Il sostantivo testo denota un evento comunicativo verbale

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Linguistica generale
Giovanni Gobber, Moreno Morani
Copyright © 2010 – The McGraw-Hill Companies srl
SCHEDA – TESTI E NUOVE TESTUALITÀ. ALCUNE OSSERVAZIONI
Il sostantivo testo denota un evento comunicativo verbale che si costituisce in rispondenza a un
progetto.
Non è soltanto una produzione scritta, né è solo un prodotto più esteso dell’enunciato. Un
semplice fiat è riconosciuto dalla fede cristiana come uno dei testi decisivi nella storia dell’umanità.
Un’espressione diventa testo perché si costituisce entro una trama di rapporti sia linguistici sia
ontologici.
In un testo vivono le soggettività coinvolte. Esso è portatore di un senso suscettibile di
cambiare i rapporti fra le persone impegnate nell’attività di comunicazione. L’intreccio coinvolge
non solo gli enunciati, organizzati in vista di uno scopo comune, ma anche gli altri fattori dell’atto
comunicativo. Entro l’intelaiatura relazionale sottesa al testo, è cruciale la congruità con la
disposizione del destinatario, con i suoi interessi e le sue capacità di comprensione. Vi deve essere
un’esperienza condivisa – uno “sfondo conversazionale” comune – che viene detta common ground
e costituisce il presupposto necessario per la sensatezza del testo.
Così, per esempio, vi è chi fruisce con soddisfazione di articoli tratti dalla presse du cœur;
altri riterrà meritevole un contributo sui più recenti pettegolezzi di cronaca politica. Altri ancora, per
colmare il bisogno di esperienza della testualità, si affiderà alla ennesima – ma sempre nuova –
esperienza di lettura di un canto del Paradiso. È improbabile che la lettrice del Paradiso trovi
congruo con le proprie attese di senso un testo dedicato alle recenti imprese di qualche buzzurro del
piccolo schermo. Difficilmente il navigatore dei rotocalchi à la page avrà la voglia di confrontarsi
con un testo della grande letteratura: gli manca il common ground. Egli è incapace di cogliere la
rilevanza che un testo letterario ha per la sua vita. Abituato a ritenere importanti solo le “cose che
succedono davvero”, relega nel mondo della fantasia i testi che cercano di rispondere alla domanda
sul destino dell’uomo.
Siamo in un’epoca di testi banalmente – e per questo apparentemente – informativi, cui
peraltro è estranea la dimensione della notizia. Seguendo Eddo Rigotti (La comunicazione verbale,
Apogeo, Milano 2004, capitolo 1), riconosciamo una differenza tra informazione e notizia. Per
esempio, se una giornalista francese è tratta prigioniera dai ribelli in Iraq, si ha un’informazione.
Affinché sia anche notizia, essa deve riguardare me, deve avere a che fare con la mia vita, la mia
esperienza, il mio destino. Per i familiari della giornalista, è certo una notizia. Ma perché deve
diventarlo assolutamente anche per me? Chi mi costringe a questo? Perché non “fa notizia” la morte
in carcere di un vescovo cattolico in Cina?
Non di rado, avviene che non sia il destinatario a decidere la rilevanza di un testo. Si è
sollecitati – quasi obbligati – a trovare interessante – cioè rilevante per sé – una gran mole di testi
assolutamente privi di senso per il destinatario. Questo è una manipolazione della fondamentale
disposizione del soggetto che fa esperienza del testo: sei costretto a trovare interessante
l’informazione che ti do. Non sei d’accordo? Non sei dei nostri.
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Queste riflessioni vanno tenute presenti quando si affronta il tema delle “nuove forme” di testualità.
Tuttavia, più che di nuove forme, si tratta di applicazioni estese di certi procedimenti ben noti dalla
storia della testualità iscritta nel canone europeo, occidentale e orientale.
I tipi meglio rappresentati di “nuove forme” sono il misto di semiotiche e l’enciclopedia. Nel
primo caso, un testo contiene espressioni scritte e figure, che possono essere fotografie, disegni,
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simboli di varia natura. Qui la scrittura e la figura sono posti come interdipendenti: la seconda è
supporto della prima, così che un testo non è più solo un evento verbale (uno speech event), ma un
fenomeno comunicativo di stampo multimediale.
Il ruolo sempre crescente attribuito all’immagine influisce sulle sorti della pratica scrittoria
impiegata per redigere un testo destinato alla fruizione del grande pubblico. A questo proposito, non
di rado si ode affermare che un testo solo scritto sarebbe “pesante”, “noioso”. A ben vedere, esso è
ritenuto tale perché manca l’illustrazione che agevola l’interpretazione dello scritto. In effetti, per la
lettura è richiesta un’elevata competenza astrattiva: dalle parole si va ai concetti e da questi alla
realtà denotata; le figure, invece, sono di più immediata ricezione, poiché esse vengono colte
secondo modalità dell’esperienza naturale basica: altro è vedere immagini, altro è ‘vedere’ con
l’occhio della mente (è noto che la radice indeuropea veid-/*void-/*vid è sfruttata metaforicamente
per il semantismo del ‘sapere’: cfr. sanscrito veda, greco oida, ted. wissen, ingl. wit).
Il testo scritto è soprattutto “logico” (è interpretato con il ragionamento), il testo con
raffigurazioni è anche “analogico”. Le figure sono certo uno strumento rilevante per la
comprensione immediata, che avviene applicando diverse modalità di esperienza conoscitiva. L’uso
insistito di immagini può tuttavia pregiudicare l’attività di astrazione, per la quale si passa dal
particolare al generale: le parole aiutano a fare astrazione perché significano mediante concetti – e
la comprensione è ricerca di concetti che permettono la conoscenza del fenomeno particolare,
consentono di categorizzare la realtà, di “leggerla”, riconducendo il complesso al semplice. Non a
caso, discutendo di semiotiche, Roman Osipovič Jakobson ha cura di distinguere i linguaggi verbali
dagli altri, che sono “suscettibili di verbalizzazione” (Aspetti linguistici della traduzione, in Saggi di
linguistica generale, Feltrinelli, Milano 1966).
La scrittura caratterizza tipicamente la comunicazione “a distanza”, nella quale vi uno scarto
spaziale e temporale tra l’emissione e la ricezione del testo. Nel Novecento, le tecniche di
teletrasmissione della voce e dell’immagine hanno inciso fortemente nei tipi di comunicazione: la
dicotomia “contiguità –distanza” nello spazio e nel tempo è sostituita da una maggiore o minore
contiguità. Il telefono consente di “affrancare” la comunicazione orale dalla distanza spaziale e
temporale: si istituisce una oralità che in parte è simile al parlato in situazione naturale; è però
diversa perché il sembiante dell’interlocutore è nascosto: la prossemica – i segni non verbali della
comunicazione – e la cinesica – i gesti non controllati – restano celati, “non passano”. Questo
schermo – a volte, uno schermo protettivo – è sollevato quando si passa alla trasmissione a distanza
dell’immagine – prima con la televisione, ora con la “web-camera” e il videotelefono. La
comunicazione a distanza è così ricondotta a un tipo di comunicazione per contiguità: tutto è
pubblico.
Maggiore riservatezza è consentita dalle forme di comunicazione scritta rapida via web
(posta elettronica, chats, newsgroups). Gli scarti comunicativi ridotti comportano l’accettazione di
una gestione trascurata della forma scritta, ma anche di una elaborazione grafica aperta a invenzioni
simboliche, suscettibili di ricezione da parte della generalità dei soggetti interagenti – ed è la fortuna
degli smileys, degli acronimi e delle reinterpretazioni fonetiche dei simboli grafici, che hanno una
lunga e onorevole tradizione: l’odierno “ki 6?” di un messaggio SMS non è poi tanto diverso
dall’antico “x di +”, impegnativa abbreviazione frequente negli appunti dalle lezioni. È vero che il
tempo è denaro, e l’abbreviazione è benvenuta; ma non di rado essa è soltanto una scelta
estetizzante, cara ai dannunziani internettanti.
L’informalità della scrittura rapida è legata anche alla pertinenza effimera dei messaggi
veicolati: per questa funzionalità ridotta e impoverita, essi si allontanano – a volte anche fortemente
– dai testi scritti canonici. La scrittura nacque per due ragioni: superare la distanza spazio-temporale
e fissare in modo stabile – cioè indipendente dalle idiosincrasie degli interlocutori – un messaggio
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ritenuto rilevante per le sorti di una comunità. Lat. dico, da un antico deico, contiene la radice
indeuropea deik, che ha la semantica dell’ostensione, dell’in-dicare (cfr. greco deíknumi, e
deiktikós, da cui it. deittico): “dico” significava “mostrare (per mezzo delle parole)” e il
complemento oggetto si riferiva al contenuto di atti verbali compiuti in un contesto solenne.
I testi redatti in una scrittura rapida abbreviata devíano dalla norma ortografica, ma anche
dai compiti originariamente attribuiti alla scrittura. L’impoverimento funzionale del mezzo grafico è
uno dei fattori di crisi della norma della lingua scritta: si scrive male perché le cose da comunicare
non meritano di più – e la scrittura in tal caso vale come mezzo di comunicazione più rapido della
voce.
Il grande pubblico si è affezionato alla scrittura proprio grazie ai cosiddetti “nuovi media”.
La grande maggioranza dei giovani di oggi scrive tanti piccoli frammenti privi di struttura sintattica;
inoltre, sfugge il dominio degli andamenti testuali canonici (narrazione, descrizione,
argomentazione, esposizione). E manca la capacità di concepire l’esistenza di testi non effimeri. Del
resto, le “egregie cose” sono state espulse dalla scuola “democratica”, e l’introduzione del “saggio
breve” ha decretato il trionfo del “quotidiano a scuola”.
Ma le “egregie cose” non si trovano nei testi giornalistici: altro è “formare” (ah, la Bildung
di Goethe!), altro è “informare” con un’overdose di stampa quotidiana.
Per conoscere non basta disporre di tante informazioni. Serve uno “sguardo” capace di
cogliere e “pesare” i fattori decisivi dell’esperienza (pensare e pesare, soppesare sono
etimologicamente connessi). Ha più consapevolezza della realtà un contadino ignorante, ma sagace,
che un erudito, privo di criterî per valutare la pertinenza delle informazioni di cui ha competenza.
La nostra conoscenza non è solo descrizione – non si esaurisce in una mera elencazione di
fenomeni. Servono procedimenti come la spiegazione, l’esposizione, l’argomentazione. E questi si
svolgono su un livello più profondo della descrizione. Proprio la vasta gamma di testi prodotti con i
nuovi media privilegia la descrizione rispetto all’argomentazione e alla spiegazione.
Veniamo così all’enciclopedia, che tanto piace a chi non è specialista di una disciplina. La
pulsione al sapere enciclopedico termina quando si comincia a “vedere” il funzionamento di una
porzione di realtà: e si comprende che le leggi – le “regolarità”, Gesetzmäßigkeiten – sono
strumento potente di conoscenza. Serve formulare ipotesi su come la realtà osservabile funzioni, più
che assimilare informazioni sui dati osservabili. È più importante la dimensione dinamica di quella
statica.
Le enciclopedie nascono in un milieu di adoratori della tassonomia – Linneo über alles. Il
procedimento di redazione del testo enciclopedico è, a ben vedere, una colossale descrizione, che
mira all’unità del sapere. Ma l’unità del sapere non si spiega con una descrizione di tutto quello che
si può esperire. Serve un’ipotesi sull’unità.
Gli ipertesti sono parenti stretti delle enciclopedie. Condividono infatti un modo particolare
di fare testo: l’asse sintagmatico è costruito a partire da quello paradigmatico. In altre parole, la
linea di sviluppo di un testo non dipende da un progetto del mittente. Dipende invece da uno degli
innumerevoli percorsi che i paradigmi consentono. Prendiamo, come esempio, il seguente
frammento di testo:
Francesco Giuseppe II visse dal 1830 al 1916. Morì dunque nel corso della Prima Guerra
Mondiale.
Ciascuno degli elementi che vi compaiono si può attribuire a più paradigmi. Francesco
Giuseppe II può essere collegato alla classe dei monarchi dell’Austria-Ungheria. Per questa classe,
si può costituire una “schermata”, in cui si elencano tutti i membri del paradigma: così, è possibile
risalire da un elemento (Francesco Giuseppe II) a tutta la classe e da quella ridiscendere a tutti gli
altri membri della classe, concorrenti di Francesco Giuseppe II (Maria Teresa, Giuseppe I, Carlo
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figlio di Francesco Ferdinando, e così via). Analoghi procedimenti sono possibili per il caso in cui
Francesco Giuseppe II sia connesso al paradigma degli imperatori degli Stati centrali (la monarchia
austro-ungarica, il Reich di Germania, la imperija di Russia). Ogni paradigma è caratterizzato da un
tratto generico: i membri del paradigma sono le opzioni specifiche, realizzatrici del generico. Per
esempio, Francesco Giuseppe II può essere uno specifico che ha per generico ‘monarca dell’Europa
Centrale’.
Così, ogni elemento di un testo è di diritto collegato a una serie di paradigmi nei quali esso
può comparire come istanza specifica di un tratto generico. L’ipertesto, come un’enciclopedia, si
incarica di individuare tutte le associazioni possibili tra elementi di un testo originariamente dato. Si
tratta, a un di presso, dell’esplicitazione degli assi paradigmatici ai quali si attinge per costruire un
testo di partenza.
Nell’ipertesto lo sviluppo testuale tende a inglobare il paradigma nel sintagma. Non vi è, a
ben vedere, una autentica linea di sviluppo testuale, perché viene a mancare l’organicità costitutiva
di un testo. L’ipertesto è un insieme di voci di vari paradigmi: è fatto di molti materiali suscettibili
di essere organizzati. Ma non abbiamo un testo autentico. Non vi è un progetto globale, capace di
produrre un cambiamento.
Non di rado, peraltro, i collegamenti ipertestuali producono glosse, commenti, associazioni
vaghe. Spesso, si hanno nessi circolari (il termine a rimanda a b, che rinvia a c che fa tornare ad a).
In molti casi, sembra verificata l’ipotesi di Marcello Marchesi: “Un cretino può scrivere un saggio,
ma non viceversa”.
Accanto a questo criterio generale – e di diritto universale, perché legato alla pretesa di
ragionevolezza dell’agire umano – vi sono alcune forme di sviluppo dei testi, che sono connesse a
modi diversi di organizzazione dei dati dell’esperienza: si tratta di andamenti testuali come il
narrativo, il descrittivo, l’argomentativo, l’espositivo. Essi possono coesistere entro un medesimo
testo, anche se un andamento può risultare dominante. A ciascuno di questi sviluppi è associato
tipicamente un insieme di strategie ai diversi livelli del testo: così, per esempio, limitando
l’osservazione ai connettori, si rileva che alcuni sono tipicamente argomentativi o espositivi (come
perché), altri sono tipici di un andamento narrativo, come e dopo. Non è sfuggita la somiglianza di
struttura fra la successione nel tempo e la catena argomentativa (post hoc ergo propter hoc!): ne è
indice la polisemia di avverbi come allora (prevale l’andamento narrativo in: “Mi ha salutato.
Allora, l’ho salutata anch’io”; prevale l’argomentativo in: “Mi ha salutato. Allora, si ricorda di
me!”).
Peraltro, entro la tradizione composita di una cultura si deposita un conglomerato di
tradizioni testuali che danno storicità ai caratteri costitutivi della pertinenza e sensatezza, realizzate
secondo una modalità delle modalità basilari di testualizzazione del dato esperienziale.
Nelle culture “occidentalizzanti” contemporanee si sono perse le tradizioni di testualità
orale, non di rado caratterizzate da tecniche mnemoniche che hanno influito sulla struttura
linguistica: si pensi ai parallelismi sintattici di proverbi come L’uomo propone, Dio dispone.
Come è noto, il sostantivo testo è la continuazione del latino textus, che è forma
riconducibile al verbo lat. texere. Nella metafora costitutiva di tale sostantivo si intravede un
“ordito”, una “trama” che lega gli enunciati e li connette in vario modo. Ma non si tratta soltanto di
una serie di relazioni tra enunciati o componenti di enunciati. Questa è la manifestazione di
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un’organizzazione profonda che “fa il testo”, perché istituisce un rapporto fra gli enunciati e gli altri
fattori dell’atto comunicativo (interlocutori, contesto, canale, codice).
Per attribuire il carattere di testo a una realtà costituita mediante elementi linguistici, è
necessario che sia rispettato il requisito fondamentale della pertinenza, ossia la proprietà di
“toccare” il destinatario, dando luogo a un cambiamento che, in una modalità radicale, può
abbracciare la totalità della persona, e modificare lo habitus (la hexis), cioè la disposizione
fondamentale dell’individuo (per esempio, il “buon annuncio” che guida alla conversione). Può
anche limitarsi a essere un cambiamento delle conoscenze (change in the cognitive environment),
che a sua volta dà luogo a un modo diverso di vedere la realtà e di agire.
In generale, si può dire che un testo è pertinente quando “ne vale la pena” prenderlo in
considerazione. A ben vedere, i diversi modelli esplicativi della comunicazione verbale mettono a
tema proprio questo aspetto: un evento comunicativo è sensato se produce un effetto in chi lo
recepisce. Questa non è una novità: a ben vedere, nella teoria della comunicazione il senso è
considerato come lo “scarto” fra due stati di conoscenza. A questo, aggiungiamo che lo scarto non
riguarda la conoscenza in quanto esperienza (Erlebnis).
La pertinenza che si concretizza come sensatezza produttrice di un cambiamento è
l’esigenza fondamentale; ne discende la possibilità di riconoscere la coerenza – ossia la “buona
formazione” delle parti nella totalità dell’evento comunicativo.
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