L’uomo di oggi e i suoi bisogni Emilio Baccarini Premessa Conviene iniziare la nostra riflessione con una chiarificazione preliminare sulla nozione di bisogno per poi vederne la correlazione con la situazione dell'uomo di oggi, la correlazione tra i bisogni e quella che sempre più direttamente percepiamo come una crisi antropologica. Se la nozione di bisogno ha una sua intrinseca problematicità, non meno problematica è l'espressione 'uomo di oggi'. L'uomo di oggi siamo noi stessi, che però, non siamo in grado di osservarci da una adeguata distanza per valutarci oggettivamente e rispondere alla domanda: quali sono i nostri bisogni oggi? Siamo situati e in questa situazione dobbiamo riuscire a cogliere la nostra determinatezza come la sorgente dei bisogni. Vedremo che ciò significa che nella permanenza della struttura ontologica, la determinatezza, varia la percezione e la risposta di donazione di senso che nel bisogno in qualche modo si sedimenta. Non meno problematica è l'altra questione che riguarda la genesi dei bisogni, cioè la consapevolezza che nella mutazione della situazione muta anche la percezione della natura dei bisogni. Iniziamo la nostra breve riflessione dal significato del termine bisogno che troviamo nel Dizionario Treccani: “Con valore generico, indica mancanza di qualche cosa... È di solito determinato da un complemento di specificazione (b. d‟aria, di luce, di soldi), ma può essere usato anche assoluto, con senso affine a «necessità»... con senso più determinato, povertà, strettezza, mancanza di denaro. Con accezione più specifica, in economia e sociologia s‟intende per bisogno ogni sensazione dolorosa derivante da un’insoddisfazione presente o prevista, accompagnata dalla conoscenza di mezzi atti a diminuire, rimuovere o evitare tale sofferenza, e dal desiderio di procurarseli: individuali (di cibo, di vesti, di abitazioni, di cultura, ecc.); bisogni collettivi o pubblici, avvertiti dall‟uomo in quanto vivente in società (di difesa, di ordine, di giustizia, ecc.); in psicologia, bisogni sociali, quelli che vengono sollecitati dall‟ambiente sociale, favorendo rapporti emotivi interindividuali di diversa natura e durata (bisogno di confidarsi, bisogno di posizione di prestigio, ecc.)...”. Non è il caso di rievocare la 'teoria dei bisogni' di Marx, anche se per un gran parte dell'umanità abbia ancora un valore di provocazione e di urgenza tutt‟altro che datata. Se però ci confrontiamo con la questione del bisogno nella società e nella cultura occidentale o più genericamente con quella che viene chiamata la società del benessere possiamo porre la questione in termini forse più preoccupanti: Di che cosa manca, di cosa manchiamo oggi nella società del benessere, la società della non-mancanza? Perché, se non manchiamo di nulla, siamo presi da un disagio esistenziale profondo cui già molti decenni or sono aveva cercato di dare una spiegazione Sigmund Freud con la sua opera Il disagio della civiltà? Come aveva già messo in risalto Aristotele, l'uomo tende naturalmente alla felicità, che però non può essere soltanto qualcosa di economico, non può appartenere esclusivamente al quantitativo, al piano del bisogno che può essere soddisfatto. L'essere umano ha bisogno, necessita anche di un'altra dimensione che lo costituisce nella sua peculiare struttura ontologica, ha bisogno del senso. In maniera radicale possiamo dire che tutti i bisogni fattuali convergono in ultima istanza alla realizzazione di una vita piena di significato, alla buona vita, come la chiamava Aristotele. Solo la vita compiuta è una vita felice. Ma allora la domanda dell'oggi riguarda esattamente questa carenza. Il disagio della nostra civiltà, quantitativamente piena, consiste nel vuoto di senso senza il quale tutta la vita smarrisce il suo orientamento. Sembrerebbe quasi che l‟odierna situazione si presenti come una sorta di conferma empirica del manque à être di J. Lacan. Il connotato ontologico starebbe al fondamento di un vissuto di cui non siamo in grado di rendere conto. Infatti, il minimo che si possa dire dell'uomo di oggi, di noi stessi, è che siamo disorientati, un disorientamento che ha tutta l'aria di essere di natura ontologica, cioè tutt'altro che transeunte. Il bisogno fondamentale consisterà quindi nell'esigenza di segnali stradali, Wegmarken, come li chiamava Heidegger, che indichino la direzione dell'esistenza. Tradotta in termini esistenziali, questa esigenza è il bisogno di trovare per ciascuno la propria destinazione. Conoscere la propria destinazione significa conoscere la propria strada e quindi essere capaci di orientarsi nei molti sentieri che ci si aprono di volta in volta davanti. É la teleologia, la motivazione o consapevolezza di uno scopo senza del quale saremmo totalmente in balia del caso e del non senso. Muovendo da questa situazione proviamo a cercare una strada, che possa essere indicata come l'orientamento fondamentale, il motivo fondamentale. La crisi antropologica Abbiamo la percezione di un disagio che attraversa il nostro quotidiano da cui non riusciamo a liberarci facilmente, ma anche di cui non riusciamo a rendere conto. È la percezione vaga di un „malessere‟ che riguarda lo spirito, ma che si riversa anche sulla dimensione antropologica, sociale, politica, economica. Sperimentiamo un momento di „malattia dello spirito‟? Io credo di sì, sebbene non sia affatto facile formulare una diagnosi da cui possa scaturire una prognosi e quindi una terapia. Quando Kierkegaard pubblicò la sua complessa opera sulla Malattia mortale come 'malattia dello spirito' aveva chiaro che stesse parlando della disperazione che rimandava però a una matrice teologica. Oggi il nostro sentire è profondamente diverso. Ho accennato poco sopra a Il disagio della civiltà di Sigmund Freud, vale la pena che anche il filosofo tenga conto di alcuni dati fondamentali, filosoficamente rilevanti, che il padre della psicoanalisi considera quali strutture elementari dell‟umano. Ripetendo Aristotele, Freud è convinto che gli uomini... tendono alla felicità, vogliono diventare e rimanere felici... Molto semplicemente, nel linguaggio psicoanalitico, il programma del principio del piacere (eros contrapposto a thanatos) stabilisce lo scopo della vita. Questo principio domina l‟operare dell‟apparato psichico fin dall‟inizio, eppure il suo programma è in conflitto con il mondo intero, tanto con il macrocosmo quanto con il microcosmo. Secondo il padre della psicoanalisi, potremmo dire che nel piano della Creazione non è incluso l‟intento che l‟uomo sia “felice”. Quello che nell‟accezione più stretta si chiama felicità scaturisce dal soddisfacimento, per lo più improvviso, di bisogni fortemente compressi e per sua natura è possibile solo in quanto fenomeno episodico. Qualsiasi perdurare di una situazione desiderata dal principio del piacere produce soltanto un sentimento di modesto benessere; siamo così fatti da poter godere intensamente del solo contrasto, ma soltanto assai poco di uno stato di cose in quanto tale. Le nostre possibilità di essere felici risultano quindi limitate già dalla nostra costituzione. Provare infelicità è assai meno difficile. La sofferenza ci minaccia da tre parti: dal nostro corpo che, destinato a deperire e a disfarsi, non può eludere quei segnali di allarme che sono il dolore e l‟angoscia; dal mondo esterno che contro noi può infierire con strapotenti spietate forze distruttive; e infine dalle nostre relazioni con altri uomini. Quest'ultima sofferenza viene da noi avvertita come più dolorosa di ogni altra. Infatti, si sostiene che gran parte della nostra miseria va addossata alla nostra cosiddetta civiltà; saremmo molto più felici se vi rinunciassimo e trovassimo la via del ritorno a condizioni primitive. Questa tesi non è nuova ed è sottesa all'idea di Kultur, che non è propriamente soltanto 'civiltà'. La parola Kultur, infatti, designa la somma delle realizzazioni e degli ordinamenti, dei prodotti che ci differenziano dagli animali e che servono a due scopi: a proteggere l‟umanità contro la natura e a regolare le relazioni tra gli uomini. Nell'orizzonte della Kultur, l'uomo non sarebbe più totalmente 'naturale'. Da questi brevi accenni emerge la problematicità del nostro essere al mondo che rende complessa anche la risposta alla domanda chi siamo? Che si trasforma nella più generale domanda sul senso dell’identità. Ma anche quando parliamo di bisogni dovremmo aver chiaro che l‟oggetto della nostra indagine, il bisogno, non è semplicemente una carenza che attende di essere soddisfatta, un vuoto che vuole essere colmato, ma rimanda a qualcosa di più fondamentale, di ontologico. È questo il piano a cui si riferiva Lacan, secondo cui la ferita originaria che ci costituisce è la struttura originaria significante del bisogno. In uno spazio breve qual è il nostro non possiamo che limitarci a dei cenni. Proviamo invece e ripartire, per la comprensione della situazione di bisogno, ancora dalla dimensione empirica della psicologia che, a mio avviso, può fornire una significativa base di riflessione e di concretezza alla filosofia. Come ha suggerito lo psicologo Abraham A. Maslow, nella sua celebre piramide dei bisogni che qui riproduco in una simpatica forma „animata‟ il bisogno ha una forza motivazionale incredibile che sollecita l‟essere umano verso l‟autorealizzazione. Tuttavia se ciò è sufficiente per una descrizione psicologica non lo è altrettanto per quella filosofica, sebbene la motivazione sia la forza distintiva dello spirituale, come ci hanno insegnato Husserl prima e la sua allieva Edith Stein dopo. In un contesto ibrido, tra filosofia, antropologia, psichiatria e psicoanalisi anche V. E. Frankl ha assegnato una funzione motivazionale essenziale al bisogno, ma in questo caso si tratta come vedremo meglio del „bisogno di senso‟. Se dovessimo enucleare gli elementi „critici‟ che descrivono la malattia dell‟uomo contemporaneo, la nostra malattia, potremmo racchiuderla in una radicale crisi del senso; la crisi del senso è la crisi dell‟umano. Ma che significa dare senso, trovare un senso? È questa l‟opera più propria del filosofo. Paradossalmente ciò che manca non è il senso in quanto tale, bensì quel senso significativo che riesce a rendere conto dei sensi molteplici che finché restano molteplici non danno una direzione generando equivocità. Credo infatti, che il grande problema che abbiamo oggi è proprio quello della polivocità che è diventata equivocità. La ricerca di un senso che possa essere anche funzione di significazione e quindi di intesa tra i parlanti è forse uno dei bisogni più radicali. Uno dei testi-chiave di questa „fenomenologia dell‟equivoco‟, ma anche di annuncio di un non senso è certamente un passo della Gaia scienza di Nietzsche. Ritengo questa pagina come una delle più drammatiche, ma al tempo stesso profetiche ed efficaci della filosofia contemporanea e a distanza di un secolo conserva ancora la sua dirompente attualità. Continua….. Il lettore può trovare l’articolo intero nel volume: Di Sauro R. Mura A. (2015), Quale psicoterapia per l’uomo d’oggi, Aracne, Roma