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ISCHEMIA MIOCARDICA E INFARTO PERIOPERATORIO
Qual è l'incidenza e l'epidemiologia delle complicanze
cardiovascolari perioperatorie?
Le malattie cardiovascolari continuano ad essere la causa principale di morte
negli Stati Uniti. Tuttavia, recenti progressi hanno ridotto la percentuale di
morte legata a cardiopatie, permettendo ad alcuni pazienti di vivere più a
lungo rispetto al passato. Come conseguenza un maggior numero di pazienti
con anamnesi positiva per coronaropatia (CAD) si sottopongono ad interventi
di chirurgia non cardiaca. Questi pazienti presentano un rischio aumentato per
complicanze miocardiche perioperatorie. In effetti, dei 27 milioni di pazienti che
si pensa siano sottoposti annualmente a chirurgia non cardiaca negli Stati
Uniti, 1 milione va incontro a complicanze cardiache perioperatorie, che vanno
dall'insufficienza cardiaca congestizia e dall'infarto miocardico alla morte con
un costo stimato di 20 bilioni di dollari. Questi rischi sono molto maggiori nei
pazienti sottoposti ad interventi di chirurgia vascolare. I soggetti che sono
colpiti da infarto miocardico (IMA) o morte nel postoperatorio, comportano un
costo aggiuntivo cha va da 15000 a 20000 $ in conseguenza di un
prolungamento dell'ospedalizzazione rispetto ai soggetti simili che non vanno
incontro a IMA. Inoltre questi soggetti presentano un rischio aumentato per
complicanze non cardiache.
La riduzione delle complicanze cardiache nel perioperatorio può potenzialmente
ridurre la morbilità e la mortalità media, la degenza media e i costi. il tentativo
di migliorare l'outcome perioperatorio dei soggetti a rischio per coronaropatie
storicamente è stato focalizzato su tre punti: 1. identificazione preoperatoria
dei soggetti ad alto rischio che possono trarre beneficio da una
rivascolarizzazione miocardica; 2. migliorare la rilevazione di un'ischemia
miocardica perioperatoria per permettere un intervento terapeutico
tempestivo; 3. utilizzo profilattico di tecniche anestesiologiche e antiischemiche
per ridurre l'incidenza e la gravità di eventi ischemici miocardici postoperatori.
Recentemente c'è stato un grande dibattito non solo sul tipo di valutazione
preoperatoria necessaria, ma anche sul tipo di trattamento routinario
preoperatorio nella popolazione di soggetti a rischio per complicanze cardiache
perioperatorie.
Quali sono i fattori predittivi preoperatori per complicanze
cardiovascolari nel perioperatorio?
I fattori di rischio per complicanze vascolari perioperatorie possono
comprendere la diagnosi di coronaropatia, l'insufficienza cardiaca congestizia, il
diabete mellito in trattamento con insulina, le vasculopatie periferiche, l'età
avanzata, la forte limitazione a tollerare lo sforzo, l'insufficienza renale cronica,
l'ipertensione non controllata, l'ipertrofia ventricolare sinistra (tabella 1).
Sebbene alcuni di questi fattori si associano con la coronaropatia, anche i
pazienti con anamnesi negativa per coronaropatia sono a rischio di complicanze
cardiache perioperatorie. Pertanto, i soggetti con i suddetti fattori di rischio,
anche in assenza di coronaropatie documentata sono lo stesso a rischio
aumentato. Una cardiopatia scompensata documentata, come l'aritmia,
l'angina instabile o l'insufficienza cardiaca congestizia determina nel paziente
un rischio elevato per complicanze perioperatorie. Diversi indici multifattoriali
come l'indice di Goldman sono stati proposti
Tabella 1 Fattori di rischio per complicanze
per la realizzazione delle classi di
cardiache perioperatorie
rischio. L'AHA (American Heart Association) e
Coronaropatia
Insufficienza cardiaca congestizia
l'ACG (American College of Cardiology)
Diabete mellito
hanno pubblicato e rivisto diverse linee guida
Insufficienza renale
Età avanzata
per la valutazione cardiaca preoperatoria
Chirurgia maggiore
sulla base delle patologie preesistenti e il tipo
Vasculopatia periferica
Ipertensione
d'intervento
chirurgico.
Indicatori
Ridotta tolleranza allo sforzo
ecocardiografici
a
riposo
(come
la
disfunzione
ipercolesterolemia
sistolica) possono peraltro avere un valore
predittivo (oltre ai fattori di rischio clinici) per IMA perioperatorio nei pazienti
ad alto rischio.
Altri studi recenti, tuttavia, hanno posto in dubbio i vantaggi di un trattamento
preoperatorio aggressivo (prove da sforzo) e la rivascolarizzazione coronarica
prima dell'intervento.
Sebbene gli accertamenti preoperatori non sono tutti sotto il controllo
dell'anestesista rianimatore, ed in condizioni d'emergenza questo può non
essere possibile, esistono diversi fattori preoperatori associati con complicanze
cardiache che sono sotto il controllo dell'anestesista: tachicardia, anemia,
ipotensione, brivido, ipossia e dolore. Questi fattori hanno tutti un effetto
negativo nel delicato bilancio tra apporto e necessità di ossigeno al miocardio,
per cui possono essere scatenate complicanze cardiache perioperatorie.
Qual è in genere la prognosi nei pazienti chirurgici che vanno incontro
ad ischemia miocardica?
L'ischemia miocardica postoperatoria determina un rischio aumentato di
morbilità e mortalità nei pazienti chirurgici. inoltre la diagnosi può essere
problematica perché spesso l'angina può non essere presente (ischemia
silente). In effetti, è stato rilevato che più del 50% degli IMA che si
manifestano nel perioperatorio possono non essere rilevati se il medico fa
riferimento solo ai sintomi. L'ischemia miocardica postoperatoria aumenta di
circa nove volte il rischio di una complicanza cardiaca durante il ricovero.
Landesberg con altri pone in rilievo che i pazienti con ischemia che dura per
più di 2 ore hanno un rischio maggiore del 30% di una complicanza cardiaca.
Essi rilevano che l'IMA postoperatorio è preceduto per un tempo
maggiore di 24 ore da intensa depressione del tratto ST. I pazienti
con documentata grave ischemia miocardica postoperatoria o con un
aumento della troponina dopo l'intervento devono essere indirizzati ad
un cardiologo in quanto questi pazienti sono ad alto rischio per una
prognosi infausta cardiologica a breve e a lungo termine. L'infarto
miocardico perioperatorio è spesso associato con una mortalità durante il
ricovero maggiore del 50% e quelli che sopravvivono evidenziano una prognosi
negativa dopo le dimissioni.
Come si può riconoscere l'ischemia miocardica e l'infarto
perioperatorio?
Vi sono diversi metodi che possono essere usati per evidenziare l'ischemia
miocardica perioperatoria.
Elettrocardiogramma
L'ischemia
miocardica
è
attualmente
più
frequente
nell'immediato
postoperatorio, di solito il giorno dell'intervento o il giorno dopo. La natura
“silenziosa” dell'ischemia postoperatoria suggerisce che un monitoraggio a 12
derivazioni dell'ECG può essere molto utile.
Questa strategia potrebbe evidenziare un'ischemia grave e prolungata come
prodromo dell'infarto, e pertanto l'attenzione deve essere focalizzata nel
periodo in cui è molto probabile che compaia un'IMA. Charlson con altri ha
rilevato che eseguire un ECG a dodici derivazioni nel giorno
dell'intervento e nei 2 giorni successivi è stata una strategia efficace
per mettere in evidenza un'ischemia perioperatoria e l'infarto.
Sfortunatamente, circa un quarto dei pazienti di chirurgia vascolare a maggior
rischio
di
complicanze
perioperatorie
possono
avere
alterazioni
elettrocardiografiche di base (blocco di branca sinistra, pace-maker, effetto
della
digitale, ipertrofia ventricolare sinistra) che interferiscono con la
rilevazione elettrocardiografica dell'ischemia miocardica.
Altre modalità
Alla luce delle limitazioni del monitoraggio elettrocardiografico sono state
proposte altre modalità per evidenziare l'ischemia miocardica potenzialmente
utili nel periodo perioperatorio. Queste tecniche prevedono l'uso della misura
della pressione di incuneamento polmonare per evidenziare l'onda V e il
monitoraggio con l'ecografia transesofagea che rileva le alterazioni regionali
della motilità della parete. Queste tecniche, tuttavia, non sono esenti da
limitazioni; per esempio il valore predittivo del tracciato della pressione
d’incuneamento capillare polmonare per il
monitoraggio dell'ischemia è
piuttosto scarso.
Ecocardiografia
transesofagea.
Sebbene l'eco transesofageo ha una
straordinaria sensibilità nel mettere in evidenza le alterazioni della motilità
regionale della parete associate all'ischemia (che si manifesta prima di
modificazioni dell'ECG), non è uno strumento pratico per il monitoraggio
continuo. L'uso corretto dell'eco transesofageo come monitor richiede una
grande preparazione ed esperienza che non sono patrimonio di tutti gli
anestesisti rianimatori.
Livelli di troponina. Rispetto ai valori di laboratorio, i livelli di troponina
tendono ad essere più specifici nell'evidenziare l'IMA perioperatorio rispetto
alla determinazione dell'isoenzima CK-MB; l'aumentata concentrazione
della troponina si correla con una ridotta sopravvivenza dopo chirurgia
vascolare. Un recente studio che sosteneva la sorveglianza perioperatoria dei
livelli di troponina ha evidenziato che i pazienti sottoposti a chirurgia dell'aorta
addominale, che presentavano livelli alterati ma bassi di troponina, avevano
un rischio per IMA e per mortalità aumentata. Nei pazienti sottoposti ad
interventi di cardiochirurgia i livelli aumentati di troponina possono non avere
un valore diagnostico nell'immediato postoperatorio come effetto del tipo di
intervento.
Quali sono i meccanismi dell'ischemia miocardica perioperatoria?
I sintomi d’ischemia cronica stabile presumibilmente compaiono con un
aumento della richiesta d’ossigeno nel miocardio in presenza di placche
coronariche fisse, che riducono l'arrivo dell'ossigeno. Inoltre le sindromi
instabili sono il risultato di disfunzioni e infiammazione dell'endotelio, rottura di
placche con trombosi locale, e reattività vasale che produce riduzione
intermittente critica dell'apporto di ossigeno da parte delle coronarie. I pazienti
con placche calcifiche evidenziabili con TAC presentano una maggiore
frequenza di IMA dopo chirurgia vascolare.
La funzione endoteliale è alterata in condizioni di coronaropatia, ipertensione,
ipercolesterolemia, diabete e abuso di tabacco, determinando un'esaltata
vasocostrizione. Una funzione endoteliale ridotta si associa con un esito
scadente dopo chirurgia vascolare. Il trattamento usato per “riparare”
l'endotelio
con
farmaci
ipocolesterolemizzanti
come
gli
inibitori
dell'idrossimetilglutaril-coenzimaA reduttasi o statine può migliorare l'esito
perioperatorio, soprattutto se iniziato alcune settimane prima della chirurgia.
Livello del segmento ST
Nei soggetti con ipertrofia ventricolare, ridotte riserve coronariche in
vasodilatazione determinano una ridotta perfusione subendocardica. L'ischemia
nell'immediato periodo postoperatorio dopo chirurgia non cardiaca si correla
tipicamente con la depressione del segmento ST piuttosto che con un
sopraslivellamento dell'ST; la depressione del tratto ST normalmente può
precedere le complicanze cardiache postoperatorie. L'IMA non determina la
comparsa di un'onda Q. La comparsa di un'IMA con soprelevazione del tratto
ST si accompagna ad una maggiore frequenza di mortalità.
Tachicardia e ipotensione
Il postoperatorio è caratterizzato da stress adrenergico che può determinare
vasocostrizione coronarica e facilitare l'aggregazione piastrinica inducendo
l'ischemia miocardica nei soggetti con coronaropatia. La tachicardia aumenta le
richieste d'ossigeno e riduce il tempo diastolico e la perfusione coronarica nel
ventricolo sinistro. La tachicardia può paradossalmente ridurre il diametro
dell'arteria coronarica. L'ipertensione e la tachicardia postoperatoria si
correlano con un'aumentata possibilità di morte e di ricovero in Terapia
Intensiva non programmato.
Stress chirurgico
La chirurgia può determinare modificazioni significative nel sangue. Lo stress
chirurgico può indurre una risposta ipercoagulativa come risultato di un
aumento del numero e della funzione piastrinica, ridotta fibrinolisi, riduzione
dei fattori anticoagulanti (compresa la proteina C e l'antitrombina III) ed un
aumento dei fattori procoagulanti (compreso il fibrinogeno, il fattore VIII e il
fattore von Willebrand). Questi fattori possono contribuire ad aumentare il
rischio di trombosi coronarica o rottura di placche coronariche preesistenti nel
postoperatorio; tuttavia la loro importanza relativa come fattori predittivi di
complicanze cardiache postoperatorie rimane oggetto di discussione.
Una profilassi farmacologica è efficace?
i cardiologi e i medici di base utilizzano un trattamento farmacologico a lungo
termine per ridurre il rischio in pazienti con coronaropatia. Questa strategia
comprende la riduzione del colesterolo con le statine, che stabilizzano le
placche coronariche; terapia antiipertensiva con inibitori dell'enzima
convertitore dell’angiotensina, che peraltro riduce il tono simpatico e modifica i
depositi di collagene producendo capsule fibrose delle placche con minore
possibilità di rottura; beta bloccanti per ridurre il lavoro miocardico, e rigoroso
controllo del glucosio nei diabetici. Sebbene questo trattamento migliora i
sintomi, la qualità della vita e la speranza di vita, è necessario che
l'anestesista rianimatore si consulti con il chirurgo e con il medico di
base in modo che nel preoperatorio sia mantenuta una terapia medica
adeguata. Alcuni di questi trattamenti hanno evidenziato vantaggi sia nel
lungo periodo sia nel perioperatorio.
Un risalto maggiore è stato dato al trattamento aggressivo dei pazienti
chirurgici nel periodo perioperatorio. Esistono diverse classi di farmaci che
permettono al paziente con coronaropatia di usufruire, non solo di una
maggiore speranza di vita, ma anche di una migliore qualità della vita. Questi
farmaci possono giocare un doppio ruolo nella profilassi contro l'ischemia
perioperatoria ma anche nel trattamento. E' indispensabile che l'anestesista
decida quali farmaci il paziente deve assumere fuori dall'ospedale, devono
essere mantenuti nel perioperatorio e quali altri devono essere iniziati prima
dell'anestesia.
Qual'è il ruolo dei ß-bloccanti e di altri farmaci antianginosi nel ridurre
le complicanze cardiache?
β -bloccanti
I beta-bloccanti con la loro capacità di sopprimere la tachicardia perioperatoria
sembrano molto efficaci clinicamente ed economicamente nella prevenzione
l'ischemia miocardica perioperatoria. Sono ben tollerati da molti pazienti
chirurgici e possono ridurre le complicanze nel lungo periodo.
I β-bloccanti sono stati approvati per il trattamento dell'ipertensione della
tachicardia sopraventricolare, aritmie ventricolari, angina e IMA. Sono i
farmaci di riferimento per la terapia acuta e cronica dopo IMA e sono
raccomandati dalla maggior parte delle Società di Cardiologia in quanto sono
in grado di ridurre il rischio di reinfarto.
L'effetto antiipertensivo dei β-bloccanti può essere utile durante gli episodi di
attivazione adrenergica che si hanno durante l'intubazione endotracheale,
l'estubazione, e la sternotomia riducendo la tachicardia e l'ipertensione durante
questi momenti. Questo ultimo è probabilmente il meccanismo dominante del
loro effetto antiischemico. Numerosi studi hanno dimostrato la capacità dei βbloccanti nel migliorare l'esito cardiaco perioperatorio, sebbene studi recenti
hanno posto in dubbio la possibilità di estendere la loro efficacia in alcuni tipi di
pazienti, in particolare nei diabetici. Una metanalisi recente dimostra che i
β-bloccanti nel perioperatorio riducono l'ischemia miocardica e
l'infarto come anche la mortalità cardiaca a breve e lungo termine. Un
altro studio retrospettivo che prende in considerazione un ampio gruppo di
pazienti, mette in evidenza che i β-bloccanti perioperatori riducono il rischio di
morte dei pazienti ad alto rischio durante il ricovero, ma non in quelli a basso
rischio, sottoposti a chirurgia non-cardiaca maggiore. I vantaggi nell'outcome
dei β-bloccanti perioperatori nei pazienti ad alto rischio può persistere per più
di 2 anni dopo chirurgia vascolare.
Esistono tuttavia numerose limitazioni da considerare quando si usano i βbloccanti nel perioperatorio. I farmaci selettivi β1 causano meno broncospasmo
anche nei soggetti con asma. Tuttavia l'asma e la malattia polmonare cronica
ostruttiva sono controindicazioni relative all'uso dei β-bloccanti. Inoltre esiste
una piccola parte di pazienti affetti da grave coronaropatia (prova da
sforzo fortemente positiva) nei quali i β-bloccanti e la terapia medica
può non essere in grado di ridurre le complicanze cardiache. Questi
pazienti possono essere considerati idonei alla rivascolarizzazione
miocardica. Sebbene la validità di questi dati relativi all'uso perioperatorio di
β-bloccanti è stata recentemente posta in dubbio, i β-bloccanti sono i farmaci
di riferimento per la maggior parte dei pazienti ad alto rischio.
Un ampio studio, multicentrico, randomizzato, in doppio cieco, con
controllo con placebo, prospettico è in corso alla scopo di fornire
maggiori informazioni sui vantaggi dell'uso perioperatorio dei βbloccanti. Dato che la maggior parte dell'evidenza è favorevole e il
rischio è piccolo, l'uso di β-bloccanti nel perioperatorio è fortemente
raccomandato.
Altri farmaci antianginosi
Altri farmaci antianginosi sono meno promettenti. Due studi, uno in chirurgia
non cardiaca e uno in cardiochirurgia fast-track, evidenziano che la
nitroglicerina endovenosa somministrata profilatticamente non è in grado di
ridurre la frequenza dell'ischemia miocardica perioperatoria o dell'infarto.
Sebbene la riduzione del precarico e del postcarico aiuta a ridurre il lavoro
miocardico, tuttavia l'uso della nitroglicerina si accompagna ad una tachicardia
compensatoria. Si ritiene che probabilmente questa tachicardia è il motivo per
cui la nitroglicerina non si è dimostrata utile, in quanto anche piccoli aumenti
della frequenza cardiaca si accompagnano ad un ulteriore aumento nella
richiesta di ossigeno del miocardio.
Esiste un ruolo dei calcio-antagonisti nel perioperatorio?
I calcio-antagonisti sono spesso usati in pazienti con ipertensione o aritmie,
tuttavia il loro uso nel perioperatorio resta controverso. Uno studio iniziale
della metà del 1990 evidenzia una mortalità aumentata nei pazienti con
coronaropatia che usavano nifedipina. Ciò ha portato a quello che è stato
considerato un "preconcetto nord americano" contro l'uso diffuso dei calcioantagonisti. Due recenti metanalisi nei soggetti sottoposti a chirurgia non
cardiaca, pubblicati nello stesso numero della stessa rivista, giungono a
conclusioni diverse sull'uso perioperatorio dei calcio-antagonisti. Sebbene
entrambi le meta-analisi comprendono l'analisi retrospettiva della letteratura
medica, essi considerano un diverso numero di studi e di pazienti. Lo studio più
ampio dimostra un possibile vantaggio nella riduzione dell'ischemia miocardica,
insufficienza cardiaca congestizia, e morte, mentre l'altro non dimostra una
vantaggio certo nell'uso dei calcio-antagonisti o dei nitrati. Un editoriale
d’accompagnamento consiglia l'uso perioperatorio dei β-bloccanti come
strumento per ridurre il rischio ma pone in dubbio la forza dell'evidenza
riguardo l'uso di calcio antagonisti. Gli autori di entrambi le metanalisi e
dell'editoriale richiamano la necessità di effettuare altri studi randomizzati,
controllati per chiarire meglio il problema. Attualmente il supporto per
sostenere l'uso dei calcio-antagonisti non è così forte come per i β-bloccanti nel
ridurre l'ischemia nei soggetti sottoposti a chirurgia non cardiaca.
L'aspirina è indicata per migliorare l'ischemia miocardica e l'infarto?
Tra i farmaci antiaggreganti, l'aspirina è il farmaco più convincente per ciò che
riguarda la sicurezza e l'efficacia nel migliorare l'esito nell'ischemia miocardica
e l'infarto. L'effetto antiaggregante dell'aspirina è dovuto all'acetilazione
irreversibile della COX1 (cicloossigenasi 1) e conseguente inibizione della
sintesi del trombossano. Farmaci più recenti come la ticlopidina e il clopidogrel
(inibiscono l'aggregazione piastrinica indotta dall'ADP) o l'inibitore dellla
glicoproteina Iia-IIIB hanno evidenziato di ridurre l'IMA acuto e sono
raccomandati dall'AHA. Tuttavia, questi farmaci antiaggreganti
si
accompagnano ad un rischio aumentato di sanguinamento intraoperatorio e il
loro uso preclude l'uso di blocchi centrali. Non sono attualmente disponibili
studi relativi all'uso perioperatorio di questi ultimi antiaggreganti in relazione
all'ischemia perioperatoria.
Esistono altre strategie farmacologiche che possono essere usate per
migliorare l'outcome cardiaco?
Le statine
Le statine riducono il livello del colesterolo nei pazienti con
ipercolesterolemia e riducono l’incidenza del reinfarto nei soggetti
coronaropatici; nelle linee guida di pratica clinica le statine sono
considerate i farmaci di prima scelta nei soggetti con anamnesi di
coronaropatia o con IMA.
Le statine riducono la progressione dell’aterosclerosi nei soggetti don CAD ed
hanno proprietà di stabilizzazione delle placche riducendo l’incidenza di
complicanze cardiache postoperatorie. E’ verosimile che la stabilizzazione della
placca è la modalità dell’effetto positivo delle statine sullo stress perioperatorio
che può destabilizzare le placche coronariche. Esse possono inoltre ridurre il
deposito di calcio sulle arterie coronarie, un fattore predittivo di complicanze
cardiache nella chirurgia coronaria. Numerosi ampi studi osservazionali hanno
dimostrato che l’uso delle statine nel perioperatorio determina una minore
morbilità e mortalità. Uno studio prospettico più recente dimostra che il
trattamento di breve periodo con atorvastatina (torvast, totalip) riduce in modo
significativo l’incidenza di complicanze cardiache maggiori dopo chirurgia
vascolare. Del tutto recentemente un articolo di review suggerisce diverse
raccomandazione nell’uso delle statine nel perioperatorio, compreso il tempo di
somministrazione e l’obiettivo terapeutico. I pazienti a cui si prescrivono
statine nel preoperatorio devono continuare nel postoperatorio. I pazienti dopo
la rivascolarizzazione devono continuare a prendere le statine dopo l’intervento
se non ne facevano uso in precedenza.
Anestesia epidurale
L’anestesia epidurale riduce il precarico e il postcarico e attenua le risposte
adrenergiche e procoagulanti postoperatorie. L’epidurale toracica produce
vasodilatazione coronaria. Questi effetti suggeriscono che l’anestesia epidurale
può giocare un ruolo nel ridurre l’ischemia miocardia perioperatoria. Tuttavia la
dimostrazione che l’anestesia epidurale gioca un ruolo positivo nell’outcome
cardiaco è molto limitata e controversa nei diversi studi. Sebbene uno studio
che esamina le complicanza cardiaca nei soggetti anziani sottoposti a chirurgia
ortopedica evidenzia una riduzione nella morbilità cardiaca con tecniche
regionali, un altro studio confrontando l’anestesia generale con le tecniche di
anestesia spinale e regionale nei soggetti sottoposti a chirurgia vascolare non
rilevano differenze nella morbilità a mortalità cardiaca.
Dati relativi alla depressione respiratoria, ematomi spinali, e la necessità di
monitoraggio hanno limitato l’uso degli oppioidi per via epidurale. Il rischio
relativo di ematomi spinali nei pazienti sottoposti a chirurgia vascolare o
cardiaca, nei quali si fa uso di grandi quantità di eparina, può essere maggiore
rispetto ad altri pazienti. Sebbene questa complicanza continua ad essere rara
può essere devastante per il paziente e la sua famiglia. Il rischio di ematomi
non rilevati nel postoperatorio nei pazienti sottoposti ad intubazione prolungata
e/o sedazione non è noto.
Pertanto sebbene l’anestesia epidurale possa migliorare l’esito di altri sistemi
d’organo, la sua capacità di ridurre l’incidenza dell’IMA rimane in discussione.
Due metanalisi recenti suggeriscono che l’anestesia regionale può determinare
una riduzione di 1/3 degli IMA perioperatori, soprattutto se si usa l’epidurale
toracica. L’uso dell’anestesia regionale, come la spinale o l’epidurale deve
essere presa in considerazione nei singoli casi. Sebbene vi possono essere dei
vantaggi, i rischi sono ben reali. La conferma che le tecniche d’anestesia
possano modificare l’outcome è da confermare. Gli anestesisti devono
discutere le scelte con i pazienti e i loro familiari e scegliere la tecnica su
misura che assicuri la massima sicurezza, comfort e outcome chirurgico.
Anestetici per inalazione
Sebbene alcuni approcci per ridurre l’ischemia miocardica perioperatoria sono
scelti per modulare la curva disponibilità/richiesta d’ossigeno (con i ß-bloccanti
per esempio), gli anestetici volatili possono proteggere il miocardio
dall’ischemia e dai danni da riperfusione e ridurre le dimensioni dell’infarto del
miocardio. Il meccanismo d’azione è chiamato precondizionamento. Il
precondizionamento ischemico in origine faceva riferimento
al vantaggio
protettivo di brevi periodi d’ischemia prima di più lunghi, più dannosi periodi
d’ischemia.
E’ stato coniato il termine precondizionamento indotto dall’anestetico quando
alcuni studi hanno dimostrato che la somministrazione di anestetici volatili
prima di un periodo d’ischemia miocardia determinano un grado di protezione
simile a quello osservato con il precondizionamento ischemico.
Gli anestetici volatili possono peraltro essere cardioprotettivi se somministrati
durante la riperfusione coronaria. Il loro meccanismo d’azione è complesso.
Modificano il bilancio tra disponibilità e domanda d’ossigeno nel miocardio
mediante dilatazione delle arterie coronarie, conservando la funzione cellulare
energia-dipendente ed attenuando la risposta dei radicarli reattivi
dell’ossigeno, che sono coinvolti nel danno ischemico del miocardio. Uno studio
che confronta gli anestetici volatili con il propofol nei soggetti sottoposti a
cardiochirurgia usando un by-pass cardiopolmonare, evidenziano che i pazienti
che ricevono anestetici volatili presentano funzionalità cardiaca migliore,
necessitano di minori supporti con isotropi, e valori di troponina postoperatoria
minori. Sebbene molti di questi dati provengono da studi animali, sono difficili
da riprodurre in modelli umani, essendo pressoché impossibile riprodurre
nell’uomo un modello d’ischemia. La capacità precondizionante degli anestetici
volatili ha indotto gli autori a suggerire che possono essere previsti nelle
tecniche d’anestesia generale nei pazienti con coronaropatia nota o presunta.
Si deve notare che, tuttavia, numerosi studi provvisti di scarsa potenza nei
confronti degli anestetici volatili non sono stati in grado d’evidenziare un
vantaggio nell’outcome con l’uso degli anestetici volatili.
Antiinfiammatori non steroidei (FANS)
I FANS possono essere particolarmente utili nei pazienti chirurgici con CAD per
il loro effetto analgesico ed antiaggregante piastrinico; tuttavia non sono
disponibili dati convincenti. Il Ketorolac può ridurre la risposta allo stress
chirurgico senza aumentare i tempi chirurgici per sanguinamento o
determinare insufficienza renale. Un studio randomizzato dimostra che
l’aggiunta di ketorolac alla morfina nell’analgesia controllata dal paziente può
ridurre la durata e la gravità dell’ischemia miocardia dopo artroprotesi totale
d’anca. Non è chiaro se si tratta di un miglioramento dell’analgesia o
dell’effetto antiaggregante piastrinico. I dati relativi all’aumento dell’emorragia
postoperatoria rende l’uso dei FANS nei pazienti chirurgici controverso. L’ultima
generazione d’inibitori della cicloossigenasi è stata in origine presentata come
una potenza analgesica buona se non superiore senza il possibile effetto
negativo del sanguinamento gastrointestinale. Tuttavia come è noto due dei
farmaci più importanti di questa categoria il valdecoxib e il rofecoxib sono stati
sospesi dal commercio in seguito a possibili complicanze per morbilità e
mortalità cardiaca. Sono stati programmati ampi studi con il celecoxib per
comprendere i vantaggi e la sicurezza. I risultati iniziali con valdecoxib e il suo
profarmaco endovenoso parecoxib in pazienti cardiochirurgici per l’analgesia
postoperatoria ha evidenziato un peggioramento dell’outcome. In uno studio in
doppio cieco randomizzato di 1600 pazienti sono stati assegnati ad uno dei tre
gruppi, placebo, placebo più valdecoxib, o parecoxib più valdecoxib. Rispetto al
gruppo placebo, entrambi i gruppi di pazienti che ricevono l’inibitore delle
cicloossigenasi presentano un rischio significativamente maggiore di effetti
secondari. I soggetti che hanno ricevuto la doppia terapia hanno presentato un
rischio significativamente maggiore di complicanze cardiovascolari compreso
IMA, arresto cardiaco, ictus ed embolia polmonare. Gli autori di questo studio
consigliano di somministrare gli inibitori delle cicloossigenasi 2 per i pazienti
sottoposti a chirurgia cardiaca. Non è chiaro se questi risultati possono essere
validi per la chirurgia non cardiaca.
2-agonisti
I recettori 2 adrenergici agiscono come siti pregiunzionali per mediare una
riduzione nella liberazione di noradrenalina dalle terminazioni presinaptiche, in
tal modo riduce la trasmissione noradrenergica del sistema nervoso centrale
producendo sedazione, ansiolisi e analgesia.
Clonidina. La premedicazione con clonidina riduce l’ipertensione, la tachicardia
e i livelli di noradrenalina nei pazienti sottoposti a chirurgia. La clonidina inoltre
blocca il normale aumento postoperatorio di fibrinogeno e antagonizza
l’aggregazione piastrinica indotta dall’epinefrina. Inoltre ha dimostrato di
ridurre l’ischemia miocardia intraoperatoria. La clonidina inoltre può migliorare
la sopravvivenza a due anni.
Dexmedetomidina e mivazerol. Gli agonisti 2 più specifici, Dexmedetomidina
e mivazerol, possono ridurre l’ischemia miocardia postoperatoria, anche se non
è presente una chiara evidenza di questo. Una metanalisi che ha valutato il
ruolo di tutti i più comuni 2 agonisti suggerisce che sono in grado di ridurre la
mortalità e l’IMA dopo chirurgia vascolare oltre che a ridurre l’ischemia nei
pazienti di chirurgia cardiaca. Sebbene la maggior parte dei dati derivino da un
ampio studio, e molti dati interessano la clonidina, i risultati per giustificare
l’uso del dexmedetomidina sono positivi ma siamo in attesa di ampi studi
prospettici. Pertanto, l’uso di 2 agonisti può rilevarsi in grado di ricoprire un
ruolo nella profilassi dell’ischemia perioperatoria.
Trattamento della glicemia
L’iperglicemia sembra che alteri il meccanismo di precondizionamento e si
correla con un rischio aumentato di morbilità e mortalità nei pazienti chirurgici
in terapia intensiva. L’alterazione alla sensibilità dell’insulina è comune nei
pazienti con nota o sospetta coronaropatia e si accompagna con una
disfunzione endoteliale. Sebbene i dati perioperatori non siano conclusivi, dati
recenti dimostrano che livelli perioperatori più bassi di glucosio determinano un
migliore outcome. E’ possibile che uno stretto controllo dei livelli di glucosio
perioperatorio possa in futuro avere una maggiore importanza.
Trasfusioni
L’anemia si associa nel postoperatorio ad un’aumentata frequenza d’ischemia
miocardia. In quale modo una trasfusione con livelli d’emoglobina maggiori
riduce questo rischio non è chiaro. Nei soggetti ad alto rischio e in quelli in cui
è presente un’ischemia miocardia, ci sono maggiori probabilità di trasfondere
globuli rossi concentrati per mantenere un ematocrito vicino al 30%.
Recentemente, si è molto discusso sul rapporto rischi/benefici di una terapia
trasfusionale aggressiva con molti esperti che chiedono di utilizzare dei precisi
parametri per eseguire la trasfusione evidenziando che sono necessari ulteriori
studi randomizzati per evidenziare possibili vantaggi.
Regolazione della temperatura
Anche l’ipotermia può essere causa d’ischemia miocardica. E’ indispensabile un
riscaldamento aggressivo ed evitare la dispersione termica durante e dopo
l’intervento nei soggetti ad alto rischio in quanto dati recenti indicano che la
morbilità e mortalità cardiaca si riduce quando i pazienti sono normotermici.
Inoltre, il brivido nel postoperatorio si associa ad intenso aumento del consumo
d’ossigeno, probabilmente ponendo i pazienti in condizioni di maggiore rischio.
Come deve essere trattato un paziente con IMA acuto
perioperatorio?
Un cardiologo deve visitare il paziente prima possibile dopo un infarto.
L’assistenza acuta per IMA comprende una rapida riperfusione (con
angioplastica/stent o bypass coronarici, in quanto la trombolisi è controindicata
dopo l’intervento), aspirina e -bloccanti nei pazienti che possono tollerarli,
evitare
i
calcio-antagonisti
e
gli
inbitori
dell’enzima
convertitore
dell’angiotensina nei soggetti con scarsa funzione ventricolare sinistra. Non è
noto se tutte queste raccomandazioni risultino utili nel perioperatorio. E’
necessario fare alcune considerazioni in presenza di IMA, in quanto il
trattamento del giorno dell’intervento è diverso dal quello del quarto o quinto
giorno postoperatorio. Poiché molti dei problemi di sanguinamento chirurgico
possono venir meno man mano che ci si allontana dalla data dell’intervento, la
trombolisi può essere sempre più giustificabile. Nei pazienti con IMA l’uso di
una pompa a palloncino intraaortica può migliorare il flusso ematico coronarico
e ridurre il lavoro cardiaco.
Come una rivascolarizzazione miocardica precedente
influenza l’esito?
Bypass coronarico
Sebbene un numero aumentato di pazienti con CAD si sottopone ad intervento
percutaneo, i vantaggi nell’outcome della rivascolarizzazione chirurgica delle
coronarie sono ben chiari. Non di meno, il paziente dopo rivascolarizzazione
coronarica chirurgica è a rischio di complicanze miocardiche, e pertanto
nell’immediato periodo postoperatorio sono necessari interventi medici per
ridurre il rischio. L’aspirina e un farmaco anticolesterolico, come le statine sono
raccomandati come farmaci di prima classe dalle linee guida dell’American
College of Cardiology, dall’American Heart Association nei pazienti sottoposti a
bypass coronarico, dove il farmaco anticolesterolemico previene la
progressione dell’arteriosclerosi sull’arteria coronaria nativa e quella
trapiantata come anche successivi complicanze cardiache.
Inibitore dell’enzima convertitore dell’angiotensina.
Gli inibitori del convertitore dell’enzima angiotensina sono attualmente utilizzati
di routine nei soggetti con insufficienza cardiaca congestizia in quanto
aumentano la speranza di vita. Tuttavia essi interferiscono con gli anestetici e
possono quindi creare problemi, come ipotensione soprattutto dopo l’induzione
dell’anestesia generale. Deve essere posta attenzione quando s’induce
l’anestesia generale nei pazienti in trattamento con inibitori dell’enzima
convertitore dell’angiotensina durante la preparazione della somministrazione
di farmaci vasoattivi compresa la vasopressina per evitare che compaia una
forte ipotensione o possibile collasso cardiovascolare. L’uso routinario
dell’inibitore dell’enzima convertitore dell’angiotensina nei pazienti dopo bypass
coronario non è stato dimostrato.
Stents coronarici
Numerosi pazienti sono rivascolarizzati per via percutanea con angioplastica o
con stents coronarici. La rivascolarizzazione non è supportata da letteratura
recente né raccomandata come parte di pratica preoperatoria dalla AHA/ACC,
tuttavia è inevitabile che questi pazienti possano presentarsi per una chirurgia
non cardiaca dopo una rivascolarizzazione. Questo pone i seguenti problemi:
qual è il tempo migliore per questi pazienti per essere operati, quali sono i
rischi?
Per prima cosa è necessario avere conoscenze sulla fisiopatologia degli stents
coronarici. Gli stents coronarici distruggono l’endotelio; pertanto, poiché lo
stress chirurgico determina una condizione d’ipercoagulabilità che aumenta il
rischio di trombosi di uno stent posizionato recentemente, non ricoperto di
endotelio vascolare. Per minimizzare il rischio di trombosi, in attesa della
riformazione dell’endotelio, i pazienti sono sottoposti ad una doppia terapia
antiaggregante (aspirina con clopidogrel o ticlopidina) per circa 6 mesi dopo il
posizionamento degli stents.
Numerosi studi hanno tentato di identificare il tempo ottimale di attesa dopo
stents coronarici prima dell’intervento d’elezione. Una riendotelializzazione
parziale si ha entro 2 settimane dopo il posizionamento dello stent ed è
probabile che sia completa (con gli stent metallici) entro 6 settimane. Questo
è il razionale per attendere 6 settimane prima di un intervento chirurgico non
cardiaco. La maggior parte delle complicanze si hanno quando la chirurgia non
cardiaca è eseguita entro 6 settimane dalla rivascolarizzazione; uno studio
pone in evidenza una mortalità del 20% nei pazienti con stents posizionati
entro le 6 settimane. Nello studio di Wilson, 9 di 168 pazienti sottoposti a
chirurgia entro 6 settimane dal posizionamento degli stents presentavano
un’IMA perioperatorio o morivano rispetto a 0 su 39 pazienti che aspettano da
7 a 9 settimane dopo l’intervento.
Del tutto recentemente, uno studio prospettico di 103 pazienti con stents
coronarici posizionati entro 1 anno prima della chirurgia non cardiaca ha
evidenziato che questi pazienti con posizionamento degli stents entro i 35
giorni prima dell’intervento presentavano un rischio maggiore del doppio
rispetto ai pazienti nei quali lo stent è stato posizionato più di 90 giorni prima
dell’intervento. Dei 103 pazienti, circa la metà (45%) hanno manifestato
complicanze dopo l’intervento, compresi 9 pazienti che hanno avuto bisogno di
rivascolarizzazione e 5 che sono morti. Questa frequenza di complicanze
supera la frequenza della riocclusione dello stent nei pazienti non sottoposti ad
intervento.
Terapia antiaggregante. Se l’intervento è necessario e non può essere
posticipato, il paziente che continua la sua terapia antiaggregante tende ad
avere una minore morbilità e mortalità cardiaca. In una recente review, sei di
sette pazienti che avevano sospeso la loro terapia antiaggregante per un
intervento entro 3 settimane dalla rivascolarizzazione sono morti in seguito ad
una probabile trombosi dello stent. Poiché molti studi finora sono stati di tipo
retrospettivo, occorre avere prudenza nell’applicare questi dati ad un ampio
gruppo di pazienti.
Stent rivestiti di farmaco. Molti dei dati descritti in precedenza fanno
riferimento a stent coronarici metallici. Recentemente, sono stati introdotti
stent rivestiti di farmaco (DES) per gli stents multivaso, e numerosi studi sono
ora in corso per determinare il possibile vantaggio rispetto all’intervento
chirurgico. I due stent DES più diffusi posizionati negli Stati Uniti sono rivestiti
con un farmaco chemioterapico, sirolimus, o un farmaco antiproliferativo,
paclitaxel. Questi farmaci hanno il probabile vantaggio di prevenire o ritardare
la ristenosi dello stent e possono essere più vantaggiosi in alcuni tipi di pazienti
come i diabetici. Tuttavia, si sono evidenziati alcuni problemi con i DES,
compresa una reazione allergica o un ritardo di riendotelializzazione che ha
determinato una trombosi ritardata (30 giorni) dello stent. Peraltro i pazienti
che ricevono il DES necessitano di un periodo di doppia terapia antiaggregante
di durata maggiore (3-6 mesi o per tutta la vita) rispetto a quelli che ricevono
stent metallici, che sono mantenuti in antiaggregazione per circa 6 settimane.
Questi elementi sono importanti per le implicazioni anestesiologiche e il
trattamento chirurgico dei pazienti portatori di stents per il rischio aumentato
di sanguinamento perioperatorio e di trombosi dello stent. Questo a sua vota
ha portato ad orientarsi per il rinvio per diversi mesi della chirurgia d’elezione
non cardiaca nei pazienti nei quali è posizionato un DES per permettere il
completamento della terapia antiaggregante e la riendotelializzazione. Studi
più recenti indicano che la terapia antiaggregante può essere necessaria per un
anno dopo l’inserimento del DES.
Finchè non saranno disponibili dati più completi e definitivi, la scelta
migliore è di posticipare la chirurgia d’elezione non cardiaca per
almeno 6 settimane dopo il posizionamento dello stent coronarico con
barre metalliche e per almeno 3 mesi negli stent con sirolimus e 6
mesi con paclitaxel per permettere di completare la doppia terapia
antiaggregante e la reendotelializzazione dello stent. Nelle condizioni in
cui non è possibile rinviare l’intervento i pazienti possono continuare la loro
terapia antiaggregante o sostituirla con eparina a basso peso molecolare. In
entrambi i casi occorre bilanciare il rischio di sanguinamento con quello di
trombosi.
Cosa ci riserva il futuro?
Attualmente, sono presenti modificazioni in rapida successione nella
comprensione della patogenesi della CAD che può condurre ad una migliore
prevenzione primaria e secondaria (riduzione del colesterolo, riduzione
dell’infiammazione) e una più sicura, e più durevole rivascolarizzazione
(angiografia/stent percutanei transluminari).
Dato il miglioramento nella
terapia rivascolarizzante i soggetti considerati in precedenza troppo gravi per
essere sottoposti a chirurgia potranno afferire almeno alla chirurgia in day
surgery. Dal punto di vista anestesiologico, crediamo che vi possa
essere minore enfasi nella stratificazione del rischio con test
preoperatori o una rivascolarizzazione profilattica e maggiore enfasi
nell’ottimizzare il trattamento perioperatorio di questi pazienti con bloccanti e statine per ridurre la morbilità e la mortalità cardiaca.
Inoltre le pratiche per ridurre le complicanze cardiache perioperatorie potranno
comprendere un controllo più rigoroso emodinamico e glicemico, l’uso di 2
agonisti per attenuare la risposta adrenergica e modulare il sistema
coagulativo. La chiave per ridurre le complicanze cardiache perioperatorie può
essere un miglioramento non solo del trattamento intraoperatorio, ma anche
preoperatorio e postoperatorio. Dobbiamo essere in grado di identificare un
sottogruppo di pazienti con maggiori probabilità di beneficiare di interventi
efficaci con una più complessa strategia gestionale.