Tomáš Zmeškal
LETTERA
D’AMORE
IN SCRITTURA
CUNEIFORME
TRADUZIONE DI LAURA ANGELONI
Prefazione di Alessandro Catalano
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Mentre guardava il quadro in cui l’angelo annunciava a Maria che sarebbe diventata la madre di Dio, Alice sentì che il
pittore medievale, stanco e ingobbito, che aveva dipinto il
quadro, doveva sicuramente essersi consultato con le donne
medievali che amava, con le amanti e madri dei suoi figli, riguardo alla sostanza della grazia di Dio, ed era davvero bene
informato, perché come avrebbe fatto altrimenti uno come
lui – un semplice uomo – a percepire e dipingere quell’incantevole bolla di grazia divina che lei stessa sentiva. Alice non
sapeva niente riguardo alle testimonianze dei mistici medievali, né dell’estasi, delle tenebre luminose e dell’incapacità
mistica di distinguere tra il sé e la gloria divina che si espande nelle galassie infinite. Maxmilián i cambiamenti provocati
dalla gravidanza li aveva certo notati e da uomo semplice
qual era si sforzava anche di capirli. Alice però non sapeva
che parole usare nel descrivere tutto ciò. Come spiegare la
condizione di gravidanza a quell’uomo che amava con tutta
se stessa e senza riserve, come spiegargli quell’esperienza che
lui non avrebbe mai provato. Si scontrò contro il muro della
lingua, un dirupo roccioso che all’improvviso li separava.
E poi un giorno, appena sveglia, quelle parole le vennero in
mente e così, d’un tratto, gli disse: «Una beatitudine, Maxmilián. Portare in grembo nostro figlio è una beatitudine.
Quando ancora si credeva nei cieli, penso che anche lì si provasse qualcosa di simile. Ma nella realtà… probabilmente è
molto meglio!». Nove mesi nella bolla di Dio e Alice avrebbe
voluto che non finissero mai. E dunque, nel momento in cui
Maxmilián le porse quel cucchiaino, proprio nell’attimo in
cui si portava alla bocca il suo indice pieno di marmellata
alle albicocche dall’odore penetrante, Alice si limitò a guardare la sua faccia meravigliata e con piacere indolente lasciò
che la sostanza profumata le si sciogliesse sulla lingua, poi
in bocca, finché tutta la sua dolcezza, con una sfumatura di
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amaro, arrivò fino al palato, e a quel punto Alice la inghiottì, o meglio la lasciò scivolare, delicata e voluttuosa, nella
gola. Maxmilián stava davanti a lei, la mano tesa in un gesto
di soccorso che si rivelò non necessario. Stava lì e guardava la sua bella moglie, seduta davanti al caffè mattutino, totalmente disinteressata a ciò che gli altri pensavano di lei, a
cosa sentivano, pienamente soddisfatta di sé e della sua vita.
Dopo aver inghiottito la marmellata si leccò di nuovo l’indice e dalla sua bocca uscì un suono che poteva dirsi appagamento, piacere, oppure sembrare un semplice schiocco di
lingua lievemente rozzo e indolente.
Maxmilián si domandò come dovesse chiamarlo, interpretarlo. E commentò: «Mi sa che il cucchiaino non lo vuoi,
eh?». E poi, quando Alice sollevò lo sguardo verso di lui,
chiese confuso: «Ma perché?».
«Voglio gustarlo con tutti i sensi, Maxi». Se tempo dopo
Maxmilián avesse riflettuto sulla sua vita insieme ad Alice,
se fosse riuscito, un giorno, a ragionare sul loro rapporto,
sarebbe tornato lì, a quella marmellata inghiottita, a quello
schiocco di lingua così intenso che lui non aveva saputo identificare, e che aveva segnato l’attimo in cui aveva cominciato a perderla. In quella bolla oppioide di dolcezza gravidica
Alice smise pian piano di essere amante e divenne per sempre
e irreversibilmente madre. La paternità non era nemmeno
lontanamente paragonabile a un’esperienza così significativa
ed era questo dato di fatto a preoccupare Maxmilián. Come
lei, nemmeno lui tenne per sé le sue sensazioni, e quando si
confidò con Honza, che era un progettista di radio a transistor e di mangiadischi portatili, cristiano, padre di quattro
figli, con una solida morale, l’amico gli spiegò:
«Sai Maxi, una donna quando rimane incinta e aspetta un
bambino è come un diodo. So che può suonare strano ma
io sono un ingegnere, studio l’elettrotecnica dei sistemi a
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bassa tensione, e solo così so spiegarlo». Essendo Maxmilián all’oscuro di quale fosse la funzione del diodo nel campo
dell’elettrotecnica, confuso chiese al suo amico di spiegargli
il senso di quello strano paragone.
«Il diodo lascia passare la corrente in una sola direzione e
una donna dopo aver partorito non sarà mai più la stessa, in
quanto uomo per lei sarai sempre al secondo posto». Questo
gli disse il suo amico Honza. «Quindi è normale ed è giusto
così. Rassegnati Max! Prima ti rassegnerai e prima ti sentirai
sollevato». Questa complicata analogia etico-elettronica era
estenuante e Maxmilián non tentò nemmeno di comprenderla, pur intuendo che amare ciò che non comprendeva gli
sarebbe stato più difficile.
La nascita del bambino fu per Alice uno sgradevole risveglio da quei nove mesi di lunga beatitudine. All’improvviso
cominciò a preoccuparsi di tutte quelle cose che preoccupavano Maxmilián già da tempo. Cominciarono gli incubi
e il desiderio di lasciare per sempre la sua terra, e di punto in bianco, nei momenti meno opportuni, veniva colta da
attacchi improvvisi di dolori reumatici. Voleva andarsene,
scappare, rifugiarsi col bambino e il marito in un posto dove
regnasse la pace e la tranquillità, senza soldati russi in giro.
Solo che lei non aveva voluto ascoltare quando, durante la
gravidanza, cercavano di convincerla, e ora nessuno aveva
più voglia né energia per fare qualcosa d’inaspettato o sorprendente. Al bambino fu dato il nome di Kryštof e passato
qualche mese Alice cominciò a desiderare di averne un altro.