giordano bruno

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GIORDANO BRUNO
di Giancarlo Nobile
Sono passati quattrocento anni dal rogo di Campo de’ Fiori a Roma, il rogo che
uccise brutalmente Giordano bruno uno dei più grandi filosofi. Il primo filosofo
moderno, il primo filosofo della libertà, il primo filosofo della
democrazia moderna. Quel rogo non ha mai fermato il fondamentale
messaggio bruniano, anzi, quell’atto violento della chiesa, è stato in
questi secoli, il grido simbolico che sempre più forte si è levato
contro qualsiasi forma d’intolleranza, d’assolutismo, di violenza.
Dixit quod non debet nec vult resipiscere, et non habet quid repiscat nec habet
materiam resipiscendi et nescit quod debet resipissci Giordano Bruno dichiara: di
non volere e non potere ravvedersi e di non aver motivo né materia di ravvedimento
e di non sapere a quale proposito avrebbe dovuto ravvedersi. Con queste parole il
filosofo respinge le otto preposizioni ereticali del Cardinale Bellarmino volte ad
un’abiura del suo pensiero, il nolano respinge tutto e accetta la morte è il Dicembre
del 1599 tra poco più di un mese Giordano Bruno verrà bruciato vivo dopo che gli
viene imposto l’ultimo affronto, una mordacchia, gli serra la lingua per non farlo
parlare.
Accetta la morte il filosofo della gioia della vita, il filosofo che vuol portare la
cultura a tutta la popolazione perché sa che solo con la diffusione della cultura gli
uomini si possono incontrare e pacificare, accetta di morire il filosofo che si dichiara
Accademico di nulla, Accademia cioè di colui che mette in discussione le accademie
pietrificate da un pensiero monolitico. Accoglie la morte il nolano che aveva indicato
agli uomini, per la prima volta, la via maestra della responsabilità individuale e
sociale le basi della democrazia moderna.
La chiesa cattolica lo bollerà come heretico pertinace et ostinatissimo, ma
questa è l’immagine di una rivolta, di un uomo deciso ormai a morire per i suoi
convincimenti, impermeabile agli inviti che ossessivamente gli venivano rivolti.
Giordano Bruno nacque a Nola a pochi chilometri da Napoli nel 1548 figlio di
Giovanni e Fraulissa Savolino i genitori lo lasciarono libero di far crescere il suo
ingegno. Primo suo insegnate fu la natura ubertosa del nolano terra vulcanica
stracolma di vita. Bruno osservava l’infinito evolversi della natura, il suo mutare
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sempre nuovo e sempre uguale in un gioco in cui forze profonde giocavano eterne in
un susseguirsi di sempre nuove ma uguali, immagini.
Ecco come descrive ciò in De la causa, II: Si come ne, l’arte, variandosi in
infinito (se fosse possibile) le forme, è sempre una materia medesima che persevera
sotto quelle...non altrimenti nella natura, variandosi in infinito e succedendo l’una
all’altra le forme, è sempre una materia medesima..Non vedete voi che era sena si
erba e da quello che era erba si fa spica, da che era spica si fa pane, da pane chilo,
da chilo sangue, da questo embrione, da questo uomo, da questo cadavero, da questo
terra, da questo pietra ed altra cosa e così oltre, pervenire a tutte le forme naturali?
Perse presto i genitori e, visto il suo ingegno, i parenti lo inviarono a Napoli
presso i Domenicani per studiare – a quei tempi per un uomo del suo ceto per poter
studiare l’unica strada era entrare negli ordini religiosi - . Ma ben presto quel senso di
libertà, di vita, di conoscenza che lo invadeva – gli eroici furori – lo portarono ad
entrare in conflitto con l’angusto, miope incolto mondo religioso, chiuso nell’ottusa
difesa di un’inesplicabile fede, mummificato in un granitico dogmatismo.
Il suo primo atto di ribellione fu leggere il libro messo all’indice Elogio alla
pazzia’ dell’umanista Erasmo da Rotterdam, aveva davanti a se la possibilità di una
luminosa carriera ecclesiastica ma egli scelse giovanissimo di rompere gli schemi e
assumersi la responsabilità della sua vita.
Iniziò ad avere accuse di uscire dalla fede e di disobbedienza verso i superiori e
richieste di processi per atti ereticali. Fuggì dal convento dei domenicani.
Iniziò il suo pellegrinare per l’Europa. Divenne cittadino di quell’Europa di
fine ‘500 in cui i sanguinosi conflitti religiosi e sociali si susseguivano come sussulto
parossistico di una partoriente: stava nascendo, lentamente, l'Europa moderna:
l’Europa della Ragione.
Bruno fu vittima, testimone e padre di questo parto. Ovunque egli andasse si
scontrava con lo spirito medioevale delle religioni, del potere ottuso, dell’ignoranza,
della superstizione, ma incontrava anche gli uomini nuovi che costruivano un mondo
moderno di convivialità, di ricerca, di cultura. Ed egli li univa fondando per l’Europa
circoli filosofici e politici per costruire una rete d’idee per i tempi nuovi.
Era un indagatore nato, tutto ciò che era nella sfera dell’intelletto umano
diventava per lui occasione di studio: dall’astronomia all’astrologia, dalla magia nera
e bianca alla nuova fisica, dall’alchimia alla chimica. Smontava così tutte le credenze
cristallizzate del medioevo egli voleva capire e far nascere la scienza nuova che
avrebbe portato gli uomini a vedere al di là dell’apparente, delle paure, delle
superstizioni.
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Fu l’iniziatore di un’interpretazione nuova dell’uomo non solo nella sua sfera
intellettiva ma anche nella sua fisicità. Il corpo, che per secoli era stato posto come
parte reietta dell’esistenza, in contrapposizione all’anima ed al corpo mistico della
resurrezione: leggiamo questa descrizione bruniana di fanciulle da La cena delle
Ceneri: a voi altre, dunque, dico, gratiose gentili, pastorelle, morbide, gioveni, belle,
delicate, biondi capelli, bianche guance, vermiglione gote, labbra succhiose, occhi
divini, petti di smalto e cuori di diamante…
E’ una descrizione gioiosa del corpo, della sessualità; la vita nella sua piena
essenza naturale diviene per Bruno fondamentale rovesciando così la tradizione
cristiana della vita come sofferta attesa della morte e lì vi è la vera vita. Bruno
riprende Epicuro delle lettere: Della morte non occorre aver paura perché quando ci
siamo noi essa non c’è e quando essa viene noi non ci siamo.
Dunque Bruno riscopre il corpo, la vita, la gioia dell’esistenza, l’accettazione
della dicotomia interpretativa del bene e del male. Il genio di Nola aveva intuito che
noi non abbiamo il corpo, ma siamo il corpo; aveva compreso che quando scriviamo,
pensiamo, facciamo all’amore, mangiamo è il corpo che agisce, che entra nel mondo
e lo legge interpretandolo.
Ma tutti i corpi sono sullo stesso piano. Non vi è superiorità o inferiorità, vi è
solo la differenza delle funzioni e dei ruoli, funzioni e ruoli che mutano
continuamente mossi dall’ anima mundi che plasma la continua metamorfosi
(evoluzione?) della materia.
Il tutto inserito in un infinito universo di relazioni, d’opinioni, di verità. Tutte
legittime, tutte vere. Infiniti mondi abitano la Terra ed infiniti mondi abitano
l’Universo. Egli scrive in L’infinito universo et mondo: Or ecco, vi porgo la mia
contemplazione circa l’infinito universo e mondo innumerevoli.
Con Bruno abbiamo la presa d’atto, coraggiosissima per quei tempi, che dopo
il crollo delle Sfere Celesti, con la rivoluzione Copernicana e Galileana, che davano
un appagante confine oltremondano all’uomo, vi era il crollo della centralità europea.
Crollo che l’uomo del XXI secolo ancora non riesce ad accettare dopo ben due guerre
mondiali e la globalizzazione con l’emergere di nuove potenze.
Bruno comprende che quando arrivarono a Salùcar de barrameda il Porto di
Siviglia nel 1522, le superstiti navi della prima circumnavigazione terrestre iniziata
da Magellano e proseguita da Pigafetta, Siviglia è la prima città che incontra la gran
mutazione della globalizzazione, Questa non è già una città del tutto Europea, ma
diviene un punto della sfera Terrestre e su una sfera vi è un’infinità di punti tutti veri
e plausibili: nasce l’uguaglianza nell’indeterminatezza, cioè la modernità.
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Ne De l’infinito universo et mondo il genio di Nola vede crollare i falsi muri
che racchiudevano l’uomo europeo, erano rassicuranti, ma ottusamente pericolosi per
il dialogo paritetico con gli altri popoli egli scrive. Non sono fini, margini, muraglia
che defrodino e sottraggano la infinita copia delle cose. Indi feconda è il suo mare.
La filosofia bruniana è essenzialmente antiautoritaria, antigerarchica, a tutti i
livelli. Nell’universo infinito cade ogni idea di centro e, conseguentemente, di
primato di un aspetto della vita e della realtà su tutti gli altri. Non esiste un primato
della Terra rispetto agli altri astri, né individuabile un primato dell’uomo o dell’anima
umana, su piano ontologico.
L’uomo in questa visione cosmologica perde la sua centralità ed è solo
nell’infinito e deve assumersi la responsabilità della sua esistenza che è legata a tutti
e a tutte le cose. Nasce così con Bruno il relativismo etico che è la base della
democrazia moderna, nasce l’etica della responsabilità inscritta in quella collettiva.
Ma Bruno era ateo? Non certamente nei termini che abbiamo oggi. La sua
filosofia non esplicita la negazione dell’esistenza di un dio creatore. Ma, nel
contempo, pone dei problemi logici alla sua esistenza, questioni ancora
insormontabili per gli uomini che dicono di avere fede, Lui non si pose mai la
questione di dio non reputandosi teologo ma solo filosofo nella sua eccezione piena
‘colui che cerca una possibile verità’.
Bruno è troppo legato alla ragione per poter accettare acriticamente l’opinione
comune rifacendosi alla classica distinzione tra logos e doxa ove il logos trascende
l’opinione comune, per comprendere gli accadimenti e cogliere la sostanza della
realtà quale essa è.
Bruno fa sua la frase d’Eraclito Non dare ascolto a me. Ma al logos, è saggio
convenire che tutte le cose sono uno. Questa è la grande scoperta della civiltà greca,
che il nolano riprende in pieno, ed è la base della filosofia, della scienza e della
civiltà: dietro l’apparente molteplicità dei fenomeni, al di sotto dell’apparente ordine
della natura, c’è una tensione profonda all’armonia tra le cose che si vedono e le cose
che vede la mente.
Nella cultura greca per la prima volta gli uomini escono dall’esistenza guidata
dal mito e la guardano in faccia ricercando ‘al di là dell’apparente’ ciò che è
nascosto. Il nolano fa sue due tradizioni del pensiero classico quelle di Edipo e quella
di Odisseo.
Emblema della mentalità orientale, mitica, è la sfinge, che sovrasta l’uomo con
la sua enigmaticità. Ma, secondo la leggenda un uomo greco: Edipo (dal suo nome
Edipus: l’uomo che ha i piedi per terra cioè vive nella realtà), risolve, con il
ragionamento, l’enigma della sfinge e la precipita nell’abisso: il logos sconfigge il
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mytos, l’uomo si accinge a tramite la ragione alla comprensione della natura, della
propria posizione nella realtà e viverne in armonia.
Poi Odisseo che sfida il volere degli dei (simboli della paura che crea
l’impossibilità dell’uomo a comprendere e vivere la realtà) ed anzi giunto ad Itaca si
siede ai piedi di un olivo a discorrere, da pari a pari, con Pallade Atena la dea
dell’Intelligenza attiva, Odisseo è il simbolo dell’uomo nuovo – come si sente Bruno
- che sconfigge, con la propria intelligenza, con il ragionamento e la logica, il mytos.
Bruno riprende in pieno questa tradizione ed è da ciò che sgorga l’insolubile
contrasto tra fede (mitys) e ragione (logos) che lo travolgerà.
Ma per il nolano tale contrasto è una semplificazione sotto l’apparente vi è la
dicotomia tra fallibilismo e infallibilismo, tra una verità che non è capace di salvare
neanche se stessa (la scienza) e una verità che promette la salvezza a chiunque vi
aderisca acriticamente (fede).
E da qui nasce l’immagine bruniana della fenice che sceglie il nido nel fuoco
che la distrugge ‘con dubbio de reveder il sole, è questo dubbio, in tutta la sua
potenza, racchiude l’esperienza drammatica del suo pensiero.
Ce n’è abbastanza perché la chiesa di Roma con l’Inquisizione vedesse in
Bruno il suo mortale nemico. Occorre fermarlo. L’occasione venne dal Mocenigo
mercante veneziano – così descrive Bruno nel suo primo interrogatorio. Trovandomi
a Francofrte l’anno passato ebbi due littera da S.r. Gioanni Mocenigo, gentiluomo
veneziano, con le quali me invitò a Venezia desiderando secondo che mi scriveva che
io li insegnassi l’arte della memoria ed invettiva.
Dunque era stato invitato a Venezia per lezioni di mnemotecnica, in cui il
nolano eccelleva, ma il Mocenigo, nella sue gretta ignoranza, voleva sapere di magia
e tecniche di magia. Ma Bruno più volte aveva ripetuto che egli era un filosofo che
studiava le credenze magiche per capire gli uomini, le loro paure, le loro superstizioni
per poterle superare.
Mocenigo consegnò Bruno alla santa Inquisizione della Sacra Roma Chiesa
che per ben otto anni tenne chiuso Bruno torturandolo in modo abominevole. Ma non
ottenne mai la ricusazione del grande filosofo egli non aveva nulla di cui pentirsi.
L’epilogo tragico fu quel rogo del 17 febbraio 1600 che. Come tremendo
monito, mai si spegne nel cuore e nella mente degli uomini liberi.
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