I disturbi borderline in adolescenza Prefazione

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I disturbi borderline in adolescenza
Prefazione
Massimo Grasso*
“Un sacco di gente, soprattutto questo psicoanalista che c’è
qui, continuano a domandarmi se quando tornerò a scuola a settembre mi metterò a studiare. È una domanda così stupida, secondo me. Voglio dire, come fate a sapere quello che farete,
finché non lo fate? La risposta è che non lo sapete […] D.B. mi
ha domandato che cosa ne pensavo io di tutta questa storia che
ho appena finito di raccontarvi. Non ho saputo che accidenti
dirgli. Se proprio volete saperlo, non so che cosa ne penso. […]
Io, suppergiù, so soltanto che sento un po’ la mancanza di tutti
quelli di cui ho parlato. […] È buffo. Non raccontate mai niente
a nessuno. Se lo fate, finisce che sentite la mancanza di tutti”.
Con queste parole J. D. Salinger fa concludere al ben noto
protagonista del suo “The catcher in the Rye” (1951), il diciassettenne Holden Caulfield, il racconto delle sue mirabolanti peripezie nel quotidiano di giorni niente affatto mirabolanti: il
racconto di un’avventura che, supportato da un linguaggio accidentato e straziato, ne ha fatto l’eroe eponimo di intere generazioni di adolescenti, che si sono riconosciuti o hanno creduto di
riconoscersi nella tenera e, al tempo stesso, tragica esperienza
del loro coetaneo statunitense.
*
Professore Ordinario di Psicologia Clinica presso la Facoltà di Psicologia 1 dell’Università “La Sapienza” di Roma.
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Siamo nel 1951 e ciò cui alludeva Salinger probabilmente
non era soltanto la “normale” disperazione vissuta nella ricerca
di sé da parte di un ex bambino al confronto con il mondo degli
adulti: forse quelle pagine parlavano anche della progressiva e
sempre più difficile vicenda di alcuni adolescenti nel misurarsi
con le richieste, le contraddizioni e le conflittualità del mondo
adulto e soprattutto con l’impervietà del suo raggiungimento.
Forse il volume di Salinger nel narrare le asperità di una
condizione esistenziale, l’adolescenza, indicava, magari in maniera non rigorosa e, certo, in modo impressionistico, alcuni
elementi che possono segnalare il superamento di un confine e
l’inoltrarsi in un territorio dove la “normale” patologia adolescenziale lascia il posto a manifestazioni esprimenti un disagio
più profondo e strutturato. Accade spesso che la sensibilità di
uno scrittore sia in grado di individuare e tratteggiare, in qualche modo in anticipo, caratteristiche e qualità dell’esperienza
umana che solo più tardi saranno riconosciute e codificate in un
linguaggio scientifico.
Solo due anni più tardi Robert Knight (1953) cominciò a definire il concetto di personalità borderline, centrando la sua attenzione sulla debolezza dell’Io dei pazienti che ne sono portatori; debolezza responsabile, secondo l’autore, di indurre massicce regressioni necessitanti, a livello terapeutico, di misure
supportive, piuttosto che non interpretative, al fine di un rafforzamento di difese strutturalmente deboli.
La dimensione di confine, espressa dalla patologia borderline, ha progressivamente portato ad un confronto sulle misure
terapeutiche più appropriate: vi è stato chi, seguendo le indicazioni di Knight o successivamente della Zetzel (1971), proponeva un approccio tutto sommato contenitivo e supportivo e chi
invece pensava, come Volkan (1987) e, più limitatamente,
Meissner (1984) ad un uso della tecnica analitica classica, se
pur con l’introduzione di alcuni parametri. È vero comunque
che l’esperienza maturata all’interno del Menninger Psychotherapy Research Project ha sentenziato, in buona sostanza, la negatività di un utilizzo della psicoanalisi tout court con i pazienti
borderline (Horwitz, 1974; Wallerstein, 1986). Più recentemen-
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te Horwitz, Gabbard, Allen e collaboratori (1996), hanno proposto un approccio che consente di valutare tre categorie di variabili principali (fattori correlati allo sviluppo, fattori dell’Io,
fattori della relazione) da prendere in considerazione al fine di
calibrare interventi espressivi versus supportivi nella terapia,
nella direzione di “cucire addosso” la psicoterapia al particolare
tipo di paziente che ci si trova di fronte.
Un posto di rilievo, nella riflessione sulla terapia dei disturbi
borderline, è occupato senza dubbio da O. Kernberg (Clarkin,
Yeomans, Kernberg, 1999): i suoi lavori teorico-clinici relativi
al tema della diffusione di identità, come anche di recente puntualizzato (Kernberg, 2004), hanno fornito un apporto di importanza fondamentale per la diagnosi e il trattamento delle patologie borderline. Ad esempio la definizione del colloquio diagnostico come colloquio strutturale (1981) rappresenta uno dei
contributi di Kernberg alla dimensione della tecnica da ritenersi
tra i più interessanti. La sua prospettiva si può considerare
un’applicazione in campo diagnostico della concezione che vede le relazioni oggettuali e la dimensione dell’identità strettamente interconnessi. Nel suo sistema diagnostico-strutturale,
l’integrità del Sé, parametro diagnostico basilare, è connessa
alla qualità delle relazioni oggettuali e al grado di differenziazione e integrazione delle rappresentazioni del sé da una parte e
dell’oggetto dall’altra. Anche l’esame di realtà è collegato alla
qualità delle relazioni oggettuali e si costituisce come capacità
di differenziare il sé dal non sé, le origini intrapsichiche da
quelle esterne di percezioni e stimoli.
I suggerimenti tecnici avanzati da Kernberg (1981; 1984), si
propongono di orientare il colloquio diagnostico con domande
dal carattere molto generale, che “aprono” all’esplorazione di
tre aree fondamentali di indagine:


le circostanze alla base della richiesta di intervento e i
problemi o comunque le motivazioni che l’hanno determinata;
la descrizione di sé come persona (interessi, vita lavorativa, relazioni affettive, ecc.);
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
i rapporti con “le persone significative” della propria vita.
All’interno di queste tre aree, dalla prospettiva del paziente,
vi è piena libertà di spaziare tenendo dietro al filo della propria
dinamica associativa e delle proprie fantasie, più o meno “realisticamente” orientate alle finalità dichiarate del colloquio; da
parte dell’esaminatore l’ascolto analiticamente attento, consentirà di intercalare l’abituale silenzio concentrato e partecipativo
con opportuni interventi orientati a esplorare soprattutto le reazioni successive agli interventi stessi.
Un simile modo di procedere è destinato a creare una dimensione
di continuità tra diagnosi e terapia, tra fase dell’assessment e fase del
trattamento (Grasso, 2004) e, in questa direzione, è possibile sottolineare da un lato il valore, ai fini dell’operatività, dei criteri
diagnostici proposti da Kernberg, in risposta alla necessità di
rendere espliciti i presupposti e le categorie che presiedono
all’osservazione e orientano la conoscenza in senso psicologico
di un individuo e che sono, allo stesso tempo, alla base delle valutazioni prognostiche e delle decisioni terapeutiche.
Dall’altro, la pregnanza del suo approccio in senso psicodinamico. In una simile prospettiva, infatti, non è possibile operare una diagnosi differenziale “separata” dal funzionamento attuale del “soggetto” da valutare; tale funzionamento rinvia inoltre ad uno specifico contesto interpersonale, e più generalmente
istituzionale e ambientale, del processo diagnostico; e infine,
una simile valutazione contestualizzata si sviluppa all’interno di
una relazione conoscitiva non “isolabile” dall’attivazione delle
funzioni terapeutiche.
In altri termini, l’apprezzamento di una o più caratteristiche
psicologiche di un individuo non può prescindere dalla considerazione dell’ambiente relazionale in cui tale processo si situa: si
corre il rischio altrimenti di proporre una modalità sterilmente
classificatoria, in base alla quale comportamenti, motivazioni,
vissuti vengono riportati ad entità psicopatologiche, per così dire troppo “esterne” rispetto alla relazione paziente/psicologo
clinico, dando così luogo ad una prassi forviante, basata su forti
meccanismi di scissione.
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Alla luce di queste considerazioni, l’impostazione diagnostica del colloquio strutturale di Kernberg sembra tecnicamente
coniugabile con un’esplorazione clinica rivolta alla valutazione
delle dinamiche interpersonali che sottendono il processo, conoscitivo e terapeutico insieme, che è stato definito come “analisi
della domanda” (Carli, 1993; 1997).
Il volume di Di Sauro, Priori, Ranucci, si segnala per l’attenta valutazione del complesso delle questioni appena enunciate e per
lo specifico interesse manifestato dagli autori nei riguardi dei
problemi connessi con la formazione degli psicoterapeuti.
D’altra parte, la propensione al confronto con i temi della formazione non è un fatto nuovo per Di Sauro che da tempo è impegnato con passione e competenza in questo ambito.
La disamina dei nodi teorici di particolare pregnanza per la
comprensione del disturbo borderline di personalità, si coniuga
così sempre con il puntuale riferimento ai quesiti posti dal processo formativo in psicoterapia psicoanalitica che, sempre più,
chiama a confrontarsi con le asperità e le difficoltà di costellazioni psicopatologiche che richiedono innovazione e creatività
dal punto di vista tecnico, senza tuttavia cedere ai fraintendimenti di improvvisati eclettismi.
In questo senso, il richiamo all’insegnamento di Kernberg
appare quanto mai opportuno e significativo e, parallelamente,
il seguire la maturazione di uno psicoterapeuta attraverso
l’osservazione costante di una situazione clinica si rivela proficuamente interessante ed implicante per il lettore.
In questa cornice, il concentrarsi da parte degli autori sulle
specifiche problematiche poste dal disturbo borderline in adolescenza consente di confrontarsi con ulteriori questioni la cui rilevanza è di immediata evidenza: dalla possibilità di fare diagnosi di disturbo borderline in adolescenza, alla specifica difficoltà dell’adolescente a livello di relazioni oggettuali, e di quello
borderline in particolare, ad operare una sintesi e un’integrazione
costruttiva degli introietti “positivi” e “negativi”, alle ripercussioni
sul piano dello sviluppo di un’adeguata funzione riflessiva di pratiche accuditive e atteggiamenti genitoriali segnati da incompetenza
relazionale, se non da vero e proprio abuso.
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In definitiva, il lavoro di Di Sauro, Priori, Ranucci offre al
lettore interessato alle questioni della psicoterapia e della psicopatologia di gettare uno sguardo sul “come si fa”, senza correre
il rischio di diventare un manualetto rigido e prescrittivo, ma
con l’intenzione, all’opposto, di aprire al dubbio e alla riflessione: in questo senso, il confronto con la patologia borderline è
paradigmatico, esemplare.
Come sottolineano Horwitz, Gabbard, Allen e collaboratori
(1996), “i terapeuti devono adattare il trattamento ai pazienti e
non i pazienti al trattamento. Inevitabilmente, nella psicoterapia
dei pazienti borderline c’è un fattore di prova ed errore.
In grande misura, i terapeuti che hanno successo sono quelli
che sono disposti a ri-valutare ripetutamente la propria strategia
a seconda del mutare delle esigenze del paziente all’interno di
una seduta o nel corso della terapia.
Un senso dell’imprevedibile e dell’inatteso conferisce al trattamento di questi pazienti straordinari un’aura di entusiasmo e
di sfida”.
Ed è proprio di entusiasmo e di sfida, in una realtà globale
che sempre più svogliatamente propone spesso come unico
obiettivo desiderabile la mera sopravvivenza, che, credo, abbiano bisogno non solo le nuove, ma anche le vecchie generazioni
di coloro che vogliono misurarsi con l’attività psicoterapeutica.
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