Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 7 maggio – 23 giugno 2014, n. 14177 Presidente Stile – Relatore Lorito Svolgimento del processo La Corte di Appello di Potenza con sentenza del 25/1/11, in riforma della sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Melfi in data 17/3/09, accoglieva la domanda proposta da M.V. nei confronti della O.S. 4 s.p.a. (già Stampiquattro s.p.a.) avente ad oggetto la declaratoria d'illegittimità del licenziamento per giusta causa, con tutte le conseguenze economiche e giuridiche di cui all'art. 18 l. n. 300 del 1970 intimatogli in data 20/12/03. La Corte territoriale, per quello che interessa in questa sede, poneva a fondamento della decisione il rilievo fondante che la sanzione del licenziamento, irrogato per avere il ricorrente rivolto alla presenza di alcuni dipendenti, espressioni ingiuriose nei confronti del sig. D'E., quadro direttivo funzionario di direzione aziendale, non era proporzionata al comportamento addebitato. Secondo la predetta Corte venivano in rilievo al riguardo: lo stato di comprensibile apprensione nella quale versava il ricorrente, in quel momento fuori servizio, preoccupato per lo stato di salute in cui versava la consorte, anch'essa dipendente della società ed in stato di gravidanza a rischio, la quale, convocata in azienda per la restituzione di una chiave, aveva sollecitato un suo intervento in ufficio, nel corso del quale era insorta l'animata discussione con il D'E.; la situazione di un crescendo di tensione favorita anche dalle posizioni assunte dai responsabili aziendali espresse attraverso l'invito a giustificare la sua presenza e ad andarsene via; la vaghezza del richiamo indirizzato alla moglie del ricorrente per la restituzione delle chiavi di un cassetto, che conteneva anche istruzioni per l'uso del software, difficilmente qualificabili come documenti di pertinenza aziendale; la obiettiva assenza nelle frasi pronunciate dal ricorrente ("riceverai degli schiaffi dall'amministratore delegato sig. B. per ciò che sta accadendo" e "sei un ignorante") di una intrinseca valenza intimidatoria, apparendo piuttosto l'espressione di uno sfogo emotivo mosso dalla affectio maritalis ed accompagnato da una mal controllata gestione dei propri mezzi espressivi. Quanto ai fattori esogeni, riguardanti il rapporto fra la posizione del lavoratore e quella del datore di lavoro, i giudici di merito osservavano che il dipendente, lungi dall'aver manifestato intenzioni litigiose, si era limitato ad accompagnare la moglie presso lo stabilimento, fermandosi nel piazzale in attesa che completasse le formalità di riconsegna delle chiavi della cassettiera ed era intervenuto solo all'esito della richiesta della consorte, laddove il D'E. aveva sin dall'inizio mostrato di non voler proseguire alcuna discussione in presenza del M. La Corte territoriale considerava, quindi, conclusivamente, che la riprovevole frase del M., scaturita in un conteso ambientale di forte contrapposizione e frutto di uno scarso controllo delle proprie capacità e modalità di comunicazione, se pure idonea a ledere l'onore ed il decoro del diretto destinatario (come accertato in sede penale con sentenza passata in giudicato), non si configurava quale manifestazione di ribellione nei confronti degli assetti aziendali costituiti, così da trascendere lo specifico rapporto interpersonale ed a ledere in modo grave, sì da farla venir meno, la fiducia che il datore deve riporre nel proprio dipendente. Avverso tale sentenza le società in epigrafe ricorrono in cassazione sulla base di due censure. Resiste con contro ricorso il M. Motivi della decisione Con il primo motivo si denuncia vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione per non avere i giudici di merito proceduto a corretta e prudente valutazione dell'articolato quadro probatorio delineato in prime cure, affidando il giudizio ad apodittiche considerazioni inerenti al presunto clima di tensione e di conflittualità alimentato dalla provocazione della parte datoriale, di fatto non riscontrabile in alcuna delle deposizioni raccolte né in alcun atto del procedimento. Con il secondo mezzo di impugnazione si lamenta violazione e falsa applicazione di norme di legge (artt. 2104-2106 c.c.) e di contratto collettivo (art. 25 ccnl metalmeccanici, art. 1362 c.c.) nonché omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia. Osserva parte ricorrente che il giudizio sulla proporzionalità dell'atto espulsivo formulato dalla Corte territoriale, è frutto di evidente errata interpretazione delle norme contrattuali e codicistiche di riferimento, e di omessa valutazione di dati obiettivamente emersi nella articolata dinamica processuale. Viene all'uopo rimarcata, in particolare, la valenza degli accertamenti espletati in sede penale, culminati con sentenza, passata in giudicato, di condanna del M., in quanto colpevole del reato di ingiuria di cui al'art.594 c.p. per le espressioni profferite nei confronti del D'E., institore della società datrice e, quindi, alter ego dell'imprenditore in virtù dell'ampiezza dei relativi poteri gestori. Gli accertamenti in fatto compiuti in sede penale, consentivano, nell'opinione delle ricorrenti, di ravvisare nel comportamento assunto dal M., un grave fatto di insubordinazione, ampiamente lesivo del prestigio del datore di lavoro e non adeguatamente valutato, anche alla luce della disciplina contrattuale collettiva che, all'art.25, prevedeva la sanzione del licenziamento con preavviso per infrazioni alla disciplina ed alla diligenza del lavoro analiticamente descritte. Le censure, che possono essere esaminate congiuntamente per il nesso che le connota, essendo calibrate sulla contestata motivazione che sorregge la pronuncia di illegittimità del licenziamento, per non essere commisurata detta sanzione alla condotta del lavoratore, sono prive di pregio. Va rilevato anzitutto che, in ordine ai criteri che il giudice deve applicare per valutare la sussistenza o meno di una giusta causa di licenziamento, la giurisprudenza di questa Corte è pervenuta a risultati sostanzialmente univoci affermando ripetutamente (vedi Cass. 26 aprile 2012 n.6498) che per stabilire in concreto l'esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all'intensità dell'elemento intenzionale; dall'altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare. Anche nell'ipotesi in cui la disciplina collettiva preveda un determinato comportamento quale giusta causa di licenziamento, il giudice investito della legittimità di tale recesso deve comunque valutare alla stregua dei parametri di cui all'art. 2119 c.c., l'effettiva gravità del comportamento stesso alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, con l'ulteriore precisazione secondo cui la previsione di ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta in un contratto collettivo non vincola il giudice, dato che questi deve sempre verificare, stante l'inderogabilità della disciplina dei licenziamenti, se quella previsione sia conforme alla nozione di giusta causa, di cui all'art. 2119 c.c., e se, in ossequio al principio generale di ragionevolezza e di proporzionalità, il fatto addebitato sia di entità tale da legittimare il recesso, tenendo anche conto dell'elemento intenzionale che ha sorretto la condotta del lavoratore (vedi, fra le tante, Cass. 4 marzo 2013 n.5280). Il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell'illecito commesso - istituzionalmente rimesso al giudice di merito si sostanzia nella valutazione della gravità dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi al riguardo in considerazione la circostanza che tale inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della "non scarsa importanza" di cui all'art. 1455 c.c. (vedi in tal senso Cass. 10 luglio 2007 n. 25743), sicché l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (L. n. 604 del 1966, art. 3) ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (art. 2119 c.c.). Tale giudizio è rimesso al giudice di merito la cui valutazione è insindacabile in sede di legittimità se sorretta da adeguata motivazione, dovendo ritenersi (vedi ex plurimis, Cass. cit. n.6498/12) al riguardo che spetta al giudice di merito procedere alla valutazione della proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto alla condotta addebitata al lavoratore con riferimento a tutte le circostanze del caso concreto, secondo un apprezzamento di fatto che non è rinnovabile in sede di legittimità, bensì censurabile per vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione. Nell'ottica descritta appare pertinente il rilievo per cui la giusta causa di licenziamento è una nozione che la legge, allo scopo di adeguare le norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con una disposizione - ascrivibile alla tipologia delle c.d. clausole generali - di limitato contenuto, delineante un modello generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. L'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici. Ancora, mette conto rilevare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr. ex plurimis, Cass.16 ottobre 2013 n. 23530), il vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione. Al contempo la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti. Nell'ottica descritta, non può tralasciarsi di considerare che nel caso di specie la Corte territoriale ha reso, nei termini diffusamente riportati nello storico di lite, una motivazione perfettamente comprensibile e coerente con le risultanze processuali esaminate in ordine alla insussistenza della dedotta gravità della mancanza ascritta al lavoratore, valutando i dati emersi nel corso del procedimento penale, il compendio delle deposizioni testimoniali rese, le disposizioni contrattuali collettive disciplinanti la materia sicché, tenuto conto del ricordato ambito della facoltà di controllo consentita al riguardo in sede di legittimità, la decisione impugnata non resta scalfita dalle censure che le sono state mosse. In definitiva, il ricorso, in quanto privo di fondamento, deve essere respinto. Alla reiezione del gravame consegue la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio nella misura in dispositivo liquidata. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 100,00 per esborsi ed euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.