Il posto della pratica tra Dewey e James: una

ROBERTO FREGA
Il posto della pratica tra Dewey e James:
una lettura deweyana di Pragmatism*
L’obiettivo di questo articolo è quello di precisare, via la recensione critica
di John Dewey a Pragmatism di James, un aspetto cruciale di ogni filosofia
autenticamente pragmatista, ovvero il modo in cui essa intende e definisce
il concetto di pratica. Nel farlo, svilupperò alcune riflessioni su come da
questa lettura di James sviluppata da Dewey emergano i contorni di un’epistemologia delle pratiche di conoscenza, che costituisce uno degli aspetti
più originali e meno riconosciuti del pragmatismo deweyano1.
In questo percorso emergeranno, inevitabilmente, punti di contatto e
distanza con il pensiero di James, con cui Dewey non ha cessato di confrontarsi, come il testo da cui prendiamo le mosse (“What pragmatism
means by practical”) ben dimostra. Per gli scopi della mia argomentazione
mi soffermerò tuttavia sui punti di distanza, proprio al fine di mettere a
fuoco come la stessa matrice intellettuale trovi in questi due autori formulazioni significativamente diverse.
Vorrei innanzitutto proporre una distinzione che giudico importante, e
che tornerà utile nel distinguere le varianti jamesiana e deweyana di pragmatismo, ovvero quella tra le nozioni di “effetto” e di “conseguenza”, entrambe e in modo diverso richiamate per cercare di definire, appunto, “ciò
che il pragmatismo intende per pratico”.
Una prima tesi che intendo sostenere è che, quantomeno per la versione di pragmatismo che fa capo a Dewey, il ruolo del concetto di pratica è
innanzitutto quello di consentire di definire la razionalità a partire dai modi
del suo funzionamento in azione (primato delle conseguenze) anziché a
partire dall’idea di efficacia strumentale (primato degli effetti). La distinzione tra primato degli effetti e primato delle conseguenze genera almeno
tre ordini di implicazioni concettuali ben distinti.
In primo luogo, essa è alla base della concezione pragmatista della veri* Una prima versione di questo articolo è stata presentata alla conferenza su James organizzata da Sergio Franzese (1963-2010) a Lecce il 17 novembre 2007.
1 Per una ricostruzione dettagliata della filosofia pragmatista come «epistemologia delle pratiche», mi permetto di rimandare ai miei due volumi, FREGA 2006a e 2006b.
Bollettino Filosofico 26 (2010): 183-194
ISBN 978-88-548-4673-9
ISSN 1593-7178-00026
DOI 10.4399/978885484673913
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tà, o quantomeno di una sua versione, che in Dewey si dispiega a partire
dal concetto di asseribilità garantita (warranted assertibility).
In secondo luogo, essa serve a rendere conto del primato logico ed epistemologico che il pragmatismo assegna alla scienza sperimentale. Questo
punto mi pare cruciale per comprendere il “dissidio” che oppone Dewey a
James (anche se Dewey lo presenta in modo molto più sfumato) sulla questione del ruolo giocato dal “fattore personale” in ogni impresa conoscitiva.
In terzo luogo, la distinzione tra effetti e conseguenze consente di scongiurare la riduzione del pratico all’utile, neutralizzando in tal modo uno
degli argomenti più in voga nella critica al pragmatismo.
Queste ragioni motivano l’introduzione di un’utile distinzione tra ciò
che chiamerò l’attitudine pragmatica e l’attitudine pragmatista in filosofia.
Questa distinzione si basa a sua volta su una distinzione tra due dimensioni
della pratica, che propongo di mettere in evidenza attraverso la distinzione
tra “effetti” e “conseguenze” quali diverse modalità di pensare il rapporto
tra pensiero e azione e tra teoria e pratica. A tal fine, definisco “effetto”
qualsiasi evento o stato di cose intenzionalmente prodotto, in modo tale
che il significato di ciò che lo ha prodotto si riduce al fatto di averlo prodotto. Definisco “conseguenza” ogni evento o stato di cose che, per il fatto di essere stato prodotto (intenzionalmente o non), contribuisce alla determinazione del
significato dell’oggetto o del concetto associato alla sua produzione. Osserveremo poi che la nozione di conseguenza trova il proprio luogo di origine nel campo della scienza sperimentale.
Vediamo meglio in cosa consiste la differenza. Il concetto di effetto implica la riduzione della causa al suo risultato. Ad esempio, per la pragmatica del linguaggio il significato del linguaggio consiste nelle modificazioni
(comportamenti, atteggiamenti, disposizioni, ecc.) prodotte in colui che
ne è il destinatario (cf. Morris). Al contrario, la nozione di conseguenza
implica semplicemente che la definizione della causa si ottiene a partire
dall’esame delle conseguenze che essa produce.
Nel caso di un’azione pragmaticamente orientata (ricerca degli effetti),
l’azione/effetto costituisce il fine da raggiungere. Essa è ciò la cui produzione esaurisce e giustifica il significato dell’oggetto o concetto che ne regola la produzione. Di conseguenza, l’attitudine pragmatica opera la riduzione del pensiero al suo proprio effetto, e conduce ad una comprensione
della pratica come ciò che è utile.
Al contrario, l’attitudine pragmatista implica che l’azione ha sempre un
valore di mediazione nel movimento della determinazione concettuale: l’a-
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zione ha uno statuto strumentale e non finale. Non c’è riduzione strumentale della causa all’effetto, ma riconduzione semantica delle proprietà di un
evento/oggetto alle condizioni e ai fini del suo utilizzo, ovvero alle conseguenze determinate dall’interazione con esso.
Mentre per la pragmatica la pratica definisce innanzitutto il fine al quale
sottomettere l’esercizio del pensiero (l’utile che si tratta di ottenere), per
il pragmatismo essa ha un ruolo diverso: ne determina le condizioni formali (e non solo materiali) di esercizio.
Se in chiave pragmatica l’attività cognitiva è sempre orientata agli scopi
della pratica, per il pragmatismo tale attività ha invece sempre luogo nel
quadro di una pratica, ovvero di ciò che Dewey chiamerebbe una situazione
problematica, la quale è caratterizzata dalle intenzioni dei soggetti agenti, da
vincoli materiali, da ipotesi d’azione che si tratta di verificare, da problemi
da risolvere e così via.
Vorrei ora provare, anche sulla scorta di questa distinzione, a svolgere
alcune riflessioni su come, a partire dai diversi modi di intendere lo statuto
del pratico, è possibile individuare alcune differenze costitutive nei pragmatismi di James e di Dewey. A tal fine prenderò come punto di partenza
la distinzione tra tre diversi ambiti di applicazione del concetto di “pratico”, che corrispondono a tre distinte categorie di entità, rispetto alle quali
si pone il problema della determinazione del significato. Tali entità sono gli
oggetti, le idee e le concezioni (world formula nel senso di James).
Significato degli oggetti. Quando si tratta di definire il significato di un
oggetto – ovvero di definirne le proprietà – il riferimento al pratico implica «la considerazione di tutti gli effetti di tipo pratico concepibili che
l’oggetto può implicare, quali sensazioni dobbiamo aspettarci da lui e quali
reazioni dobbiamo mettere in campo» (James citato da Dewey, in Middle
Works, vol. 4, p. 102, tr. it. DEWEY 2008). Secondo James, il riferimento
al pratico include la considerazione di tutti gli effetti che l’oggetto produce
su un soggetto qualsiasi: il significato di un oggetto sarebbe in tal modo determinato dal suo modo di influenzare le nostre attività pratiche e di determinare le nostre risposte. È qui evidenziato, in modo non ambiguo,
l’operare del “fattore personale”: il pratico è definito dall’insieme degli effetti (azioni e reazioni) che un dato oggetto produce su un soggetto per il
fatto di entrare in relazione con lui. In un’altra citazione, James richiama
condividendola la seguente affermazione di Ostwald: «tutte le realtà influenzano la nostra pratica, e questa influenza è il loro significato per noi».
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In senso generale, «“pratico” significa le risposte future che un oggetto
esige da noi o alle quali esso ci impegna» (ivi, p. 102, tr. it. cit.).
Qui mi pare emerga già un primo punto di differenza tra le concezioni
dei due autori, nonostante il fatto che in questo contesto Dewey tenda a
sfumare anziché ad esplicitare le differenze. Mentre in James il richiamo
agli effetti evoca innanzitutto il loro potere di modificare la soggettività (in
questo senso parliamo di dimensione personale nella concezione degli oggetti), in Dewey il riferimento al soggetto che percepisce e/o subisce le
conseguenze prodotte dall’oggetto è in realtà il soggetto sperimentale. Ciò
significa che la dimensione pratica delle conseguenze non è intesa nel senso
degli effetti prodotti su un dato soggetto, ma nel senso delle conseguenze generalizzate o delle regolarità di abitudine, secondo i principi dell’indagine
di tipo sperimentale. “Pratico” ha dunque per Dewey innanzitutto il senso
di attivo. Esso rinvia all’idea, centrale nel pensiero di questo autore, che
l’identità degli oggetti è determinata dai loro modi di agire e di patire, e
che di conseguenza la nostra conoscenza di essi deriva dai modi della nostra
interazione con essi (la conoscenza sperimentale come tecnica sofisticata
per sollecitare gli oggetti al fine di studiare le reazioni provocate dalle sollecitazioni). In Dewey la dimensione pratica è direttamente correlata ai
principi del metodo sperimentale, e in particolare all’idea che le entità riconosciute da una teoria vengono definite a partire dalle risposte che esse
forniscono ai test sperimentali realizzati per conoscerne le proprietà.
Significato delle idee. Il secondo ambito preso in considerazione da Dewey
riguarda il ruolo del “pratico” nella determinazione del significato delle
idee, ovvero, per usare una terminologia più attuale, nella determinazione
del contenuto concettuale delle espressioni. Data un’idea, la dimensione
pratica interviene nella determinazione del suo significato nella misura in
cui questo è stabilito dagli effetti prodotti dall’idea nel controllo di un percorso d’azione. Qui James e Dewey sembrano essere in perfetto accordo
quanto alla concezione strumentale e operatoria delle idee, considerate come strumenti di natura simbolica che mediano il nostro rapporto con la
realtà. Il contenuto pratico delle idee rinvia al fatto che il loro significato è
determinato dalle indicazioni operatorie che esse forniscono. Si pensi alla
differenza esistente tra il concetto di senso comune “acqua” e la definizione
scientifica “H2O”. Pur avendo lo stesso referente, i due concetti hanno un
significato diverso in quanto essi rendono possibili azioni di ordine eterogeneo. Mentre l’acqua è ciò che si beve, rinfresca, annega, permette di lavare,
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ecc. “H2O” è ciò che può essere scomposto per produrre idrogeno, che
evapora a 100 °C, è un solvente per certi prodotti, ecc. A questo livello,
“pratico” è l’attributo che qualifica la natura delle idee quando sono definite
a partire dalle azioni che esse rendono possibili. Il pratico è dunque alla base
di una teoria del significato centrata sul primato dell’uso.
Significato delle proposizioni e delle teorie (World formula). Il terzo caso contemplato da Dewey riguarda il significato di una proposizione o teoria (qui
Dewey, seguendo James, parla in realtà di “significato di una verità”, ma il
senso è quello qui indicato). Con questo terzo tipo passiamo dal piano semantico ad un piano più propriamente epistemologico: ciò che interessa non
è più qui la rilevanza del fattore pratico nella determinazione del significato
di un concetto o delle proprietà di un oggetto, ma il significato generale delle conseguenze rispetto alla determinazione della validità di concezioni date.
Il punto cruciale qui è espresso dal seguente interrogativo, con cui James
cerca di esemplificare la sua intuizione del senso autentico del pragmatismo:
«che differenza farebbe praticamente per qualcuno se fosse vera questa nozione piuttosto che quella?» (Pragmatism, in JAMES 2007, p. 30). Qui la differenza per qualcuno rinvia a ciò che prima abbiamo chiamato il “fattore personale”, che James definisce a partire dalla nozione di soddisfazione.
La connessione concettuale è dunque la seguente: le conseguenze di
una credenza in termini di impatto sulle persone ne determinano il valore,
e il valore ne determina la validità. In questo modo soddisfazione e verità,
attraverso la mediazione delle conseguenze, del valore e della validità, si
trovano ad essere connesse.
Sappiamo infatti che James ha affermato che il valore filosofico del
pragmatismo consiste nel fatto che esso ci consentirebbe di esaminare e valutare diverse concezioni metafisiche in competizione a partire dall’esame
delle conseguenze che la loro adozione implicherebbe sulla vita di una persona. Questo compito attraversa tutto Pragmatism e costituisce l’obiettivo
principale del terzo capitolo. Come osserva Dewey commentando James,
«il fattore pratico è allora dato dal valore di queste conseguenze: esse sono
buone o cattive, desiderabili o indesiderabili; oppure semplicemente nulle,
indifferenti. In quest’ultimo caso la credenza è inefficace, la controversia è
vana e convenzionale» (Middle Works, vol. 4, p. 102, tr. it. cit.).
Prima di esaminare la differenza tra le posizioni di James e Dewey rispetto a questo ultimo modo di intendere il ruolo del pratico nel pragmatismo, vorrei portare l’attenzione del lettore su un tratto formale che acco-
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muna le tre accezioni appena esaminate, e che mi pare rendere conto di un
aspetto distintivo importante delle filosofie dei due autori.
Nei tre casi appena esaminati (cioè significato degli oggetti, delle idee e
delle concezioni), il riferimento al pratico è operato da James secondo una
stessa forma di interrogazione: dato un “X” – dove X può essere un oggetto, un’idea o una teoria – qual è il suo significato? James associa a questa
forma di interrogazione un metodo di risoluzione, che consiste nell’esaminare le conseguenze – ma dovremmo forse iniziare a parlare di effetti –
prodotte dall’accettazione dell’X in questione. Questo spostamento di attenzione dai principi di giustificazione logicamente antecedenti alle conseguenze pratiche future è, come è noto, uno degli aspetti centrali del pragmatismo. Su di esso, tuttavia, si incentrano anche un elemento di differenza e di critica.
Da un lato, Dewey condivide con James la convinzione che il primato
della pratica introdotto dal pragmatismo in filosofia si esprime nel fatto che
il “Pratico” designa tutto ciò che è dell’ordine delle conseguenze, e che in
un modo o in un altro produce un effetto su uno o più soggetti.
Ci sono però anche importanti differenze. Nella prospettiva di James, il
richiamo metodologico alla pratica è l’espediente che ci consente di fissare
il significato e di stabilire il valore di una determinata concezione o credenza. Abbiamo visto come ciò sia possibile, ovvero attraverso la considerazione degli effetti connessi alla sua adozione, dunque attraverso l’applicazione generalizzata del principio del primato semantico degli effetti.
L’attitudine pragmatista in filosofia consisterebbe per James –naturalmente a condizione che la lettura di Dewey sia corretta – nel valutare il significato dei concetti e degli oggetti e le pretese di verità delle proposizioni e
delle teorie a partire dalle conseguenze benefiche o malefiche che il loro utilizzo produrrebbero sulla nostra esperienza. È questa l’interpretazione jamesiana di ciò che Dewey definisce come il “fattore personale” in filosofia.
Dewey intende invece il primato della pratica in filosofia, e il ruolo del
fattore personale al suo interno, in modo diverso. Riguardo a questo aspetto, il punto su cui i due autori paiono essere più distanti è ciò che Dewey
chiama la concezione «delle verità quali faits accomplis», che secondo l’autore caratterizza la concezione jamesiana del pratico, e dunque del pragmatismo. Questa concezione, emerge ad esempio laddove James afferma che
«l’intera funzione della filosofia dovrebbe essere quella di scoprire quale
differenza precisa ci sarà per te e per me, in un determinato momento della nostra via, se questa o quella concezione del mondo è vera oppure no»
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(JAMES 2007, p. 33). Il pragmatismo si configura allora come una sorta di
banco di prova per testare il valore di verità di concezioni e teorie date.
Qui i punti da mettere in evidenza sono due:
1. da un lato il fatto, già sottolineato, che si parta da concezioni date, il
che significa ricevute, elaborate da altri nel quadro di altre prospettive culturali e filosofiche;
2. dall’altro, questa insistenza nel concepire il pratico nei termini di
effetti su individui particolari.
In Dewey la concezione del pratico richiede una analoga presa di distanza da entrambi questi assunti.
Dewey rifiuta in particolare la premessa dell’argomento, ovvero la presupposizione di datità: dato un oggetto, un’idea o una proposizione vera, qual
è il suo valore visto a partire da e nei termini degli effetti ad esso associati?
Questo rifiuto assume almeno due forme:
1. In riferimento alla definizione degli oggetti, in quanto l’epistemologia deweyana afferma che l’oggetto di conoscenza è sempre un prodotto
del processo di indagine e mai un suo dato di partenza2: più che un dato,
l’oggetto è in senso proprio un prodotto, un costrutto, nella misura in cui
esso emerge dalle procedure sperimentali di indagine, le quali comportano
manipolazione attiva degli oggetti e dunque un rapporto attivo e trasformativo con essi3.
2. In riferimento al significato delle idee e delle «World formula», in
quanto il compito ricostruttivo che Dewey assegna alla filosofia non può
esprimersi in un’attività di chiarificazione analitica di significati già dati, ma
si estrinseca nell’invenzione di nuove formule.
Come abbiamo visto, nella versione di James si parte da una proposizione data, come ad esempio “Dio esiste” e si considera che l’elemento innovativo della filosofia pragmatista consiste nel determinarne la verità non
più attraverso una dimostrazione da principi antecedenti ma partire dall’analisi delle conseguenze prodotte dal fatto di crederla vera.
Questo però per Dewey non è sufficiente per delineare un atteggiamento filosofico autenticamente pragmatista. Oltre a questo, per Dewey è
necessario rivolgere gli strumenti del pragmatismo ai termini stessi che
2 Si tratta, come il lettore può osservare, di una chiara anticipazione della successiva
critica sellarsiana del “mito del dato”.
3 Per una ricostruzione analitica di questo ed altri aspetti dell’epistemologia di Dewey,
mi permetto di rimandare a FREGA 2006a. Per un resoconto non recente ma sempre attuale in lingua italiana si veda ALCARO 1972.
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compongono la proposizione in oggetto. La differenza è agli occhi di
Dewey radicale, in quanto mentre nel primo caso la filosofia si espone al
rischio di rimanere ancorata al peso di significati ricevuti (e delle relative
metafisiche presupposte), nel secondo caso essa perviene ad un livello molto maggiore di autonomia critica. Dice Dewey a questo proposito «la funzione primaria della filosofia non è quella di stabilire quale differenza corrisponda a diverse concezioni del mondo già date, ma di giungere a chiarificare il loro significato in quanto programmi di azione per modificare il mondo esistente» (Middle Works, vol. 4, p. 104; tr. it. cit.).
Qual è la differenza tra le due posizioni? forse, potremmo dire, la differenza sta nel fatto che mentre per James la pratica entra in gioco soltanto
nel momento del testing (stabilire la verità di una concezione ricevuta – la
verità come fait accompli – a partire dall’analisi dei suoi effetti), per Dewey la
pratica è costitutiva della teoria stessa, in quanto una determinata concezione è pratica nella misura in cui essa è vista innanzitutto come un programma di azione.
Vale la pena, qui, leggere per intero la citazione di Dewey: «Si confrontino le due affermazioni seguenti che Dewey riprende da Pragmatism di
James: “la nozione di Dio […] garantisce un ordine ideale sempiterno”»
(Pragmatism, p. 16; tr. it. JAMES 2007, p. 62). «Dunque è qui, in questi richiami emotivi e pratici, in questa corrispondenza al nostro concreto atteggiamento di speranza e di attesa, in tutte le delicate conseguenze che le
loro differenze comportano, che si trova il significato reale di materialismo
e spiritualismo» (ivi, p. 107; tr. it. p. 67, c.m.)».
Appare evidente come James, ancora una volta e in modo esplicito,
metta in correlazione la dimensione del significato con la qualità di effetti
specifici prodotte sulle esistenze di individui concreti. Siamo, dunque, nella dimensione della particolarità e non della regolarità, del feeling e non del
concetto.
Proseguiamo con la citazione di Dewey, che mira a distinguere il problema della determinazione della validità della credenza da quello della determinazione del significato dei termini attraverso i quali essa è formulata:
«Quest’ultimo metodo – ovvero il metodo pragmatico secondo James –
per la determinazione del significato, poniamo, di un Dio spirituale, consente di sostituirlo con la concezione di esso quale “potere sovrumano” che
opera la preservazione eterna di qualcosa? È in grado, cioè, di definire Dio,
fornire il contenuto della nostra nozione di Dio? Oppure si limita ad aggiungere un valore ad un significato già predeterminato? E, nel caso sia vera
l’ultima ipotesi, che cosa realizza questi valori conseguenti, l’oggetto Dio
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così definito, la nozione di esso oppure la credenza (l’accettazione della
nozione)? In nessuna delle alternative le conseguenze buone o di valore
possono chiarire il significato o la concezione di Dio, in quanto l’argomento afferma che esse procedono entrambe da una precedente definizione di Dio. Esse non sono in grado di provare o di rendere più probabile
l’esistenza di un tale essere in quanto, secondo l’argomento, queste conseguenze desiderabili dipendono dall’accettazione di una tale esistenza, e
nemmeno i pragmatisti sono in grado di provare l’esistenza di qualcosa a
partire da quella di conseguenze desiderabili che esistono soltanto quando e
se l’altra esistenza sia data» (Middle Works, vol. 4, p. 106, tr. it. cit.).
Nel passo che segue, Dewey sposta l’attenzione dall’interpretazione jamesiana del metodo pragmatico alla sua propria e dice: «D’altro canto, se
il metodo pragmatico non è applicato semplicemente per stabilire il valore
di una credenza o di una controversia, ma al fine di fissare il significato dei
termini implicati nella credenza, le conseguenze che ne derivano possono
servire per costituire l’intero significato, sia intellettuale che pratico, dei
termini. Quindi il metodo pragmatico semplicemente abolirebbe il significato di un potere antecedente che perpetua eternamente la sua esistenza, in
quanto tale conseguenza non deriva dalla credenza o dall’idea, ma dall’esistenza, dal potere. Non è dunque in alcun modo pragmatica». Il non essere
pragmatica, qui, è inteso dunque innanzitutto dal punto di vista dello statuto dei concetti che tale teoria presuppone.
La presupposizione di datità è in se stessa fallace in quanto la credenza
rispetto alla quale James vorrebbe utilizzare il pragmatismo come metodo
per testarne la verità, è in realtà per Dewey una credenza rispetto alla quale il problema stesso della verità non può essere posto in modo sensato.
Ciò in quanto, in una prospettiva strettamente verificazionista, i concetti
su cui questa credenza sono costruiti non dispongono di alcun criterio di
verifica. In questo senso, vediamo che l’appello alle conseguenze si configura come qualcosa di ben distinto rispetto al richiamo agli effetti.
Se per James l’ordine degli effetti, lo abbiamo visto, rinvia a ciò che
cambierebbe nella mia vita tra accettare o non accettare una determinata
credenza, per Dewey l’ordine delle conseguenze è quello delle differenze
empiricamente osservabili che discendono dal mettere in atto corsi d’azione che abbiano quale premessa l’una o l’altra credenza.
In termini diversi, potremmo dire che il primo metodo (ovvero quello
che agli occhi di Dewey è adottato da James) pone la filosofia nella condi-
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zione subordinata di dover rispondere ad interrogativi che provengono da
altrove, che essa riceve dalla tradizione come dati. Al contrario, per
Dewey il riferimento al pratico costituisce l’occasione per formulare nuovi
interrogativi, concetti e teorie filosofiche. In questo senso, cito Dewey:
«per il pragmatismo sembrerebbe essere non pragmatico accontentarsi di
ricercare il significato di una concezione il cui significato inerente non sia
stato fissato dal pragmatismo stesso». Ora, osserva Dewey, affinché si dia
que-st’ultima condizione, è però necessario «che la concezione non sia
considerata come una verità ma come un’ipotesi di lavoro». La differenza
tra i due punti di vista, ancora una volta, può essere ricondotta alla distinzione iniziale tra effetti e conseguenze. Laddove per James il riferimento al
pratico è dato dal fatto che il credere vera una determinata idea produce
determinati effetti (come quando dice che credere in un progetto divino
rafforza la nostra fiducia nell’ordine e significato dell’esistenza), per
Dewey il riferimento al pratico richiede sempre una concreta operazionalizzazione delle idee: la conseguenza denota in questo senso non qualsiasi
effetto associato ad una determinata credenza, ma unicamente quegli effetti
prodotti dal-l’utilizzo controllato dell’idea. È in questo senso che, osserva
Dewey, l’i-dea di disegno divino, come tutte le altre nozioni teologiche,
dal punto di vista pragmatista semplicemente non è operazionalizzabile
(che significherebbe, infatti, verificarne empiricamente le condizioni di verità?). Ciò che separa Dewey da James è dunque la modalità di fissare il limite da assegnare all’idea, controversa ma non del tutto irricevibile, di una
forza verificativa connessa alla bontà delle conseguenze. Laddove per James
la soddisfazione associata ad un’idea va intesa nei termini di effetti “buoni”,
piacevoli sulla vita delle persone, per Dewey essa va intesa come potere
predittivo, ovvero capacità di produrre conseguenze previste o anticipate
dall’idea, e che proprio in quanto tali ne costituiscono la verifica. In un caso, la soddisfazione è associata alla produzione di un effetto buono, in
quell’altro al rispetto di una procedura di indagine controllata.
Un altro indicatore della differenza tra i due autori su questo punto è
dato dal diverso modo di intendere il significato della dialettica peirceana
tra dubbio e credenza. James parla qui di una soddisfazione connessa all’emergere di un’idea che placa la sensazione di inquietudine, e non esita
quindi ad usare espressioni come «soddisfacentemente per noi» (Pragmatism, tr. it. JAMES 2007, p. 39). Il soddisfacimento è relativo ad un criterio
soggettivo, relativo al nostro sistema di credenze, che può e in genere è diverso da quello dei nostri altri simili. James può allora spingersi anche ol-
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tre, osservando che «un’opinione conta come “vera” solo in proporzione a
quanto gratifica il desiderio individuale di assimilare la novità alla propria
esperienza, alle proprie convinzioni depositate» (ivi, p. 40). Dewey, al
contrario di James, ancora in modo più esplicito il “soddisfacimento” a conseguenze la cui natura è inderogabilmente pubblica ed intersoggettiva. La
connessione tra verità e soddisfazione è dunque sempre mediata dal riscontro dei fatti, in un modo che in James non è dato di riscontrare con altrettanta chiarezza.
“Pratico” in questo senso non designa più allora il banco di prova che
consente di assegnare alle teorie ricevute dalla tradizione un valore di verità a partire dagli effetti che esse producono (su di noi e sul mondo), ma diventa la base di una metodologia di ricerca per formulare nuove ipotesi.
Qui emerge in modo netto il differenziale introdotto nelle varie versioni di
pragmatismo dalla diversa comprensione ed accettazione dell’impatto del
metodo scientifico sperimentale sul pensiero filosofico e su quello del senso comune. Dewey, differenziandosi in questo tanto da James quanto da
Peirce, ha concepito questo impatto non tanto nei termini delle procedure
di verifica – il “banco di prova” di James – ma di quelle di scoperta, attraverso la formulazione di nuove ipotesi.
Ciò equivale a dire che il richiamo alla pratica consiste nel fatto di attribuire all’azione un primato che è dell’ordine della mediazione tanto nell’attuazione del pensiero in generale quanto in quello della produzione della conoscenza in senso più specifico, nel senso che l’azione non è né punto
di partenza né punto di arrivo dei processi di pensiero (che non ne sono
dunque determinati né in modo causale né in modo finale); essa è sempre
fattore intermedio all’interno di una procedura sperimentale di indagine. Secondo
Dewey il pensare è dunque in senso proprio inseparabile dall’agire (la logica sperimentale di Dewey si baserà, in effetti, sull’idea che il pensiero è in
realtà, comportamento intelligente).
Queste osservazioni dovrebbero aver mostrato in modo sufficientemente
chiaro i pericoli legati al fatto di stabilire un’equivalenza semplice tra pragmatismo, pratica e primato delle conseguenze. Il confronto operato da
Dewey tra la propria dottrina e quella di James chiarisce che ad essere pratico non è mai un significato in ragione dei suoi effetti sulla nostra esperienza
(Middle Works, vol. 10, p. 366, tr. it. cit.). Sul piano semantico il rapporto
sembra piuttosto rovesciarsi: è l’ontologia sperimentale dell’essere come potenza di agire e di patire che si afferma nel concetto di conseguenza. È dun-
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que sui piani logico, antropologico ed epistemologico che la rilevanza filosofica del concetto di pratica per il pragmatismo deve essere ricercata.
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