La crisi della Repubblica dopo le Guerre Puniche (II e I secolo a.C.) 1) La crisi culturale: Alla fine delle Guerre Puniche, Roma entra in una fase di rapido mutamento. La conquista della Grecia favorì un processo di ellenizzazione della cultura romana: medici, insegnanti, filosofi, grammatici e filologi greci giunsero a Roma (in parte come schiavi o ostaggi di guerra, in parte come intellettuali e diplomatici) e furono accolti da alcuni con favore, da altri con ostilità. Fautore della linea tradizionalista fu Catone il Censore, che considerava la cultura proveniente dall’Oriente fonte di corruzione (tanto che si prodigò per distogliere le attenzioni di Roma dalle conquiste orientali e volgerle invece su Cartagine). La cultura greca era molto diversa dall’austero mos maiorum romano: ammetteva l’ostentazione del lusso, il piacere di circondarsi di opere d’arte, il raffinato studio filosofico e retorico. I grandi afflussi di ricchezza che a Roma giunsero insieme con la cultura greca impensierirono i tradizionalisti che riconobbero in questi il pericolo, per la gioventù romana, del fascino degli ozi letterari e del lusso. Favorevoli ai nuovi influssi culturali furono invece i più aperti intellettuali e numerosi e insigni uomini politici, che si raccolsero intorno al Circolo degli Scipioni, I sostenitori dell’ellenizzazione (filo-orientali) erano convinti che fosse quanto mai necessaria una nuova apertura culturale. Le posizioni di Catone, fortemente tradizionaliste, risultavano anacronistiche. Non era infatti possibile pensare che una classe dirigente arretrata e provinciale come quella romana fosse in grado di governare il mondo solo con le armi in pugno, senza impadronirsi di quegli strumenti intellettuali e culturali che costituivano il patrimonio dei Greci. L’innovazione culturale, infine, inevitabilmente si realizzerà. “Graecia capta ferum victorem cepit” che significa: la Grecia, conquistata [dai Romani], conquistò il selvaggio vincitore. Così scrisse Orazio in una delle sue Epistole (Epistole, Il, 1, 156)1. Tra le innovazioni apportate dalla cultura greca: - l’introduzione a Roma della filosofia stoica2. I fondamenti filosofici stoici costituiranno il fondamento dell’imperialismo romano e lo giustificheranno intellettualmente e moralmente. La filosofia stoica infatti si basa sul presupposto dell’uguaglianza di tutti gli uomini (humanitas), poiché tutti gli uomini, indistintamente, sono portatori del lògos (dell’intelligenza) divina. Ognuno di noi deve assecondare il lògos e realizzare in sé il proprio impegno morale. La filosofia stoica mira al raggiungimento e alla realizzazione della Repubblica Universale degli stoici, e Roma si fa portatrice e garante di questo ideale. La Repubblica romana saprà concretare l’ideale stoico. Inoltre, sarà appunto la forma di governo repubblicana a liberare gli individui ad essa sottoposti dalle preoccupazioni pubbliche, consentendo loro di esercitare le gioie dello spirito e della cultura. (Cicerone si ispirerà alla tradizione stoica e comporrà un’opera filosofica intitolata De Officiis - che si traduce: Sui doveri -, traendo ispirazione da Panezio, filosofo molto in voga al tempo del circolo degli Scipioni). - il modello artistico e letterario La letteratura latina troverà ispirazione in quella greca recentemente introdotta in Italia. La assumerà a modello non solo nei generi letterari, ma anche negli stilemi. - introduzione di culti bacchici e misterici Che vennero presto banditi perché considerati nefandi e irrispettosi. Si trattava di culti dionisiaci che si celebravano nottetempo da gruppi di iniziati. Durante le cerimonie i fedeli cadevano in trance e ritenevano di avere un contatto mistico col dio per mezzo di danze sfrenate e assunzione di vino. A scandalizzare l’opinione pubblica romana fu il fatto che a questi riti partecipassero 1 La locuzione prosegue con et artes intulit agresti Latio: e le arti portò nel Lazio agreste. La filosofia stoica fu iniziata da Zenone di Cizio, filosofo greco vissuto ad Atene a cavallo tra il IV e il III a.C. Tale filosofia, “stoicismo”, prende il nome dal porticato attorno al quale il filosofo Zenone raccoglieva i suoi discepoli e teneva le lezioni. Portico, in greco, si dice stoà, donde stoicismo. 2 1 tanto gli uomini quanto le donne e si immaginava quindi che fossero luoghi di perversione e lussuria. Non dimentichiamo poi che la religione romana è una religione di stato, che non prevede un rapporto individuale tra il dio e i fedeli, ma che era invece pubblicamente controllata. Tutte le manifestazioni che si svolgevano tra gruppi di iniziati lontano dalla regolamentazione pubblica erano perciò viste con sospetto quando non con riprovazione. Nel 186 a.C. il senatus consultum ultimum de bacchanalibus dichiarò fuorilegge il rito di Bacco. Un’ultima considerazione: perché questi culti si diffusero così rapidamente a Roma? Si diffusero principalmente tra le donne e gli schiavi, vale a dire tra gli esponenti marginali di una società dominata da altri. Come spesso accade, in un clima di incertezza e cambiamento culturale e crisi sociopolitica, il popolo si rivolge a culti mistici, in cui possa trovare uno sfogo psicologico e un’irrazionale fuga dalla realtà, in grado di compensare, seppure per breve tempo, le frustrazioni e l’emarginazione quotidiana. 2) La crisi agraria, la scomparsa della piccola proprietà terriera e la nascita del proletariato urbano Vedi sul libro, qui aggiungo solo qualche informazione in classe Ricorda: - campi rimangono incolti e chi rientra dalla guerra trova i propri poderi rovinati e/o saccheggiati (Annibale, II guerra punica) - non è più concepibile né vantaggiosa, per i piccoli e medi proprietari terrieri, la coltivazione intensiva di cereali, in quanto ne arrivano in grandi quantità e a basso prezzo dalle province (grano pubblico e grano derivante dalle grandi proprietà terriere degli aristocratici). Bisognerebbe riconvertire le colture (vite, olivo, prodotti assai più specialistici e redditizi), ma ciò richiede grandi investimenti e tempo, che i piccoli e medi proprietari terrieri non hanno > vendono ai ricchi proprietari terrieri, che nel frattempo avevano espanso i loro possedimenti (acquistando, ma anche spesso “occupando” agro pubblico). - I piccoli proprietari terrieri, ora nullatenenti (proletari=dotati solo di prole) sperano di poter essere assunti come braccianti nelle ville (aziende agricole), che però fanno uso di schiavi3. - I proletari, nullatenenti e disoccupati, si riversano in città. In risposta alla nascita del proletariato urbano, per evitare che queste masse volubili facciano degenerare la situazione, il governo procede con distribuzioni di grano e distrae le folle con i giochi circensi. D’altro canto, queste masse politicamente manovrabili, si lasciano corrompere dai ricchi aristocratici con miseri benefici o distribuzioni alimentari. Le famiglie aristocratiche saranno in grado così di servirsi delle loro folle di clienti e sostenitori per influenzare le elezioni e la vita politica romana. La nascita del proletariato urbano avrà effetti ancor più pericolosi per quel che riguarda il reclutamento dell’esercito. In una società dove il servizio militare era strettamente connesso con la proprietà terriera e i nullatenenti non venivano arruolati, la nascita del proletariato ebbe immediate ripercussioni sull’arruolamento. Scompare la classe che costituiva l’esercito regolare = scompare l’esercito regolare. 3) La crisi politica Con la nascita del proletariato, l’ascesa del ceto equestre e l’enorme afflusso di ricchezze a Roma, la situazione politica subì una forte degenerazione. - Proletarii: masse politicamente manovrabili, questione dell’esercito e del reclutamento, rischio di insurrezioni. - Cavalieri: mentre i contadini vanno in rovina, i cavalieri accumulano enormi capitali per mezzo di appalti (publicani), attività commerciali e finanziarie nelle province (se n’è già parlato). 3 Fai riferimento a quanto detto in classe e a quanto riportato sul libro a proposito di Catone, che scrisse persino il trattato De Agricoltura (o De agri coltura). Schiavi privati possono essere: schiavi intellettuali o schiavi domestici o schiavi di campagna. In alternativa ci sono gli schiavi pubblici, che costruiscono le strade o lavorano nelle miniere e sono quelli che hanno condizioni di vita estremamente difficili e penose. 2 Ricordati della Lex Claudia: Per evitare che i senatori si trasformassero in un ceto di affaristi, nel 218 a.C. il tribuno della plebe Quinto Claudio fece approvare per plebiscito una legge con la quale si vietava ai senatori qualsiasi attività economica al di fuori dell’agricoltura. La legge rappresenta uno dei primi tentativi di separare la classe dirigente dalla classe commerciale nella Repubblica romana. Chi si occupa della cosa pubblica non può e non deve, secondo i principi romani, avere personali interessi economici (sarebbe ben più soggetto a corruzione). Un cittadino ricco poteva quindi decidere se svolgere una carriera politica, che lo avrebbe portato a sedersi in senato e appartenere quindi all’ordine senatorio, oppure se dedicarsi ad attività lucrative ed entrare così a far parte dell’ordine equestre. La separazione fra questi due ordini porterà a forti rivalità tra equites e ceto senatorio. - La classe aristocratica-senatoriale: l’aristocrazia senatoria vede crescere in questi anni il suo potere. Le assemblee popolari, grazie al gioco delle clientele, erano nelle loro mani e la lunga sequenza di guerre non aveva fatto altro che accrescere le proprietà terriere dell’aristocrazia. La crisi agricola aveva ulteriormente incrementato i loro possedimenti (cui si aggiunga il fatto che i terreni conquistati, anche se teoricamente pubblici, erano di fatto nelle loro mani). Con l’affermazione del latifondo le aziende agricole divennero enormi. I ricchi proprietari terrieri delegavano la gestione delle ville ai loro dipendenti di fiducia (vilici) e si trasferivano in città dove si dedicavano alla carriera politica (o nelle aree di domino romano dove dovessero espletare funzioni magistratuali). La rendita delle grandi proprietà fondiarie alimentava le grandi spese dei ricchi aristocratici, che vivevano tra i lussi e lo sfarzo dei grandi palazzi cittadini. Le loro ricchezze non venivano reinvestite nell’economia romana e l’accumulo di grandi sostanze non generò un reimpiego produttivo delle risorse. Tale realtà socio-politica fu alla base della corruzione della politica romana: la politica era diventata un mezzo per il perseguimento dei propri interessi privati (si intraprendeva ormai la carriera politica nella esclusiva prospettiva di diventare consoli o pretori e avere così la possibilità di trasferirsi in provincia e sfruttarle a proprio piacimento). Inoltre le magistrature si erano trasformate in una sorta di retaggio famigliare. Il ceto dei cavalieri non aveva alcun interesse a cambiare un sistema che li aveva arricchiti e continuava ad arricchirli, anche se cominciavano a maturare aspirazioni di maggiore partecipazione politica. - i socii italici e i provinciali: i socii italici (latini e federati), che avevano combattuto al fianco di Roma e che avevano contribuito alla vittoria contro i Cartaginesi, non solo non avevano partecipato alla redistribuzione delle terre conquistate, ma erano stati sottoposto a pesanti imposizioni fiscali e per di più non avevano ottenuto la cittadinanza romana. Per altro, spesso, laddove possibile, erano questi stessi socii a occupare illegalmente porzioni di agro pubblico, come forma di rivalsa nei confronti del senato romano. Nelle province la situazione era ben peggiore. La Cisalpina, la Sicilia, la Sardegna, la Corsica, la Gallia Narbonese, la Spagna, la provincia d’Africa e quella d’Acaia subivano le angherie e i soprusi tanto del governo proconsolare (o del propretore) quanto dei publicani. La situazione sarebbe presto degenerata. - CRISI CULTURALE - CRISI AGRARIA - CRISI POLITICA RIASSUNTO - Scontro tra tradizionalisti e filo-ellenisti. - Ellenizzazione culturale - Introduzione di nuovi culti - Nascita del proletariato urbano che porta a conseguenze di tipo militare (reclutamento) e politico (clientelarismo) - Ascesa del ceto sociale dei cavalieri - Estensione del latifondo (economa schiavile) - Diffusa corruzione politica e perseguimento della carriera politica in funzione del proprio interesse personale - Malcontento dei socii e insofferenza dei provinciali - Distinzione sempre più marcata tra ceto equestre e ceto senatoriale 3 I Gracchi Tiberio Gracco e la lex agraria (133 a.C.) Alla crisi sociale e politica che affliggeva la Repubblica tentò di dare risposta un gruppo di nobili più sensibili alle condizioni del popolo e all’urgenza del risanamento dello stato, tra i quali spiccavano i fratelli Tiberio e Gaio Gracco4. 133 a.C.: Tiberio viene eletto tribuno della plebe. Tiberio propose una legge agraria che prevedeva: 1. che si concedesse in proprietà agli occupanti abusivi un massimo di 500 iugeri di terra (più 250 iugeri a figlio fino ad un massimo di 1000 iugeri). 2. La parte di agro pubblico recuperata in seguito a questa limitazione sarebbe stata assegnata ai cittadini poveri in lotti di 30 iugeri: questi lotti sarebbero rimasti proprietà dello stato. Si voleva evitare in tal modo che gli assegnatari rivendessero immediatamente ai più ricchi le terre appena distribuite. Si sollevarono due ordini di problemi: 1) Anche se fosse andata in porto, questa riforma non avrebbe sanato la condizione dei proletarii, i quali non avrebbero comunque avuto i mezzi di produzione (attrezzi, sementi, animali) per mettere a coltura le terre. Inoltre il divario tra ricchi latifondisti, in grado di produrre a prezzi competitivi, e piccoli proprietari terrieri privi di qualsiasi sostanza era ormai insuperabile. 2) Immediata fu l’opposizione alla proposta di legge di Tiberio Gracco da parte dell’oligarchia senatoria. In particolare fu l’altro tribuno della plebe Marco Ottavio, legato agli ambienti conservatori, ad esercitare diritto di veto e bloccare la riforma. Tiberio allora convocò un’altra assemblea, allo scopo di dichiarare decaduto Ottavio, con la motivazione che un tribuno della plebe non poteva essere ostile agli interessi della plebe stessa. Questa iniziativa di Tiberio fu un’assoluta novità e costituì un pericoloso precedente. Si gridò allo scandalo, ma Tiberio riuscì comunque a destituire Ottavio e far approvare la lex agraria. Per giunta, in quei tempi allo stato romano fu lasciato in eredità dal re Attalo III (sovrano del regno di Pergamo) il suo tesoro. Tiberio propose subito che quei soldi venissero impiegati per finanziare i nullatenenti (perché potessero acquistarsi i mezzi di produzione), ma la proposta mandò su tutte le furie il senato. Allo scadere del suo mandato, Tiberio ripresentò la candidatura. Benché non esistessero leggi che vietassero la ricandidatura al tribunato, la circostanza non si verificava da più di due secoli. I nemici di Tiberio colsero l’occasione per far circolare la calunniosa voce che Tiberio aspirasse alla tirannide o alla monarchia. Gli animi si surriscaldarono e Tiberio rimase ucciso nei violenti scontri che seguirono la candidatura (venne aggredito da un gruppo di senatori alla testa di un grande numero di schiavi e di clienti e fu ucciso con trecento dei suoi, luglio 133 a.C.). Le innovazioni - Res Novae (pag. 258 riguardo alle innovazioni graccane) - In generale, a Roma, le innovazioni politiche non erano ben viste. Tiberio aveva avuto un atteggiamento spregiudicato e rivoluzionario, in netto contrasto con le consuetudini. Il suo atteggiamento aveva impressionato la classe dirigente. - In maniera del tutto inattesa, il tribunato della plebe, che fino a questo momento era stata una carica 4 Cornelia, la madre dei Gracchi, fu una matrona romana intelligente, forte e colta. Figlia di Scipione Africano, moglie del console Tiberio Sempronio Gracco, rimase vedova nel 153 a. C., ma rifiutò di andare sposa a Tolomeo VII d'Egitto, per dedicarsi completamente ai figli, che, secondo un aneddoto, Cornelia definì ornamenta (gioielli): “Haec sunt ornamenta mea”. Venne ritenuta la figura di matrona ideale, grazie alle virtù, a lei attribuite di austerità e di carattere. In età più tarda le fu eretta una statua di bronzo nel Foro Romano di cui si conserva il basamento con l'epigrafe: Cornelia Africani F. Gracchorum ("Cornelia, figlia dell'Africano, madre dei Gracchi"); fu la prima statua di una donna esposta in pubblico a Roma. 4 esercitata in sostanziale consenso con gli orientamenti politici dominanti, era diventato un mezzo di opposizione politica. Gaio Gracco: un nuovo ambizioso progetto (123 a.C.) Nel 123 a.C., Gaio Gracco, fratello minore di Tiberio, fu eletto tribuno della plebe. Animato dalle stesse convinzioni del fratello e desideroso di vendicarne la morte, Gaio si fece promotore di un progetto più complesso e ambizioso di quello di Tiberio. Il disegno politico di Caio Gracco non si limitava al ridimensionamento del potere dei senatori, ma alla creazione di una coalizione che potesse opporvisi. Caio, a spese del fratello, aveva capito che per risolvere la crisi sociale non poteva appoggiarsi unicamente ai contadini poveri. Aveva bisogno del supporto di sostenitori potenti e di una nuova coalizione che potesse fronteggiare il potentissimo ceto senatorio (cavalieri, plebe urbana, socii italici). Ecco proposte di Gaio Gracco che effettivamente divennero legge: 1. Una nuova legge agraria, che riprendeva quella del fratello e la perfezionava. 2. Una legge frumentaria, che prevedeva la distribuzione mensile di frumento a prezzo ridotto alla plebe urbana per frenare le speculazioni che i ricchi effettuavano sui generi di prima necessità. 3. Una lex coloniaria, ovvero la fondazione di tre nuove colonie romane: Cartagine, Taranto e Squillace, con l’obiettivo di dare nuove terre ai coloni romani, riattivare importanti centri commerciali (favorendo gli interessi commerciali degli Equites), favorire l’occupazione attraverso la commissione e la costruzione di reti stradali, acquedotti, infrastrutture. 4. Perno dell’intera operazione fu però la legge giudiziaria, che riguardava i processi nei confronti dei governatori di provincia accusati di malversazione. I governatori erano infatti sottoposti al controllo del senato, ma era evidente il conflitto di interessi. Governatori e senatori appartenevano all’aristocrazia senatoria (i governatori usciti di carica erano senatori, come i loro giudici), allo stesso ceto sociale e condividevano interessi e amicizie. I provinciali, cioè i sudditi delle province, dovevano fare riferimento al senato qualora avessero voluto accusare i governatori. La rete di complicità tra senato e governatori indusse questi ultimi ad agire al di fuori della legge con sistematicità: estorsioni, ruberie, abusi di autorità, eccetera eccetera, caratterizzavano spesso la loro condotta. Fare il governatore era insomma divenuto un modo facile per raccogliere molti soldi e molte ricchezze e magari finanziarsi così, nel futuro, una campagna politica a Roma. Per sanare la situazione Gaio Gracco propose che questi tribunali fossero affidati ai cavalieri: in questo modo egli otteneva anche un vantaggio politico, ovvero mettere l’uno contro l’altro i due principali ordini che costituivano la classe dirigente: cavalieri e senatori. La legge venne approvata, ma ebbe breve vita, poiché tutte le riforme graccane sarebbero state smantellate dopo la sua morte. Gaio Gracco era riuscito, grazie alle leggi sopraddette, a raccogliere intorno a sé un forte consenso. Ma il suo disegno di rovesciamento del potere senatorio non riuscì perché nel 122 a.C. egli propose una legge sulla cittadinanza. Obiettivo di Gaio era quello di estendere la cittadinanza ai coloni latini e ai federati. Purtroppo però non ebbe successo. I cittadini romani e la plebe in particolare non voleva condividere i propri privilegi (specie quelli appena acquisiti) con i socii. Il collega e tribuno della plebe Marco Livio Druso, che era legato ai potenti gruppi senatori, approfittò del discredito in cui era caduto Gaio Gracco e anzi avanzò proposte ancora più audaci, attribuendole ai disegni di Gaio, con il preciso intento di screditarlo. Il piano di Druso riuscì, scoppiarono delle rivolte (121 a.C.) e il senato colse al volo l’occasione per stroncare la rivoluzione graccana. Emanò per la prima volta un senatus consultum ultimum (estrema deliberazione del senato), con la quale si ordinava ai magistrati di compiere tutti gli atti necessari (anche al di fuori della legge normale) per ristabilire l’ordine e difendere la repubblica, come a dire che il movimento graccano poteva essere soffocato nel sangue. Così fu, e per non cadere vivo nella mani dei nemici Gaio si fece uccidere da uno schiavo. Con la fine dei Gracchi il senato procedette allo smantellamento delle riforme graccane. La lex agraria, che era passata, venne vanificata rendendo alienabili i lotti di terra. Subito i nullatenenti li vendettero. Inoltre i ricchi riuscirono ora corrompendo, ora esercitando pressioni (e persino usando violenza), a rientrare in possesso delle terre che avevano perduto e di acquistarne altre. 5 POPULARES ed OPTIMATES (popolari e ottimati) Il gruppo nobiliare costituito da coloro che si opponevano all’aristocrazia senatoria, che miravano ad un minore squilibrio fra ricchi e poveri nella società romana (per mezzo anche di assegnazioni di terra e distribuzioni di grano) e che, tendenzialmente, non appartenevano all’oligarchia fondiaria (molti erano anzi homines novi), verrà detto dei populares (letteralmente: amici del popolo). In contrapposizione a questa fazione troviamo gli optimates (letteralmente: gli uomini eccellenti), che erano invece favorevoli al senato, non condividevano le rivendicazioni delle masse popolari, rifiutavano l’estensione della cittadinanza ai soci italici e difendevano ostinatamente la propria privilegiata posizione politica all’interno della Repubblica. Sono anche orientati, culturalmente, su posizioni tradizionaliste e conservatrici (tutela del mos maiorum). I due gruppi nobiliari diventeranno fazioni rivali e si scontreranno aspramente nel corso degli ultimi decenni di Repubblica Romana, determinandone anzi la fine. Il tramonto della Repubblica Il Bellum Iugurthinum e l’ascesa di Caio Mario Alcune informazioni aggiuntive a quanto trovate nel libro (p. 260-261) 1) Giugurta aveva ereditato il regno di Numidia insieme a due cugini (Aderbale e Iempsale, figli legittimi di Micipsa). La Numidia, da sempre alleata romana contro Cartagine, era ricca area commerciale. Giugurta, bramoso di potere, aveva fatto fuori i cugini e si era impadronito del regno. Durante gli scontri contro l’ultimo dei suoi rivali, Giugurta aveva assediato la città di Cirta e qui aveva fatto uccidere anche i Romani e gli Italici che vi svolgevano attività commerciali. I cavalieri, indignati, pretesero che Roma intervenisse contro Giugurta. Ma il Senato era ben più allarmato dalla calata di Cimbri e Teutoni, e voleva concentrare i propri uomini e le proprie risorse contro questa minaccia. Fu così che, pressato dalle insistenze dei cavalieri, il senato decise infine di intervenire in Africa, ma lo fece fiaccamente (112 a.C. inizio del Bellum Iugurthinum, che si concluderà solo nel 105 a.C.). A capo delle operazioni militari contro Giugurta venne inviato un noto generale di antica famiglia aristocratica: Calpurnio Bestia. Bestia di nome e di fatto, giacché una volta laggiù questi si lasciò corrompere dall’oro numida e persino l’esercito romano che era ai suoi ordini (tale era ormai il livello di corruzione cui si era arrivati) vendette le proprie armi al nemico, anziché contrastarlo. L’indignazione fu immediata, il Senato cadde nel completo discredito e così, grazie all’impulso della diffusa indignazione, i cavalieri (e più in generale i popolari) riuscirono a far eleggere console, nel 107 a.C., Caio Mario, un homo novus (che cioè non aveva magistrati illustri tra i suoi avi). 2) Per affrontare i due nemici, Giugurta e i Cimbri, Mario mise in atto una straordinaria riforma militare: rese volontario l’arruolamento (studia bene pag. 316, il paragrafo: L’esercito romano verso la fine dell’età repubblicana, specialmente laddove si anticipa del legame tra soldati e generali e del potere che i generali acquisirono di conseguenza). Grazie al nuovo esercito, all’astuzia di un giovane ufficiale di nobile famiglia, Lucio Cornelio Silla, che riuscì a catturare Giugurta con un inganno (corruppe i famigliari di Giugurta, che infine lo consegnarono ai Romani), e al valore di Mario, nel 105 a.C. il regno di Numidia venne domato. 3) Mario riuscì anche a sconfiggere i Cimbri e i Teutoni in due gloriose battaglie: ad Aquae Sextiae (odierna Aix-en-Provence) e ai Campi Raudii (presso Vercelli), rispettivamente nel 102 e 101 a.C. (vedi immagine a pag. 261). A seguito della cacciata delle tribù germaniche, per consolidare la presenza romana oltre le Alpi, venne istituita la provincia della Gallia Transalpina (che verrà poi chiamata Narbonense, da Narbona, uno dei suoi maggiori centri). Caio Mario apparve come l’uomo della provvidenza. Fu rieletto console, dopo il 105 a.C., per 4 anni di fila, fino al 100 a.C. (malgrado la legge vietasse l’iterazione della carica). 6 I populares vedevano in Mario la loro guida riconosciuta. Grazie ai successi militari e ai consensi ottenuti, erano convinti che il favore del popolo fosse con loro. Purtroppo però, per quanto dotato di acume militare, Mario non aveva altrettanta scaltrezza politica. Forte del favore dei populares, Mario attuò un’ampia politica di concessioni. Appoggiò tra l’altro il tribuno della plebe Saturnino, che decise di concedere terre ai veterani di Mario sia che fossero cittadini romani sia che non lo fossero. La faccenda irritò non solo i senatori, ma anche i cavalieri e i plebei, restii a concedere privilegi che derivavano dalla cittadinanza romana a quanti non la detenessero. Mario allora, che non voleva inimicarsi i consensi delle altre classi, fu costretto ad abbandonare Saturnino e accettò l’incarico del Senato di reprimere la rivolta che intanto era scoppiata. In un colpo solo, reprimendo la rivolta, perse l’appoggio dei ceti popolari (che non gli perdonarono l’incoerenza politica) e del Senato, che comunque lo aveva sempre disprezzato. La politica dei populares era stata sconfitta. La guerra degli Italici per la cittadinanza (ovvero, la Guerra Sociale – 90-88 a.C.) Come sappiamo, già da molto tempo i socii italici chiedevano la cittadinanza5. Nel 91 a.C. Marco Livio Druso, tribuno della plebe, propose una serie di riforme6: fece favorevoli concessioni alla plebe e promosse l’ammissione in senato dei cavalieri. Convinto di essersi guadagnato sufficiente consenso propose che venisse estesa la cittadinanza agli Italici. Ma i senatori reagirono con violenza (sia per la questione dell’ammissione dei cavalieri in senato, sia per la faccenda della cittadinanza. Anche la plebe, d’altro canto, non vedeva di buon occhio quest’ultima proposta). Negli scontri violenti che seguirono, Druso rimase ucciso da un sicario. Gli Italici compresero che, di questo passo, non avrebbero mai ottenuto la cittadinanza e pertanto decisero di insorgere. La rivolta dilagò rapidamente in tutta Italia. Solo Umbria ed Etruria rimasero, nel complesso, fedeli, così come l’Italia Settentrionale e il Lazio. I nuclei più forti di combattenti erano costituiti da Marsi e Sanniti. I rivoltosi si organizzarono in un autentico stato federale, con capitale Corfinio (odierna Sulmona, Abruzzo), che fu ribattezzata Italica per l’occasione e batterono persino moneta (queste monete portavano la scritta Italia-secondo la forma latina o Viteliu-secondo la forma osca). Roma rispose con estrema durezza: decine di migliaia di uomini morirono sul campo di battaglia. La guerra che ne seguì fu sanguinaria e crudele. Si distinse, per ferocia e intelligenza tattica, Lucio Cornelio Silla. Alla fine Roma riuscì a piegare i ribelli, grazie soprattutto ad una politica di concessioni. Infatti, per sedare le rivolte, il Senato acconsentì di concedere la cittadinanza a chi fosse rimasto fedele, ma anche a chi si fosse immediatamente arreso. Così accadde che Roma vinse, ma i rivoltosi ottennero tutto quello che avevano chiesto. La cittadinanza romana fu quindi concessa a tutta la penisola (fino al Rubicone, in Emilia Romagna, sul versante adriatico e fino al Magra, in Toscana, sul versante tirrenico). I Galli, i Veneti e forse anche i Liguri della Pianura Padana, che erano rimasti fedeli a Roma e l’avevano militarmente sostenuta, furono premiati con la cittadinanza latina. 5 Gli Italici fornivano da tempo immemorabile contributo alla potenza militare romana, e tuttavia erano tagliati fuori dalle decisioni politiche, militari ed economiche del paese, che venivano prese esclusivamente da Roma. Nell’esercito, le funzioni di comando erano tenute saldamente nelle mani dei cittadini romani, e anche nei commerci erano sistematicamente penalizzati. Erano solitamente esclusi dalla redistribuzione dell’agro pubblico e nelle province erano subordinati nelle attività commerciali ai cittadini romani. 6 Figlio del precedente Marco Livio Druso, tribuno ai tempi di Gaio Gracco. Come il padre, anche il figlio era legato alla componente senatoriale. Le sue proposte di riforma, come quella che prevedeva l’accesso dei cavalieri in senato, non erano davvero orientate in favore dei cavalieri. Tale proposta venne avanzata per compensare la futura estromissione (nei piani di Druso) dei cavalieri dai tribunali che giudicavano le malversazioni dei governatori provinciali. Dal 106 a.C. infatti, con la lex servilia, tali tribunali, che dopo la fine di Gaio Gracco erano tornati nella mani dei senatori, erano stati aperti ai cavalieri: metà dei giudici erano cavalieri, metà senatori. 7 La guerra civile e l’ascesa di Silla Vedi sul libro a pag. 318-19 Ricorda soltanto che la battaglia decisiva, datata 82 a.C., si svolse a Porta Collina, all’ingresso dell’Urbe. Vinse Silla, che si avvalse anche dell’aiuto dei giovani e valenti ufficiali Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso. Relativamente all’ultimo paragrafo - Silla dittatore: 1) ricordiamo che la carica di dictator era eccezionale e valida solo ed esclusivamente per sei mei, in circostanza di grave pericolo per la repubblica. Silla se ne avvalse in maniera eccezionale, rivestendo tale magistratura a tempo indeterminato e si attribuì anche il potere di legiferare. Era dunque un re in tutto e per tutto, tranne che nel nome. 2) le liste di proscrizione: tramite queste terribili liste, l’opposizione fu messa a tacere con una sistematica politica di annientamento. Le liste costarono la vita a moltissimi Sanniti (che memori delle repressioni di Silla durante la guerra sociale si schierarono compattamente dalla parte dei mariani), sui quali si abbatté la terribile vendetta dei Sillani. Molti di questi Sillani, tra cui Crasso, profittarono dell’occasione per arricchirsi enormemente, incamerando i beni dei proscritti. I massacri e le spoliazioni furono spaventosi e non servirono dunque soltanto a eliminare nemici politici (populares, cavalieri), ma fornirono il pretesto per compiere ingiustificati massacri, dei quali rimasero vittima anche persone la cui unica colpa era di essere facoltosi. Come conseguenza, la classe aristocratica si rafforzò moltissimo. 3) I provvedimenti di Silla dittatore: - I cavalieri furono estromessi dai tribunali che giudicavano le malversazioni dei governatori di provincia - Silla aumentò il numero dei senatori da 300 a 600 (inserendo in senato suoi fedelissimi) e concesse gran parte dei territori confiscati con le liste di proscrizione ai suoi veterani. - Ridusse drasticamente la libera espressione politica dei tribuni della plebe e dei concilia plebis: le decisioni di questi infatti dovevano essere sottoposte all’approvazione del senato. I tribuni perdevano inoltre il diritto di veto (o intercessio), cioè il diritto di paralizzare l'efficacia degli atti giudicati lesivi degli interessi della plebe. - Rese molto più arduo il cursus honorum. Eliminò l’edilità e stabilì che non si potesse diventare consoli senza esser stati prima questori e pretori. Nessuno inoltre poteva diventare questore prima dei 30 anni. In questo modo si evitava che persone troppo giovani ed ambiziose raggiungessero elevate cariche politiche. Nessun magistrato poteva poi ricoprire la stessa carica se non erano passati almeno dieci anni dal momento in cui questi l’aveva ricoperta per la prima volta. Tutte queste precauzioni per limitare il potere dei magistrati e accrescere quello del senato. - La riforma della giustizia. Silla dispose che si organizzassero particolari tribunali, a ciascuno dei quali spettava la competenza esclusiva di reprimere uno specifico crimine. I tribunali erano sei e punivano crimini di concussione7, tradimento, omicidio, falso, peculato8 e banda armata. Questa riforma segnò un momento di grande importanza nella storia del diritto criminale. Da un lato, infatti, impose certe limitazioni ai diritti di difesa dei cittadini: non era infatti più concessa la possibilità di presentare appello contro eventuale condanna (la quale comunque non era più la pena di morte, ma l’esilio). D’altro canto però assicurava la garanzia che l’amministrazione della giustizia penale venisse separata definitivamente dal potere di polizia esercitato dai magistrati e grazie a ciò venne meno l’indeterminatezza dei fatti che potevano considerarsi punibili come crimini. Potevano cioè, a partire da questo momento, essere considerati crimini punibili solo i comportamenti che ricadevano nelle sei categorie di reato sopra citate. 7 È il reato del pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o delle sue funzioni, costringa (concussione violenta) o induca (concussione implicita o fraudolenta) qualcuno a dare o promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità anche di natura non patrimoniale. 8 È il reato in virtù del quale il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria; 8 Dopo aver fatto ciò, avendo quindi restituito il potere nelle mani dell’oligarchia senatoria, Silla, al culmine del suo potere, dismessa la carica di dictator, si ritirò a vita privata. Siamo nell’81 a.C., Silla si trasferisce a Cuma, nella sua villa privata, dove morirà qualche anno dopo, a causa di una malattia alla pelle (79 a.C.). Ecco l'epitaffio che Silla aveva voluto s'incidesse sul suo monumento funebre: “Nessun amico mi ha reso servigi, nessun nemico mi ha reso offesa, che io non abbia ripagati” Personaggio politico complesso e originale. Silla fu sempre molto coerente con se stesso e con le sue aspirazioni politiche. Il suo dichiarato intento fu quello di restituire il potere all’oligarchia senatoria. E lo fece. Tuttavia, per restaurare il dominio senatoriale, Silla si servì della forza, dei suoi personali eserciti e contravvenne alle norme costituzionali. Questi sono ormai gli strumenti di ascesa politica a Roma: l’esercito (che da dopo le riforme mariane dipende sempre più dai suoi generali che dallo stato) e il denaro (che permette di corrompere e veicolare politicamente le masse). L’aristocrazia senatoria, sempre più ottusa ed egoista, continua ad essere indifferente a quelli che non sono i suoi interessi personali. È incapace di allargare lo sguardo non solo su quelle che sono le altre componenti sociali italiche, ma è perfettamente ignorante di quanto delicata sia la situazione nelle province. Verso il primo triumvirato La rivolta di Quinto Sertorio, di Spartaco e di Mitridate 1) In Spagna, Quinto Sertorio, ex ufficiale di Gaio Mario, riparato in Spagna dopo la sconfitta di Porta Collina, aveva creato in Penisola Iberica un governo autonomo, sostenuto anche dalle popolazioni locali. Nel 76 a.C. il Senato inviò Pompeo Magno contro di lui, giovane rampollo del senato che si era distinto nella guerra civile romana. La guerra contro Quinto Sertorio, che fu principalmente una guerra di assalti e imboscate, si concluse solo nel 72 a.C. (e solo perché Quinto Sertorio fu ucciso a tradimento, avvelenato, da un suo ufficiale). 2) Nel 73 a.C. era intanto dilagata la rivolta degli schiavi in Italia. Tutto era cominciato nella scuola di gladiatori di Capua, dove un gladiatore di origine tracica, Spartaco, avverso al concetto stesso di schiavitù, era riuscito, alla testa di un gruppo di fedelissimi, a fuggire da Capua. Il suo reale obiettivo sarebbe stato quello di condurre in salvo i suoi seguaci, fuggendo dall’Italia e rifugiandosi in Gallia (laddove non era ancora stata sottomessa al dominio romano). Tuttavia attorno a lui ben presto confluirono schiavi da ogni parte dell’Italia meridionale e persino uomini liberi ridotti in miseria. La marcia di Spartaco assunse le caratteristiche di un movimento di rivolta (cosa che Spartaco non solo non aveva originariamente progettato ma che neppure auspicava, consapevole della netta superiorità dell’esercito romano e delle ostilità, anche fra gli strati sociali più bassi, di cui erano vittime gli schiavi). Infine, suo malgrado si trovò comunque a capeggiare un esercito di ben 150 mila uomini. Dell’esercito di Spartaco, la maggioranza preferì, anziché dirigersi verso la Gallia, attardarsi in inutili saccheggi e puntò sul meridione della penisola. Fu il momento opportuno, per Roma, di contrastarli. Vennero inviate ben 8 legioni comandate da Marco Licinio Crasso, nobile ricchissimo (si era arricchito anche con le liste di proscrizione) e ambizioso, che vedeva in quella campagna militare un ottimo trampolino di lancio politico. Inevitabile fu la disfatta degli schiavi. Seimila di questi, che erano stati fatti prigionieri, vennero crocifissi sulla via Appia (la crocifissione era la tipica pena riservata agli schiavi). Quanti sopravvissero si imbatterono nell’esercito di Pompeo, che nel frattempo ritornava vittorioso dalla Spagna. Vennero così trucidati (71 a.C.). 3) Grazie alle vittorie in Spagna e in Italia, Pompeo e Crasso erano diventati i due personaggi politici più noti a Roma. La qual cosa aveva non poco allarmato il Senato. In particolare, se fino a questo momento l’aristocrazia senatoria aveva riposto piena fiducia in Pompeo, (rampollo di buona famiglia, fedele agli ideali repubblicani) il suo carisma, la presa che aveva sull’esercito, le personali ambizioni, ne facevano un soggetto politicamente pericoloso. E in effetti tali timori si rivelarono fondati. Pompeo non si sarebbe mai potuto accontentare, semplicemente, del trionfo alla fine del conflitto. Egli voleva diventare console, ma le leggi sillane glielo impedivano (non aveva ricoperto le cariche di questore e pretore). 9 Anche Crasso (che era all’epoca l’uomo più ricco di Roma) era animato dal desiderio di fare carriera politica, sicché i due decisero di allearsi e formare una coalizione per forzare la mano al senato. I due decisero di guadagnarsi il sostegno dei populares (plebe, cavalieri e nobili moderati) promettendo che, se fossero stati eletti, avrebbero modificato in senso democratico la costituzione sillana. Per mettere pressione al Senato, fecero accampare le proprie truppe appena fuori Roma. A Roma intanto i populares li sostenevano a gran voce. Per sventare il pericolo di nuove guerre civili, i senatori cedettero. Contro le regole costituzionali, nel 70 a.C., Pompeo e Crasso divennero consoli. Mettiamo subito in chiaro un paio di questioni: 1. Pompeo e Crasso NON sono sinceramente populares. Hanno però capito che una politica ottusa e conservatrice, come quella senatoriale, era ormai anacronistica e controproducente. A questo si aggiunga il generale disgusto per la corruzione diffusa, di cui sono esempio illustre le Verrine di Cicerone. Nel 70 a.C., il pretore nonché governatore di Sicilia, Gaio Licinio Verre, fu coinvolto in un terribile (quanto non inusuale) scandalo: avendo compiuto concussioni, saccheggi e ruberie, fu denunciato dai siciliani e subì un celebre processo a Roma nel corso del quale un giovane e promettente avvocato, Cicerone, pronunciò contro di lui le orazioni denominate Verrine. Nelle sue orazioni Cicerone non mancò di segnalare quanta parte avesse il senato tutto in questo scandalo (e nei precedenti), dal momento che l’aveva taciuto e ne aveva sempre protetto i colpevoli. N.B. Cicerone, pur essendo un homo novus, era un sostenitore degli ottimati. Se anche denunciava il generale degrado politico (la corruzione, le ambizioni personali) riteneva che solo gli ottimati sarebbero stati in grado di difendere le istituzioni repubblicane, messe a repentaglio dal volubile partito democratico. Pompeo e Crasso sono invece nobili, ma militano per i populares (per quanto non lo siano genuinamente). Insomma, a questo punto si fanno anche più manifeste le tensioni all’interno della stessa aristocrazia, spaccata tra aristocratici conservatori e aristocratici più moderati (tra cui Pompeo e Crasso). 2. Pompeo e Crasso sono personaggi ambiziosi, che cercano il potere per esercitarlo personalmente e non collettivamente. Sono consapevoli che le masse costituiscono lo strumento politico più efficace per il conseguimento del potere. Entriamo ora in una nuova fase politica della storia romana, in cui le ambizioni personali, quando accompagnate dalle possibilità economiche e dal sostegno degli eserciti, saranno motivo di scontri e di conflitti civili. Il mito repubblicano va sfaldandosi, e ne abbiamo avuto solo un assaggio con la prima guerra civile (Mario e Silla) ed ora con gli atteggiamenti anticostituzionali di Pompeo e Crasso. Fedeli alle promesse fatte, Pompeo e Crasso smantellarono la costituzione sillana. I tribunali che giudicavano le malversazioni dei magistrati provinciali vennero assegnati nuovamente ai cavalieri, ai tribuni della plebe furono restituirono i diritti9 precedentemente perduti e la totale autonomia. Alla fine del suo mandato, Pompeo non si recò in provincia (come di solito facevano tutti gli ex-consoli e come lo stesso Crasso fece), bensì decise di rimanere a Roma, poiché aveva capito che era lì che si sarebbero realizzati i suoi i suoi progetti di potere. L’occasione, che gli permise di emergere rispetto al collega, venne quando, nel 67 a.C., il senato gli affidò il difficile compito di occuparsi del problema della pirateria nel Mediterraneo orientale. I pirati erano organizzati in vere e proprie flotte e avevano le loro basi lungo le coste meridionali dell’Asia Minore, della Cilicia e di Creta. Essi rappresentavano un gravissimo pericolo, in quanto, oltre a depredare navi e catturare e vendere come schiavi i marinai e i viaggiatori, mettevano in serio pericolo gli approvvigionamenti della capitale, poiché saccheggiavano le flotte che portavano il grano dalle province a Roma. Quel grano era destinato alla plebe e ai proletarii ed era quindi essenziale non solo per la loro sopravvivenza, ma per la sopravvivenza della capitale, che sarebbe altrimenti rimasta vittima delle insurrezioni del popolo affamato. Di fronte a questa emergenza, il tribuno della plebe Aulo Gabinio propose che ad occuparsene fosse Pompeo e che si concedessero poteri straordinari allo stesso (500 navi, 120mila soldati e 5mila cavalieri), per la durata di tre anni, al fine di debellare la piaga della pirateria. Il senato, suo malgrado, si vide costretto 9 Tra cui il diritto di veto e di intercessio, ovvero il diritto di paralizzare l'efficacia degli atti (espressi da qualsiasi altro magistrato) giudicati lesivi degli interessi della plebe. 10 a cedere alla pressione del popolo. Pompeo, nel giro di pochi mesi riuscì a sconfiggere i pirati e tornò vittorioso a Roma. La sua fama e la sua gloria erano alle stelle. Nel 66 a.C. il tribuno Caio Manilio affidò nuovamente a Pompeo i pieni poteri al fine di muovere una spedizione contro il re del Ponto Mitridate, che già sconfitto una volta, aveva ripreso una politica espansionistica. Ma Mitridate, che si suicidò nel 63 a.C., non era che il pretesto, per Pompeo, per espandersi in Siria, in Cappadocia e in Bitinia. Passò quindi in Siria, dove pose fine alla dinastia seleucide, e in Giudea, che divenne stato vassallo di Roma, retto dalla dinastia giudaica degli Asmonei, che sarà rovesciata nel 37 a.C. da Erode, originario di una tribù straniera, convertitosi tardi al giudaismo e che verrà riconosciuto dal senato romano, cui si era sottomesso, “re dei giudei”. 11