PhiloSophia
Dalla sua morte sul rogo, a Roma, in Campo dei
Fiori, l’altera figura di Giordano Bruno, che in nome
della libertà respinge con il sacrificio supremo ogni
compromissione, ha generato nei secoli – quasi che le
fiamme del suo supplizio e impregnate dalla sua essenza si fossero riaccese di continuo nei petti umani –
l’ideale riferimento per i singoli o i gruppi di pensatori
che in ogni tempo successivo hanno tentato di dare al
mondo idee nuove, perciò indipendenti dalla oppressione dei precedenti modelli: quelli che immancabilmente divengono poi i tiranni della società che ad
essi deve conformarsi.
Ancora oggi chi ha sentito il nome di Bruno lo associa ad un individuo che seppe resistere a testa alta
davanti all’ottusa potenza del potere costituito, sia esso secolare, ideale o religioso. Quasi nessuno conosce
la sua opera e sa di quanto possiamo essergli debitori
quando prendiamo consapevolezza dell’ultimo nato in
casa nostra: l’Io. È difficile rendersi conto del contributo di Giordano Bruno nello sviluppo dell’autocoscienza. Del resto è incredibile la cecità degli uomini
verso quello che credono di possedere come un semplice dato di fatto: sono malauguratamente troppi coloro
i quali, nei confronti della coscienza desta e pensante,
hanno la medesima impressione di chi, vedendo un vaso di pregiata fattura, pensasse ad esso come un
capriccioso e casuale prodotto di forze naturali. Del resto la banalità che oggigiorno si stima essere in
ogni cosa è il prodotto del pensiero banale, ossia del pensiero monco: il pensiero che collassa prima di
pensare a fondo le cose e con ciò superando la parvenza di esse.
Ma torniamo a Bruno: il fatto importante della sua vita e della nostra evoluzione è stato lo spezzare i
rigidi limiti della volta celeste, infranta la quale ciò che va concepito è l’infinità.
Oltre un secolo prima, già Nicolò Cusano aveva embrionalmente esposto questo terrificante concetto,
ma a farlo valere con forza dirompente fu Bruno.
Secondo la concezione tolemaica (che spiritualmente vale ancora e che il sottoscritto ama con passione),
il cosmo è formato da sette sfere planetarie e racchiuso dalle stelle fisse, dietro le quali va pensata la
Divinità quale motore dell’universo.
In questa concezione il “cielo cristallino” chiude da fuori l’universo.
Il pensiero di spazio di Giordano Bruno si lanciò nella vertigine dell’Infinito-Illimitato. E ciò lo spinse
a immaginare mondi molteplici, soli remotissimi, altri sistemi planetari.
Con la cosiddetta “rivoluzione copernicana” la Terra aveva già perduto la posizione centrale, fissa,
intorno alla quale orbitava l’intero cosmo: Bruno radicalizzò la visione di Copernico estendendo anche al
Sole un ruolo di stella tra altre innumerevoli stelle. Questa totale mancanza di centralità divenne, dai secoli
seguenti ad oggi, un contenuto di coscienza.
Non si ha, di solito, contezza del substrato di smarrimento e terrore che si accompagnò a questa dissoluzione di limiti e certezze nell’abisso dell'infinità fisica.
I grandi come Copernico e Keplero furono rivoluzionari, ma per essi era ancora un presupposto indiscutibile il sistema planetario inteso come un’organica unità cosmica, un intero definito. Anzi, Keplero contestò“la fantasticheria sull’infinito” e confessò di provare un tenebroso brivido «al solo pensiero di trovarsi
errante in uno smisurato Tutto al quale fossero contestati i confini».
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L’Archetipo – Settembre 2014
In queste parole confessate dal poeta Arturo Onofri troviamo con chiarezza il sentimento di ogni
uomo nei confronti della “perdita del centro”:
...Un tragico silenzio
ottunde la stanchezza che mi duole...
un mutismo irreale, antecedente
alla natività dei mondi,
scava abissi impossibili, i cui fondi
precipitosi, intimano alla mente
un nulla smisurato.
Nei tempi remoti, Terra e uomo, in quanto creazione e mèta degli Dei, furono in assoluto al centro
dell’universo, mentre intorno ad essi, quale periferia, si intrecciavano le gesta delle potenze universali.
Occorre davvero rievocare nel pensiero e nel sentimento l’antica visione del cosmo per immergersi in essa,
averne sensazione. Solo cosí avremo un barlume di quello che abbiamo perduto e cosí potremo anche prendere consapevolezza di quello che abbiamo conquistato.
Il tradizionalismo si è volto all’antico ma, irrigidendosi in ciò, esso ha rifiutato senza condizioni l’arido e
detestabile mondo moderno: questo atteggiamento può essere comprensibile ma zoppica nella logica: infatti,
a penetrarlo troviamo che esso è soprattutto romanticismo elevato a potenza.
E pigrizia: poiché le anime si sdraiano nella confortante luce degli splendidi tesori delle compiute spiritualità, ma non osano avventurarsi nel mistero del presente, ove la concezione promossa dalle forze propulsive di cui Bruno fu veicolo ci ha guidato al desto sguardo sensibile che si specchia in un mondo privo di
Dei, in un cosmo fisico infinito.
Il problema – per molte anime la tragedia – si potrebbe racchiudere in una “semplice” domanda: a cosa
può servirci un mondo spoglio e arido, un infinito senza un centro di valore?
Il mondo senza Dei e senza Spiriti è il mondo che può essere visto e contemplato con sguardo sveglio,
netto e obiettivo: è il mondo in cui l’uomo può porsi sul primo gradino della destità non condizionato dallo Spirito universale, perciò in piena libertà individuale. In tale mondo senza centro, senza sostegno,
l’uomo può essere lui stesso il centro del cosmo, purché intuisca che a ciò è stato eletto: a reggersi su se
stesso.
Magari rendendosi conto che gli spiritualismi e gli idealismi appartengono alle certezze del passato: ora
divenute le comode grucce per chi non sa stare in piedi.
Tant’è che attraverso la concezione matematica dell’idea dell’infinito, divenuta un mezzo di sperimentazione spirituale, Giordano Bruno giunse alla dottrina delle monadi, le quali costituiscono l’uomo e ogni
altro fenomeno: attraverso le monadi che stanno alla base di tutti gli esseri, il divino è attivo e presente
all’interno di ogni evento e non supporta da fuori l’esistenza del cosmo, come nella concezione aristotelica: il
Deus ex machina.
Secondo quanto scrive il Dottore nel suo libro L’evoluzione della filosofia dai presocratici ai postkantiani,
la dottrina delle monadi di Giordano Bruno è il riflesso della lotta combattuta dall’Io per la sua esistenza
nell’epoca moderna. Quello che traspare di questa lotta è esprimibile con questa frase: Io sono una monade
e una monade è increata e imperitura.
È da questo punto realizzato che, come ancora Onofri ci rivela nei suoi versi, possiamo contemplare a
nuovo le sfere celesti, la nuova conoscenza dell’universo:
O musica di limpidi pianeti
che nel sangue dell’Io sdemoniato
articoli i tuoi cosmici segreti:
nella tua chiarità, che ci riscatta
dalla tenebra morta del passato,
la densità ritorna rarefatta.
Franco Giovi
L’Archetipo – Settembre 2014
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