TUTELA DEL CONSUMATORE NELLA CONCORRENZA SLEALE E

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TUTELA DEL CONSUMATORE NELLA CONCORRENZA SLEALE E NELLA
PUBBLICITÀ INGANNEVOLE. PROFILI EVOLUTIVI.
Umberto Troiani
1. Premessa
Il rapporto fra concorrenza sleale e tutela dei consumatori si è sempre presentato come
estremamente complesso soprattutto in relazione alla circostanza se anche i consumatori potessero
considerarsi soggettivamente legittimati ad intervenire a fronte di illeciti di carattere concorrenziale
e se la disciplina della concorrenza tutelasse anche gli interessi dei consumatori
La tematica va analizzata nei suoi caratteri evolutivi al fine di coglierne i passaggi più
significativi.
Con riferimento alle disposizioni del codice civile sia in dottrina che in giurisprudenza si è
continuato ad affermare prevalentemente che l’interesse dei consumatori costituisce soltanto un
metro di valutazione al fine di stabilire se un atto concorrenziale dovesse ritenersi più o meno
sleale. Secondo tale impostazione si suole dire che ai consumatori viene offerta solo una tutela
indiretta e mediata dei loro interessi. La tutela per così dire diretta fa riferimento alla posizione
giuridica dei concorrenti, vale a dire a quella degli imprenditori che agiscono sul medesimo
segmento di mercato, sia pure complementare o contiguo.
Tuttavia, il crescente e progressivo interesse per i consumatori, anche sul piano normativo, e la
loro importanza allo scopo di assicurare un grado elevato e qualificato di concorrenza ha mutato
notevolemente la prospettiva nel corso del tempo.
Molteplici sono stati gli interventi normativi sui consumatori e sulla tutela dei loro interessi che
si sono succeduti nel tempo soprattutto in virtù e sulla spinta del diritto comunitario, al punto che il
rilievo che possono avere gli interessi dei consumatori nell’ambito della normativa nazionale sulla
tutela della concorrenza come si è andata definendo nel tempo hanno finito per prevalere o per
connotare diversamente anche le posizioni giuridiche degli imprenditori concorrenti.
2. Il codice civile: la tutela indiretta dei consumatori
Dalla lettera dell’art. 2598 c.c. si ricava che sia l’autore dell’illecito concorrenziale, sia il
soggetto danneggiato devono appartenere alla medesima categoria di imprenditori (essere
concorrenti) e che la repressione della concorrenza sleale è diretta a tutelare esclusivamente gli
interessi individuali dei concorrenti che si ritengono danneggiati da una condotta sleale.
La norma menziona infatti più volte il “concorrente”, indicando nel n. 3 l’idoneità “a
danneggiare l’altrui azienda” e riferendosi non alla correttezza in senso lato, ma alla “correttezza
professionale”. presuppone che soggetto attivo e soggetto passivo appartengano alla stessa categoria
professionale
A conforto di tale aspetto interpretativo va detto che storicamente la disciplina sulla
concorrenza è sorta con la finalità di regolamentare i conflitti fra imprenditori.
Secondo tale impostazione, dunque, la disciplina della concorrenza attiene ai rapporti tra
imprenditori e concerne atti compiuti nell’esercizio di una impresa e considerati in funzione del loro
contrasto con un’altrui attività imprenditrice.
I consumatori, in tale contesto vengono considerati soltanto quale strumento per determinare le
iniziative preferibilio parametro per misurare i danni subiti. In questo senso la legittimazione ad
agire in concorrenza sleale è riconosciuta ai soli imprenditori concorrenti.
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Quand’anche un atto di concorrenza sleale pregiudicasse i consumatori, la tutela inibitoria di
cui agli artt. 2598 e ss. c.c. non troverebbe applicazione.
L’unico rimedio, sempre che ne sussistano i presupposti, sarebbe la tutela aquiliana di cui
all’art. 2043 c.c.
3. I rapporti tra iniziativa economica e utilità sociale ex art. 41 Cost.
Con l’avvento della costituzione repubblicana e con le disposizioni facenti capo a quella che si
definisce come la costituzione economica, comincia a manifestarsi una lettura in chiave
pubblicistica dell’art. 2598 c.c., che gli interessi dei consumatori avrebbero dovuto ritenersi non più
interessi strumentali, ma interessi che ricevono tutela immediata e diretta.
Una tale visione pubblicistica della disciplina del codice civile si manifesta con l’assumere a
criterio dell’illiceità dell’atto concorrenziale la violazione degli interessi dei soggetti destinatari
dell’attività produttiva o di quelli dello sviluppo economico generale. In questa luce la repressione
della concorrenza sleale passa dalla tutela degli interessi di singoli imprenditori concorrenti a
strumento per la tutela di interessi generali.
Una tale interpretazione si richiamava in particolare all’art. 41, comma 2, Cost., per il quale
l’iniziativa economica privata “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da
recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, ricavando dalla norma una
indicazione funzionale che raccorda l’esercizio dell’iniziativa economica con interessi «sociali»
riconosciuti dalla stessa Costituzione come meritevoli di tutela.
Pertanto, muovendo dal presupposto che il parametro costituzionale della “utilità sociale”
fosse espressione di interessi non solo imprenditoriali, si perveniva ad una interpretazione delle
norme codicistiche sulla concorrenza (sleale) ricomprendente sia gli interessi degli imprenditori
concorrenti, sia quelli dei consumatori.
Gli imprenditori concorrenti non sarebbero l’unico punto di riferimento della tutela
concorrenziale; occorrerebbe riconoscere altrettanta rilevanza anche ad altri interessi, come quelli
dei consumatori e della collettività, in quanto necessari ad uno svolgimento corretto della
concorrenza.
Tale nuovo indirizzo iniziava ad affermarsi sia sulla scorta delle tendenze dottrinali e
giurisprudenziali tedesche e svizzere che già negli anni ’60 e ’70 avevano affermato che la tutela
della lealtà della concorrenza comprendeva gli interessi di tutti i soggetti del mercato, nonché
all’art. 10 bis della Convenzione di Unione nella Conferenza di Lisbona del 31 ottobre 1958 il quale
cita tra i requisiti dell’attività imprenditoriale quello di non indurre il pubblico in errore.
Tale ultima disposizione mostrerebbe un ulteriore appiglio di diritto positivo tale da superare
un diretto ed esclusivo riferimento della disciplina della concorrenza sleale ad imprenditori
concorrenti e da presentare una relazione diretta tra imprenditore ed il pubblico al quale i prodotti
sono destinati. Secondo tale disposizione, per integrare la fattispecie dell’illecito, è condizione
necessaria e sufficiente l’idoneità a trarre in inganno il pubblico: ne consegue che l’interesse preso
direttamente in considerazione agli effetti della effettiva protezioneda atti di concorrenza sleale è
quello della collettività, cioè di tutti quei soggetti destinatari dell’offerta delle merci o di servizi.
Alcune pronunce giurisprudenziali cominciarono quindi ad enunciare il principio secondo il
quale l’art. 41 Cost. rileverebbe nella interpretazione dell’art. 2958 n. 3 c.c., riempendo di contenuto
concreto il dovere di correttezza professionale mediante la sua riconduzione al principio di utilità
sociale quale scopo dell’azione economica.
Nonostante queste aperture interpretative, tuttavia, sul piano del diritto positivo, continuavano
a sussistere difficoltà a riconoscere la legittimazione processuale dei consumatori ad agire in
giudizio per rimuovere un atto di concorrenza lesivo dei loro interessi.
L’interesse del consumatore, dunque, non risultava ancora essere sufficiente per attribuire allo
stesso la legittimazione ad agire, occorrendo un espresso riconoscimento da parte dell’ordinamento.
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E proprio per le difficoltà di riconoscere ai consumatori quali singoli la legittimazione ad agire
per concorrenza sleale e di attribuire a tale legittimazione una base normativa, viene preso in
considerazione l’art. 2601, la cui norma consente alle associazioni professionali e agli enti che
rappresentano la categoria di agire in giudizio per la repressione di quegli atti di concorrenza sleale
che siano lesivi degli interessi “di una categoria professionale”.
Seppure è tuttora controverso l’ambito di operatività della norma ed il titolo della
legittimazione, vale a dire se le associazioni agiscono o meno iure proprio, la ratio della norma
stessa è quella di riconoscere tutela ad interessi superindividuali in relazione agli atti di concorrenza
sleale qualora sussista un interesse ulteriore e differenziato di una determinata categoria di soggetti
non necessariamente imprenditori.
In considerazione della possibilità che, mediante l’art. 2601 potessero essere tutelati anche
interessi diversi da quelli dei singoli imprenditori, è stata sostenuta dalla dottrina la illegittimità
costituzionale dell’art. 2601 c.c. volta ad ottenere la soppressione nell’art. 2601 c.c. del requisito
della “professionalità”, che determinerebbe un illegittima esclusione di soggetti altrimenti
legittimati ad agire.
La questione di legittimità costituzionale venne sollevata dal Tribunale di Milano con
l’ordinanza del 7 febbraio 1980.
La questione veniva ritenuta non manifestamente infondata per contrasto con l’art. 3, comma 1,
della Costituzione nella parte in cui l’art. 2601 c.c. “a) circoscrive la tutela giurisdizionale
ordinaria ai soli atti di concorrenza sleale che pregiudicano gli interessi di una categoria
professionale anziché di una categoria tout court; b) parallellamente conferisce la legittimazione
ad agire alle sole associazioni professionali anziché alle associazioni tout court”.
Tuttavia, pur riconoscendo la meritevolezza della tutela degli interessi dei consumatori quale
categoria, la pronuncia fu di manifesta inammissibilità (Corte Cost., Ordinanza, 21.01.1988, n. 59):
la Corte Costituzionale ritenne infatti che la normativa sulla concorrenza sleale riguardasse i soli
imprenditori concorrenti e non comprendesse anche gli interessi dei consumatori, e che gli unici
strumenti di tutela di tali interessi sono quelli penali (art. 44 c.p.). E’ compito del legislatore
prevedere le forme e l’ambito di azioni specifiche in favore delle associazioni dei consumatori”.
Sul piano del diritto positivo, restavano due sole forme di tutela diretta del consumatore: una
che operava sul piano penale che richiedeva che la condotta fosse compresa nelle fattispecie di reato
previste; l'altra che faceva capo alla applicabilità dei principi e delle norme sull’illecito aquiliano.
Quest’ultimo avente carattere successivo e meramente risarcitorio quindi operante a posteriori
mentre una tutela adeguata ed effettiva doveva essere anche di carattere preventivo e consentire al
consumatore di intervenire anticipatamente per evitare gli effetti degli atti posti in essere
dall’imprenditore.
Senza contare che andavano altresì considerati interessi posti a monte del fenomeno
risarcitorio, riguardanti il tipo e le modalità di formazione del contratto, nonché disposizioni sulla
sicurezza , sulla qualità, sull’informazione.
Una disciplina unitaria diretta ad offrire al una tutela piena ed immediata agli interessi dei
consumatori non era pertanto più procrastinabile. Occorreva una disciplina idonea a superare le
lacune esistenti, capace altresì di far fronte a nuove e diverse esigenze nascenti da un sistema
economico che era mutato rispetto al regime previsto da codice civile.
Infatti, l’emergere dei rapporti e contratti di massa metteva allo scoperto l’insufficienza di
strumenti adeguati ai cambiamenti delle condizioni di mercato, alla sua espansione, a nuovi metodi
di fabbricazione e di vendita, allo sviluppo dei mezzi di comunicazione, all’aumento della
produzione, dell’offerta e della vendita di beni e servizi, correlati all’ampliamento dei bisogni di
una società in cui il rapporto tra imprenditori e consumatori risultava sempre più squilibrato.
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4. Il Decreto Legislativo n. 74 del 1992 sulla pubblicità ingannevole e sulla pubblicità
comparativa.
La possibilità di una forma di tutela diretta dei consumatori tale da colmare il vuoto normativo
esistente venne con la disciplina in materia di pubblicità ingannevole.
E non è un caso che le considerazioni sulla necessità di tutelare il consumatore e di muovevano
da illeciti pubblicitari riferiti al contenuto menzognero dei messaggi pubblicitari, in considerazione
che l’informazione intesa quale strumento per operare le scelte sul mercato dei prodotti era divenuta
elemento fondamentale dell’attuazione delle politiche di concorrenza. Ciò venne posto in chiara
luce a livello comunitario e di seguito recepito nel diritto interno.
E’, infatti, con riferimento alla carenza informativa e allo sviamento generato dall’abbondare di
messaggi non controllati nel contenuto che diventano più evidenti le incongruenze di una disciplina
della concorrenza che, se ancorata al concetto civilistico di concorrenza sleale, non consentiva ai
consumatori di poter intervenire consapevolmente sul mercato.
E’ sufficiente a tal fine riportare uno degli esempi prospettati dalla dottrina per dimostrare che,
contrariamente a quanto ritenuto dalla Consulta con l’ordinanza del 21.01.1988 n. 59, sopra
indicata, il consumatore non sarebbe affatto estraneo alla correttezza
Non v’è dubbio che la comunicazione incide sul processo di scelta dei consumatori e tra questa
la pubblicità tende sempre meno ad informare sulle qualità del prodotto e sempre più ad indurre
all’acquisto, agendo su elementi irrazionali o emotivi.
E la considerazione del consumatore come elemento necessario per determinare dei rapporti
economici di mercato è insita nella normativa del D.L.vo 25.01.1992 n. 74 sulla pubblicità
ingannevole (modificato dal D.L.vo 25.02.2000 n. 67 riguardante le condizioni di liceità della
pubblicità comparativa), che ha recepito la Direttiva n. 84/450/CEE.
Tale decreto, come espressamente enunciato all’art. 1, comma 1, è diretto a tutelare “dalla
pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali: i soggetti che esercitano un’attività
commerciale, industriale, artigianale o professionale, i consumatori e, in genere, gli interessi del
pubblico nella fruizione di messaggi pubblicitari”.
I consumatori vengono così ad affiancare gli imprenditori e rientrano, con pari dignità, nel
novero dei soggetti che l'ordinamento si propone di tutelare direttamente sia come singoli sia come
appartenenti ad una categoria.
Agli stessi (consumatori singoli e loro associazioni) viene, poi, riconosciuta la legittimazione
ad agire al fine di ottenere dall’Autorità Garante della concorrenza e del mercato la misura
sanzionatoria della inibizione degli atti di pubblicità ingannevole o la loro continuazione, nonché
ottenerne la eliminazione degli effetti. Si opera in tal modo un’anticipazione della soglia di tutela
per impedire che l’evento si verifichi e che maturino e si consolidino le intuibili conseguenze lesive.
L’art. 7 del Decreto Legislativo, infatti, concede ai “concorrenti, ai consumatori, alle loro
associazioni ed organizzazioni” la legittimazione a ricorrere all’Autorità affinché sia inibita la
pubblicità che “in qualunque modo, compresa la sua presentazione, induca in errore o possa
indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che possa raggiungere e che,
a causa del suo carattere ingannatorio, possa pregiudicare il loro comportamento economico
ovvero che, per questo motivo, leda o possa ledere un concorrente” (art. 2, comma 1, lett. b) del
D.L.vo n. 74/1992).
Non appare dubbio a questo punto che con il D.L.vo n. 74 del 1992 si attua un mutamento di
prospettiva rispetto alle forme ordinarie di tutela di quella particolare fattispecie di concorrenza
sleale che si sostanzia nella pubblicità determinandosi un bilanciamento di interessi tra categorie di
soggetti imprenditoriali e non.
l’art. 7 del d.lg. 25 gennaio 1997 n. 74 ha riconosciuto – facendo salva la competenza
giurisdizionale del giudice ordinario in tema di azione ex art. 2598 – al consumatore come singolo
ed all’ente esponenzialeche ne rappresenta una intera categoria, un potere di iniziativa e di
controllo giurisdizionale di pertinenza del giudice amministrativo.
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E’ indubbio che sussistano rapporti fra il fenomeno della pubblicità ingannevole e la
concorrenza, come enunciato dal secondo “Considerando” della direttiva 84/450/CEE nel quale i
legge che “la pubblicità ingannevole può condurre ad una distorsione della concorrenza all’interno
del mercato comune”operando quale mezzo di orientamento della domanda essa e quindi capace di
influenzare le condizioni generali di mercato.
Per altro verso va rilevato che la disciplina della pubblicità ingannevole ha una sua propria
autonomia giuridica rispetto alla concorrenza sleale che nel particolare campo in cui opera
prescinde dal requisito soggettivo della qualifica di imprenditore di entrambe le parti, prima
indispensabile. Tale ambito specifico è ribadito proprio dalla disposizione che fa salva la
competenza del giudice ordinario per quanto riguarda gli aspetti ricadenti nella disciplina dell’art.
2598 del codice civile.
Vi possono essere infatti atti di per sé non dannosi per i consumatori, ma che possono risultare
nei rapporti tra imprenditori concorrenti come nella pubblicità denigratoria, come vi sono atti
dannosi per i consumatori che non risultano tali nella disciplina della concorrenza come per la
pubblicità superlativa.
Un discorso a parte va fatto per la pubblicità comparativa. Considerata alla stregua della
disciplina del codice civile la giurisprudenza l’ha sempre negata, facendola rientrare di volta in
volta, a seconda dei casi presi in esame nelle fattispecie di cui all’art. 2598 del codice civile, vale a
dire o nell’attività denigratoria o tendente a ingenerare confusione tra i prodotti o in quanto tendente
ad appropriarsi dei pregi di un prodotto altrui, tutte ipotesi considerate.
Con l’approvazione della Direttiva 97/55/CE relativa alla pubblicità comparativa, che
modifica la direttiva 84/450/CEE, e recepita nel diritto interno ad opera del decreto legislativo n. 67
del 2000 vengono stabilite le condizioni di liceità della pubblicità comparativa che, quindi riceve
legittimità normativa in quanto riconosciuto come un mezzo legittimo per informare i consumatori,
a patto che confronti caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili e rappresentative e non sia
ingannevole.
Inserita nel corpo normativo della disciplina sulla pubblicità ingannevole, si applica nei
confronti dei soggetti già precedentemente considerati da questa ( oggetto della tutela sono infatti
gli interessi dei soggetti che esercitano un’attività commerciale, industriale, artigianale o
professionale, i consumatori e, in genere, gli interessi del pubblico) e legittimati a richiedere
all’autorità Antitrust l’inibitoria ai sensi dell’art. 7 del d. lgs. N. 74/92 aggiornato, sono ugualmente
“i concorrenti, i consumatori, le loro associazioni ed organizzazioni, il Ministro dell’industria, del
commercio e dell’artigianato, nonché ogni altra pubblica amministrazione che ne abbia interesse
in relazione ai propri compiti istituzionali, anche su denuncia del pubblico”.
Con riferimento ai consumatori e agli organismi che li rappresentano, nonché ai soggetti
pubblici, nulla cambia rispetto al regime precedente, con riferimento ai rapporti tra imprenditori si
pone il problema del rapporto con le disposizioni contenute nel codice civile.
A tale fine , l’art. 7, comma 13 del d. lgs 74/92 modificato, oltre a ribadire la giurisdizione
del giudice ordinario, in materia di atti di concorrenza sleale, a norma dell'articolo 2598 del codice
civile, fa salva la competenza di quest’ultimo anche per quanto concerne la pubblicità comparativa,
in materia di atti compiuti in violazione della disciplina sul diritto d'autore nonché delle
denominazioni di origine riconosciute e protette in Italia e di altri segni distintivi di imprese, beni e
servizi concorrenti
Pertanto, nei rapporti tra concorrenti il decreto legislativo in questione troverà applicazione
solo nei casi non contemplati dal codice civile.
Non può darsi dubbio però che l’influenza delle disposizioni in materia di pubblicità
ingannevole e comparativa possano influenzare l’interpretazione di determinate ipotesi di
concorrenza sleale contemplate dal codice civile e soprattutto definire nei termini precisati dal
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decreto legislativo il parametro della correttezza professionale richiamato come metro di
valutazione dal codice.
Alla luce di tali considerazioni sembra possibile affermare che la tutela diretta del consumatore
e la legittimazione riconosciuta in capo allo stesso ed alle associazioni dei consumatori non implica
necessariamente un ampliamento sul piano soggettivo della disciplina della concorrenza sleale, né
conduce a ritenere superata la tradizionale interpretazione restrittiva delle norme civilistiche.
Non sempre il consumatore ha interesse a reagire nei confronti di ogni forma di comunicazione
pubblicitaria scorretta. Egli può denunciare i fatti all’Autorità Garante della concorrenza e del
mercato solo nelle ipotesi in cui le comunicazioni commerciali siano tali da indurlo in errore e da
alterare un suo comportamento economico.
Vi è poi un altro aspetto da considerare. L’aspetto pubblicistico della tutela accordata ai
consumatori e al pubblico in generale consentirebbe di tenere distinta la disciplina del decreto dal
quella del codice civile in materia di concorrenza sleale atteso che gli interessi tutelati dalla
disciplina della pubblicità ingannevole sarebbero diversi e solo in via mediata si ripercuoterebbero
sul mercato, al punto che si è affermato che, poiché “obiettivo primario” sarebbe la tutela del
consumatore, l’assenza di un profilo di potenziale lesione dei consumatori impedirebbe di azionare
la tutela, dove, al contrario, i concorrenti potrebbero, agire in giudizio solo nelle ipotesi in cui
l’avvenuta lesione degli interessi dei consumatori determini per loro conseguenze sleali.
Tale impostazione tocca solo in via eventuale la disciplina della concorrenza sleale e,
comunque, non inciderebbe su di essa.
Occorre infine dire che la diversa competenza attribuita per la pubblicità ingannevole e
comparativa all’autorità antitrust e per la concorrenza sleale al giudice ordinario, lascia
immodificato l’ambito di applicabilità dell’art. 2601 del codice civile e quindi persisterebbe la
negazione delle associazioni dei consumatori ad agire ai sensi dell’articolo medesimo, in virtù di un
riconoscimento di carattere generale operato dalla normativa di cui al d. lgs n. 74/92.
5. L’art. 2, comma 5 della Legge n. 580/1993 di riforma dell’ordinamento delle Camere di
Commercio.
Con la legge n. 580/1993 le camere di Commercio assumono un ruolo che ne modifica in parte
la funzione principale legata agli interessi delle imprese, divenendo il punto di incontro, a livello
locale delle diverse componenti del mercato, luogo dove si compongono i differenti interessi
rappresentati in una visione unitaria e sempre più indirizzata a favorire lo sviluppo economico
inteso come interesse generale.
Alcune specifiche norme della richiamata legge denotano questo aspetto.
L’art. 2 della citata L. n. 580/1993 nel prevedere i compiti svolti dalla Camera di Commercio
stabilisce, anzitutto, al comma 1, che queste esercitano funzioni “di supporto e di promozione degli
interessi generali delle imprese nonché .……funzioni nelle materie amministrative ed economiche
relative al sistema delle imprese”.
Nel successivo comma 4 dello stesso art. 2 vengono previste, in termini di possibilità, la
promozione di commissioni arbitrali e conciliative per la risoluzione di controversie che insorgano
anche fra le imprese e i consumatori o utenti, la predisposizione e promozione di “contratti-tipo tra
imprese, loro associazioni e associazioni di tutela degli interessi dei consumatori e degli utenti”,
nonché la promozione di “forme di controllo sulla presenza di clausole inique inserite nei
contratti”.
Infine, il successivo comma 5 del citato art. 2 stabilisce la possibilità per le Camere di
Commercio di “promuovere l’azione per la repressione della concorrenza sleale ai sensi dell’art.
2601 del codice civile”.
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Segnatamente rispetto a tale disposizione vanno fatte alcune considerazioni.
Se il ruolo principale delle Camere di Commercio rimane quello enunciato dall’art. 2, comma
1, della legge, di supporto e di promozione degli interessi generali delle imprese, la possibilità per
esse di esercitare l’azione di cui all’art. 2601 c.c. rientra nello schema generale delineato dalla
dottrina e dalla giurisprudenza in relazione alla norma codicistica, essendo questa volta a tutelare gli
interessi superindividuali di una intera categoria imprenditoriale. Vale a dire che le Camere di
commercio in questo caso assumo semplicemente il ruolo di una delle associazioni di categoria
professionali a tutela degli interessi degli aderenti in ordine ad atti di concorrenza sleale posti in
essere da imprenditori concorrenti.
Alla luce di tali valutazioni non si ritiene che con la legge in esame la concorrenza sleale
assuma contorni più ampi e ricomprenda anche gli interessi dei consumatori.
Né, dall’altra parte, si potrebbe argomentare che l’azione ex art. 2601 c.c. non sarebbe più
riservata alla difesa di interessi imprenditoriali, in base alla presenza nel consiglio di rappresentanti
delle associazioni di tutela degli interessi dei consumatori ovvero in relazione agli altri compiti
demandati alle camere di commercio dall’ art. 2, comma 4, e concernenti la predisposizione di
contratti–tipo tra le imprese e i consumatori ed il controllo sulla presenza di clausole abusive, che
non hanno incidenza sul fenomeno della concorrenza sleale se non in via mediata o indiretta.
Vi è poi da considerare che l’art. 3 della L. n. 281/1998 le Camere di commercio assumono il
ruolo di terzo compositore delle controversie in via preliminare nella procedura dell’azione
inibitoria collettiva esercitata dalle associazioni dei consumatori. Ciò rende difficile la conciliazione
la possibilità per le stesse Camere di esperire l’azione inibitoria a tutela degli interessi dei
consumatori nel quadro della concorrenza sleale, in questo caso come parte rappresentante la
categoria. Del ruolo super-partes delle camere di commercio definito dalla legge n. 281/98 si ricava
ulteriore conferma dal fatto che, a differenza della previsione contenuta nell’art.1469-sexies c.c.,
introdotto dalla L. 05.02.1996 n. 52 sulla clausole abusive, le camere di commercio non rientrano,
ai sensi del citato art. 3 comma 1, della L. n. 281/1998, tra i soggetti legittimati ad agire a tutela
degli interessi collettivi dei consumatori.
6. La Legge n. 281/1998 ed i diritti fondamentali dei consumatori
La legge generale sui diritti dei consumatori e degli utenti del 30 luglio 1998 legittima
pienamente i consumatori nell’ordinamento italiano.
Vengono infatti definiti all’articolo 1 i diritti dei consumatori, sulla base dell’elenco contenuto
nella Risoluzione del Consiglio 14 aprile 1975 relativa al Programma preliminare della CEE per una
politica di protezione ed informazione del consumatore.
All’art. 2 viene fornita una nozione di consumatore, anch’essa mutuata dalla nozione elaborata
dall’Unione europea nelle varie direttive via via recepite nel nostro ordinamento, nonché quella di
associazioni dei consumatori, elevando cosi a rango di soggetto dell’ordinamento giuridico gli
organismi rappresentativi nei quali le categorie di consumatori si erano nel tempo andate
organizzando stabilendo i requisiti di riconoscimento di quelli maggiormente rappresentativi a
livello nazionale.
All’art. 3 viene attribuita la legittimazione ad agire alle associazioni dei consumatori
riconosciute, secondo la procedura ivi stabilita, per inibire gli atti e comportamenti lesivi degli
interessi collettivi dei consumatori e per far adottare gli atti idonei ad eliminare gli effetti di quelli
posti in essere.
L’art. 1 della citata L. n. 281/1998 riconosce ai consumatori alcuni diritti, definiti come
“fondamentali.
Nell’elenco previsto, vi sono alcuni diritti che evidenziano un rapporto tra la tutela dei
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consumatori predisposta dalla legge in esame e la disciplina della concorrenza. In particolare ci si
riferisce al diritto “alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi”, al diritto “ad un’adeguata
informazione e ad una corretta pubblicità”, al diritto “alla correttezza, trasparenza ed equità nei
rapporti contrattuali concernenti beni e servizi” e al diritto “all’erogazione di servizi pubblici
secondo standard di qualità ed efficienza”.
La legge n. 281/98 da questo punto di vista aggiunge una ulteriore forma di tutela diretta,
legittimando ad agire le associazioni dei consumatori, ponendo in un certo qual modo in crisi il
sistema venutosi a delineare con la disciplina in materia di pubblicità ingannevole.
Relativamente ai profili di ingannevolezza, infatti, il d.lgs. 74/92 attribuisce infatti la
competenza esclusiva all’Autorità antitrust, mentre, per gli stessi profili, rientranti pure tra gli
interessi (collettivi) dei consumatori in generale e in particolare nell’elenco dei diritti enunciati
nell’art. 1 della legge 281/98, l’esercizio dell’azione inibitoria prevista avviene dinanzi al giudice
ordinario. Con ciò generandosi quanto meno una duplice possibilità di azionabilità, sia ai sensi del
d.lgs. n. 74/92 (dinanzi all’antitrust), sia ai sensi dell’art. 3 della legge 281/98 (dinanzi al giudice
ordinario) relativamente agli stessi profili.
Il quadro si complica ulteriormente a seguito dell’emanazione della direttiva 98/27/ce del 19
maggio 1998 relativa a provvedimenti inibitori a tutela degli interessi dei consumatori. Questa, nel
prevedere l’esercizio dell’azione inibitoria a tutela degli interessi dei consumatori per i soggetti
legittimati nell’ambito dei singoli Stati, stabilisce che tale azione sia esperita rispetto ad una serie di
direttive indicate in un elenco allegato alla direttiva stessa. Si tratta delle direttive emanate nel corso
del tempo in ambito comunitario in attuazione della politica di tutela dei consumatori, per le quali si
era riscontrato che i meccanismi esistenti attualmente sia sul piano nazionale che su quello
comunitario per assicurare il rispetto di tali direttive non sempre consentivano sempre di porre
termine tempestivamente alle violazioni lesive degli interessi collettivi dei consumatori.
Tra queste direttive figurano sia la direttiva in materia di pubblicità ingannevole, sia quella in
materia di pubblicità comparativa.
Il recepimento di tale direttiva ha comportato una modifica alla legge n. 281/98 che aveva anticipato
in qualche misura la disciplina comunitaria, prevedendo il corrispondente elenco di atti di
recepimento delle direttive comunitarie, rispetto ai quali si esercita l’azione inibitoria ai sensi
dell’art. 3 della legge n. 281/98.
Ora, con riferimento sia alla pubblicità ingannevole che alla pubblicità comparativa ciò comporta
che le associazioni dei consumatori oltre alla duplice azionabilità già vista ne hanno a disposizione
una ulteriore in via specifica, sempre ai sensi dell’art. 3 della 281/98, quindi sempre dinanzia al
giudice ordinario.
Quindi, alla luce della normativa attuale si può dire non solo che la originaria preclusione
all’allargamento della legittimazione ad agire alle associazioni dei consumatori della disciplina
repressiva della concorrenza sleale sembra essere superata alla luce della legge 281/998, ottenendo
le associazioni stesse, in quanto portatrici di interessi generali la possibilità di agire per via traversa
in quegli ambiti legati appunto alla concorrenza sleale solitamente interdetti (non solo per i profili
di ingannevolezza della pubblicità o per la declaratoria di illiceità della pubblicità comparativa), ma
va aggiunto altresì che le forme di tutela accordate dall’ordinamento sono molteplici ed in un certo
senso confliggenti.
7. La portata della direttiva 2005/29/CE relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e
consumatori nel mercato interno
Oggetto della direttiva sono le pratiche commerciali comprendenti sia le azioni
precedentil’acquisto di un prodotto (informazione, comunicazione marketing, pubblicità) sia
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l’acquisto stesso, sia le azioni susseguenti (garanzie, manutenzione, ripararazione, pratiche di
fidelizzazione).
La definizione di "pratica commerciale" include esplicitamente le comunicazioni commerciali
e la pubblicità, in modo da rendere chiaro il collegamento con il regolamento sulla promozione
delle vendite e con le disposizioni riprese dalla direttiva sulla pubblicità ingannevole.
La direttiva sviluppa due tipologie chiave di pratiche commerciali sleali: quelle
"ingannevoli" e quelle "aggressive".
Sono riprese nella direttiva le disposizioni sui rapporti tra imprese e consumatori di cui alla
direttiva sulla pubblicità ingannevole (cioè le disposizioni in materia di pubblicità che raggiunge i
consumatori o è ad essi rivolta) e viene limitato poi il campo di applicazione della direttiva vigente
alla pubblicità tra imprese (disposizioni in materia di pubblicità che raggiunge le imprese o e ad
esse rivolta) e alla pubblicità comparativa in grado di recare pregiudizio ad un concorrente (ad
esempio attraverso la denigrazione) senza però recare alcun pregiudizio al consumatore.
In tal modo la disciplina relativa alla pubblicità ingannevole e comparativa si divide in due
parti ben distinte, l’una, inserita nella nuova direttiva, relativa ai rapporti tra consumatori e
imprenditori, l’altra, di cui alle direttive 84/450 e 97/55, limitata ai rapporti tra concorrenti.
Ciò non può non produrre rilevanti conseguenze in ordine alla misure di tutela accordate da
considerare in sede di recepimento della direttiva in questione.
Innanzitutto viene posta in discussione la valenza pubblicistica della normativa attualmente
vigente e con essa la legittimazione stessa degli organismi pubblici adesso prevista, poi potrebbe
porsi in dubbio sempre sul medesimo versante la competenza esclusiva dell’autorità antitrust e la
riespansione della competenza e della disciplina attualmente prevista dal codice civile, il che
potrebbe anche far ipotizzare una forma di recepimento da attuarsi come riformulazione o novella
delle norme codicistiche in materia di concorrenza sleale.
Sarebbe completamente da stabilire la tutela del consumatore in ordine alla nuova disciplina,
posto che la stessa direttiva prevede un aggiornamento dell’elenco delle direttive allegate alla
direttiva 98/27 rispetto alle quali va esercitata l’azione inibitoria, includendovi la stessa direttiva
29/2005.
In ogni caso occorrerebbe fare chiarezza una volta per tutte cogliendo proprio l’occasione della
volontà razionalizzatrice operata dalla nuova direttiva: ciò a vantaggio sia della tutela dei
consumatori ma anche della certezza del diritto.
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