3 ) La presenza della sede del Papato in Italia ha costituito un ostacolo al formarsi della unità italiana? Quando Metternich afferma ancora l’irrilevanza dell’Italia (“L’Italia è una espressione geografica”) si era già acceso da decenni fra gli intellettuali italiani, ed in particolare fra i cattolici, il dibattito sul tema: “Esiste l’Italia? E quando è nata l’Italia?” È una domanda giusta e cogente, di fronte ai tre secoli della grande decadenza italiana. L’Italia era stata al centro del grande sviluppo europeo, dal Medioevo fino al Rinascimento, ma aveva dovuto cedere il passo alle grandi monarchie che avrebbero dato vita agli stati nazionali : Spagna Francia ed Inghilterra. Braudel nega che il periodo successivo fosse un periodo di decadenza (e difatti non lo è nelle arti, nella musica e nelle scienze), ma tuttavia entra in crisi il sistema politico italiano: l’equilibrio italiano costruito con difficoltà nel periodo della egemonia italiana viene gestito ora dalle grandi potenze straniere. I ghibellini attribuiscono questo esito, alla mancata nascita di una monarchia italiana, all’esistenza ed alla politica del Papato. Questa convinzione darà un carattere anticlericale, quando non anche anticattolico, alla cultura laica del periodo risorgimentale. Ma la cultura cattolica non aveva mai negato l’esistenza ed il valore dell’Italia. Il suo concetto di “Italia sacra” si fondava sulla l’idea di missione e di vocazione che è propria della storiografia cattolica. L’Italia esiste nella opera della provvidenza come paese destinato ad ospitare il centro e fondamento del cristianesimo, nella sua naturale vocazione universale. Il suo essere paese cattolico è addirittura un fondamento unitario come canta il Manzoni: “Una d’arme, di lingua, d’altare,/ Di memorie, di sangue e di cor”. L’idea giobertiana di nazione conquista l’opinione pubblica italiana, i ceti medi cittadini e la borghesia che non ha ancora assunto la funzione sociale che ha assunto la borghesia in Francia. Ma questo mito neo-guelfo avrà una grandissima importanza nel maturare l’idea di identità nazionale. Fino al 1848 si spera in un Papato che fondi la nazione italiana (è l’idea di una confederazione presieduta dal Papa ed è l’entusiasmo con il quale lo stesso Garibaldi porse la sua spada ad un Papa che liberi l’Italia). Ma la storia prenderà un’altra strada. Non solo, ma l’unità si farà per conquiste successive che non possono escludere la conquista di Roma, come afferma lo stesso Cavour nel suo famoso discorso del 1861. La “questione romana” si porrà come un ostacolo insuperabile fra i cattolici e l’unità d’Italia. In quegli anni di drammatica rottura due giovani si propongono per la difesa del Papa e della Chiesa, di fondare la Società della Gioventù Italiana di Azione Cattolica. E il più giovane di loro, Fani, insiste con grande passione perché la nuova “società” si chiami assolutamente “Italiana”. 4 ) Nello schieramento che difendeva la legittimità non era possibile concepire una passione nazionale? Anzi, partendo da altre considerazioni, vi era addirittura una mitizzazione dell’Italia. Fra i cattolici, nonostante Metternich, si è fatta strada l’idea di una identità sacra e provvidenziale dell’Italia, (come imitazione del concetto di provvidenzialità dell’Impero Romano per permettere la diffusione del cristianesimo, declamata dal Bossuet). Dall’inizio del secolo, ormai la storiografia cattolica, (o neo guelfa, come la definirà Croce) si interroga sul significato dell’Italia. Cosi scrive il Croce nella sua Storia della storiografia italiana: “Al solo farsi ripassare nella memoria i nomi dei rappresentanti della scuola storiografica cattolico-liberale, dei maggiori e dei minori, il Manzoni, il Troya, il Capponi, il Balbo, il Gioberti, il Tosti, il Tommaseo, il Tabarrini, e tutti quanti, s’intende che la loro “tendenziosità” deve appartenere a questa forma più alta. Tutti cattolici di sentimento, tutti fervidi patrioti e liberali, operarono nella vita pratica secondo quel che cedettero di aver visto delineato nella storia come presegnamento del futuro. Senza qui esporre nemmeno in compendio la parte che ciascuno di essi prese nel Risorgimento italiano, mi restringo a ricordare che tutti nella rivoluzione del 1848 (che può dirsi il gran tentativo di mettere in azione la loro storiografia) furono visti a capo di ministeri costituzionali o di repubbliche, e i più giovani combatterono con le armi, e più vecchi infiammarono gli altri a combattere. Finanche colui che tra questi storici sembra avere più degli altri carattere di erudito e di specialista, Carlo Troya (il quale, nel 1820, aveva accettato ed aiutato la rivoluzione costituzionale napoletana, già in corso, solo per “salvare l’onore della nazione”), nel 1848 fu presidente dell’unico ministero italiano, che ebbe allora Napoli e che inviò un corpo dell’esercito napoletano in Lombardia; e, fallito il suo tentativo politico, pur nutrì sempre, vecchio e infermo, la “cara speranza di vedere indipendente dallo straniero questa cara patria nostra: celeste sentimento che ne tien vivi e desti” (2). Croce non amava Balbo: lo trovava persino troppo ossessionato dal suo modo di condannare tutto quello che era straniero nella storia italiana, adottando come unico metro di giudizio la “ indipendenza” dagli stranieri; e considerava il Gioberti addirittura un fanatico, li riteneva persino eccessivi in questo loro “celeste sentimento”. ( 2 )Benedetto Croce, Storia della storiografia italiana, Ed. Laterza.