Relazione perversa tra diritto e società - Digilander

Master in criminologia critica per la prevenzione e la sicurezza
università degli studi di Padova
Relazione perversa tra diritto e società
Candidato: Dott. D'Andrea Domenico
1) Il diritto, un discorso di potere o di poteri?
2) L'astrazione del diritto penale e la sua crisi.
3) Il carcere scuola di malavita.
4) L'ambiguità dell'ergastolo e il diritto di poter morire.
1) Il diritto un discorso di potere o di poteri?
Si tratta di una riflessione certamente non nuova nella quale abbiamo spesso potuto vedere la
relazione di causa ed effetto che intercorre tra il teorico e il reale che si dipana tra le ipotesi di
continuità ed ipotesi di interruzione.
Per meglio specificare si tratta di chiedersi a cosa corrisponde quando applichiamo
formalmente le norme, spesso con tenore coercittivo, ad una società che tende a diventare
sempre più complessa ma soprattutto che tende a produrre e a riprodurre dentro di se norme
informali.
Non so se mi sarà dato di chiamare questo circolo vizioso “relazione perversa”, un armonia
perversa che si dipana tra l'informale di una coscienza collettiva ( detta alla Durkahim ) e i
contenuti normativi di potere (detti alla Foucault ).
Cosi com'è esposta, questa armonia perversa, non può non essere alla perenne ricerca di
precise forme di legittimazione, utile ed unico strumento di ricostruzione dell'efficacia
normativa, vale la pena dirlo, anch'essa perennemente in crisi.
Pertanto, crisi della penologia, necessità di un maggiore controllo sociale attraverso il potere,
ricerca di nuove forme di giustizia e analisi delle nuove forme delittuose diventano gli
argomenti principali del problema di contenimento di questa armonia perversa.
Alla base di questa diatriba pongo quel concetto dualistico di potere .
Dualistico perché il potere tacito, informale, contagioso e necessitato di una società
complessa, che pur in una iper produzione normativa percepisce un senso di anomia che in
suo seno riproduce norme di etica ( intesa come modo di agire) e di coscienza morale
comunque compatibili con quelle dettate dal legislatore che emana quel potere legittimo,
formale ma spesso cieco e poco equo, contraddittorio e astratto del potere normativo.
Nella relazione tra diritto e società prendo spunto dalla soluzione di potere che ci presenta
Foucault che appunto pone il concetto di potere in una soluzione di continuità con l'analisi
marxiama pur diventando evidente l'incompatibilità come centro autonomo dominante
imposto ad una collettività dominata proprio perché la collettività, oggi sempre più
complessa, tende ad autogestirsi eticamente appunto. Basta guardare il concetto autopoietico
nella teoria dei sistemi di Lhumann.
Quindi interpretando foucaultianamente il concetto di potere in un contesto di palese
complessità non possiamo non dedurre che tale concetto sia concepito per esclusione. Ed
infatti non può che essere così se pensiamo che lo stesso Foucault concepisce il potere in
una visione tipicamente marxista modellato sul concetto di merce e di scambio in una
cornice di politica e di economia(1).
Abbiamo l'affermarsi di un potere ( di merce e di scambio) coattivo ed accentratore che tende
ad eliminare centri di potere inferiori e decentrati ( la causa) e la produzione normativa
formale ( l'effetto).
A queste condizioni non si può non cominciare a pensare ad una crisi del sistema penale e
della penologia in generale visto che così esposto non è più un potere di uno stato
accentratore ma si tratta di un potere che coinvolge l'itera costruzione sociale che per la sua
complessità non possiamo non definire di casta. Oserei dire; non più il potere ma i poteri che
nascono spontanei e che sono strategici ed informali in ogni singolo settore della complessità.
Potremmo definire questa pluralità di poteri come le totalità delle norme che plasmano e
ordinano il sociale in un tenore di collegamento tra un livello generale ed un livello
particolare ed è proprio questo collegamento discontinuo che incrementa la complessità
sociale ed incrementa il livello normativo etico-informale della società mettendo in crisi i
sistemi normativi formali come il sistema penale.
Qui mi preme sottolineare che non è il potere inteso da Rella come forma di sapere e di
conoscenza dei soggetti da dominare ad interessarci quanto piuttosto quel potere che svincola
il dualismo di Travels tra diritto e società cioè quella forma di potere che logora il sistema
normativo ed eccita la società complessa spingendola ad una produzione normativa
informale.
Nello stesso quadro sistemico Foucault circoscrive anche la storia degli istituti penitenziari e
la relativa crisi dell'intero suo sistema.
È il potere a produrre se stesso producendo la realtà sociale e manifestandosi in tutta la sua
etereogenità, etereogenità che lega e slega il rapporto tra diritto e società. Lo stesso Foucault
non disdegna di considerare anche il concetto di libertà con il quale intende smascherare la
sottigliezza dei processi di condizionamento dei singoli aspetti dell'individuo come la
sessualità, le condizioni di vita ed economiche inglobando i singoli nella rete del potere.
Questo tipo di potere è mistificazione delle strutture del controllo sociale al punto da
sembrare di esercitare una coazione immediata sui rapporti sociali e a queste condizioni
bisogna smettere di pensare ad un diritto penale atto a reprimere i delitti ( funzione
intimidatoria) quindi un diritto penale non per punire meno ma per punire meglio.
Mi rendo conto di quanto questa premessa possa risultare estremamente astratta dal punto di
vista teorico ma la ritengo comunque indispensabile se penso che questa è una delle cause
che spingono i singoli a non interessarsi del diritto che diventa cosa solo per pochi esperti, le
norme non vengono interiorizzate e restano estranee alla conoscenza di chi deve osservarle
creando frattura tra diritto e società.
Diversa è l'opinione di Ferri che ci prospetta l'idea che il diritto di punire non può essere
dedotta dalla colpa o dalla responsabilità morale del delinquente.
Nello stesso modo in cui ho inteso i poteri (al plurale) invece del potere (al singolare), il prof.
Mosconi smaschera la pluralità della sociologia del diritto parlandoci appunto di sociologie
del diritto in contrapposizione al dualismo di Treves che ci prospetta l'enigma del se è la
società che vive nel diritto o è il diritto a vivere nella società, dove complessità e continuità
reggono questo sposarsi. La continuità è però spesso minacciata dalle tensioni che come per
quel concetto di potere appena esposto portano alla rottura di questo sposarsi tra diritto e
società.
La realtà sociale resta comunque un aspetto vivente del diritto che vive dentro sistemi di
relazioni variabili.
Per Treves il potere informale si regge su libertà e ragione che sono i criteri guida nel nesso
tra diritto e società.
Morin definisce queste tensioni come dissipatrici, tensioni che assieme alla complessità e alla
contingenza che si riscontrano nelle relazioni tra diritto e società producono spesso processi
negativi di disintegrazione, di ingovernabilità, di autodistruzione, ma anche iper produzione
normativa che fa diventare la norma stessa incoerente ed inefficace.
Oggi tantissime norme, proprio per questo processo perverso sono inefficaci, contraddittorie,
vaghe, con effetti limitatissimi, addirittura producono effetti opposti rendendo l'itero sistema
appunto paradossalmente perverso.
Per esempio più la norma è inefficace più il legislatore tende ad introdurre nuove norme, più
introduce nuove norme più si crea caos che genera impotenza, distacco e disinteresse per chi
deve osservarle.
Più la costellazione di norme (formali) tende ad invadere i rapporti sociali più la società
complessa tende ad autogestirsi, diventano più efficaci i mezzi informali del controllo sociale
come la tecnologia, la comunicazione, le relazioni che comunque producono coesione
sociale, anziché quelli formali come le norme che tendono a dissolverla.
È la complessità e la realtà sociale che sviluppano i processi di integrazione e non il diritto
che resta una cosa solo per tecnici ed esperti.
Un potere che si manifesta come plurimo e settoriale non è più un potere in grado di creare
coesione creando l'opinione diffusa che le norme non sono applicate equamente, sono
irraggiungibili e non appartengono al singolo.
Le norme restano lontane dalla realtà sociale quindi non sono ne attenzionate ne
interiorizzate. È la società che a questo punto, autopoieticamente, emana norme informali per
il proprio equilibrio mentre il diritto si perde nella complessità e nelle sue contraddizioni. Il
diritto non porta equilibri per ridurre la complessità come dovrebbe ma l'incrementa. Se per
Treves esistono due sociologie del diritto: una del sociologo che vede un diritto che vive nella
società; e una del giurista che vede una società che vive nel diritto a buon ragione, vista
questa
complessità,
vista
questa
relazione
perversa,
visto
lo
sviluppo
dell'autoregolamentazione informale rispetto alla formale, il prof. Mosconi ci prospetta una
terza sociologia del diritto, una terza via; quella dove il nesso di continuità di Treves tra
diritto e società è interrotto, dove i rapporti sociali prendono fisicità, pienezza e autonomia.
In queste condizioni non possiamo non percepire tutta la fragilità del sistema penale e di
conseguenza del sistema penitenziario andando alla ricerca di nuove forme di giustizia.
La crisi della penologia si evince un po da ogni dove ed in particolar modo con un aumento
vertiginoso, a livello mondiale, di popolazione detenuta.
Anche in questo settore, se vogliamo dirla tutta, vi troviamo una fetta di potere attribuito a
figure terze come gli psichiatri che non disdegnano il loro potere di vita e di morte che
Foucault non esita a definire ubuesco, cioè grottesco. Questo discorso esiste ma non è un
discorso di verità bensì un discorso di potere perché può decidere della vita e della morte di
un altro.
2) L'astrazione del diritto penale e la sua crisi.
Considerata la variegata vastità della materia che si presenta con tutti i suoi elementi di
farraginosità e che ci conduce dritto a quel pensiero abilizionistico, ci limiteremo qui ad
esporre solo alcuni degli aspetti del diritto penale in modo da soffermaci con maggiore enfasi
di dettagli sul concetto della pena e dei suoi effetti.
Se il diritto in se è astrazione, questa astrazione nel diritto penale è palesemente riscontrabile.
Queste partono da astrazioni dogmatico-formali, che riguardano i beni oggetto di tutela, il
loro valore nel tempo e nello spazio, i fatti e i comportamenti, gli effetti e l'efficacia della
sanzione. Per attraversare le astrazioni contestuali che sono quelle connesse al contesto
sociale che assorbe il diritto penale. Queste si riferiscono ai valori, quindi di un diritto penale
che dovrebbe garantire questi valori attraverso la prevenzione, la sicurezza e la retribuzione
fino a giungere all'astrazione fondativo-funzionale della pena come conseguenza delle
precedenti anch'essa, per riflesso, sostanzialmente in crisi.
Il diritto penale non è più l'espressione di quei valori insiti nella seconda astrazione ma
diventa una mera scatola di attrezzi per risolvere emergenze e problemi urgenti e particolari,
favorendo, con la sua complessificazione e disapplicazione, un diffuso senso di disaffezione
del cittadino nei confronti delle norme.
In tutto questo risulta evidente l'abbandono di quei valori generali ed astratti che si sono
sempre serviti del diritto penale per orientarsi verso le soluzioni pratiche presentateci dalla
complessità sociale. Abbiamo dunque un diritto penale del tutto disapplicato, non equo
perché selettivo. Un diritto penale che diventa sempre più il bisogno incontrollabile di
vendetta violenta. Un diritto penale che perde la sua funzione di prevenire e controllare per
diventare un mero punire, punire meglio, allora il diritto penale non può non essere solo
violenza e vendetta.
La stragrande maggioranza dei delitti rientrano nel numero oscuro, molti delitti non vengono
nemmeno denunciati per tutta una serie di ragioni, quelli denunciati non trovano un
colpevole, non tutti quelli che giungono al processo penale terminano con una condanna,
quelli che terminano con sentenza di condanna attribuiscono al reo tutta una serie di strumenti
per sfuggire all'esecuzione della pena, il diritto penale e il carcere restano cosa solo per pochi
disgraziati. Abbiamo pertanto un diritto penale che non riesce a dare risposte adeguate poiché
collassato.
Ad una tale situazione di stallo e di improduttività i cittadini rispondono con un crollo di
fiducia verso tutte le istituzioni penali.
Il sistema penale viene visto come fortemente inefficiente, burocratizzato e selettivo, lontano
dalla realtà sociale complessa e dalla realtà umana. Un sistema che beffeggia le vittime e
disprezza gli autori di reato.
I paradossi del diritto penale italiano sono davvero troppi per poterli elencare tutti, ne cito
uno per tutti riferendomi alla tendenza a far diventare la custodia cautelare in carcere non più
un eccezione ma una regola costante che in barba a quel principio costituzionale che appunto
ci dice che l'imputato è considerato innocente fino alla sentenza definitiva di colpevolezza,
avremo come regola un innocente in carcere che nel frattempo con le lungaggini dei
processi avrà scontato diversi anni fino alla sentenza che lo vedrà colpevole e, da colpevole,
tornerà libero.
Avremo un sistema penale così inefficiente che risulta svuotato e privo di ogni ragione di
esistere. La norma penale diventa un mero feticcio, una ricetta perversa buona per curare tutte
le malattie, un mero reprimere e punire, anche in eccesso.
Dall'analisi di Pavarini si evince un vertiginoso incremento della popolazione detenuta, anche
a livello mondiale. Mentre dall'analisi foucaultiana si evince che il carcere è dolore, è
sofferenza dell'anima quindi la ricetta perversa consiste proprio nell'infliggere sofferenza ad
alcuni ( generalmente membri di classi più poveri e deboli ) per poter curare con questa
l'insoddisfazione e l'insicurezza percepita ( solo percepita visto che dalle statistiche si evince
una netta diminuzione dei reati più gravi ) di altri ( generalmente membri di classi più ricche
ed agiate ).
Non vorrei peccare di depauperamento critico verso la vastissima materia del diritto penale
ma preferirei soffermare la mia attenzione sulle sue conseguenze, cioè la pena e il sistema
carcerario, anch'esso perennemente in crisi poiché ricco di paradossi, discresie,
contraddizioni e critiche. La dannosità del sistema carcerario, anch'esso perverso, la
percepisco tutti i giorni sulla mia pelle.
3) il carcere scuola di malavita.
Comincio questo delicato argomento che sarà oggetto di degno approfondimento con un
introduzione di Cesare Lombroso in Palinsesti del carcere, le voci di una realtà senza tempo.
“ il volgo e anche il mondo scientifico credono in buona fede che il carcere, specie il
cellulare,
sia un organismo muto e paralitico o privo di lingua e di mani, perché la
legge gli ha imposto di tacere e di restare muto. Ma siccome nessun decreto,
per quanto sostenuto dalla forza, può contro la natura delle cose, così
questo organismo parla, si muove e qualche volta ferisce ed uccide a
dispetto di tutti i decreti.
Solo che, come avviene sempre quando una necessità umana è in conflitto
con una legge, esso si applica per le vie meno note e sempre sotterranee e
nascoste: sulle mura del carcere, sugli orci da bere, sui legni del letto, sui
margini dei libri che loro si concedono nell'idea di moralizzarli, sulla carta
che ravvolge i medicamenti, perfino sulle mobili sabbie delle gallerie
coperte al passaggio, perfino sui vestiti in cui imprimono i loro pensieri con
il ricamo.
La pena dovrebbe basarsi su certi principi. Nel corso della storia questi principi fondativi
hanno dominato per periodi più o meno lunghi ma tutti sono stati perennemente in crisi.
La crisi del sistema penale non poteva non riflettersi sul sistema penitenziario. I tre principali
principi sono:
il principio retributivo:
Questo principio tendeva a proporzionare la pena con la gravità del reato commesso ma lo
stesso è stato sempre disapplicato a causa di tutta una serie di fattori; i diversi regimi
carcerari che si basano più sulla tipologia del reato che non sulla gravità dello stesso o sulla
pericolosità del soggetto; l'evolversi della c.d. contrattualizzazione della pena sulla quale ci
soffermeremo più avanti in maniera più approfondita; la diversa afflittività della pena ( il
detenuto ricco vive meglio la pena rispetto ad un detenuto povero, o l'istituto meno repressivo
dell'altro).
L'apice della sua crisi l'abbiamo assaporato con l'introduzione delle misure alternative. Infatti
con esse la durata e l'afflittività non si basano più sulla gravità del reato ma sulla condotta in
carcere del reo, sul suo ravvedimento e sulle sue condizioni oggettive ( i termini previsti dalla
legge ) per il reiserimento.
Le misure alternative non appaiono però rispondere a criteri di certezza e di razionalità
essendo del tutto discrezionali ma non solo; se consideriamo che l'intero territorio nazionale è
suddiviso in vari distretti di sorveglianza alcuni dei quali definiti garantisti ed altri repressivi,
se consideriamo che non è il detenuto a scegliere l'istituto potremmo dedurre che anche
l'accesso alle misure alternative diventa una mera questione di fortuna.
Ed inoltre, ogni qual volta viene concessa una misura alternativa questa manca di una vera e
concreta analisi predittiva sulla recidiva così finiscono per uscire detenuti pluripregiudicati
propensi, anche per necessità, a reiterare il reato mentre restano spesso dentro detenuti che
hanno dato concrete prove di ravvedimento e di reiserimento e che non hanno nessuna
propensione a reiterare il reato.
Ma anche l'introduzione di tutta una serie di misure alternative non placano il paventoso
problema del sovraffollamento; la popolazione detenuta cresce sempre di più e le misure
alternative vengono concesse sempre di meno sia per le motivazioni oggettiva date da altre
norme di contrasto sia per le motivazioni soggettive appalesate da numerosi rigetti.
L'amministrazione penitenziaria non riesce a rispondere alle nuove esigenze di questo
incremento portando l'intero sistema al collasso.
Il carcere, con tutte le sue problematiche resta al centro della pena e rappresenta un indicatore
significativo della crisi del sistema e della società. Il tenore di civiltà di uno stato si
percepisce dal tenore di civiltà delle carceri e in questo l'Italia non è un bell'esempio.
Il principio retributivo ha presto lasciato il posto al principio preventivo dove la sanzione
penale funge da minaccia con efficacia deterrente verso i comportamenti illeciti.
Nulla di più errato, basti pensare a dei parametri che è bene tenerli presente:
1) l'ignoranza delle norme da parte dei singoli membri di una collettività. Abbiamo già
detto che l'iper produzione normativa crea solo caos e sviluppa potere informale.
2) Moltissimi reati sono colposi, occasionali o di impeto quindi non compatibili con una
funzione deterrente della norma intesa come minaccia.
3) Un altissima percentuale di criminali è dedita alla recidiva e ciò non può non
dimostrare l'inefficacia dell'intento deterrente.
4) Non poche volte l'inasprimento delle pene, inasprimento con intento deterrente, ha
coinciso con un incremento della criminalità esplosa in un momento successivo a tali
provvedimenti.
Questi sono solo alcuni dei parametri a sostegno del fallimento del principio preventivo. La
pena di morte negli Stati Uniti ha sempre trovato un infamante giustificazione nel concetto
di deterrenza ma si è spesso verificato che pochi giorni prima e pochi giorni dopo clamorose
esecuzioni si è avuta un impennata degli omicidi.
L'intervento repressivo ed intimidatorio non appare idoneo a rafforzare i sentimenti di una
maggiore sicurezza i quali restano di mera percezione a prescindere dall'incremento o meno
della criminalità, anzi tanto più si ha voglia di combattere il nemico immaginario tanto più si
percepisce l'insicurezza. L'aumento della repressione porta all'aumento della popolazione
detenuta che porta all'aumento di soggetti stigmatizzati che diventano delinquenti quindi più
crimine. Solo da questo circolo vizioso e non dall'intimidazione si può avere a buon ragione
una maggiore percezione di insicurezza.
Appurata la crisi del sistema preventivo passiamo ora ad analizzare il successivo principio;
quello rieducativo che sotto alcuni aspetti rappresenta quello più significativo della crisi
della pena poiché avrebbe dovuto rivestire un immagine progressista. Si può parlare più
precisamente di crisi dei valori.
Se non esiste più una corrispondenza tra quei valori tutelati dalla normativa penale e i valori
diffusi non possiamo non chiederci con quali valori dovrebbero essere rieducati i condannati.
Se il tessuto sociale è pregno di complessità e non più di quella normalità conformista a quale
modello di normalità bisogna conformare il condannato? La crisi del welfare ha comportato
un forte taglio per gli interventi sociali quindi anche di tipo rieducativo per i condannati.
L'insufficienza dei fondi disponibili cozza con la maggiore esigenza dovuta al
sovraffollamento così queste poche risorse vengono godute solo da pochi eletti: la
scolarizzazione c'è ma non per tutti; i sussidi ci sono ma solo per pochi; le cure mediche e le
visite specialistiche solo per chi si trova in punto di morte reiterando così di continuo la
violazione della parità di trattamento prevista dal relativo ordinamento.
L'esperienza carceraria è inoltre rottura traumatica con le relazioni di equilibrio esistenziali
nonché adesione di conformità ai soli valori negativi (gli unici a dominare in carcere) così il
carcere lungi dal rieducare diventa la miglior scuola per le tendenze criminogene. La stessa
offerta di un lavoro serio e onesto (ammesso che un ex carcerato lo trovi) può diventare
oltraggioso per chi in carcere ha imparato che il reddito annuo di un operaio onesto è pari al
guadagnato illegalmente in un ora. Un detenuto abbandonato a se stesso non ha nessuna
relazione con una prospettiva rieducativa.
Sarebbe stato opportuno approfondire questo aspetto con l'affascinante teoria dell'approccio
economico-razionale di Becker che io metterei alla base del principio rieducativo
inculcandolo ai condannati tramite corsi accessibili a tutti.
Lo stesso vale per chi, per tradizione familiare, appartiene ad organizzazioni mafiose, la
rieducazione non trova senso poiché il crimine è una scelta quantomeno forzata.
Un altro paradosso del principio rieducativo sta nel fatto che il buon 50 % della popolazione
detenuta che dovrebbe essere rieducata è composta da extracomunitari clandestini per i quali
vi sono già decreti di espulsione, rieducazione, reiserimento ed espulsione non sono
compatibili. Ed inoltre se pensiamo che il 70 % della popolazione detenuta è dedita alla
recidiva non ci viene difficile capire che la rieducazione è un utopia!
In ogni caso i tre principi elencati se si sono manifestati perennemente in crisi continuano a
sussistere solo in chiave simbolico-strumentale per rassicurare, giustificare, sperimentare e
promettere in un universo di messaggi e simboli spesso incoerenti per meglio poter
mascherare una realtà tragica e senza rimedio. La cura per questa crisi si chiama repressione,
che a quanto pare risulta essere l'unico parametro a non conoscere crisi.
Se il diritto penale vive di astrazioni lo stesso non può far vivere dentro di se i principi e i
valori che riguardano la pena perché la pena, i principi e i valori sono tutt'altro che astratti. Il
diritto penale e la pena risultano quindi svuotati e non hanno ragione di esistere se non in
altre forme, poiché così svuotati sono totalmente incapaci di rieducare prevenire e reinserire.
Una concetto di pena così svuotato tende nella realtà a disconoscere i bisogni sostanziali dei
condannati e diventa incapace di tutelare gli interessi dei più deboli.
Il carcere di oggi è un nido di paradossi che si dipanano in questa relazione perversa tra
diritto e società, è tutta una serie di appellativi, “pattumiera sociale”, “scuola di delinquenza”,
“residuo marginale” e altro ancora quindi anche nell'immaginario collettivo il carcere non è
luogo di rieducazione ma nella sostanza il carcere altro non è che lo specchio della società. Il
carcere è il simbolo della tensione tra diritto e società, tra cambiamento e conservazione, tra
il progresso e il regresso della democrazia.
Gli stessi principi rieducativi si tramutano in una violenza legittimata e legittimante, in
vendetta gratuita e gestita e in sofferenza irrogata e legalizzata.
Il carcere è il luogo dove su tutto regna l'arbitrio, la discrezionalità, l'inerzia e l'illegalità che
si manifesta con la reiterata violazione dei diritti e dei sentimenti di ogni uomo.
Paradossalmente però il carcere è anche il luogo dove ci si accosta di più alla conoscenza
delle norme, cosa che non avviene per un cittadino conforme.
In una società arida e avara di sentimenti il carcere paradossalmente è anche quel luogo dove
avviene un terremoto di sentimenti che emergono all'improvviso per destare le suggestioni e
le emozioni più profonde ed incontrollabili. Il carcere è il luogo dove ci si confronta
soprattutto con se stessi.
Paradossale è stata anche l'emanazione di tutta una serie di misure alternative che nei fatti
non vengono erogate e che comunque si contrappongono a tutta una serie di misure restrittive
che ne comportano lo svuotamento nella convinzione di molti che a maggiore repressione
corrisponde maggiore sicurezza per poter allietare un ottimismo funzionale ed ideologico.
Nulla di più errato!
Un altro paradosso sta nelle statistiche che ci dicono da un lato che i reati sono diminuiti di
gran lunga rispetto all'ultimo decennio e dall'altro che la popolazione detenuta è in netto
aumento proprio negli ultimi dieci anni ed ecco che possiamo considerare il carcere come una
diga, l'unica diga che non conosce periodi di siccità, dove il flusso di acqua in uscita è
certamente minore del flusso in entrata. Il carcere ha fame di uomini, ne mangia dieci per
vomitarne la metà, questo sistema è un apparato digerente che noi sovente chiamiamo
sovraffollamento.
Ogni anno nel mondo più di venticinque milioni di uomini entrano in carcere. Sono % da non
sottovalutare se le rapportiamo ai cittadini delle singole società civili.
Possiamo dedurre questi incrementi di ricarcerazione da tutta una serie di ipotesi:
– Con la crisi del welfare < la disoccupazione < la marginalità e i sentimenti di
deprivazione, quindi abbiamo un < della criminalità.
– Più emancipazione, < propensione alla denuncia, < condanne, < popolazione detenuta.
–
–
–
La tecnologia ha affinato le tecniche delle agenzie repressive.
Più leggi repressive dei governi conservatori.
Non ad un aumento dei condannati ma ad un aumento della quantità di pena per ciascuno,
si sta più tempo in carcere e contemporaneamente ne entrano altri.
– La crisi del welfare comporta il passaggio alla prison-fare, la crescita degli esclusi
politicamente rende irrealistico ogni progetto di ordine sociale che tende ad includere,
quindi maggiore esclusione, crisi delle ideologie, crisi del lavoro comportano un aumento
dell'under class.
Gli esclusi restano tali per le istituzioni e per la società. Le società sembrano atteggiarsi
sempre in due modi opposti di fronte a chi è considerato come un pericolo; o sviluppa un
atteggiamento cannibalistico fagocitando chi è avvertito in termini di ostilità nella speranza di
neutralizzare la sua pericolosità attraverso l'inclusione; o, cosa probabile per le società attuali
svuotate di sentimenti, esasperando pratiche di vero e proprio rifiuto atropemico, vomitando
al di fuori di se tutto ciò che le risulta estraneo. Un ex detenuto, una volta libero,
probabilmente vagherà inutilmente in cerca di un lavoro e di un riassorbimento nel tessuto
sociale ma essendo questo tessuto privo di sentimenti troverà molto più accogliente il mondo
criminale che lo attende a braccia aperte dandogli i primi soccorsi economici. Quindi non me
ne voglia chi non condivide la tesi secondo la quale l'intervento rieducativo dovrebbe
spostarsi dall'interno del carcere, per i condannati, all'esterno, per i liberanti, per i mesi o per
gli anni successivi alla sua liberazione fino al totale assorbimento mentre il carcere resterebbe
luogo di mera riflessione e di ravvedimento magari con la somministrazione di corsi di
formazione, di cultura di legalità e di quegli elementi tipici sanciti nella teoria dell'approccio
economico razionale di Becker.
Condivido, quindi non è da sottovalutare, la tesi di Christie, secondo la quale all'origine di
questa stagione di ricarcerizzazione, andrebbe individuato il progressivo e determinate peso
politico del settore, tanto pubblico quanto privato, interessato al business penitenziario,
comparto economico di forte espansione; appalti con imprese del sopravvitto; forniture,
sovvenzioni e gestione del denaro degli stessi detenuti ed edilizia penitenziaria costituiscono
un affare miliardario, non è di molto tempo fa lo scandalo delle carceri d'oro.
Non è da sottovalutare nemmeno la demagogia strumentalizzata a paura del crimine ( una
percezione di insicurezza inculcata per legittimare un potere repressivo) che è diventata
pilastro nelle campagne elettorali degli ultimi tempi.
Nemmeno la compresenza di tutti questi fenomeni non ci consente di verificare in termini
funzionali precisi se queste variabili determinano o influenzano la lievitazione dei tassi di
carcerazione.
Sì, è assolutamente vero che in tutto il mondo la gente ha sempre più paura della criminalità
così come storicamente non è mai stato, ma per questo dovremmo dire grazie solo a quella
gran cassa di risonanza mediatica. I media ci portano il crimine dentro casa in tutte le ore del
giorno quindi sentiamo nostri anche quegli episodi che avvengono a notevole distanza
percependo maggiormente il tenore di insicurezza anche se i crimini sono diminuiti.
Il carcere è in crisi perché non svolge nessuna delle funzioni per il quale è stato preposto.
Il fallimento di una finalità circa la pena dava luogo all'enfasi di una finalità successiva.
Dopo la social preventiva vi troviamo il modello correzionale ma non sappiamo ancora su
quali valori poggiare questo modello visto che non sappiamo più nemmeno cos'è la
normalità.
Il modello correzionale nasce con l'intento di trovare pene e modalità sanzionatorie più utili
rispetto a quelle della mera privazione della libertà.
Il to care ne diventa il pilastro ma si è storicamente dimostrato che anche con questo pilastro
non si può rinunciare al carcere come forma di segregazione, anzi abbiamo visto una
produzione normativa proprio in senso opposto con l'introduzione di diversi regimi carcerari
sempre più restrittivi ( 4 bis, 41 bis O.P. ). lo stesso processo di differenziazione trattamentale
nel carcere non risponde più al bisogno di individualizzazione dell'esecuzione per finalità
special-preventive, ma si piega sempre più alle necessità di usare il carcere come variabile
dipendente in ragione di una diversa distribuzione del rischio. Così lo strumento del carcere
di massima sicurezza non si orienta ad una logica di incapacitazione individuale, per cui esso
è l'estrema risposta per i colpevoli di reati, a mio avviso, non particolarmente gravi, ma
particolarmete insidiosi per lo stato ( ricordiamo che l'omicidio è uno dei reati più gravi, esso
rientra nei regimi comuni). Diventa il contenitore per tutti coloro che risultano ad una logica
di incapacitazione selettiva come appartenente a gruppi sociali ad elevato rischio criminale (
come i fenomeni mafiosi ).
Per esperienza diretta potrei affermare che il farmaco della pena non cura il condannato e
quelle poche volte che il condannato è sopravvissuto a questa cura si è trattato solo di una
sinergia con una grande forza di volontà partita, evolutasi e manifestatasi solo dal condannato
che vuole riconquistare il suo posto nella società civile. Se così fosse veramente tutto sarebbe
vano poiché nulla ( i modelli caduti in crisi sopraesposti ) e nessuno (giudici, educatori,
psichiatri e criminologi ) può correggere e reinserire il condannato privo di volontà nel farlo e
continuo a chiedermi come i vari modelli e i relativi soggetti che li gestiscono possono
arrogarsi la presunzione di curare e correggere ( va detto: anche superficialmente ) le anime
malate dei condannati privi di volontà. I marginali che delinquono spesso mostrano nessuna
necessità di essere educati; è il tipico caso dei colletti bianchi. Il mutamento antropologico è
stato storicamente di tali proporzioni che anche chi sceglie l'illegalità alla legalità è in ogni
caso a quest'ultima socializzato e pertanto se alla cultura della legalità si è comunque tutti già
socializzati non si vede come si possa contrastare l'illegalità rieducando a quelle virtù cui si è
già addomesticati.
Gli elevati tassi di recidiva sono a sostegno della mia tesi. Su queste topiche sono
ripetutamente intervenuto con stile sovente e rapsodico con la speranza di poter continuare le
mie riflessioni in un contesto più attento e sensibile ai problemi del carcere in modo da poter
mettere ordine al mio disordinato ragionare sulla dannosità della pena.
Un vecchio detto dice: mentre il medico pesa alla cura, l'ammalato muore. Le statistiche
ufficiali ci dicono che solo da gennaio a giugno 2008, nelle carceri italiane sono decedute
oltre 50 persone, in parte per suicidi, il dibattito tra pena certa e pena utile continua.
Di fronte alla crisi dei modelli precedenti emerge da più parti l'esigenza di un ritorno alla
pena giusta, cioè finalisticamente non orientata.
La pena utile indica quella in astratto con i fini utilitaristici di prevenzione previsti dal diritto
penale.
La pena giusta indicava la pena in concreto, cioè il momento commisurativo. Quindi
l'esecuzione della pena si colloca nello spazio del non diritto (Costa), mentre Foucault lo
definisce come spazio di disciplina. In ogni caso la retribuzione non è scopo ma criterio
formale per commisurare il castigo. Alla pena giusta (meritata per il fatto commesso) segue
l'esecuzione che è una pena che serve per “trattare gli uomini”, cioè la disciplina che è parte
del non diritto. Distinzione e contrapposizione tra pena giusta e pena utile diventano tappe di
secolarizzazione del diritto penale moderno ma esasperando la filosofia delle scienze penali,
la pena, la patata bollente, finisce per non appartenere più alle scienze panali.
Il concetto di reiserimento sociale è stata la bandiera di tutti i sistemi penali del mondo che
l'hanno sventolata come “metafora egemonica” e come speranza di liberazione degli esclusi o
come la strada di emancipazione sociale.
Per alcuni pensatori “è pericoloso chi ha meno”, deficit psichici, culturali, sociali ed
economici, eliminando o riducendo il deficit si elimina o si riduce la pericolosità sociale.
Affermare questo significa solo rispolverare i diagrammi e gli istogrammi di
Pareto....”eliminando una o più cause si eliminano uno o più effetti...” da qui l'ovvia
tentazione di affermare che si parla spesso dei reati predatori come reati di massa ma non
sono masse quelle che li commettono ( la stessa persona commette una serie di reati fino al
suo arresto). Se si potesse individuare con precisione questa minoranza di delinquenti
all'inizio della loro criminal career prima che si trasformino in career criminals, basterebbe
mettere questi pochi nell'impossibilità di delinquere per ottenere grandi risultati nella
riduzione della criminalità.
Questa è la stagione del declino miserevole e perverso dell'ideologia rieducativa e
dell'affermazione della perenne emergenza che legittimano il trionfo delle politiche del
controllo sociale che si fondano nella pressi di neutralizzazione selettiva, in pieno coerente
con le logiche, le tecniche e il linguaggio della guerra.
La realtà oggettiva cozza con i valori costituzionali e li svuota: l'art. 3 della costituzione
recita che lo stato si impegna a rimuovere tutti gli ostacoli per l'integrazione sociale; l'art. 27
recita che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato ed essere umane. Nulla,
proprio nulla del sistema penitenziario può collegarsi ai valori costituzionali appena
enunciati. Emblematiche le parole di Nietzsche: gli uomini furono ritenuti integrabili nel
sociale per essere puniti......gli uomini sono ritenuti eliminabili dal sociale per essere puniti.
La giustificazione mistificatrice dei costituzionalisti sta nel bene giuridico da tutelare (la
sicurezza del cittadino) quindi, ripeto, che il carcere è lo strumento attraverso il quale si eroga
sofferenza a taluni per curare la percezione di insicurezza di altri.
Tutto sembra una pietosa bugia, la bugia sembra l'unico valore a dominare nell'ambito del
concetto di rieducazione. Un incanto retto dalla norma del disincanto di una cattiva coscienza
Radbruchiana. Questa pietosa bugia è la storia di chi ha mangiato la foglia e fa finta di non
vedere, quindi la storia di tutti coloro che stanno al gioco ma che ingannando non si lasciano
ingannare da quei rapporti di potere che possono essere anche giocati con le pedine del vedo
e non vedo.
È un esercizio del castigo vincolato sia ai criteri di autolimitazione sistemica ( pena minima )
che di limitazioni extrasistemica ( pena utile ). E' come dire che anche la sofferenza e la
violenza legale moderna sottostanno alla logica del risparmio, dell'investimento e della
convenienza. Alla fine si tratta solo di scegliere quale tra le tante pietose bugie è la più
economica e conveniente per poter giustificare la violenza punitiva.
Infatti se teniamo presente tutti i dettati intorno alla inderogabilità ed inflessibilità di una
sentenza passata in giudicato ci accorgiamo che così non è se non nella testa di chi giudica.
La penalità è stata sempre virtuale rispetto a quella effettivamente eseguita. La pena in fase
esecutiva è sempre stata oggetto di scambio per ragioni di utile ed in tutto questo dobbiamo
tenere presente che la maggioranza del diritto penale corrente è ormai extra codicistico ed è
prevalentemente composto da incriminazioni contravvenzionali con la tendenza a proteggere
prevalentemente solo le funzioni dello stato.
Nello stesso codice che punisce vi troviamo norme che non puniscono (sospensione
condizionale della pena , misure alternative, riti alternativi ecc). L'apice di questa
contraddizione lo troviamo con la legge N°354|75 e in tutte le leggi penitenziarie successive
le quali prevedono tutta una serie di misure alternative e sconti di pena che rendono vano il
principio dell'inderogabilità per dare il posto ad una pena flessibile ma resta il fatto che le
misure alternative restano ampiamente discrezionali e l'accesso diventa spesso una questione
di mera fortuna.
Mentre per certi aspetti la pena viene contrattata e commercializzata diventando oggetto di
scambio e sottostando alle regole proprie dell'economia di mercato. Questo è il tipico caso
delle organizzazioni mafiose, e non, attraverso le leggi sui collaboratori di giustizia con le
quali la pena non è più proporzionata al reato commesso ma solo all'aiuto dato allo stato.
Non me ne voglia nessuno ma credo che tutto sommato le leggi sui collaboratori di giustizia
siano una vera e propria istigazione a delinquere da un lato e un ennesima pietosa bugia
dall'altro.
È un istigazione a delinquere poiché nel calcolo razionale del delinquente che aspira a fare
soldi facili da un lato può utilizzare le strade del crimine fino a quando non verrà acciuffato,
in tal caso potrà comunque contare sul denaro che gli darà lo stato per la sua collaborazione.
In entrambe i casi il crimine o la legge gli darà l'opportunità di fare soldi facili.
È una pietosa bugia perché da un calcolo statistico si evince che i c.d. Pentiti vengono tenuti a
“Bella vita” solo fino a quando i processi che li vedono coinvolti non sono passati in
giudicato, dopo di che vengono fatti rientrare in carcere con le motivazioni più banali.
Che la pena sia sottoposta alle logiche di mercato ne è prova anche il fatto che, nei casi
appena esposti, anche le leggi sui collaboratori di giustizia ricorrono alla pubblicità televisiva
e radiofonica con la quale si invitano le nuove leve del crimine organizzato a collaborare con
la giustizia. Una pietosa bugia pubblicizzata.
Chi non ha nulla da offrire allo stato, perché ha avuto un ruolo minore o per altre ragioni
oggettive viene tagliato fuori da questa logica di mercato. Siamo così oltre la soglia di una
flessibilità della pena negoziata. Si rinuncia a punire svuotando cosi anche l'ennesimo
principio costituzionale che appunto afferma che la legge è uguale per tutti ma evidentemente
non tutti sono uguali per la legge.
Se analizzassimo a fondo tutte le norme penali che danno e quelle che tolgono sofferenza ci
apparirà evidente che lo stesso codice penale è corresponsabile del processo di
trasfigurazione del diritto penale che si dipana in un sistema di giustizia disuguale,
discrezionale e violento.
Il carcere può funzionare e funziona contro la criminalità ma non può più essere legato ad
uno dei principi e sistemi che sono stati perennemente in crisi. Il carcere può essere utile nel
governo della criminalità e della recidiva solo se ed in quanto opera con finalità di
neutralizzazione selettiva. Ma a ben vedere (analisi Pavarini) nemmeno la neutralizzazzione
selettiva serve a ridurre la criminalità, anzi, come ho già detto, questo non può valere per la
criminalità opportunistica e predatoria che, vale la pena sottolinearlo, rappresenta l'80% dei
crimini commessi, può trovare una convincente spiegazione eziologica sul concetto
situazionale e delle opportunità. Come dire che la quantità di illegalità è determinata
dall'offerta di occasioni per delinquere che l'organizzazione sociale offre e quell'offerta sarà
sempre soddisfatta da una domanda adeguata. Man mano che si provvede a neutralizzare i
soggetti che trovano conveniente sfruttare le opportunità della domanda per sostituzione altri
troveranno conveniente entrarvi trovandovi posti o mercati liberei.
Ferri esprime questa logica con la legge della saturazione criminosa per la quale il livello
della delinquenza era determinato annualmente dalle diverse condizioni dell'ambiente fisico e
sociale che, interagendo con le tendenze congenite e con gli impulsi occasionali degli
individui, avrebbe dato luogo alla saturazione criminosa: “come in dato volume di acqua, ad
una data temperatura, si scioglie una data quantità di sostanza chimica, non un atomo di più
non uno di meno; così in un dato ambiente sociale, con date condizioni individuali e fisiche,
si commette un determinato numero di reati, non uno di più non uno di meno”.
Considerato che a delinquere è quasi sempre la marginalità sociale per avere degli effetti
apprezzabili si dovrebbe neutralizzare tutta la marginalità sociale. Impresa al quanto utopica.
4) L'ambiguità dell'ergastolo e il diritto di poter morire
2 casi messi a confronto:
a) K.M. Il capo di una banda di moldavi che spadroneggiava alla stazione di Verona, pluri
pregiudicato, per libidine e per affermare il suo dominio sul territorio ha sequestrato una
coppietta, ha ucciso il maschio con 19 coltellate, ha chiamato il resto della banda e in 40 (
lui dice 26 ma non vedo cosa cambi) hanno violentato ripetutamente per tutta la notte la
ragazza. Solo al mattino la ragazza approfittando della stanchezza dei suoi aguzzini tenta di
scappare ma viene raggiunta e per timore che lei denunciasse l'accaduto tentano di
ucciderla, si salva perché in quel momento passano delle auto.
Per tutti questi reati K.M. Viene condannato alla reclusione di anni 18 che saranno diminuiti
a 15 per l'indulto e a 13 con la liberazione anticipata, tra un anno potrà ottenere permessi
premio.
b) D.D. Incensurato dopo una vita di duro e onesto lavoro si rende complice di un sequestro
di persona a scopo estorsivo, mai consumato poiché la vittima muore durante la fase del
sequestro per cause naturali, il ritorno di un rigurgito gli ostruì le vie respiratorie. D.D. È
stato condannato ad un ergastolo ostativo e pur non avendo mai ucciso nessuno non potrà
accedere a nessun beneficio prima di 26 anni di carcere.
Le due esperienze messe a confronto aprono l'amaro dibattito sulla pena dell'ergastolo.
È importante specificare che nel primo caso si tratta di soggetti, vittime e carnefici, tutti extra
comunitari. Nel secondo caso sono invece tutti italiani.
Ormai da tempo la critica sociogiuridica si sofferma sui tre principi che avrebbero dovuto
reggere la pena; retributivo, preventivo e rieducativo quindi non possiamo non soffermare la
nostra attenzione sulla pena massima, l'ergastolo, per i suoi aspetti di amara crudeltà. I tre
principi ora si svuotano completamente perché l'ergastolo non è più una pena proporzionata
alla gravità del reato commesso o al ravvedimento o alla rieducazione ma viene
proporzionata alla concreta durata della vita del condannato: tanto durerà la pena quanto
durerà la vita del recluso.
In questo caso la funzione rieducativa, già priva di senso per le pene comuni visti gli alti
indici di recidiva, con l'ergastolo ogni ambiguità sembra sciogliersi non venendo data la
possibilità di reinserimento il problema della rieducazione non si pone nemmeno.
La scusante di facciata nei confronti di una Europa avanguardista sta nel fatto che almeno
“sulla carta” anche l'ergastolo può essere oggetto di liberazione condizionale, di accesso alle
misure alternative e di tutti i benefici di legge ma nella realtà questo non avviene quasi mai se
non in casi umani estremamente toccanti, in assenza di tali presupposti, l'ergastolano non
accede ad alcun beneficio ed in ogni caso avrà sempre un “fine pena MAI”.
Nella funzione special preventiva vi troviamo non solo uno svuotamento del principio stesso
ma addirittura un rovesciamento di senso. L'ergastolo non è più una pena ma diventa una
pura afflittività, una morte bianca, un annientamento della persona a vita. Privo di qualsiasi
legittimazione costituzionale impone e si impone solo come forma di vendetta sociale, come
annullamento e neutralizzazione di un essere umano non per ciò che è ma solo per ciò che gli
è capitato di commettere pur nella consapevolezza che nessun uomo è immune dal
commettere errori.
Chi è l'ergastolano: lui è un corpo privato dell'anima, un corpo che ogni giorno lotta per la
sua sopravvivenza, non ha cose sue ne tangibili ne intangibili, ma soprattuto non ha e non
avrà mai più i suoi diritti; il diritto alla procreazione, il diritto ad una vita sessuale normale e
il diritto di esistere. La sua migliore amica sarà la morte come unica certezza e unico diritto
che gli rimane. Il suo peggior nemico sarà il mondo, tutto il mondo che lo circonda perché
muto, sordo e cieco assiste imperterrimo a come muore un ergastolano. Per lui tutto diventa
una fantasiosa ed inutile bugia. La percezione del tempo viene contorta ed esasperata al punto
da fargli credere che il tempo non gli basta mai.
La fretta e la noia, pur in conflitto tra loro, costituiscono le due caratteristiche della sua
esperienza soggettiva spazio-temporale determinando una dimensione ansiogena di
disorientamento e di continua inadeguatezza, quindi la perdita dei segmenti temporali e
perdita, sia in qualità che in quantità, delle sue energie vitali. Il suo tempo gli pare
paradossalmente insufficiente perché sfasato. L'ergastolano vive in una dimensione virtuale
perché sostanzialmente rarefatta. Vive oggi come se dovesse morire domani e pensa come se
non dovesse morire mai. Il suo meccanismo di difesa inconscio più ricorrente è la falsa
illusione che domani potrebbe uscire. Durante il giorno, l'ergastolano, non ha mai tempo per
pensare di morire, ma durante la notte SI, mentre tutti quanti dormono lui pensa a COME, a
QUALE sia la forma meno dolorosa e meno clamorosa perché se ne vuole andare in
silenzio, senza farsene accorgere dalle istituzioni per paura di essere punito anche da morto o
se il piano non gli riesce e vive. Solo in questi momenti il tempo non si ferma MAI.
L'ergastolano vive in una perenne e perversa illusione che è anche una perenne e perversa
bugia.
In questi casi il castigo è passato da un arte di sensazioni insopportabili a un risparmio dei
diritti sospesi e spesso repressi. Se per quelli che la invocano la pena di morte sarà ancora
necessaria pur non trovando una giustificazione, questa la si potrà infliggere con un certo
stile, con l'ergastolo, eliminando l'odioso patibolo troppo costoso, la si infliggerà da lontano,
con decenza e con l'omissione, tra l'altro prevista come reato dallo stesso codice penale. Non
uccidiamoli ma lasciamoli morire, scusatemi ma dov'è la differenza? Lasciamoli morire
facendoli soffrire quanto più a lungo possibile. In una visione contorta del tempo si
percepisce anche una visione contorta delle figure professionali che per l'ergastolano
sembrano appositamente preposte a prolungare la sofferenza nel tempo. Nella visione
Foucaultiana sulla pena di morte il medico deve vigilare sul condannato a morte sino
all'ultimo momento in modo che non muoia prima dell'esecuzione garantendo cosi non la
salute dell'uomo ma la soddisfazione alla vendetta sociale. Sarà il medico a somministrare i
tranquillanti al condannato a morte in modo che non urli, sporchi o si dimeni durante
l'esecuzione. Questa è la prassi di un condannato a morte che a ben vedere non è dissimile di
quella di un ergastolano. Nell'ergastolo sta il progetto ultimo del potere dominante: togliere
l'esistenza evitando che gli altri sappiano privando l'individuo di tutto e di tutti compreso dei
suoi familiari; non a caso gli ergastolani vengono mandati a morire a centinai di chilometri
da casa, anche i familiari devono dimenticarlo e non devono sapere.
Nulla è cambiato dal medio evo ad oggi. E' scomparso solo il patibolo. Negli U.S.A. Le
esecuzioni avvengono al chiuso però vengono annunciate. Con l'ergastolo avvengono in
maniera lenta e silenziosa proiettando il condannato nel mondo dei dimenticati.
Che l'ergastolo sia la misura vicaria della pena di morte ce lo dice lo stesso codice penale ed è
quindi evidente che sullo stesso si proietta tutto il simbolismo dell'annientamento della
persona. La dimensione in cui l'ergastolano è proiettato è la dimensione del NON LUOGO,
che è il luogo in cui ogni misura appare distorta e dissolta e ogni senso del reale è
definitivamente perduto.
4.1) L'ambiguità dell'ergastolo nella costituzione:
Abbiamo già avuto modo di vedere come alcuni principi della costituzione ( art. 3 e 27 )
siano già di per se in contrasto con il concetto di pena ma soprattutto con i principi che hanno
retto la pena fino ad oggi. I contrasti costituzionali con la pena dell'ergastolo invece
diventano ambigui e rivestono tutta l'incompatibilità paradossale, specie quando l'ergastolo
viene giustificato con il bene giuridico da proteggere; la sicurezza pubblica.
Che l'ergastolo produca sofferenza ancora più grande della pena di morte è detto da più parti
e a questo punto anche la coerenza etica cede di fronte all'utilità materiale dei risultati intesi
nel concetto di deterrenza.
Che la pena dell'ergastolo sia la ricetta più probabile per la deterrenza non vi sono dubbi,
questo è vero però solo in quei casi dove la predittività sulla recidiva è quasi certa ma questo
vale per tutti i tipi di reati anche dove è prevista la reclusione ed inoltre, paradossalmente in
ogni caso, per quella questione di fortuna che più volte ho descritto capita che siano proprio i
soggetti più pericolosi ad accedere alle misure alternative, magari per aver contrattato la pena
con lo stato, non importa a quale prezzo.
L'ergastolo resta una pena incostituzionale sotto tutti i suoi aspetti e tutte le sue
incompatibilità vengono fatte rientrare nella “falsa coscienza borghese”, cioè in
quell'atteggiamento e orientamento ipocrita proteso ad identificarsi con gli alibi della
legittimazione di ciò che si desidera ma non si vuole ammettere.
L'idea di sostituire la pena di morte con l'ergastolo sembra mettere al riparo la coscienza di
tutti e di ogni uno dal senso di colpa di annientare con legittimità una vita umana.
La stessa costituzione e stata scritta ponendo al centro la persona in quanto tale, abolendo
appunto la pena di morte proprio su questo principio, a maggior ragione anche la pena
dell'ergastolo risulta incompatibile con il suo mantenimento. L'ergastolo c'è e uccide e questo
significa accettare tutta l'incoerenza del nostro ordinamento e della nostra costituzione.
Uccidere per giustificare e rassicurare gli insicuri quindi uccidere per vere e proprie istanze
emotive.
Incoerenza e ambiguità le troviamo anche nell'art. 2 della costituzione: “la repubblica
riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo....” evidentemente il diritto alla vita, il
diritto di esistere, il diritto a non soffrire non sono ritenuti inviolabili per la costituente.
L'ergastolo in quanto concretizza una sorta di pena di morte non può non risultare in
contrasto anche con questo principio costituzionale. La realtà dell'ergastolo non è, com'è stato
detto, la punta di un iceberg, le persone che sono condannate al carcere a vita sono più di
mille e il numero è destinato a crescere a ritmi vertiginosi se consideriamo che prima del varo
della legge sui collaboratori di giustizia gli ergastolani erano poco più di sessanta il dato
lascia alla riflessione che trova. L'ergastolo non svolge una funzione deterrente per tutta una
serie di ragioni, a cominciare dall'ignoranza sulle norme penali per finire al fatto che la pena
riguarda una tipologia di reato che spesso è legata all'impulsività e all'irrazionalità propria del
calcolo della deterrenza.
Per la sua abolizione si profilano due ordini di motivi:
Da un lato la necessità di dissolvere le ambiguità, le ipocrisie e i suoi contrasti con i principi
costituzionali.
Dall'altro la necessità di dotare di senso tutte le teorie sostitutive e riduttive dello strumento
penale quindi incompatibili con la pena massima.
Gli antiabolizionisti, i paladini della repressione e i giustizialisti che protendono per la pena
dell'ergastolo come unica formula magica per rappresentare la durezza dello stato contro i
crimini più gravi, per questa vis punitiva trovano anche il consenso popolare come
compensazione alla pena di morte per soddisfare un diffuso bisogno di vendetta sociale.
Basterebbe rivedere i due casi messi a confronto per capire quanto questa tendenza possa
risultare pericolosa ( la vita delle due vittime extracomunitarie sono state valutate in modo
asimmetrico rispetto alla vita di una vittima italiana ) perché a giustiziare non saranno più
norme uguali per tutti applicate dalle corti ma la densità del sentimento di vendetta della
gente.
4.2) Linea di confine tra ergastolo e pena di morte. Il diritto di poter morire.
Che l'ergastolo sia peggiore della pena di morte lo si è appurato da tempo ed è stato anche il
pilastro per un disegno di legge per la sua abolizione presentato dalla senatrice Boccia. A
questo punto vorrei tracciare una linea di confine tra la pena capitale che viene imposta senza
mezzi termini e l'ergastolo che con retoriche diverse riveste le stesse finalità di una morte
lenta e per certi aspetti più dolorosa della pena capitale.
La stessa linea di confine viene tracciata per altri argomenti nei dibattiti etici, morali,
giurisprudenziali e teologici che orbitano intorno all'eutanasia. L'argomento è cosa troppo
profonda da poter essere discusso in questa sede ma nella sostanza non è dissimile dal
concetto pure così profondo della pena dell'ergastolo.
Bisognerebbe entrare nel pianto disperato di un ergastolano o di un suo caro congiunto per
poter metabolizzare questa linea di confine senza essere oggetto di critiche positive o
negative che siano.
L'ergastolano ormai non ha più niente, con se solo la voglia di morire, dopo aver perso ogni
diritto, nel tempo perde anche quei pochi familiari che gli sono rimasti vicino e nel caso che
un giorno uscirà non troverà più nessuno ad aspettarlo, assuefatto di carcere sarà proiettato in
un mondo che non gli appartiene più, un mondo che egli non conosce e non accetta più
come suo.
Due anni fa, a titolo provocatorio ho chiesto il riconoscimento del diritto di poter morire,
l'eutanasia come facoltà cosciente per poter sopperire ad un presente e un futuro destinato alla
sofferenza. Ben 51 ergastolani persi nei loro tanti “non ce la faccio più” mi hanno contattato
chiedendomi copia della mia richiesta. L'eutanasia sta nell'anticipare una morte imposta dalla
natura, il diritto di poter morire sta nella facoltà di anticipare una morte imposta dal
legislatore e eseguita da un giudice.
I dibattiti sull'abolizione dell'ergastolo continuano da oltre un ventennio come se fossero solo
una rinfrescante ventata di garantismo di facciata per dire che ai pro ci sono anche i contro.
Quindi la linea di confine tra una fine spaventosa (pena di morte) e uno spavento senza fine
(ergastolo) sta nel concedere agli ergastolani almeno il diritto di poter morire come facoltà
cosciente.
(1) Michel Foucault in:sorvegliare e punire, Einaudi)
Dott.
D'Andrea Domenico
riassunto
Il discorso di continuità esposto in questo saggio vuole essere un viaggio nel mondo del carcere che inizia formalmente con la sgretolazione
del potere di uno stato accentratore dal quale scindono altri poteri sociali di carattere informale e da qui l'indebolimento del sistema penale
ormai inteso come inefficace e contraddittorio.
L'effetto di un sistema penale debole e contraddittorio non può non riflettersi sulla concezione stessa della pena. Su questo argomento
vengono esposte le crisi dei tre principi fondamentali che hanno tentato di giustificare sia la pena che il sistema penale: il principio
rieducativo, retributivo e preventivo.
Vi troviamo un carcere svuotato dai valori e dai principi, un carcere che da istituto rieducativo diventa scuola di "malavita", in carcere tutto
diventa una pietosa bugia.
Se la pena in se già non trova giustificazione fedele nemmeno nei principi che avrebbero dovuto reggerla questa incompatibilità si dilata fino
a diventare paradossale e antitetica per la pena dell'ergastolo, non dissimile dalla pena di morte.
L'ambiguità dell'ergastolo la si evince dai contrasti con numerose norme costituzionali che da un lato pongono al centro del diritto la persona
umana in quanto tale e dall'altro con le norme attribuiscono all'ergastolo una funzione vicaria alla pena di morte. In pratica abbiamo un
diritto di esistere che in un ergastolo si svuota con la considerazione del “non esistere” e che si consuma in un “non luogo”.
Si tenta poi di tracciare una linea di confine tra la pena capitale e l'ergastolo e questa linea di confine è individuata nell'ipotesi provocatoria
di una facoltà riconosciuta in capo ad ogni ergastolano che non dissimile dall'eutanasia, che in questi giorni ha trovato spazio anche nella
giurisprudenza, sta nel diritto di poter morire.
Kurzfassung
Die Reise in der Welt der Gefaengnisse bringt mit sich vor und nachteile, die nur wer an der Macht ist schlussendlich vorteile bringt, den
diejenige die sich auf der schwaecheren seite befinden sehen sich Hintergangen, weil sie keine Hilfsmittel haben um sich zu verteidigen.
Die Ursache dieses Sistems des Rechtes ist sofern wiederspruechlich den das ganze Sistem stuetzt sich auf 3 Punkten: das Prinzip der
eingliederung in die Gesellschafft, der Bezahlug und schlussendlich der Praevention.
Am schluss finden wir ein Gefaegnis ohne Werte und Prinzipien, denn ein Gefaengnis sollte eigentlich uns wieder auf die richtige Bahn
bringen und nicht eine Schule des Verbrechens werden voller luegen.
Wenn schon die Haftdauer in sich keine Rechtfertigung findet, dann umso weniger macht es keinen sinn die Lebenslaengliche Haft
auszusprechen, denn schlussendlich vergleichbar mit der Todesstrafe.
Die Lebenslaenliche Haft ist Antikostituzionell, den wie oben erwhaent einerseits stellt sie im mittelpunkt die Person selber aber anderseits
hat man keine moeglichkeit mehr sich wieder Einzugliedern somit ist sie vergleichbar mit der Todesstrafe.
Am schluss will mann die beiden Strafen trennen, aber genau diese Trennung ist sehr wierspruechlich, denn wenn ein Haeftling sich dass
leben nimmt kann mann es mit einer Eutanasie gleich tun und somit hat er ein Recht zun sterben.
resumen
El discurso de continuidad enunciado in esta prueba, quiere ser un viaje en el mundo del carcel que impieza de realidad con la
segregacion del poter de uno Estado centralizador lo qual separa otros poderes sociales de caracter formal y de otro e ldebilitamento del
sistema penal ya entendido como encapaz y contradictorio.
El efecto de n sistema penal debil y contraditorio no puede no puede no reflectarse en la concepzione misma de la condena. Sobre esto
argumento son presentatas las crisis de lo tres principio fundamentales que he intentato de giustificar tanto la pena que el sistema penal: el
principio reeducatibo, retributivo y preventivo.
Encontramos un carcel vacio de los valores y de los principio, pero carcel que da istituto reeducatibo, llega a ser escuela de
delincuencia, en carcel todo llega a ser una compasiva mentira.
Si la condena por s imisma ya no enquentra justificacion fiel tampoco en los principios que avria debido sostenerla, esta
incompatibildad se dilata asta divenir paradojico y antitetico por la pena perpetua, no distinto por la pena de muerte.
La ambiguedad de la pena perpetua la podemos veer por contrasto con numerosa norma costitucional, que por un lado pone al
centro de los derecho la persona humana, y por otro lado con las misma normas, dona a la cadena perpetua una funcion sustitutiva a la pena
de muerte.
En practica tenemo el derecho de esister que en una pena perpetua se vacia con la consideracion de no exister que se consuma
en un lugar que no existe.
Se va a intentar despues de trazar una linea de frontera entre la pena capital y la cadena perpetua, y esta linea de confine es localizada en la
hipotesis provocadora de una faculta identificada por todos los condenados por cadena perpetua que es muy simil a la eutanasia, que in esto
dias ha hallado espacio tambien en la jurisprudencia en el derecho de poder morir.