Casa, Case, Caso

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Casa, Case, Caso “L’anno prossimo”. Quando stava per ripartire, si ricordava di qualcosa che non aveva fatto. Guardava la sua stanza e si ripeteva che l’avrebbe fatto “l’anno prossimo”. Poi usciva di casa e aspettava che quell’intenzione si diluisse nei suoi passi, sull’asfalto e nell’aria, sopra le nuvole. Gli ultimi residui di nostalgia finivano come il bicchiere di plastica nel cestino con le rotelle della compagnia. Così ripulito, poteva mettere in ordine la procedura per decidere che mezzo prendere per arrivare a casa. Decideva a seconda della lunghezza della coda, ma anche in funzione della sua fluidità. Poi cominciava a frugarsi addosso per trovare le chiavi della sua porta blindata. Non ne aveva mai vista una, prima di venire a Milano. Forse non esistevano neanche, nel posto dove era nato. Lì si blindano gli occhi, il cuore e tutte le altre parti liberamente senzienti, ma le case non ne hanno bisogno “chi vuoi che venga?”. Le undici di sera. Tanti fermi al rullo “ritiro bagagli”, almeno quelli che non pensano che si possa vivere senza portarsi dietro un peso superiore agli otto chili. Otto chili: il dieci per cento del suo peso corporeo. Otto chili partiti disordinati e sporchi e adesso stirati e puliti, come il suo fegato ed il suo intestino. Niente grovigli né bruciori. Sembravano più magri entrambi, lui ed il suo bagaglio a mano, ma erano solo meglio disposti internamente. La 73, invece, era piena di gente stropicciata, come quelli al rullo bagagli e quelli della coda dei taxi. Lenta. Le prime fermate scorrono piene di nomi di mete e luoghi per forza incantati (altrimenti stai zitto!), tempo stupendo (altrimenti stai zitto!) e sul riposo “si o no” (questa è una variabile). Poi arriva l’inizio di via Corsica. Iniziano a scendere le mete incantate e salgono i problemi di lavoro, anche quello notturno, le crisi d’amore ed i giovani che vanno in centro per divertirsi. Per tutti, nonostante le indicazioni sul prezzo del “collo”, basta un biglietto da 1,50: nessuna differenza tra un viaggio urbano e la fine di un viaggio intercontinentale o interstellare, come quello da casa a casa. Da via Corsica in avanti, non conta più dove sei stato e con chi (avrai il tempo distratto di convenevoli obbligati per dirlo), conta come sei capace di programmare. E se non hai prenotato, sei matto. “Ci dispiace, non c’è posto”. Gli chiedono “in quanti siete?”, ma lui è solo (bagaglio a parte). Glielo dice e loro “ci dispiace, ma non c’è posto, se non ha prenotato”. “Meno di uno solo non potevo essere”. Lo sa che non avranno capito il sarcasmo. (Voi l’avete capito?) Ci vuole sempre un po’ per riabituarsi a questi modi. Il ristorante sotto casa non è come il ristorante sotto casa, dove ha cenato ieri. Per fortuna si era portato un pezzo di pane. Ci pensa mentre apre il portone di casa. Anzi: del palazzo che contiene la casa è che è anche casa di tanti altri, che si mettono insieme per pagarsi l’ascensore. Poi l’ascensore (che strano oggetto!) una scatola che prendi anche se stai al secondo piano. La sua prima casa, di piani, ne ha tre (“così dimagrisci”, ma non è mai successo). E poi la vera porta di casa, blindata, appunto. Di quelle che sono buone a chiudere bene dentro, ma soprattutto a chiudere bene fuori. Tutto. Apri ed un sibilo monotono ti si punta nello sterno, come l’indice di qualcuno che vuole fermarti “ti ricordi il codice, cretino? O vuoi far svegliare tutto il palazzo?”. Fuori i quattro numeri che non sono quelli del bancomat, né quelli del codice per il car sharing (tre compagnie, tre pin). Lo aveva ripassato sulla 73. Non era bastato per non farsi sorprendere. “Allora, ti ricordi il codice oppure no?”. Però almeno lo sapeva: “Stai calmo. Lo ricordo. Stai calmo”. Il suono del codice accettato è uguale ad un “Va bene, avanti” (complimenti al compositore). “Come si vive con tutta la tua storia d’infanzia da un’altra parte?” Gli aveva chiesto una signora che era in volo con lui. Una signora che sembrava molto più grande, ma soltanto perché aveva i capelli un po’ bianchi ed un po’ neri. Sembravano tinti, ma forse erano l’opposto. Sembrava una domanda per lui. Ma forse era l’opposto. Era seduta al 24B, centrale. Lui al 24A, finestrino. Il numero della fila era quello del giorno del viaggio e la metà dei suoi anni; la lettera del posto era l’iniziale del suo nome. La signora gli aveva parlato. Lui, con lo sguardo grigio come i suoi occhi, stava per risponderle che si vive “con i pezzi di pane in valigia. Così non devi mischiare i sapori di casa con i sapori di casa, almeno per oggi”. Non lo fece. Però il pane l’aveva davvero, in valigia (lo sapete perché ve l’ho detto prima!). La signora dirottò le sue attenzioni sul lato corridoio, ma aveva avuto comunque ragione del taciturno che ci metteva troppo tempo per rispondere. Al buio, dopo il aver superato la sentinella di casa con un codice a memoria, infila le mani per prendere il pane. Trova carta, anzi cartone. Anzi cartonato. “Un libro?”. Poteva essere stata la sorella, che lo prendeva ancora in giro dicendogli che probabilmente i ricci li aveva anche dentro la testa, e gli bloccavano il cervello. Poteva avergli rifilato un trattato di cosmologia, o sull’uomo del terzo millennio, sulle teorie sciamaniche della conoscenza, magari prima di farlo scendere a Fiumicino e tornarsene a Roma, lei. Lo tira fuori. Anche prima di accedere la luce, riconosce la trama della copertina di un libro venduto in nessuna libreria, scritto da nessuno scrittore. Con le mani lo gira e rigira come si fa solitamente (e come si scrive sempre nei racconti quando si deve descrive qualcuno che non crede a quello che sta toccando). Nessuna parola, solo una scala di grigi a creare volti e luoghi. Fotografie. La voce della madre inizia a raccontare, in mentalese, di quegli uomini e donne che rappresentavano le loro età secondo l’uso dell’epoca, ma sono molto più giovani di quello che sembrano. I primi due, elegantemente vestiti, siedono davanti ad un paravento che nasconde malamente una porta, non blindata. Sono marito e moglie di tante generazioni fa, forse quattro, che sono andati nello studio del fotografo, per lasciare la loro immagine a lui che li guarda (“diavolerie moderne!”). In una foto nella pagina seguente c’è scritto 1920. Sua madre non gli aveva mai permesso di portarlo via dal suo mobile. Doveva rimanere lì a testimoniare il passato di quel presente, non di un altro. Il passato di quel luogo, non di un altro. Sarebbe finito in un mobile moderno, adesso (“meglio che si abituino subito alla novità”). “Una cosa in meno da fare l’anno prossimo”, pensa. E dimentica il pane. Troppo tardi per chiamare la madre e ringraziarla. Continua a guardare le fotografie delle scampagnate e dei viaggi del 1920, fino a che non crolla. Addormentato, con la mano su quell’incisione gialla al centro della copertina Sono le due. C’è silenzio. Quasi come quello del paese. Assoluto. Fino alle 3,35. Prima del tremolio, poi una scossa, la prima di tante, rumori, e una casa che crolla sullo spazio vuoto di un album con una lunga storia, portata altrove. Per poter continuare. 
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