UT/2005 TUTELA DEL CONSUMATORE NELLA CONCORRENZA SLEALE E NELLA PUBBLICITÀ INGANNEVOLE. PROFILI EVOLUTIVI. Umberto Troiani 1. Premessa Il rapporto fra concorrenza sleale e tutela dei consumatori si è sempre presentato come estremamente complesso soprattutto in relazione alla circostanza se anche i consumatori potessero considerarsi soggettivamente legittimati ad intervenire a fronte di illeciti di carattere concorrenziale e se la disciplina della concorrenza tutelasse anche gli interessi dei consumatori La tematica va analizzata nei suoi caratteri evolutivi al fine di coglierne i passaggi più significativi. Con riferimento alle disposizioni del codice civile sia in dottrina che in giurisprudenza si è continuato ad affermare prevalentemente che l’interesse dei consumatori costituisce soltanto un metro di valutazione al fine di stabilire se un atto concorrenziale dovesse ritenersi più o meno sleale. Secondo tale impostazione si suole dire che ai consumatori viene offerta solo una tutela indiretta e mediata dei loro interessi. La tutela per così dire diretta fa riferimento alla posizione giuridica dei concorrenti, vale a dire a quella degli imprenditori che agiscono sul medesimo segmento di mercato, sia pure complementare o contiguo. Tuttavia, il crescente e progressivo interesse per i consumatori, anche sul piano normativo, e la loro importanza allo scopo di assicurare un grado elevato e qualificato di concorrenza ha mutato notevolemente la prospettiva nel corso del tempo. Molteplici sono stati gli interventi normativi sui consumatori e sulla tutela dei loro interessi che si sono succeduti nel tempo soprattutto in virtù e sulla spinta del diritto comunitario, al punto che il rilievo che possono avere gli interessi dei consumatori nell’ambito della normativa nazionale sulla tutela della concorrenza come si è andata definendo nel tempo hanno finito per prevalere o per connotare diversamente anche le posizioni giuridiche degli imprenditori concorrenti. 2. Il codice civile: la tutela indiretta dei consumatori Dalla lettera dell’art. 2598 c.c. si ricava che sia l’autore dell’illecito concorrenziale, sia il soggetto danneggiato devono appartenere alla medesima categoria di imprenditori (essere concorrenti) e che la repressione della concorrenza sleale è diretta a tutelare esclusivamente gli interessi individuali dei concorrenti che si ritengono danneggiati da una condotta sleale. La norma menziona infatti più volte il “concorrente”, indicando nel n. 3 l’idoneità “a danneggiare l’altrui azienda” e riferendosi non alla correttezza in senso lato, ma alla “correttezza professionale”. presuppone che soggetto attivo e soggetto passivo appartengano alla stessa categoria professionale A conforto di tale aspetto interpretativo va detto che storicamente la disciplina sulla concorrenza è sorta con la finalità di regolamentare i conflitti fra imprenditori. Secondo tale impostazione, dunque, la disciplina della concorrenza attiene ai rapporti tra imprenditori e concerne atti compiuti nell’esercizio di una impresa e considerati in funzione del loro contrasto con un’altrui attività imprenditrice. I consumatori, in tale contesto vengono considerati soltanto quale strumento per determinare le iniziative preferibilio parametro per misurare i danni subiti. In questo senso la legittimazione ad agire in concorrenza sleale è riconosciuta ai soli imprenditori concorrenti. 1 UT/2005 Quand’anche un atto di concorrenza sleale pregiudicasse i consumatori, la tutela inibitoria di cui agli artt. 2598 e ss. c.c. non troverebbe applicazione. L’unico rimedio, sempre che ne sussistano i presupposti, sarebbe la tutela aquiliana di cui all’art. 2043 c.c. 3. I rapporti tra iniziativa economica e utilità sociale ex art. 41 Cost. Con l’avvento della costituzione repubblicana e con le disposizioni facenti capo a quella che si definisce come la costituzione economica, comincia a manifestarsi una lettura in chiave pubblicistica dell’art. 2598 c.c., che gli interessi dei consumatori avrebbero dovuto ritenersi non più interessi strumentali, ma interessi che ricevono tutela immediata e diretta. Una tale visione pubblicistica della disciplina del codice civile si manifesta con l’assumere a criterio dell’illiceità dell’atto concorrenziale la violazione degli interessi dei soggetti destinatari dell’attività produttiva o di quelli dello sviluppo economico generale. In questa luce la repressione della concorrenza sleale passa dalla tutela degli interessi di singoli imprenditori concorrenti a strumento per la tutela di interessi generali. Una tale interpretazione si richiamava in particolare all’art. 41, comma 2, Cost., per il quale l’iniziativa economica privata “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, ricavando dalla norma una indicazione funzionale che raccorda l’esercizio dell’iniziativa economica con interessi «sociali» riconosciuti dalla stessa Costituzione come meritevoli di tutela. Pertanto, muovendo dal presupposto che il parametro costituzionale della “utilità sociale” fosse espressione di interessi non solo imprenditoriali, si perveniva ad una interpretazione delle norme codicistiche sulla concorrenza (sleale) ricomprendente sia gli interessi degli imprenditori concorrenti, sia quelli dei consumatori. Gli imprenditori concorrenti non sarebbero l’unico punto di riferimento della tutela concorrenziale; occorrerebbe riconoscere altrettanta rilevanza anche ad altri interessi, come quelli dei consumatori e della collettività, in quanto necessari ad uno svolgimento corretto della concorrenza. Tale nuovo indirizzo iniziava ad affermarsi sia sulla scorta delle tendenze dottrinali e giurisprudenziali tedesche e svizzere che già negli anni ’60 e ’70 avevano affermato che la tutela della lealtà della concorrenza comprendeva gli interessi di tutti i soggetti del mercato, nonché all’art. 10 bis della Convenzione di Unione nella Conferenza di Lisbona del 31 ottobre 1958 il quale cita tra i requisiti dell’attività imprenditoriale quello di non indurre il pubblico in errore. Tale ultima disposizione mostrerebbe un ulteriore appiglio di diritto positivo tale da superare un diretto ed esclusivo riferimento della disciplina della concorrenza sleale ad imprenditori concorrenti e da presentare una relazione diretta tra imprenditore ed il pubblico al quale i prodotti sono destinati. Secondo tale disposizione, per integrare la fattispecie dell’illecito, è condizione necessaria e sufficiente l’idoneità a trarre in inganno il pubblico: ne consegue che l’interesse preso direttamente in considerazione agli effetti della effettiva protezioneda atti di concorrenza sleale è quello della collettività, cioè di tutti quei soggetti destinatari dell’offerta delle merci o di servizi. Alcune pronunce giurisprudenziali cominciarono quindi ad enunciare il principio secondo il quale l’art. 41 Cost. rileverebbe nella interpretazione dell’art. 2958 n. 3 c.c., riempendo di contenuto concreto il dovere di correttezza professionale mediante la sua riconduzione al principio di utilità sociale quale scopo dell’azione economica. Nonostante queste aperture interpretative, tuttavia, sul piano del diritto positivo, continuavano a sussistere difficoltà a riconoscere la legittimazione processuale dei consumatori ad agire in giudizio per rimuovere un atto di concorrenza lesivo dei loro interessi. L’interesse del consumatore, dunque, non risultava ancora essere sufficiente per attribuire allo stesso la legittimazione ad agire, occorrendo un espresso riconoscimento da parte dell’ordinamento. 2 UT/2005 E proprio per le difficoltà di riconoscere ai consumatori quali singoli la legittimazione ad agire per concorrenza sleale e di attribuire a tale legittimazione una base normativa, viene preso in considerazione l’art. 2601, la cui norma consente alle associazioni professionali e agli enti che rappresentano la categoria di agire in giudizio per la repressione di quegli atti di concorrenza sleale che siano lesivi degli interessi “di una categoria professionale”. Seppure è tuttora controverso l’ambito di operatività della norma ed il titolo della legittimazione, vale a dire se le associazioni agiscono o meno iure proprio, la ratio della norma stessa è quella di riconoscere tutela ad interessi superindividuali in relazione agli atti di concorrenza sleale qualora sussista un interesse ulteriore e differenziato di una determinata categoria di soggetti non necessariamente imprenditori. In considerazione della possibilità che, mediante l’art. 2601 potessero essere tutelati anche interessi diversi da quelli dei singoli imprenditori, è stata sostenuta dalla dottrina la illegittimità costituzionale dell’art. 2601 c.c. volta ad ottenere la soppressione nell’art. 2601 c.c. del requisito della “professionalità”, che determinerebbe un illegittima esclusione di soggetti altrimenti legittimati ad agire. La questione di legittimità costituzionale venne sollevata dal Tribunale di Milano con l’ordinanza del 7 febbraio 1980. La questione veniva ritenuta non manifestamente infondata per contrasto con l’art. 3, comma 1, della Costituzione nella parte in cui l’art. 2601 c.c. “a) circoscrive la tutela giurisdizionale ordinaria ai soli atti di concorrenza sleale che pregiudicano gli interessi di una categoria professionale anziché di una categoria tout court; b) parallellamente conferisce la legittimazione ad agire alle sole associazioni professionali anziché alle associazioni tout court”. Tuttavia, pur riconoscendo la meritevolezza della tutela degli interessi dei consumatori quale categoria, la pronuncia fu di manifesta inammissibilità (Corte Cost., Ordinanza, 21.01.1988, n. 59): la Corte Costituzionale ritenne infatti che la normativa sulla concorrenza sleale riguardasse i soli imprenditori concorrenti e non comprendesse anche gli interessi dei consumatori, e che gli unici strumenti di tutela di tali interessi sono quelli penali (art. 44 c.p.). E’ compito del legislatore prevedere le forme e l’ambito di azioni specifiche in favore delle associazioni dei consumatori”. Sul piano del diritto positivo, restavano due sole forme di tutela diretta del consumatore: una che operava sul piano penale che richiedeva che la condotta fosse compresa nelle fattispecie di reato previste; l'altra che faceva capo alla applicabilità dei principi e delle norme sull’illecito aquiliano. Quest’ultimo avente carattere successivo e meramente risarcitorio quindi operante a posteriori mentre una tutela adeguata ed effettiva doveva essere anche di carattere preventivo e consentire al consumatore di intervenire anticipatamente per evitare gli effetti degli atti posti in essere dall’imprenditore. Senza contare che andavano altresì considerati interessi posti a monte del fenomeno risarcitorio, riguardanti il tipo e le modalità di formazione del contratto, nonché disposizioni sulla sicurezza , sulla qualità, sull’informazione. Una disciplina unitaria diretta ad offrire al una tutela piena ed immediata agli interessi dei consumatori non era pertanto più procrastinabile. Occorreva una disciplina idonea a superare le lacune esistenti, capace altresì di far fronte a nuove e diverse esigenze nascenti da un sistema economico che era mutato rispetto al regime previsto da codice civile. Infatti, l’emergere dei rapporti e contratti di massa metteva allo scoperto l’insufficienza di strumenti adeguati ai cambiamenti delle condizioni di mercato, alla sua espansione, a nuovi metodi di fabbricazione e di vendita, allo sviluppo dei mezzi di comunicazione, all’aumento della produzione, dell’offerta e della vendita di beni e servizi, correlati all’ampliamento dei bisogni di una società in cui il rapporto tra imprenditori e consumatori risultava sempre più squilibrato. 3 UT/2005 4. Il Decreto Legislativo n. 74 del 1992 sulla pubblicità ingannevole e sulla pubblicità comparativa. La possibilità di una forma di tutela diretta dei consumatori tale da colmare il vuoto normativo esistente venne con la disciplina in materia di pubblicità ingannevole. E non è un caso che le considerazioni sulla necessità di tutelare il consumatore e di muovevano da illeciti pubblicitari riferiti al contenuto menzognero dei messaggi pubblicitari, in considerazione che l’informazione intesa quale strumento per operare le scelte sul mercato dei prodotti era divenuta elemento fondamentale dell’attuazione delle politiche di concorrenza. Ciò venne posto in chiara luce a livello comunitario e di seguito recepito nel diritto interno. E’, infatti, con riferimento alla carenza informativa e allo sviamento generato dall’abbondare di messaggi non controllati nel contenuto che diventano più evidenti le incongruenze di una disciplina della concorrenza che, se ancorata al concetto civilistico di concorrenza sleale, non consentiva ai consumatori di poter intervenire consapevolmente sul mercato. E’ sufficiente a tal fine riportare uno degli esempi prospettati dalla dottrina per dimostrare che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Consulta con l’ordinanza del 21.01.1988 n. 59, sopra indicata, il consumatore non sarebbe affatto estraneo alla correttezza Non v’è dubbio che la comunicazione incide sul processo di scelta dei consumatori e tra questa la pubblicità tende sempre meno ad informare sulle qualità del prodotto e sempre più ad indurre all’acquisto, agendo su elementi irrazionali o emotivi. E la considerazione del consumatore come elemento necessario per determinare dei rapporti economici di mercato è insita nella normativa del D.L.vo 25.01.1992 n. 74 sulla pubblicità ingannevole (modificato dal D.L.vo 25.02.2000 n. 67 riguardante le condizioni di liceità della pubblicità comparativa), che ha recepito la Direttiva n. 84/450/CEE. Tale decreto, come espressamente enunciato all’art. 1, comma 1, è diretto a tutelare “dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali: i soggetti che esercitano un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, i consumatori e, in genere, gli interessi del pubblico nella fruizione di messaggi pubblicitari”. I consumatori vengono così ad affiancare gli imprenditori e rientrano, con pari dignità, nel novero dei soggetti che l'ordinamento si propone di tutelare direttamente sia come singoli sia come appartenenti ad una categoria. Agli stessi (consumatori singoli e loro associazioni) viene, poi, riconosciuta la legittimazione ad agire al fine di ottenere dall’Autorità Garante della concorrenza e del mercato la misura sanzionatoria della inibizione degli atti di pubblicità ingannevole o la loro continuazione, nonché ottenerne la eliminazione degli effetti. Si opera in tal modo un’anticipazione della soglia di tutela per impedire che l’evento si verifichi e che maturino e si consolidino le intuibili conseguenze lesive. L’art. 7 del Decreto Legislativo, infatti, concede ai “concorrenti, ai consumatori, alle loro associazioni ed organizzazioni” la legittimazione a ricorrere all’Autorità affinché sia inibita la pubblicità che “in qualunque modo, compresa la sua presentazione, induca in errore o possa indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che possa raggiungere e che, a causa del suo carattere ingannatorio, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, leda o possa ledere un concorrente” (art. 2, comma 1, lett. b) del D.L.vo n. 74/1992). Non appare dubbio a questo punto che con il D.L.vo n. 74 del 1992 si attua un mutamento di prospettiva rispetto alle forme ordinarie di tutela di quella particolare fattispecie di concorrenza sleale che si sostanzia nella pubblicità determinandosi un bilanciamento di interessi tra categorie di soggetti imprenditoriali e non. l’art. 7 del d.lg. 25 gennaio 1997 n. 74 ha riconosciuto – facendo salva la competenza giurisdizionale del giudice ordinario in tema di azione ex art. 2598 – al consumatore come singolo ed all’ente esponenzialeche ne rappresenta una intera categoria, un potere di iniziativa e di controllo giurisdizionale di pertinenza del giudice amministrativo. 4 UT/2005 E’ indubbio che sussistano rapporti fra il fenomeno della pubblicità ingannevole e la concorrenza, come enunciato dal secondo “Considerando” della direttiva 84/450/CEE nel quale i legge che “la pubblicità ingannevole può condurre ad una distorsione della concorrenza all’interno del mercato comune”operando quale mezzo di orientamento della domanda essa e quindi capace di influenzare le condizioni generali di mercato. Per altro verso va rilevato che la disciplina della pubblicità ingannevole ha una sua propria autonomia giuridica rispetto alla concorrenza sleale che nel particolare campo in cui opera prescinde dal requisito soggettivo della qualifica di imprenditore di entrambe le parti, prima indispensabile. Tale ambito specifico è ribadito proprio dalla disposizione che fa salva la competenza del giudice ordinario per quanto riguarda gli aspetti ricadenti nella disciplina dell’art. 2598 del codice civile. Vi possono essere infatti atti di per sé non dannosi per i consumatori, ma che possono risultare nei rapporti tra imprenditori concorrenti come nella pubblicità denigratoria, come vi sono atti dannosi per i consumatori che non risultano tali nella disciplina della concorrenza come per la pubblicità superlativa. Un discorso a parte va fatto per la pubblicità comparativa. Considerata alla stregua della disciplina del codice civile la giurisprudenza l’ha sempre negata, facendola rientrare di volta in volta, a seconda dei casi presi in esame nelle fattispecie di cui all’art. 2598 del codice civile, vale a dire o nell’attività denigratoria o tendente a ingenerare confusione tra i prodotti o in quanto tendente ad appropriarsi dei pregi di un prodotto altrui, tutte ipotesi considerate. Con l’approvazione della Direttiva 97/55/CE relativa alla pubblicità comparativa, che modifica la direttiva 84/450/CEE, e recepita nel diritto interno ad opera del decreto legislativo n. 67 del 2000 vengono stabilite le condizioni di liceità della pubblicità comparativa che, quindi riceve legittimità normativa in quanto riconosciuto come un mezzo legittimo per informare i consumatori, a patto che confronti caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili e rappresentative e non sia ingannevole. Inserita nel corpo normativo della disciplina sulla pubblicità ingannevole, si applica nei confronti dei soggetti già precedentemente considerati da questa ( oggetto della tutela sono infatti gli interessi dei soggetti che esercitano un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, i consumatori e, in genere, gli interessi del pubblico) e legittimati a richiedere all’autorità Antitrust l’inibitoria ai sensi dell’art. 7 del d. lgs. N. 74/92 aggiornato, sono ugualmente “i concorrenti, i consumatori, le loro associazioni ed organizzazioni, il Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato, nonché ogni altra pubblica amministrazione che ne abbia interesse in relazione ai propri compiti istituzionali, anche su denuncia del pubblico”. Con riferimento ai consumatori e agli organismi che li rappresentano, nonché ai soggetti pubblici, nulla cambia rispetto al regime precedente, con riferimento ai rapporti tra imprenditori si pone il problema del rapporto con le disposizioni contenute nel codice civile. A tale fine , l’art. 7, comma 13 del d. lgs 74/92 modificato, oltre a ribadire la giurisdizione del giudice ordinario, in materia di atti di concorrenza sleale, a norma dell'articolo 2598 del codice civile, fa salva la competenza di quest’ultimo anche per quanto concerne la pubblicità comparativa, in materia di atti compiuti in violazione della disciplina sul diritto d'autore nonché delle denominazioni di origine riconosciute e protette in Italia e di altri segni distintivi di imprese, beni e servizi concorrenti Pertanto, nei rapporti tra concorrenti il decreto legislativo in questione troverà applicazione solo nei casi non contemplati dal codice civile. Non può darsi dubbio però che l’influenza delle disposizioni in materia di pubblicità ingannevole e comparativa possano influenzare l’interpretazione di determinate ipotesi di concorrenza sleale contemplate dal codice civile e soprattutto definire nei termini precisati dal 5 UT/2005 decreto legislativo il parametro della correttezza professionale richiamato come metro di valutazione dal codice. Alla luce di tali considerazioni sembra possibile affermare che la tutela diretta del consumatore e la legittimazione riconosciuta in capo allo stesso ed alle associazioni dei consumatori non implica necessariamente un ampliamento sul piano soggettivo della disciplina della concorrenza sleale, né conduce a ritenere superata la tradizionale interpretazione restrittiva delle norme civilistiche. Non sempre il consumatore ha interesse a reagire nei confronti di ogni forma di comunicazione pubblicitaria scorretta. Egli può denunciare i fatti all’Autorità Garante della concorrenza e del mercato solo nelle ipotesi in cui le comunicazioni commerciali siano tali da indurlo in errore e da alterare un suo comportamento economico. Vi è poi un altro aspetto da considerare. L’aspetto pubblicistico della tutela accordata ai consumatori e al pubblico in generale consentirebbe di tenere distinta la disciplina del decreto dal quella del codice civile in materia di concorrenza sleale atteso che gli interessi tutelati dalla disciplina della pubblicità ingannevole sarebbero diversi e solo in via mediata si ripercuoterebbero sul mercato, al punto che si è affermato che, poiché “obiettivo primario” sarebbe la tutela del consumatore, l’assenza di un profilo di potenziale lesione dei consumatori impedirebbe di azionare la tutela, dove, al contrario, i concorrenti potrebbero, agire in giudizio solo nelle ipotesi in cui l’avvenuta lesione degli interessi dei consumatori determini per loro conseguenze sleali. Tale impostazione tocca solo in via eventuale la disciplina della concorrenza sleale e, comunque, non inciderebbe su di essa. Occorre infine dire che la diversa competenza attribuita per la pubblicità ingannevole e comparativa all’autorità antitrust e per la concorrenza sleale al giudice ordinario, lascia immodificato l’ambito di applicabilità dell’art. 2601 del codice civile e quindi persisterebbe la negazione delle associazioni dei consumatori ad agire ai sensi dell’articolo medesimo, in virtù di un riconoscimento di carattere generale operato dalla normativa di cui al d. lgs n. 74/92. 5. L’art. 2, comma 5 della Legge n. 580/1993 di riforma dell’ordinamento delle Camere di Commercio. Con la legge n. 580/1993 le camere di Commercio assumono un ruolo che ne modifica in parte la funzione principale legata agli interessi delle imprese, divenendo il punto di incontro, a livello locale delle diverse componenti del mercato, luogo dove si compongono i differenti interessi rappresentati in una visione unitaria e sempre più indirizzata a favorire lo sviluppo economico inteso come interesse generale. Alcune specifiche norme della richiamata legge denotano questo aspetto. L’art. 2 della citata L. n. 580/1993 nel prevedere i compiti svolti dalla Camera di Commercio stabilisce, anzitutto, al comma 1, che queste esercitano funzioni “di supporto e di promozione degli interessi generali delle imprese nonché .……funzioni nelle materie amministrative ed economiche relative al sistema delle imprese”. Nel successivo comma 4 dello stesso art. 2 vengono previste, in termini di possibilità, la promozione di commissioni arbitrali e conciliative per la risoluzione di controversie che insorgano anche fra le imprese e i consumatori o utenti, la predisposizione e promozione di “contratti-tipo tra imprese, loro associazioni e associazioni di tutela degli interessi dei consumatori e degli utenti”, nonché la promozione di “forme di controllo sulla presenza di clausole inique inserite nei contratti”. Infine, il successivo comma 5 del citato art. 2 stabilisce la possibilità per le Camere di Commercio di “promuovere l’azione per la repressione della concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2601 del codice civile”. 6 UT/2005 Segnatamente rispetto a tale disposizione vanno fatte alcune considerazioni. Se il ruolo principale delle Camere di Commercio rimane quello enunciato dall’art. 2, comma 1, della legge, di supporto e di promozione degli interessi generali delle imprese, la possibilità per esse di esercitare l’azione di cui all’art. 2601 c.c. rientra nello schema generale delineato dalla dottrina e dalla giurisprudenza in relazione alla norma codicistica, essendo questa volta a tutelare gli interessi superindividuali di una intera categoria imprenditoriale. Vale a dire che le Camere di commercio in questo caso assumo semplicemente il ruolo di una delle associazioni di categoria professionali a tutela degli interessi degli aderenti in ordine ad atti di concorrenza sleale posti in essere da imprenditori concorrenti. Alla luce di tali valutazioni non si ritiene che con la legge in esame la concorrenza sleale assuma contorni più ampi e ricomprenda anche gli interessi dei consumatori. Né, dall’altra parte, si potrebbe argomentare che l’azione ex art. 2601 c.c. non sarebbe più riservata alla difesa di interessi imprenditoriali, in base alla presenza nel consiglio di rappresentanti delle associazioni di tutela degli interessi dei consumatori ovvero in relazione agli altri compiti demandati alle camere di commercio dall’ art. 2, comma 4, e concernenti la predisposizione di contratti–tipo tra le imprese e i consumatori ed il controllo sulla presenza di clausole abusive, che non hanno incidenza sul fenomeno della concorrenza sleale se non in via mediata o indiretta. Vi è poi da considerare che l’art. 3 della L. n. 281/1998 le Camere di commercio assumono il ruolo di terzo compositore delle controversie in via preliminare nella procedura dell’azione inibitoria collettiva esercitata dalle associazioni dei consumatori. Ciò rende difficile la conciliazione la possibilità per le stesse Camere di esperire l’azione inibitoria a tutela degli interessi dei consumatori nel quadro della concorrenza sleale, in questo caso come parte rappresentante la categoria. Del ruolo super-partes delle camere di commercio definito dalla legge n. 281/98 si ricava ulteriore conferma dal fatto che, a differenza della previsione contenuta nell’art.1469-sexies c.c., introdotto dalla L. 05.02.1996 n. 52 sulla clausole abusive, le camere di commercio non rientrano, ai sensi del citato art. 3 comma 1, della L. n. 281/1998, tra i soggetti legittimati ad agire a tutela degli interessi collettivi dei consumatori. 6. La Legge n. 281/1998 ed i diritti fondamentali dei consumatori La legge generale sui diritti dei consumatori e degli utenti del 30 luglio 1998 legittima pienamente i consumatori nell’ordinamento italiano. Vengono infatti definiti all’articolo 1 i diritti dei consumatori, sulla base dell’elenco contenuto nella Risoluzione del Consiglio 14 aprile 1975 relativa al Programma preliminare della CEE per una politica di protezione ed informazione del consumatore. All’art. 2 viene fornita una nozione di consumatore, anch’essa mutuata dalla nozione elaborata dall’Unione europea nelle varie direttive via via recepite nel nostro ordinamento, nonché quella di associazioni dei consumatori, elevando cosi a rango di soggetto dell’ordinamento giuridico gli organismi rappresentativi nei quali le categorie di consumatori si erano nel tempo andate organizzando stabilendo i requisiti di riconoscimento di quelli maggiormente rappresentativi a livello nazionale. All’art. 3 viene attribuita la legittimazione ad agire alle associazioni dei consumatori riconosciute, secondo la procedura ivi stabilita, per inibire gli atti e comportamenti lesivi degli interessi collettivi dei consumatori e per far adottare gli atti idonei ad eliminare gli effetti di quelli posti in essere. L’art. 1 della citata L. n. 281/1998 riconosce ai consumatori alcuni diritti, definiti come “fondamentali. Nell’elenco previsto, vi sono alcuni diritti che evidenziano un rapporto tra la tutela dei 7 UT/2005 consumatori predisposta dalla legge in esame e la disciplina della concorrenza. In particolare ci si riferisce al diritto “alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi”, al diritto “ad un’adeguata informazione e ad una corretta pubblicità”, al diritto “alla correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi” e al diritto “all’erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità ed efficienza”. La legge n. 281/98 da questo punto di vista aggiunge una ulteriore forma di tutela diretta, legittimando ad agire le associazioni dei consumatori, ponendo in un certo qual modo in crisi il sistema venutosi a delineare con la disciplina in materia di pubblicità ingannevole. Relativamente ai profili di ingannevolezza, infatti, il d.lgs. 74/92 attribuisce infatti la competenza esclusiva all’Autorità antitrust, mentre, per gli stessi profili, rientranti pure tra gli interessi (collettivi) dei consumatori in generale e in particolare nell’elenco dei diritti enunciati nell’art. 1 della legge 281/98, l’esercizio dell’azione inibitoria prevista avviene dinanzi al giudice ordinario. Con ciò generandosi quanto meno una duplice possibilità di azionabilità, sia ai sensi del d.lgs. n. 74/92 (dinanzi all’antitrust), sia ai sensi dell’art. 3 della legge 281/98 (dinanzi al giudice ordinario) relativamente agli stessi profili. Il quadro si complica ulteriormente a seguito dell’emanazione della direttiva 98/27/ce del 19 maggio 1998 relativa a provvedimenti inibitori a tutela degli interessi dei consumatori. Questa, nel prevedere l’esercizio dell’azione inibitoria a tutela degli interessi dei consumatori per i soggetti legittimati nell’ambito dei singoli Stati, stabilisce che tale azione sia esperita rispetto ad una serie di direttive indicate in un elenco allegato alla direttiva stessa. Si tratta delle direttive emanate nel corso del tempo in ambito comunitario in attuazione della politica di tutela dei consumatori, per le quali si era riscontrato che i meccanismi esistenti attualmente sia sul piano nazionale che su quello comunitario per assicurare il rispetto di tali direttive non sempre consentivano sempre di porre termine tempestivamente alle violazioni lesive degli interessi collettivi dei consumatori. Tra queste direttive figurano sia la direttiva in materia di pubblicità ingannevole, sia quella in materia di pubblicità comparativa. Il recepimento di tale direttiva ha comportato una modifica alla legge n. 281/98 che aveva anticipato in qualche misura la disciplina comunitaria, prevedendo il corrispondente elenco di atti di recepimento delle direttive comunitarie, rispetto ai quali si esercita l’azione inibitoria ai sensi dell’art. 3 della legge n. 281/98. Ora, con riferimento sia alla pubblicità ingannevole che alla pubblicità comparativa ciò comporta che le associazioni dei consumatori oltre alla duplice azionabilità già vista ne hanno a disposizione una ulteriore in via specifica, sempre ai sensi dell’art. 3 della 281/98, quindi sempre dinanzia al giudice ordinario. Quindi, alla luce della normativa attuale si può dire non solo che la originaria preclusione all’allargamento della legittimazione ad agire alle associazioni dei consumatori della disciplina repressiva della concorrenza sleale sembra essere superata alla luce della legge 281/998, ottenendo le associazioni stesse, in quanto portatrici di interessi generali la possibilità di agire per via traversa in quegli ambiti legati appunto alla concorrenza sleale solitamente interdetti (non solo per i profili di ingannevolezza della pubblicità o per la declaratoria di illiceità della pubblicità comparativa), ma va aggiunto altresì che le forme di tutela accordate dall’ordinamento sono molteplici ed in un certo senso confliggenti. 7. La portata della direttiva 2005/29/CE relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno Oggetto della direttiva sono le pratiche commerciali comprendenti sia le azioni precedentil’acquisto di un prodotto (informazione, comunicazione marketing, pubblicità) sia 8 UT/2005 l’acquisto stesso, sia le azioni susseguenti (garanzie, manutenzione, ripararazione, pratiche di fidelizzazione). La definizione di "pratica commerciale" include esplicitamente le comunicazioni commerciali e la pubblicità, in modo da rendere chiaro il collegamento con il regolamento sulla promozione delle vendite e con le disposizioni riprese dalla direttiva sulla pubblicità ingannevole. La direttiva sviluppa due tipologie chiave di pratiche commerciali sleali: quelle "ingannevoli" e quelle "aggressive". Sono riprese nella direttiva le disposizioni sui rapporti tra imprese e consumatori di cui alla direttiva sulla pubblicità ingannevole (cioè le disposizioni in materia di pubblicità che raggiunge i consumatori o è ad essi rivolta) e viene limitato poi il campo di applicazione della direttiva vigente alla pubblicità tra imprese (disposizioni in materia di pubblicità che raggiunge le imprese o e ad esse rivolta) e alla pubblicità comparativa in grado di recare pregiudizio ad un concorrente (ad esempio attraverso la denigrazione) senza però recare alcun pregiudizio al consumatore. In tal modo la disciplina relativa alla pubblicità ingannevole e comparativa si divide in due parti ben distinte, l’una, inserita nella nuova direttiva, relativa ai rapporti tra consumatori e imprenditori, l’altra, di cui alle direttive 84/450 e 97/55, limitata ai rapporti tra concorrenti. Ciò non può non produrre rilevanti conseguenze in ordine alla misure di tutela accordate da considerare in sede di recepimento della direttiva in questione. Innanzitutto viene posta in discussione la valenza pubblicistica della normativa attualmente vigente e con essa la legittimazione stessa degli organismi pubblici adesso prevista, poi potrebbe porsi in dubbio sempre sul medesimo versante la competenza esclusiva dell’autorità antitrust e la riespansione della competenza e della disciplina attualmente prevista dal codice civile, il che potrebbe anche far ipotizzare una forma di recepimento da attuarsi come riformulazione o novella delle norme codicistiche in materia di concorrenza sleale. Sarebbe completamente da stabilire la tutela del consumatore in ordine alla nuova disciplina, posto che la stessa direttiva prevede un aggiornamento dell’elenco delle direttive allegate alla direttiva 98/27 rispetto alle quali va esercitata l’azione inibitoria, includendovi la stessa direttiva 29/2005. In ogni caso occorrerebbe fare chiarezza una volta per tutte cogliendo proprio l’occasione della volontà razionalizzatrice operata dalla nuova direttiva: ciò a vantaggio sia della tutela dei consumatori ma anche della certezza del diritto. 9