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La “partecipazione”all’acquisto del coniuge non acquirente
al vaglio delle sezioni unite.
1. Con la recente sentenza n. 22755 depositata il 28 ottobre 2009 le Sezioni Unite della
Cassazione Civile sono tornate ad occuparsi, seppur incidentalmente, di una problematica in
materia di regime patrimoniale della famiglia, attualmente oggetto di dibattito in dottrina e per
la quale non era dato ravvisare un orientamento unanime nemmeno in giurisprudenza.
La questione concerne l’ammissibilità o meno nel vigente ordinamento giuridico italiano di
una dichiarazione di volontà, resa contestualmente all'atto di acquisto da parte del coniuge
non acquirente ed avente l’effetto di impedire la caduta in comunione legale del bene
acquisendo, al di fuori dei casi contemplati dall'art. 179 c.c. (beni personali).
Si tratterebbe, in sostanza, un’ipotesi impeditiva della caduta in comunione legale degli
acquisti compiuti dai coniugi in costanza di matrimonio, non espressamente prevista dalla
legge e normalmente qualificata come “rifiuto del coacquisto ex lege”.
Il caso presentatosi all’esame delle Sezioni Unite trae origine da un procedimento di
separazione personale, nel corso del quale la moglie aveva presentato, altresì, domanda di
accertamento della simulazione del contratto di compravendita relativo all’immobile
effettivamente destinato durante il matrimonio a casa coniugale, ma fittiziamente dichiarato,
all’atto di acquisto, come bene destinato all’attività professionale del marito (ex art. 179 lett. d
c.c.), al solo fine di sottrarlo alla comunione per fini fiscali.
La domanda, dichiarata inammissibile nel giudizio di separazione perché extra petitum,
veniva riproposta in via automa e rigettata in primo grado per carenza di prova scritta della
simulazione.
La Corte d’Appello, successivamente adita, accoglieva, invece, la domanda dell’attrice
soccombente in primo grado, riqualificandola in termini di “domanda di accertamento della
comunione legale”, ed affermando la natura meramente ricognitiva della dichiarazione
adesiva prestata dal coniuge non acquirente all’atto dell’acquisto dell’immobile, poi venduto
dal marito ad un terzo.
Quest’ultimo, convenuto in giudizio per l’annullamento dell’acquisto da lui effettuato
proponeva, infine, ricorso per Cassazione, lamentando l’inopponibilità nei suoi confronti del
sopravvenuto accertamento della comunione legale sul bene vendutogli, mentre la moglie
resisteva con apposito controricorso.
Al fine di risolvere quest’ultima importante questione - relativa all’opponibilità o meno al
terzo acquirente del sopravvenuto accertamento della comunione legale sul bene vendutogli la Suprema Corte ha giustamente ritenuto necessario chiarire, in via preliminare, la natura e
l’efficacia giuridica dell’intervento ex art. 179 c.c. del coniuge non acquirente.
2. E’ noto il contrasto esistente sia in dottrina che in giurisprudenza circa l’ammissibilità
nel nostro ordinamento giuridico di una dichiarazione cd di “rifiuto del coacquisto ex
lege” da parte di uno dei coniugi sposato in regime di comunione legale.
Il problema essenziale consiste nello stabilire se la dichiarazione del coniuge di non voler
acquistare la contitolarità di un bene - resa al momento della conclusione dell’atto di acquisto
da parte dell’altro coniuge - sia di per sé, sufficiente ad escluderlo dalla comunione,
indipendentemente dall'effettiva natura personale di tale bene, ossia dal ricorrere dei
presupposti di cui all’art. 179 c.c.
Parte della dottrina (G. GABRIELLI, Se sia consentito ai coniugi di estromettere un singolo
diritto determinato dal patrimonio in comunione legale e se sia possibile escludere, sempre
con riguardo all'oggetto di un determinato acquisto, che esso ricada nella comunione stessa,
anche fuori dei casi in cui, secondo la disciplina legale, esiste la facoltà di acquistare in
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titolarità esclusiva, in AA.VV., Questioni di diritto patrimoniale della famiglia discusse da
vari giuristi e dedicate ad A. Trabucchi, Padova, 1989, 317-342; MASTROPAOLO E
PITTER, Commentario al diritto italiano della famiglia diretto da Cian, Oppo e Trabucchi,
III, Padova, 1992, 340 e ss.; AULETTA, Acquisti ricompresi in comunione, Il Diritto di
famiglia, Trattato di diritto privato diretto da BESSONE, Volume IV, Tomo II, 49 e ss.; G.
GABRIELLI E CUBEDDU, Il regime patrimoniale della famiglia, Giuffrè, 1997, 95 ss.;
PATTI, Il c.d. rifiuto del coacquisto alla luce della sentenza n.2954/2003, in Riv. Not., 2003,
1548 e ss.) ammette, infatti, la possibilità di derogare ai meccanismi della comunione legale,
ritenendo legittimo il rifiuto del coniuge volto ad impedire l’effetto di coaquisto ope legis dei
beni, a prescindere dalla sussistenza di uno dei casi di cui all’art. 179 lett. c, d, e f c.c.
In particolare, si afferma che, in virtù del principio dell’autonomia privata, il coniuge, anche
se sposato in regime di comunione legale, non può essere costretto ad acquistare un bene
contro la propria volontà. Stando, infatti, al principio romanistico per cui “nemo invitus
locupletari potest”, vigente nel nostro ordinamento giuridico, l’effetto incrementativo della
sfera giuridico-patrimoniale di un soggetto non partecipe all'atto può prodursi senza la sua
volontà, ma mai contro quest’ultima, anche nei casi in cui l’acquisto può portare ad un
incremento patrimoniale.
Pertanto, conclude tale orientamento, il legislatore, richiedendo la partecipazione all'atto di
acquisto da parte del coniuge non stipulante, ha voluto porre quest’ultimo in condizione di
conoscere la portata e l'oggetto del negozio, consentendogli, proprio in quella sede, di
disconoscere la sussistenza dei presupposti per l'acquisto del bene a titolo personale, ovvero di
confermare la dichiarazione dell’altro coniuge, impedendo l'effetto estensivo della comunione
legale.
Altro argomento a sostegno di tale tesi è stato individuato nell’art. 2647 comma 1 c.c. il quale
espressamente prevede la possibilità di stipulare «convenzioni matrimoniali che escludono i
beni medesimi dalla comunione tra i coniugi».
Secondo l’opinione attualmente prevalente in dottrina (DE PAOLA, Il diritto patrimoniale
della famiglia nel sistema del diritto privato, Tomo II, Milano, 2002, 600 e ss.) la
disposizione confermerebbe che le convenzioni matrimoniali possono avere oltre ad un
contenuto programmatico, che riduce, in via preventiva, la sfera di applicazione della
comunione legale con riguardo ad una o più categorie di beni, anche un contenuto dispositivo,
che esclude in via immediatamente precettiva singoli e determinati beni dalla comunione
legale.
Se la legge consente ai coniugi stipulare, immediatamente dopo l'acquisto di un bene, una
convenzione attraverso la quale farlo uscire dalla comunione legale, non può negarsi loro la
possibilità di ottenere lo stesso effetto attraverso una dichiarazione di volontà contestuale
all’acquisto, con la quale uno dei coniugi respinge l’incremento ex lege in proprio favore,
consentendo che lo stesso acquisto resti a beneficio del solo acquirente (così G. GABRIELLI,
Acquisto in proprietà esclusiva dei beni immobili o mobili registrati da parte di persona
coniugata, in Vita not., 1984, 95 e ss).
La tesi favorevole all’ammissibilità di una dichiarazione di rifiuto del coaquisto è stata,
inizialmente ripresa dalla Cassazione nella nota sentenza n. 2688 del 1989 (Cass. 2 giugno
1989 n. 2688 in Foro it., 1990, I , 608 con nota di PARENTE; in Giur. It., 1990, I, 1307 con
nota di GALLETTA; in Nuova giur. civ. comm., 1990, I, 219 con nota di DE FALCO; in
Riv. Not., 1990, I, 172 con nota di LAURINI; in Giust. Civ., 1990, I, 1359 con nota di DE
STEFANO) che – con riferimento ad un caso di acquisto di un fondo agricolo effettuato in via
esclusiva dal solo marito che lo conduceva in affitto, con il consenso della moglie,
appositamente intervenuta alla stipula dell’atto – ha stabilito il principio di diritto secondo cui
l’atto con cui un coniuge, sposato in regime di comunione legale, consente all’acquisto in
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titolarità esclusiva dell’altro di un bene immobile o mobile registrato, costituisce esplicazione
della sua autonomia negoziale e produce l’effetto di limitare l’efficacia soggettiva dell’atto di
acquisto al solo coniuge acquirente, a prescindere dalla sussistenza delle ipotesi di cui all’art.
179 lett. c, d e f cc.
A tali conclusioni la Suprema Corte era pervenuta accogliendo la tesi del possibile contenuto
dispositivo delle convenzioni matrimoniali ed affermando, altresì, una presunta equipollenza
tra queste ultime e l’atto pubblico d’acquisto nel quale viene espresso il rifiuto alla
contitolarità da parte del coniuge non acquirente, da intendersi quale dichiarazione negoziale,
non revocabile e che impedisce di poter successivamente opporre ai creditori dell’altro
coniuge ed ai suoi aventi causa la natura non personale del bene in questione.
Come giustamente rilevato da una parte della dottrina (GAZZONI, La trascrizione
immobiliare, in Il codice civile commentato diretto da SCHLESINGER, Milano, 1991, 68 e
ss.) la suddetta equipollenza funzionale non si concilia, però, con il particolare regime di
pubblicità previsto per le convenzioni matrimoniali, che ai sensi dell’art. 162 c.c. debbono
essere annotate in calce all’atto di matrimonio e qualora abbiano ad oggetto beni immobili
devono essere trascritte a norma dell’art. 2647 c.c.
In particolare, non può ritenersi che, attraverso la trascrizione dell’atto pubblico di acquisto,
debba intendersi trascritta anche la dichiarazione negoziale di rifiuto del coacquisto, in quanto
quest’ultima, impedendo l’acquisto ex lege non da vita ad alcuna vicenda circolatoria, o
meglio ad alcuno degli effetti di cui all’art. 2643 c.c., e neppure può essere inquadrata nel
rifiuto eliminativo degli effetti, con conseguente impossibilità di invocare il dettato
normativo di cui all’art. 2645 c.c.
Ma al di là dei rilievi critici concernenti il sistema di pubblicità legale previsto per le
convenzioni matrimoniali, sono ben altre le argomentazioni di carattere sostanziale che
inducono a dover respingere la tesi che ritiene sufficiente un mero atto unilaterale di rifiuto da
parte del coniuge non acquirente al fine di escludere un determinato acquisto dalla comunione
legale.
Innanzitutto, deve evidenziarsi come gli stessi principi dell’autonomia privata e
dell’intangibilità della sfera patrimoniale individuale di ciascun coniuge abbiano subito una
importante limitazione per effetto della disciplina introdotta dalla legge n. 151/1975 che ha
previsto la comunione legale, quale regime patrimoniale tipico della famiglia.
In realtà, una siffatta limitazione dell’autonomia privata non concerne soltanto i rapporti
patrimoniali tra i coniugi, ma viene in rilievo, nell’ambito del diritto di famiglia, anche sotto
altri aspetti.
Pur volendosi sostenere la natura negoziale dello stesso atto matrimoniale, la disciplina del
rapporto è predeterminata dal legislatore ed è tendenzialmente escluso ai coniugi di poter
apportare modifiche. I diritti e i doveri dei coniugi sono, infatti, stabiliti dalla legge ed ad essi
non è consentito derogare (art. 160 c.c.).
Con riferimento specifico ai rapporti patrimoniali deve evidenziarsi che, pur essendo data ai
coniugi la possibilità di variare rispetto al regime legale della comunione legale, la stessa
possibilità è limitata e disciplinata dalla legge nei presupposti, nelle forme e nelle modalità di
esercizio.
E’ certamente vero che l'attuale ordinamento giuridico riconosce ai coniugi un'ampia
autonomia, o meglio un ampio potere di scelta per quanto concerne la regolamentazione dei
loro rapporti patrimoniali – con il solo limite generale di non derogare ai diritti ed ai doveri
previsti dalla legge per effetto del matrimonio (art. 160c.c.) - ma è, altrettanto, vero che la
scelta di un un regime patrimoniale diverso dalla comunione legale deve effettuarsi
necessariamente attraverso l'utilizzo dello strumento legale tipico delle convenzioni
matrimoniali e, conseguentemente, con il rispetto dei requisiti di forma e di pubblicità per
esse richiesti dalla legge (art. 162 c.c.).
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I coniugi possono convenire che ciascuno di essi conservi la titolarità esclusiva dei beni
acquistati durante il matrimonio, adottando il diverso regime della separazione dei beni (ex
art. 215 c.c.), o possono instaurare fra loro un regime di comunione convenzionale,
modificando quello tipico (ex art. 210 c.c.); ma tali convenzioni, soggiacciono a determinate
forme espressamente stabilite dalla legge (ossia atto pubblico con la necessaria presenza dei
testimoni ex artt. 162 c.c. e 48 co 1 della legge n. 89 del 16.02.1913) nonché ad una specifica
pubblicità (annotazione a margine dell’atto di matrimonio e trascrizione nei pubblici registri
ove si tratti di beni immobili o mobili registrati) .
“In mancanza di diversa convenzione stipulata a norma dell’art. 162 c.c.” afferma l’art. 159
c.c. “il regime patrimoniale legale della famiglia è costituito dalla comunione dei beni”, la
cui disciplina ed oggetto è posta essenzialmente dagli artt. 177, 178 e 179 del c.c..
Ed il principio generale stabilito dalla lettera a) comma 1 del suddetto art. 177 c.c., è quello
secondo il quale entrano in comunione legale “gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o
separatamente durante il matrimonio” - a prescindere da qualsiasi indagine in merito alla
provenienza effettiva del denaro utilizzato – e con la sola esclusione di quelli relativi ai beni
personali, analiticamente elencati nell’art. 179 c.c.
Accanto ai beni che entrano in comunione in via immediata e per effetto del loro acquisto, il
codice, individua, poi, alle lettere b e c dell’art. 177 c.c. ulteriori beni che entrano in
comunione soltanto al momento del suo scioglimento purchè ancora esistenti (cd comunione
de residuo).
Fatta eccezione, quindi, per i beni personali e per quelli rientranti nell’ambito della cd
comunione de residuo, la regola generale della comunione legale è che se un coniuge effettua
un acquisto quest’ultimo entra immediatamente ed automaticamente in comunione ope legis,
a prescindere dalla circostanza che all’atto di acquisto sia fatta menzione del regime della
comunione.
D’altra parte, se la caduta in comunione legale di un acquisto dipendesse dalla semplice
circostanza che sia stata menzionata in atto la comunione, si rimetterebbe alla volontà
dell’acquirente – e fuori dall’ipotesi di comunione convenzionale – l’inclusione o meno del
diritto nell’oggetto della comunione legale (così FINOCCHIARO, nota a Trib. Di Monza, in
Giust. Civ., 1983, 586).
La prevalente dottrina (BASILE E SILVESTRI, Eguaglianza dei coniugi e divisione del
lavoro in famiglia, in Eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, Napoli, 1975, 231 ss.;
BUSNELLI, La “comunione legale” nel diritto di famiglia riformato, in Riv. Not.,1976, 32 e
ss.; SURDI, Sull’estromissione di singoli beni dalla comunione legale tra coniugi, in Diritto
fam. e pers., 1999, 1454 e ss.) ritiene, tra l’altro, che la scelta operata dal legislatore italiano,
circa l’automatico ricadere in comunione legale degli acquisti compiuti dai coniugi in
costanza di matrimonio trovi il suo fondamento nell’art. 29 della Costituzione, secondo il
quale “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul
matrimonio, ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi […]”.
Il dettato normativo di cui all’art. 177 lett. a c.c., altro non sarebbe che l’applicazione nell’ambito dei rapporti patrimononiali - dei principi di reciproca collaborazione, di mutua
assistenza, di solidarietà e di comune responsabilità tra i coniugi, sanciti dalla stessa
Costituzione. Nemmeno la derogabilità del regime legale della comunione legale da parte dei
coniugi – nelle sole forme e condizioni previste dalla legge – vale ad escludere un siffatto
fondamento costituzionale (così CATAUDELLA, Ratio dell’istituto e ratio della norma nella
comunione legale tra coniugi, in Diritto di famiglia (Scritti in onore di Nicolò), Milano, 1982,
310), in quanto, come autorevolmente sostenuto (OPPO, Responsabilità patrimoniale e nuovo
diritto di famiglia, in Riv. dir. civ., 1976, 149 e nello stesso senso M. NUZZO, Interessi
individuali ed interese familiare nella disciplina dela comuinone legale, in La comunione
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legale a cura di BIANCA, Milano, 1989, 25 ss), il legislatore nazionale con la riforma del
1975 ha inteso realizzare un equo bilanciamento tra diversi e concorrenti interessi: ossia quelli
propri della famiglia nel rispetto della libertà e dell’autonomia patrimoniale, che devono
essere garantite a ciascuno dei conugi quali soggetti “solitari” dell’ordinamento.
Deve, inoltre, evidenziarsi che secondo quanto previsto dall’art. 177 c.c. lett. a l’atto di
acquisto, compiuto da ciascun coniuge in costanza di matrimonio, è imputato ope legis
automaticamente e direttamente alla comunione legale; e quindi, non sembra esservi alcuna
lesione del principio di intangibilità della sfera giuridico-patrimoniale individuale dell’altro
coniuge non partecipante all’atto.
Pur escludendosi, infatti, che la comunione legale dia luogo ad un autonomo soggetto di
diritto, si è in presenza di una massa patrimoniale in contitolarità tra i coniugi, soggetta a
regole speciali in ordine all’amministrazione, alla responsabilità ed alla garanzia nei confronti
dei creditori personali e di quelli comuni, ed integrante, per alcuni un vero e proprio
patrimonio separato (BIANCA, La famiglia, Milano, 2005, 87 e ss; Contra AULETTA, Il
diritto di famiglia, Torino, 2004, 118, che esclude sia la soggettività autonoma della
comunione legale sia il fatto che la stessa possa costituire un patrimonio separato).
Un ulteriore elemento a sostegno dell’inammissibilità nel nostro ordinamento giuridico del cd
“rifiuto del coacquisto ex lege” può rinvenirsi nel dettato normativo dell’art. 210 co 3 c.c.,
che sancisce l’inderogabilità delle norme in materia di comunione legale relativamente, fra
l'altro, all'uguaglianza delle quote di comproprietà sui beni che formano oggetto della
comunione legale.
Se non è consentito ad uno dei coniugi in regime di comunione legale rinunciare ad una parte
della quota a lui spettante sui beni che formano oggetto della comunione legale, a maggior
ragione, deve ritenersi esclusa la possibilità di una rinuncia all'intera quota di un bene, qualora
quest’ultimo non rientri nelle categorie elencate dall'art.179 c.c..
In senso contrario all’ammissibilità di una cd dichiarazione di rifiuto del coacquisto si era
precedentemente espressa anche la Corte di Cassazione, nella nota sentenza n. 2954 del 2003,
secondo la quale l’art. 179, co 2 c.c., letto in connessione con la regola generale della
comunione incidentale dei beni fra coniugi (art. 177, co 1., lett. a c.c.) e con la conseguente
tassatività delle ipotesi di esclusione degli acquisti dalla comunione legale (articolo 179, co 1
c.c.), deve essere interpretato nel senso che l'ipotesi in esso prevista è limitativa dei casi di
esclusione dalla comunione previsti dalle lettere c, d ed f del co 1, allorché l'altro coniuge
partecipi al contratto.
Ed a conclusioni simili, seppur non identiche come meglio vedremo in seguito, perviene la
Suprema Corte a Sezioni Unite, lì ove espressamente afferma che “l'intervento adesivo del
coniuge non acquirente non è di per sé sufficiente ad escludere dalla comunione il bene che
non sia effettivamente personale”.
L’art. 179 co 2 c.c. prevede, infatti, che i beni acquistati dai coniugi sono esclusi dalla
comunione “ai sensi delle lettere c), d) ed f) del precedente comma, quando tale esclusione
risulti dall'atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l'altro coniuge”.
“Sicché” conclude la stessa Cassazione “dall'atto deve risultare alcuna delle cause di
esclusione della comunione tassativamente indicate nel primo comma dello stesso art. 179
c.c.; e l'effetto limitativo della comunione si produce solo ai sensi delle lettere c), d) ed f) del
precedente comma”, vale a dire solo se i beni sono effettivamente personali.
A fondamento di tale conclusioni le Sezioni Unite adducono due essenziali argomentazioni,
tali da potersi ritenere, ad avviso di chi scrive, entrambi condivisibili.
Innanzitutto, il fatto che stando al sistema definito dagli artt. 177 e 179 comma 1 c.c.
l'inclusione nella comunione legale è un effetto automatico dell'acquisto di un bene non
personale da parte di ciascuno dei coniugi in costanza di matrimonio.
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Ed, inoltre, la circostanza in base alla quale se il legislatore avesse voluto riconoscere ai
coniugi la facoltà di escludere ad libitum determinati beni dalla comunione, lo avrebbe fatto
prescindendo dal riferimento alla natura personale dei beni, che condiziona invece gli effetti
previsti dall'art. 179 co 2 c.c.
Pur condividendosi - alla luce delle argomentazioni sopra evidenziate - le conclusioni cui
pervengono le Sezioni Unite circa l’impossibilità da parte dei coniugi di escludere, per effetto
di una semplice dichiarazione unilaterale, resa contestualmente all’atto di acquisto di un bene
non personale, lo stesso bene dal regime della comunione legale, non si comprende, tuttavia,
l’inciso finale di questa parte della sentenza secondo il quale “potrebbe ritenersi che una tale
facoltà debba essere riconosciuta ai coniugi per ragioni sistematiche, indipendentemente da
un'espressa previsione legislativa”.
Ciò in quanto – come in precedenza si è tentato di chiarire - non è soltanto l’espresso dettato
normativo dell’art. 179 co 2 c.c., ad escludere l’ammissibilità di una dichiarazione in grado di
impedire la caduta in comunione legale di un acquisto non rientrante nell’ambito delle diverse
e specifiche categorie dei beni personali di cui all’art. 179 c.c., ma è, in realtà, una lettura
sistematica dell’ intero corpo normativo in materia di regime patrimoniale della famiglia ad
indurre ad una tale conclusione.
3. Dopo aver escluso l’ammissibilità di una dichiarazione di rifiuto del coaquisto al di
fuori dei casi previsti dall’art. 179 co 2 lett. c, d e f c.c. le Sezioni Unite hanno affrontato
l’ulteriore questione concernente la natura giuridica ed il valore probatorio della
dichiarazione con la quale il coniuge non acquirente, intervenendo nel contratto stipulato
dall'altro, riconosce la natura personale del bene acquistato ai sensi dell’art. 179 c.c.,
acconsentendo alla sua esclusione dalla comunione legale.
Trattasi di una problematica particolarmente dibattutta sia in dottrina che in giurisprudenza a
causa del non chiaro tenore letterale dell’art. 179 co 2 c.c. secondo il quale l’acquisto dei beni
di cui alle lettere c, d, ed f del primo comma è escluso dalla comunione legale, “quando tale
esclusione risulti dall’atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l’altro coniuge”.
E’ stato condivisibilmente rilevato (RADICE, I beni personali, in Trattato del diritto di
famiglia diretto da BONILINI e CATTANEO, Utet, Torino 1997, 153-154) come un siffatto
acquisto si realizzi solo in presenza di determinati presupposti; il presupposto sostanziale è
l’acquisto di un immobile o di un mobile registrato destinato ad uso individuale o
professionale del coniuge, o acquistato con il prezzo del trasferimento o con lo scambio di
altri beni personali; il presupposto formale (oltre alla dichiarazione del coniuge acquirente) è
dato dalla “partecipazione” all’atto anche dell’altro coniuge.
Discussa è la natura giuridica da attribuirsi a detta “partecipazione” del coniuge non
acquirente nonché la sua essenzialità o meno ai fini dell’esclusione del bene personale dalla
comunione legale.
Secondo una tesi, rimasta isolata, (CIAN, Sulla pubblicità del regime patrimoniale della
famiglia, in Riv. dir. civ. 1976, I, 46), la disposizione di cui all’art. 179 co 2 c.c. andrebbe
interpretata nel senso che l’esclusione del bene dalla comunione legale deve risultare dall’atto
di acquisto soltanto qualora (in questo modo viene qui inteso il “se”) di tale atto di acquisto
sia stato parte anche l’altro coniuge.
Una siffatta interpretazione non può, però, ritenersi condivisibile stando l’intento del
legislatore del 1975 di dettare, con l’art. 179 c.c., una disciplina di carattere generale;
conseguentemente appare incongruo limitare l’applicazione del secondo comma alla sola
marginale ipotesi di acquisto congiunto da parte di entrambi i coniugi.
A ciò deve aggiungersi l’ulteriore rilievo in base al quale la “partecipazione” del coniuge non
acquirente sembra, in realtà, finalizzata a consentirgli un controllo preventivo in ordine alla
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sussistenza dei presupposti oggettivi che permettono all’altro coniuge di procedere ad un
acquisto separato ai sensi delle lett. c, d e f dell’art. 179 del c.c., evitando successive
contestazioni in ordine alla natura personale dell’acquisto.
Alla luce delle suddette argomentazioni la “partecipazione” del coniuge non acquirente, deve
pertanto, ritenersi necessaria ai fini del perfezionamento dell’acquisto a titolo personale.
Secondo parte della dottrina (FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, I, Giuffrè, Milano 1984,
1020 ss.; RUBINO, Il sistema dei beni personali e la convenzione che esclude un acquisto
dalla comunione, in Rass. dir. civ. 1992, 595; DETTI, Oggetto, natura, amministrazione della
comunione legale fra i coniugi, in Riv. Not. 1976, 1170) la partecipazione del coniuge non
acquirente, oltre che necessaria ed essenziale, sarebbe tale da assumere anche natura
negoziale.
Si afferma che, stando all’espressione utilizzata dal legislatore – secondo il quale il coniuge
non acquirente deve essere “parte” dell’atto d’acquisto – l’intervento dell’altro coniuge non
può essere inteso come una mera assistenza passiva all’atto, ovvero come non opposizione o
non contestazione dell’esclusività dell’acquisto, ma deve consistere in una dichiarazione
negoziale di rinuncia al beneficio del coacquisto riconosciutogli dall’art. 177 lett. a c.c..
Tale tesi non può, però, ritenersi condivisibile, in quanto la partecipazione del coniuge non
acquirente, assumerebbe valore costitutivo ai fini dell’effetto di esclusione del bene personale
dalla comunione legale.
Al contrario, ai sensi di quanto previsto dagli artt. 177 lett. a e 179 co 1 c.c. l’esclusione si
verifica ex lege, automaticamente ed immediatamente al solo ricorrere dei requisiti richiesti
dalla legge ai fini della personalità dell’acquisto.
Ad escludere la natura costitutiva della dichiarazione resa dal coniuge non acquirente, ci
sembra possa valere, inoltre, il caso specifico di cui alla lett. f dell’art. 179 c.c., concernente
l’acquisto di beni effettuato con il prezzo del trasferimento o con lo scambio di altri beni
personali del solo coniuge acquirente.
In tal caso, la fattispecie acquisitiva (e la conseguente natura personale del bene che ne è
oggetto) si svolge integralmente all’interno del patrimonio del solo coniuge acquirente, il
quale procede alla vendita di un precedente bene personale ed al conseguente acquisto di un
nuovo bene per mezzo del corrispettivo ottenuto dalla pregressa alienazione.
In relazione a tale acquisto non può sussistere alcun potere dispositivo da parte dell’altro
coniuge ed anche se quest’ultimo partecipa all’acquisto, non può esserne parte sostanziale,
non vantando alcun diritto nei confronti dei beni personali del consorte.
Se si riconoscesse, in questo caso, valore costitutivo alla dichiarazione resa dal coniuge non
acquirente, gli si consentirebbe di disporre della sorte dei beni personali dell’altro, con una
notevole compromissione dello stesso principio di autonomia negoziale (così MAJELLO,
Comunione dei beni tra i coniugi, in Enc. Giur. Treccani, VII, Roma 1998, 6).
D’altra parte, alcuni degli stessi sostenitori della tesi della negozialità della partecipazione del
coniuge non acquirente (SCHLESINGER, Art. 177 – Oggetto della comunione, in
Commentario al diritto italiano della famiglia, op. cit.. 158 ss) negano che quest’ultima possa
assumere valore costitutivo ai fini dell’effetto di esclusione del bene personale dalla
comunione, in quanto detta esclusione si verifica di per sé, al solo ricorrere dei requisiti
richiesti dalla legge ai fini della personalità dell’acquisto (ex 179 co 1 c.c.).
Partendo proprio dalla considerazione di un’automatica esclusione ex lege del bene personale
dalla comunione legale – desumibile dal combinato disposto degli artt. 177 lett. a e 179 co 1
c.c. – altra parte della dottrina (DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della famiglia, op. cit.,
497 e ss.), afferma che l’intervento del coniuge non acquirente sarebbe, in realtà, richiesto
dalla norma al solo fine di attestare che i beni oggetto dell’acquisto sono effettivamente
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esclusi dalla comunione perchè per essi ricorrono i requisiti legali di cui alle lettere c, d ed f
del primo comma dell’art. 179 c.c..
La “partecipazione” del coniuge non acquirente si sostanzierebbe in una dichiarazione di
scienza, il cui contenuto non è negoziale ma è semplicemente ricognitivo di una realtà, sia
materiale che giuridica, già esistente, con funzione di mero accertamento oltre che di
presupposto per la trascrizione del bene come personale (DE PAOLA E MACRI’, Il nuovo
regime patrimoniale della famiglia, Milano, 1978, 139; GAZZONI, La trascrizione
immobiliare, op. cit., 72; AULETTA, La comunione legale, op .cit. 223).
Ne deriva che il coniuge non acquirente potrà sempre promuovere, anche nel caso in cui abbia
reso una dichiarazione non veritiera, un apposito giudizio di accertamento ed ivi dimostrare,
l’inesistenza dei presupposti per l’acquisto a titolo personale.
Secondo altra parte della dottrina (BIANCA, La famiglia, Giuffrè, Milano 2005, 119;
LABRIOLA, Esclusione di un acquisto dalla comunione legale per consenso dell’altro
coniuge, in Vita Not. 1990, 396; SANTOSUOSSO, Il regime patrimoniale della famiglia, in
Commentario del codice civile, UTET, Torino 1983; SEGNI, Gli atti di straordinaria
amministrazione del singolo coniuge sui beni della comunione, in Riv. dir. civ. 1980, I, 624),
la partecipazione del coniuge acquirente all’atto di acquisto, oltre ad avere natura meramente
ricognitiva non dovrebbe nemmeno ritenersi necessaria.
Pertanto, anche se l’atto di acquisto di un bene riconducibile alle categorie di cui all’art. 179
co 2 lett. c, d e f c.c. sia stato posto in essere senza la partecipazione dell’altro coniuge, lo
stesso bene resterebbe di proprietà del coniuge acquirente, ma, in caso di contestazione sul
punto, l’onere di provare il carattere personale del bene in questione ricadrebbe sul coniuge
che ha perfezionato l’acquisto.
Nelle rare pronunce sull’argomento, la Corte di Cassazione ha inizialmente fatto propria
quest’ultima tesi, ritenendo non necessaria la partecipazione all’acquisto di un bene personale
da parte del coniuge non acquirente (Cass. 8 febbraio 1993, n. 1556, in Giust. civ. 1993, II,
2425) e ribadendo la natura ricognitiva della eventuale dichiarazione resa circa la natura
personale del bene acquistato dall’altro consorte (Cass. 27 febbraio 2003, n. 2954, in Giur. It.
2004, 281, con nota di CEROLINI).
Successivamente la stessa Cassazione ha, però, mutato orientamento, rilevando l’essenzialità
della partecipazione del coniuge non acquirente, che sarebbe chiamato dalla legge a rendere
una dichiarazione con la quale riconosce la presenza dei presupposti per la personalità del
bene acquistato e per la sua esclusione dalla comunione legale (Cass. 24 settembre 2004 n.
19250 in Giur. It. 2006, 275; in Fam. e Dir. 2005, 12; in D&G 2004, XXXIX, 40).
Secondo tale recente impostazione della Suprema Corte l’acquisto di beni immobili o mobili
registrati, alle condizioni di cui alle lettere c, d ed f dell’art. 179 c.c., è da intendersi quale
fattispecie complessa, al cui perfezionamento concorrono: a) il ricorrere effettivo dei
presupposti di cui alle lettere c, d e f dell’art. 179; b) la dichiarazione del coniuge acquirente;
c) la “partecipazione” all’atto dell’altro coniuge.
Resta, comunque, da chiarire l’esatto valore giuridico da attribuire ad una siffatta
“partecipazione”.
In realtà, stando alla ratio ed al tenore letterale dell’art. 179 co 1 e co 2 c.c. - che non richiede
alcuna espressa dichiarazione da parte del coniuge non acquirente - riteniamo condivisibile la
tesi (ANELLI - SESTA, Regime patrimoniale della famiglia, Milano 2002, 109 e ss.) secondo
la quale quest’ultimo è semplicemente tenuto ad intervenire alla stipulazione del contratto di
acquisto (e di tale “partecipazione” deve essere fatta menzione nell’atto) senza alcuna
necessità da parte sua di emettere dichiarazioni di qualsivoglia contenuto.
Se, infatti, la finalità della norma è essenzialmente quella di consentire al coniuge non
acquirente un controllo preventivo in ordine alla sussistenza dei presupposti oggettivi che
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permettono all’altro coniuge di procedere ad un acquisto a titolo personale, evitando possibili
contestazioni successive, deve ritenersi sufficiente la sua partecipazione alla conclusione del
contratto, accompagnata dalla sua mancata opposizione alla dichiarazione di esclusione
inserita nell’atto.
Ciò non impedisce che lo stesso coniuge possa partecipare in maniera attiva all’acquisto
emettendo, ancorché non tenuto, delle dichiarazioni in ordine all’effettiva esistenza dei fatti
giustificativi dell’esclusione addotti dall’altro coniuge.
In tal caso, si pone il problema di verificare quale sia il valore giuridico da attribuire ad una
siffatta dichiarazione.
Partendo dal presupposto che la suddetta dichiarazione non è né essenziale né necessaria ai
fini dell’acquisto ex lege, sembra potersi correttamente concludere che essa non ha alcun
valore negoziale o costitutivo, ma consiste in una mera dichiarazione di scienza, di natura
ricognitiva, con funzione di mero accertamento degli altri presupposti richiesti dalla legge
(nello specifico sussistenza di una della categorie di beni di cui alle lett. c, d e f dell’art. 179
co 1 e dichiarazione espressa dell’altro coniuge).
Ed a tali conclusioni giunge anche la Cassazione a Sezioni Unite – nella sentenza n.
22755/2009 la quale riconosce alla mancata contestazione od alla esplicita conferma da
parte del coniuge non acquirente, resa contestualmente all’atto di acquisto, natura meramente
ricognitiva e non negoziale, affermando, altresì, un sua possibile “portata confessoria”.
In realtà, la Suprema Corte richiama un precedente orientamento giurisprudenziale secondo il
quale la dichiarazione del coniuge non acquirente “costituisce un atto giuridico volontario e
consapevole, cui il legislatore attribuisce l'efficacia di una dichiarazione a contenuto
sostanzialmente confessorio” (Cass., 6 marzo 2008, n. 6120; Cass. 19 febbraio 2000, n.
1917), chiarendo alcuni aspetti essenziali.
A giudizio delle Sezioni Unite il suddetto orientamento non può, infatti, ritenersi pienamente
condivisibile in quanto “può certo ammettersi che la dichiarazione prevista dall'art. 179
comma 2 c.c. abbia natura ricognitiva e portata confessoria quando risulti descrittiva di una
situazione di fatto, ma non quando sia solo espressiva di una manifestazione di intenti”.
Aggiungendo, inoltre, che “una dichiarazione di intenti può essere più o meno sincera o
affidabile, ma non è una attestazione di fatti, predicabile di verità o di falsità; e quindi,
secondo quanto prevede l'art. 2730 c.c., non può avere funzione di confessione”.
In sostanza, la Cassazione sostiene che se l'intervento adesivo del coniuge assume il
significato di riconoscimento dell’esistenza dei presupposti di fatto richiesti dalla legge ai fini
dell'esclusione del bene dalla comunione, esso assume natura ricognitiva e portata confessoria
– nello specifico si tratterebbe di confessione stragiudiziale – eventualmente revocabile
soltanto nei limiti in cui è ammessa dall'art. 2732 c.c.
Al contrario, se l’intervento adesivo del coniuge, assume il significato di una mera
manifestazione di comuni intenti dei coniugi, è da escludersi qualsiasi valore confessorio, in
quanto non vi è alcuna attestazione di fatti, predicabile di verità o di falsità.
In realtà, pur condividendosi le conclusioni cui pervengono le Sezioni Unite circa
l’impossibilità di attribuire il valore probatorio di confessione stragiudiziale ad un intervento
adesivo del coniuge, consistente in una mera dichiarazione di intenti, resta da verificare se
possa correttamente riconoscersi il valore di confessione stragiudiziale ai sensi dell’art. 2732
c.c. ad una dichiarazione ricognitiva dei presupposti di fatto richiesti dalla legge per l’acquisto
a titolo personale da parte dell’altro coniuge.
In base alla nozione che ne offre l'art. 2730 c.c. la confessione è la dichiarazione che una
parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all'altra parte.
Le varie specie di confessione previste dal codice (giudiziale o stragiudiziale, spontanea o
provocata) – come rilevato da una parte della dottrina (FURNO, Confessione (dir. proc. civ.),
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in Enc. del diritto, VIII, Milano, 1961, 870 ss.) - si differenziano tra loro soltanto per certe
particolarità d'ordine estrinseco, attinenti alla sede, al tempo, al modo della emissione, mentre
la dichiarazione, che ne rappresenta il carattere intrinseco essenziale, mantiene sempre la
stessa struttura fondamentale.
La confessione è un atto giuridico a contenuto meramente dichiarativo e rappresentativo,
storico, e non normativo o dispositivo.
L'oggetto della confessione è costituito sempre e soltanto da fatti giuridici, i quali debbono
essere rilevanti (o influenti) per la decisione del merito della causa, e sfavorevoli al confitente.
Ciò significa che i fatti confessati, e già accaduti, debbono trovarsi con i contrastanti interessi
delle parti in un rapporto tale, che ne risulti obiettivamente pregiudicato l'interesse del
confitente, ed avvantaggiato quello del suo avversario: un rapporto, cioè, di obiettiva
contrarietà rispetto al concreto e specifico interesse del confitente in conflitto con quello
dell'altra parte.
La contrarietà del fatto all'interesse del confitente è, quindi, l’elemento esenziale, che rende la
dichiarazione confessoria degna di fede, e considerata dalla legge quale indice di verità, al
punto che essa “forma piena prova contro colui che l’ha fatta”(ex 2733 c.c.).
Inoltre, oggetto della dichiarazione confessoria possono essere soltanto i fatti, e quindi non
può trattarsi di una dichiarazione rientrante nello schema negoziale della manifestazione di
volontà (o della dichiarazione precettiva, dispositiva), bensì di una dichiarazione enunciativa,
rappresentativa, di verità o di scienza.
Parte della dottrina (FURNO in Enc. del diritto, op. cit, 887, ma la stessa osservazione è già in
Savigny , Sistema del diritto romano attuale, VII (1848), trad. it. di Scialoja; Torino, 1896,
55-56)
ha, tra l’altro, evidenziato che in tema di confessione (e, più in generale, di prova),
per fatti devono intendersi i fatti giuridici, categoria nella quale rientrano come species anche
gli atti, i negozi, i rapporti, ed in genere le situazioni giuridicamente rilevanti, comunque,
sucettibili di essere rappresentati con il mezzo della confessione.
Alla luce di tali essenziali considerazioni in tema di confessione, ci sembra possibile
affermare che l’eventuale dichiarazione con la quale il coniuge non acquirente non si limita
soltanto ad intervenire alla stipula dell’atto di acquisto di un bene rientrante nell’ambito delle
categorie indicate dall’art. 179 c.c., ma riconosce espressamente l’esistenza dei presupposti di
fatto fissati dalla legge ai fini di tale esclusione, assume il valore di un atto a contenuto
dichiarativo e rappresentativo concernente fatti, che possono definirsi, in senso lato,
contrastanti con l’interesse del coniuge sposato in regime di comunione legale. Ciò in quanto,
il coniuge non acquirente che rende tale dichiarazione ammette espressamente l’esclusione
dell’acquisto dalla generale regola dell’appartenenza alla comunione legale di cui all’art. 177
lett. a), con conseguente contitolarità a favore di una titolarità esclusiva dell’altro coniuge.
Tuttavia, non in tutti i casi previsti dalle lett. c, d e f dell’art. 179 c.c. ricorre l’ulteriore
requisito essenziale proprio della confessione, ossia il fatto che la stessa deve avere ad oggetto
fatti già accaduti e confessati appunto dalla parte.
In realtà, l’unica ipotesi in cui può effettivamente riconoscersi l’avvenuto accadimento di
determinati fatti, tali da potersi ritenere pregressi o per lo meno contestuali rispetto al
momento in cui viene ad essere resa la dichiarazione del coniuge non acquirente, è quella di
cui alla lett. f ossia quella concernente l’acquisto di beni con il prezzo ottenuto dal
trasferimento di altri beni personali di uno dei coniuge o con il loro scambio.
Al contrario, nei due diversi casi previsti alle lettere c) e d) dell’art. 179 c.c. - per le quali,
oltre all’acquisto è, altresì, necessaria l’effettiva destinazione del bene all’uso strettamente
personale del coniuge od all’esercizio della sua professione - occorre effettuare una
distinzione.
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Se la dichiarazione resa dal coniuge non acquirente attesta una situazione di fatto già esistente
(ad es. l’acquisto ricade su un immobile già detenuto in locazione e destinato ad uso personale
per lo svolgimento dell’attività professionale dell’altro coniuge), allora tale dichiarazione
assume natura ricognitiva ed efficacia probatoria di confessione stragiudiziale.
Se, al contrario, non vi è ancora stata alcuna destinazione dell’immobile ad un uso personale
dell’altro, la dichiarazione con la quale il coniuge non acquirente manifesta una condivisione
della volontà dell’altro di imprimere tale destinazione, non ha natura ricognitiva né valore
probatorio di confessione stragiudiziale, posto che, come giustamente rilevato dalle Sezioni
Unite, non è idonea a predicare la verità o falsità di una situazione, come richiesto ex art.
2730 c.c..
In entrambi i casi resta ferma la possibilità, da parte del coniuge non acquirente che ha reso la
dichiarazione, di promuovere in qualsiasi momento un apposito giudizio di accertamento al
fine di dimostrare, accollandosi l’onere della relativa prova, l’inesistenza dei presupposti
previsti dalla legge per l’acquisto personale e l’effettiva appartenenza del bene alla
comunione legale, in quanto trattasi di una dichiarazione ricognitiva o di intenti, priva
comunque di contenuto negoziale. Tuttavia, soltanto quando la dichiarazione del coniuge
non acquirente confermi una situazione di fatto già esistente, sarà preliminarmente necessario
procedere alla revoca della confessione, nei limiti in cui quest’ultima è ammessa dall’art.
2732 c.c. In particolare, la revoca potrà avvenire solo nel caso in cui la dichirazione sia stata
provocata da un errore di fatto, o da violenza.
Lo stesso discorso vale ovviamente con riferimento al caso in cui il coniuge non acquirente
abbia dichiarato che l’acquisto è avvenuto con il prezzo ottenuto dal trasferimento di altri
beni personali dell’altro coniuge o con il loro scambio (art. 179 lett. f c.c.). Anche in questo
caso, al fine di far accertare l’appartenenza alla comunione legale del bene sarà necessario
promuovere preliminarmente la revoca della confessione ex art. 2732 c.c.
Al contrario, nell’ipotesi in cui la suddetta dichiarazione assume il valore di una mera
manifestazione dei comuni intenti dei coniugi circa la destinazione futura del bene, sarà
sempre possibile promuovere un apposito giudizio di accertamento della comunione, nel
quale il giudice sarà chiamato essenzialmente a verificare quale destinazione il bene abbia
successivamente avuto, indipendentemente da ogni indagine in merito alla sincerità degli
intenti manifestati.
4. Dopo aver stabilito il principio generale in base al quale l’inesistenza dei presupposti
di cui all’art. 179 co 2 lett. c, d, ed f c.c. consente sempre l’esperimento di un’azione di
accertamento volta a far dichiarare l’appartenenza del bene alla comunione legale nonostante la dichiarazione contraria resa contestualmente all’atto di acquisto da parte del
coniuge non acquirente e previa revoca ex art. 2732 c.c. dell’eventuale confessione
stragiudiziale, nei limiti e nei casi in cui quest’ultima appare configurabile – resta da
esaminare il problema concernente l'opponibilità o meno ad un terzo acquirente del
sopravvenuto accertamento della comunione legale sul bene precedentemente vendutogli.
Poiché i beni personali di cui all’art. 179 c.c. sono di proprietà individuale ed esclusiva del
solo coniuge acquirente per essi non si applicano le regole concernenti l’amministrazione dei
beni comuni ed il coniuge è libero di alienarli o di donarli ad un terzo o di costituire a favore
di quest’ultimo un qualsiasi diritto reale di godimento.
Nel caso in cui venga, però, accertata successivamente alla disposta alienazione l’effettiva
inesistenza dei presupposti richiesti dalla legge ai fini dell’acquisto a titolo personale ed il
conseguente ed automatico ricadere dello stesso bene nell’ambito della comunione legale ex
art. 177 lett. a c.c., si è, in realtà, in presenza di un’alienazione di un bene rientrante
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nell’ambito della comunione legale effettuata senza il necessario consenso di entrambi i
coniugi.
Sulla base di tali premesse, le Sezioni Unite ritengono che in tal caso debba trovare
applicazione il dettato normativo di cui all’art. 184 co 1 c.c., secondo il quale gli atti compiuti
da uno dei coniugi in regime di comunione legale senza il necessario consenso dell’altro
coniuge e da questo non convalidati sono annullabili nel caso in cui riguardino beni immobili
o beni mobili registrati elencati nell’art. 2683 c.c.
L’annullamento può essere richiesto dal solo coniuge non stipulante entro il breve termine di
prescrizione pari ad un anno dalla conoscenza dell’atto o dalla sua avvenuta trascrizione e,
comunque, mancando la trascrizione o la conoscenza, entro un anno dal giorno dello
scioglimento della comunione.
Stando all’opinione attualmente prevalente in dottrina (G. GABRIELLI, I rapporti
patrimoniali tra i coniugi, Trieste, 1981, 132 ss; MASTROPAOLO E PITTER, Commentario
al diritto italiano della famiglia, op. cit. 205; GALASSO - TAMBURELLO, Regime
patrimoniale della famiglia, in Commentario del cod. civ. Scialoja Branca, Bologna-Roma,
1999, 532; GIUSTI, L’amministrazione dei beni della comunione legale; Milano, 1989, 213
ss) e condivisa dalla giurisprudenza la mancanza del consenso da parte del coniuge non
stipulante non impedisce che il contratto avente ad oggetto un bene immobile della
comunione legale stipulato soltanto dall’altro coniuge abbia, comunque, efficacia, ma tale
mancato consenso si traduce in un vizio del contratto, che è causa di annullamento dello
stesso entro il suddetto termine di prescrizione annuale.
L’art. 184 co 1 introduce, quindi, un meccanismo sanzionatorio che diverge dalla comune
regola dell’inefficacia dell’atto di disposizione a non domino, ed in particolare dell’atto di
disposizione della cosa comune posto in essere da uno soltanto dei comproprietari senza la
partecipazione degli altri. Ciò in quanto, come rilevato più volte dalla stessa giurisprudenza,
la comunione legale non si esaurisce nella mera spettanza, in capo ai coniugi, di beni in
proprietà comune, vale a dire in una mera contitolarità di diritti, poichè a differenza della
comunione ordinaria, i coniugi non sono individualmente titolari di un diritto alla quota, bensì
solidalmente titolari, in quanto tali, di un diritto avente ad oggetto i beni della comunione (ex
art.189, comma 2 c.c.).
Con tale disposizione il legislatore italiano ha inteso contemperare due interessi antitetici,
quello del terzo acquirente e quello del coniuge pretermesso, facendo, altresì, salva la
sicurezza nella circolazione dei beni.
E’, però, controverso se ai fini dell’annullamento dell’atto sia rilevante lo stato di buona o
mala fede del terzo.
Secondo una parte della dottrina (BARBIERA, La comunione legale, in Tratt. dir. priv.
diretto da RESCIGNO, III, Torino 1982, 464; FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, Milano
1984,1077; GIUSTI, L’amministrazione dei beni della comunione legale, op. cit., 224) il
coniuge può chiedere l’annullamento a prescindere dallo stato soggettivo del terzo contraente.
Al terzo in buona fede, pur non facendo salvo il proprio acquisto, sarebbe consentito agire ai
sensi dell’art. 1338 c.c. al fine di ottenere una tutela meramente risarcitoria.
Altri (SANTUOSOSSO, Il regime patrimoniale della famiglia, in Commentario del codice
civile, Torino 198, 267 ss) ritengono che la certezza dei traffici giuridici e soprattuto la tutela
del legittimo affidamento del terzo contraente esigono che l’annullamento dell’atto possa
essere chiesto ed ottenuto solo se il terzo era in mala fede al momento dell’acquisto.
A tal riguardo le Sezioni Unite, sposano quest’ultima interpretazione, in base alla
condivisibile argomentazione secondo la quale, essendo l'azione proposta a norma dell'art.
184 co 1 c.c. un’azione di annullamento, seppur soggetta ad un termine di prescrizione più
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breve, ad essa è applicabile la disciplina generale di cui agli artt. 1441-1446 c.c. (fatta
eccezione, appunto, per l’art. 1442 c.c.).
In particolare, trova comunque applicazione il dettato normativo di cui all’art. 1445 c.c.
secondo il quale l’annullamento dell’atto non pregiudica i diritti acquistati a titolo oneroso dai
terzi di buona fede, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di annullamento.
In tal senso si era, tra l’altro, già espressa in precedenza anche la Corte Costituzionale (Corte
Cost. 17 Marzo 1988 n. 311 in Giust. civ. 1988, I, 1388, 2482; in Dir. famiglia 1988, 715;
in Giur. cost. 1988, I, 1299 e in Nuova giur. civ. comm. 1988, I, 561), che aveva
espressamente definito l’azione “prevista dall'art. 184 c.c” come “ un'azione di
annullamento”, aggiungendo che, per tutto quanto non diversamente stabilito dalla norma
speciale che la prevede, deve ritenersi applicabile la disciplina generale dell'azione di
annullamento dei contratti.
Stando, quindi a tale argomentazione, si ritiene corretta la conclusione in base alla quale salvi gli effetti della trascrizione della domanda di annullamento - il sopravvenuto
accertamento della comunione legale non è opponibile al terzo acquirente di buona fede in
quanto, secondo la regola generale di cui all’art. 1445 c.c., l’annullamento che, non dipende
da incapacità legale, non pregiudica i diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona fede.
Arianna Scacchi
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