importa, poi, se all’art. 1 Cost. il lavoro non è inteso solo
come subordinato (Scognamiglio 1978, 26).
570
Cfr. T. Bari 6.5.2002 (ord.), GI, I, 725 che dichiara, sulla base del principio dell’abuso di dipendenza economica, l’illegittimità dell’interruzione nella fornitura di capi di abbigliamento di alta moda ad un esercizio commerciale.
571
Cfr. Mengoni 1988, 1089 che riporta quale esempio classico di inesigibilità quello
dell’inquilino che finita la locazione non restituisce l’appartamento al tempo debito perché
immobilizzato a letto da una malattia.
572
Nicolussi 2007, 946-947.
573
Natoli 1967, 1095.
569
Luca Nogler
679
In altre parole, non sussiste solo l’atteggiamento prono all’ideologia liberista, e
quindi al diritto privato degli interessi patrimoniali oppure la posizione aristocratica di chi continua a crogiolarsi nella specificità del diritto del lavoro574, imprimendo alla nostra disciplina quella insularità che è stata recentemente rilevata da Sabino Cassese575. Perché i giuslavoristi – non solo italiani, beninteso – malgrado adottino in larga maggioranza logiche ormai interamente contrattuali, sono totalmente
assenti, se si prescinde da Hugh Collins, da quel fondamentale dibattito sui (forse
addirittura) nuovi, principi contrattuali di tenore generale e sul ripensamento del
diritto contrattuale innescato dall’integrazione europea? Non è forse in quella sede
che si discute e che in futuro si giocheranno le sorti, tra i molti altri profili, del recesso limitato, della priorità della tutela in forma specifica e del controllo di ragionevolezza degli atti privati? Perché, proprio ora che una buona parte della civilistica converge su queste tematiche e sui sottesi valori, il giuslavorista si ritrae nella
propria presunta autonomia e non si impegna, ad esempio, nella costruzione della
categoria dei contratti sociali576?
Con questi interrogativi si chiude, per così dire, il cerchio tracciato da questa
relazione la quale ha preso le mosse dalla focalizzazione dei valori (costituzionali)
che dovrebbero stare a monte della disciplina legislativa sui licenziamenti individuali. A Costituzione ampiamente approvata, Luigi Einaudi bollava ancora il termine «giusta causa» quale «mera enunciazione verbale», una «vuota escogitazione
libresca», una parole «priva di contenuto»577. «Gli interessi» – sostenne un gigante
del giuslavorismo europeo – «per essere presi in considerazione dalle norme necessitano di una previa determinazione di valore», una valutazione che risponde
all’esigenza di scopo dell’essere umano578 che vi è sospinto dalla sua insopprimibile aspirazione ad essere ovvero a relazionarsi. Si tratta di un problema eticopolitico che forse in questo periodo storico, dominato dallo scientismo tecnologico,
dallo scetticismo etico e, quindi, dal nichilismo imperante non casca più tanto bene. Ma ritengo che proprio questo stato delle cose rappresenti una ragione impellente per pensarci su, perché recuperare la consapevolezza dei valori e della loro
giusta dimensione rappresenta la sfida alla quale si possono, infine, ridurre tutti i
fili che s’intrecciano nel fenomeno umano del diritto.
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576
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577
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