Nota a questo numero dedicato alla crisi economica globale

Periodico informativo in rete su iniziative, interventi, saggi a cura dell’Associazione Culturale Punto Rosso
Massa Carrara – www.puntorosso.it e-mail: [email protected] - 6 Ottobre 2011
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Sommario
Nota a questo numero dedicato alla crisi economica globale
Locandina iniziativa “La Crisi sistemica Globale”
La finanza è il segnale dell’“autunno” di Giorgio Gattei
Nel mondo capovolto della sinistra di Giovanni Mazzetti
'NOI IL DEBITO NON LO PAGHIAMO': Documento finale
pag. 1
pag. 2
pag. 3
pag. 8
pag. 10
Nota a questo numero dedicato alla crisi economica globale
Proseguono le iniziative organizzate da Punto Rosso sulla crisi economica. Con questi incontri si
vuole fornire elementi e strumenti critici per combattere la campagna martellante voluta dai governi
europei, dalle banche, dai mass media che vorrebbero farci intendere che quanto sta accadendo sia
un accidente naturale a cui non si può fare nulla, e bere turandosi il naso l’amara medicina. La
ricetta è appunto la stessa che ha prodotto la crisi: ulteriore povertà, precarizzazione del lavoro,
libertà di licenziamento, eliminazione dei diritti sociali, privatizzazione dei beni comuni e di tutto
ciò sia in odor di pubblico, mentre lor signori e le banche ingrassano.
Il primo incontro organizzato il 7 novembre 2009 con la presentazione del libro Il capitalismo e la
crisi Interpretati attraverso gli scritti di Marx di Vladimiro Giacchè.
Il secondo incontro. dal titolo Il significato della crisi economica e suoi possibili effetti, si è tenuto
il 12 novembre 2010 con la partecipazione di Giovanni Mazzetti.
Il terzo incontro si terrà Venerdì 14 ottobre 2011 (vedi locandina) dal titolo La crisi sistemica
globale, con Giorgio Gattei.
Di seguito riportiamo due articoli di Giorgio Gattei e di Giovanni Mazzetti che potranno essere utili
per l’iniziativa del 14 ottobre prossimo.
Buona lettura e soprattutto partecipate numerosi alla prossima iniziativa.
1
2
La finanza è il segnale dell’“autunno di Giorgio Gattei (www.sinistrainrete.it)
1.
Lo scambio capitalistico D–M–D’
(con D’>D) può presentarsi in tre modi: come
capitale commerciale con cui si comperano
merci a buon mercato per rivenderle più care
giusto
uno
scambio a
valori non
equivalen
ti (quello
che uno
guadagna,
l’altro lo
perde):
D<M<D’;
come capitale industriale con cui si
comperano mezzi di produzione e forzalavoro per produrre merci poi vendute ad un
valore superiore del valore anticipato per
l’aggiunta del plusvalore ottenuto mediante lo
sfruttamento
del
lavoro
salariato:
D=M...Produzione...M’=D’; infine come
capitale finanziario, con cui si prestano
denari per riceverli alla scadenza, senza
nemmeno bisogno di transitare per le merci,
maggiorati dell’interesse, così che lo scambio
è di nuovo a valori non equivalenti: D<D’.
Come si vede è soltanto il capitale industriale
a rispettare la regola dell’equivalenza degli
scambi, il che vuol dire che entrambe le parti
implicate ci guadagnano perchè nuova
ricchezza è creata, mentre nel capitale
commerciale e finanziario ci scambi appena la
ricchezza esistente.
Ora il grande storico economico Fernando
Braudel ha notato che quando una nazione
capitalistica egemone arriva a farsi dominare
dalla dimensione finanziaria, essa ha
raggiunto la propria maturità e si prepara ad
entrare nella stagione dell’autunno. Ciò è
successo al capitalismo olandese all’inizio del
Settecento, al capitalismo britannico tra Otto e
Novecento e adesso a quello americano. A
proseguire il discorso è intervenuto Giovanni
Arrighi con il suo Lungo XX secolo (Milano,
1999) introducendo l’idea del ciclo sistemico
d’accumulazione vissuto dal “centro”
capitalistico egemone che si compone one di
una fase di espansione produttiva e poi di una
fase di espansione finanziaria. Una nazione
arriva a porsi come luogo capitalistico
centrale quando è in grado di concentrare su
di sé una potenza economica e militare
sufficiente a coinvolgere il resto del mondo
(la “periferia”) in una strategia di sviluppo
basata su di una divisione del lavoro
condivisa. Durante questa fase di espansione
produttiva il “centro” crea manufatti che
esporta verso la periferia, che in cambio cede
materie prime. L’espansione finanziaria
subentra invece quando al “centro”
l’investimento dei capitali si sposta dalla
produzione industriale all’attività speculativa,
ossia alla compravendita di titoli e quant’altro
allo scopo di guadagnare, in Borsa e non più
in fabbrica, invece del profitto le più comode
rendite finanziarie.
Questo era già stato riconosciuto da Marx:
«con
l’accrescimento
della
ricchezza
materiale si accresce la classe dei capitalisti
monetari, aumenta da un lato il numero e la
ricchezza dei capitalisti che si ritirano, dei
rentiers, e in secondo luogo viene stimolato lo
sviluppo del sistema creditizio e si accresce
quindi il numero dei banchieri, di coloro che
danno il denaro a prestito, dei finanzieri ecc.»
(Il capitale. Libro terzo, Roma, 1965, p. 599).
Nel concreto, per Arrighi il passaggio dalla
produzione del profitto al guadagno
dell’interesse è indicato da una crisi-spia
(avvenuta nel 1870-73 per la Gran Bretagna,
nel 1971-73 per gli Stati Uniti) che «segna un
punto di svolta, un momento cruciale di
scelta, in cui l’agente dominante dei processi
sistemici di accumulazione del capitale
palesa, mediante lo spostamento, un giudizio
negativo sulla possibilità di continuare a trarre
profitto dal reinvestimento dei capitali
eccedenti
nell’espansione
materiale
dell’economia-mondo e, insieme, un giudizio
positivo sulla possibilità di prolungare nel
tempo
e
nello
spazio
la
sua
leadership/dominio grazie ad una maggiore
specializzazione nell’alta finanza» (Il lungo
3
XX secolo, cit., p. 283). Ma perchè c’è
convenienza allo spostamento? Dipende dal
confronto tra il profitto del produrre e il
guadagno della finanza: quando il secondo
supera il primo perchè i profitti sono caduti
(ad es. per la pressione salariale dei
lavoratori) oppure perchè l’interesse è
aumentato (per es. per decisione dell’autorità
monetaria), allora «un numero crescente di
organizzazioni capitalistiche si asterrà dal
reinvestire i profitti nell’ulteriore espansione
dello scambio di merci e le loro eccedenze
monetarie saranno dirottate dalle transazioni
in merci a quelle monetarie» (idem, p. 302).
Ne risulta che a guadagnarci non sono più
tanto i capitani d’industria, ma quella
«aristocrazia finanziaria» già descritta da
Lenin nell’Imperialismo come fase suprema
del capitalismo che finisce per dividere il
mondo «in un piccolo gruppo di Stati usurai e
in una immensa massa di Stati debitori».
Gran Bretagna vanno negli Stati Uniti. In tal
modo Marx completa ciò che è insito
nell’idea di autunno di Braudel: l’autunno
diventa primavera in qualche altro luogo» (G.
Arrighi, The winding paths of capital, “New
Left Review”, 2009).
2. Con la sconfitta definitiva di Napoleone a
Waterloo si sono poste le condizioni per
l’affermazione
della
egemonia
del
capitalismo britannico sul pianeta. Essa è
stata però materialmente sostenuta dalle due
innovazioni della rivoluzione industriale e del
mercato mondiale. Con la prima si tagliavano
radicalmente i costi di produzione delle merci
mediante sostituzione della fatica dell’uomo
(e degli animali) con il “lavoro” delle
macchine; con il secondo il mondo è stato
ridotto ad unità degli scambi con Londra che
diventata non solo la capitale della “fabbrica
del mondo”, ma anche il luogo di coniazione
della moneta universale: la sterlina a
contenuto aureo. Di tanto doppio risultato è
stato consapevole Karl Marx che nel 1858
segnalava come «il compito proprio della
società borghese è quello di creare il mercato
mondiale, almeno nelle sue grandi linee, e una
produzione basata sulle sue fondamenta»
(India Cina Russia, Milano, 1960, p. 413),
mentre Frederick Engels ex post ha
dettagliato: «questo mercato mondiale
consisteva allora di una serie di paesi ancora
prevalentemente o esclusivamente agricoli,
raggruppati intorno ad un grande centro
industriale:
l’Inghilterra.
Quest’ultima
consumava la maggior parte dei loro prodotti
greggi eccedenti e in cambio provvedeva alla
maggior parte del loro fabbisogno in prodotti
industriali. Nessuna meraviglia, quindi, se il
progresso industriale dell’Inghilterra fu
grandioso ed eccezionale» (Prefazione 1892 a
La situazione della classe operaia in
Inghilterra, Roma, 1992, pp. 28-29).
E’ovvio che col passaggio al capitalismo
finanziario ci siano ancora occasioni di
guadagno. Eppure questo è il segnale del
tramonto dell’egemonia di quel “centro”
capitalistico, perché l’espansione finanziaria
non è mai «l’espressione di una soluzione
durevole della crisi sistemica sottostante. Al
contrario, essa è sempre stata il preludio ad un
aggravamento della crisi e alla definitiva
sostituzione del regime di accumulazione
ancora dominante con uno nuovo» (idem, p.
283). A decidere il trapasso definitivo occorre
però una crisi terminale che traslochi
geograficamente il “centro” capitalistico in
altro luogo, come è accaduto durante la
Grande Crisi del 1929-33 con il trasferimento
dell’egemonia da Lombard Street (Londra) a
Wall Street (New York). Così per Arrighi, se
è «cruciale l’idea di Braudel dell’“autunno”
come fase conclusiva di un processo di
direzione nell’accumulazione, da quella
materiale
a
quella
finanziaria
fino
all’emergenza di un’altra guida, lo è pure
l’idea di Marx che l’autunno di uno stato che
sperimenta l’espansione finanziaria è anche la
primavera di un altro luogo: i surplus che si
accumulano a Venezia vanno in Olanda;
quelli che si accumulano in Olanda vanno in
Gran Bretagna; e quelli che si accumulano in
La “crisi-spia” del 1873 doveva però spingere
l’accumulazione del capitale britannico verso
l’investimento finanziario, convertendo gli
industriali a quel gioco di Borsa in cui «i
borghesi non sfruttano gli operai, ma si
sfruttano fra di loro» (F. Engels, in K. Marx,
F. Engels. Lettere gennaio 1893-luglio 1895,
4
vol. 50, Roma, 1977, p. 17). Così la Gran
Bretagna entrava nella sua stagione
dell’autunno, come spiegava Engels nel 1894
nelle Considerazioni supplementari al terzo
libro del Capitale: «dopo la crisi del 1866
l’accumulazione si è sviluppata con una
rapidità sempre crescente, ed in modo tale che
in nessun paese industriale, ed in Inghilterra
meno che altrove, l’ampliamento della
produzione ha potuto seguire quello che
dell’accumulazione... Si è così accresciuto il
numero dei rentiers, della gente che era sazia
della continua tensione degli affari, che non
desiderava dunque che divertirsi od occupare
dei posti poco faticosi di direttori o di membri
dei consiglio di amministrazione di società»
(F. Engels in K. Marx, Il capitale. Libro terzo,
pp. 48-49). Ma se la Gran Bretagna si
“finanziarizzava”, già premevano sulla scena
del mondo altri pretendenti come «la Francia,
la Germania e soprattutto l’America che...
spezzano progressivamente il monopolio
industriale dell’Inghilterra. La loro industria è
giovane rispetto a quella inglese, ma cresce
con una rapidità maggiore di quella» (F.
Engels, Prefazione 1892, cit., p. 31). Così
quando Engels visitò gli Stati Uniti nel 1888,
non ci mise molto a capire che lì sarebbe
finito il “centro” del capitale: gli USA
sarebbero diventati «il più grande stato del
XX secolo» e New York la futura «metropoli
della produzione capitalistica» (cit. in G.
Mayer, Friedrich Engels. La vita e l’opera,
Torino, 1969, p. 289). Sarebbe stata «una
svolta che stupirà il mondo intero. Se gli
americani incominciano, lo faranno con
un’energia e una violenza a paragone delle
quali noi in Europa saremo come bambini»
(in K. Marx, F. Engels, Lettere gennaio 1891dicembre 1892, vol. 49, Roma, 1982, p. 325).
sulla società affluente: il primo motore è stata
una combinazione di produzione e consumo e,
per competere, altri stati hanno dovuto
muoversi verso il consumo di massa». Vero: è
stata proprio la società dei consumi sulla base
della produzione fordista a costituire la
“cifra”
della
egemonia
capitalistica
americana sul mondo nel Novecento.
E dire che gli Stati Uniti avevano cominciato
come un classico paese di “periferia” che
esportava materie prime ed importava
manufatti. Solo a seguito della Grande
Guerra, in cui non furono direttamente
coinvolti, sono riusciti a mutare la loro
posizione mettendosi ad esportare manufatti
per i paesi belligeranti che pagavano con
moneta aurea, così che al termine del conflitto
si sono ritrovati possessori di consistenti
riserve di oro. La seconda guerra mondiale ha
ripetuto il processo e quando nel 1944 la Gran
Bretagna, economicamente esaurita, ha
dovuto cedere la supremazia monetaria
internazionale, è stato il dollaro, convertibile
in oro a cambio fisso, a sostituirsi alla sterlina
quale moneta universale (con grande
disappunto di John Maynard Keynes che ne
morì). Ma c’era pure da ricostruire l’Europa e
quale migliore occasione di servirsi proprio
dei dollari, generosamente concessi dal Piano
Marshall, per indurre gli europei in miseria ad
acquistare le merci americane esuberanti?
D’altra parte la presenza, dietro la “cortina di
ferro”, di un antagonista sistemico come
l’Unione Sovietica li costringeva ad
abbandonare le rivalità imperialistiche che
avevano insanguinato la prima metà del
Novecento ed a ripararsi sotto l’unico
ombrello (anche atomico) americano,
assegnando così agli Stati Uniti quella
posizione di superimperialismo che Kautsky
aveva ritenuto possibile e Lenin no (ma Lenin
aveva scritto prima della nascita dell’URSS).
3. Ha sintetizzato Peter Taylor (Forum on
Hegemony and social change, “Mershon
International Studies Review”, 1994, n. 38, p.
364) che «i britannici hanno creato il primo
stato industriale come officina del mondo. Il
primo motore è stata la produzione e
l’esportazione nel mercato mondiale e, per
competere, altri stati hanno dovuto
industrializzarsi. Gli americani hanno creato
il primo stato delle grandi imprese basato
Giovanni Arrighi conclude il suo Lungo XX
secolo con la descrizione del ciclo di vita del
capitalismo americano. Esso è stato
inaugurato con l’imposizione a tutto il
“mondo libero” (come si autodefiniva) di un
modello di “New Deal planetario” che apriva
le porte alla piena occupazione e al consumo
5
di massa, in alternativa vincente verso quei
movimenti
politico-sociali
che
si
richiamavano invece al comunismo. La
liquidità monetaria necessaria ai maggiori
scambi internazionali era peraltro assicurata
dalle esigenze militari americane e, siccome il
governo di Washington «operava come banca
centrale mondiale estremamente permissiva,
l’espansione del commercio e della
produzione mondiali avvenne a ritmi senza
precedenti» (idem, p. 388). E’ solo con la
prolungata e costosa guerra del Vietnam che
si è rotto il meccanismo: quando i dollari
emessi per finanziarla hanno preso a superare
di gran lunga le riserve auree poste a garanzia,
di fronte al rischio di insolvenza non c’è stato
altro rimedi (nel 1971) che togliere quella
convertibilità dei dollari in oro decisa a
Bretton Woods. Ma a far data sulla crisi-spia
dell’egemonia americana vale anche la quasi
contemporanea decisione di passare dal
cambio fisso tra le monete al regime dei
cambi flessibili, così che «da quel momento
in poi è stato il mercato ad assumere il
controllo del processo che fissava i prezzi
delle monete nazionali l’una rispetto all’altra
e rispetto all’oro» (idem, p. 392). Si
inaugurava in questa maniera il grande gioco
della speculazione finanziaria attorno al
valore, sia pure virtuale, del dollaro rispetto
ad ogni altra moneta e che continua tuttora
con la sola differenza che l’euro ha preso il
posto del marco e lo yuan si sta affacciando
sulla scena.
attenzione verso la finanza e la tolleranza nei
confronti del debito sono tipiche delle grandi
potenze economiche nel corso delle ultime
fasi del loro dominio. Esse ne preannunciano
il declino economico». Siccome «solo un
piccolo gruppo di popolazione nazionale può
ripartirsi
i profitti della
borsa
e
dell’intermediazione
finanziaria»,
è
storicamente accertato che «la finanza non
può alimentare una vasta classe media» e per
questo col passaggio alla finanza «le società
con ampi ceti medi perdono qualcosa di vitale
e di unico. Proprio ciò che alcuni temono si
stia nuovamente verificando negli Stati Uniti
alla fine del XX secolo» (cit. in Arrighi, p.
411).
4. Ma qui necessita un approfondimento. Ciò
che di vitale e dinamico si perde col
passaggio alla finanza è, per usare una
immagine ad effetto, la “pancia” della
composizione di classe. La quale nel
Novecento non aveva più quella forma a
piramide con poca alta borghesia al vertice, la
piccola borghesia nel mezzo e tanto
proletariato sul fondo che era stata propria del
capitalismo britannico. Invece il capitalismo
fordista (o “americano” che dir si voglia) l’ha
trasformata in una trottola (geometricamente:
due piramidi unite per la base) con al centro
una nuova e consistente “classe media” fatta
di lavoratori autonomi e liberi professionisti,
tecnici, impiegati e burocrati che si sono resi
necessari per assicurare il consumo di massa
adeguato ad una produzione diventata
anch’essa di massa. E’ stata questa la realtà (e
non soltanto il mito) che ha permesso
l’esportabilità planetaria dell’american way of
life: la casa di proprietà con giardino
prospiciente, l’automobile in garage, gli
elettrodomestici in ogni stanza, i figli
all’università, le vacanze al mare o in
montagna e la pensione al termine dell’età
lavorativa. Con una ricaduta anche politica,
perché «il ruolo politico della middle class,
con il dispiegarsi del progresso materiale, è
stato soprattutto quello di contenere la spinta
sovversiva della classe operaia» (M. Gaggi e
E. Narduzzi, La fine del ceto medio, Torino,
2006, p. 8), così che la “conquista dei ceti
Ma come rendere appetibile una moneta di
carta senza più un contenuto metallico alle
spalle? E’ stato questo il “miracolo” della
reaganomics con la sua politica degli alti tassi
d’interesse, così che i dollari che si
guadagnavano ad esportare manufatti negli
USA (come avevano preso fare l’Europa e
l’Estremo Oriente) venivano prontamente
restituiti al governo di Washington in cambio
dei suoi più che redditizi Buoni del Tesoro.
Così facendo gli Stati Uniti si sono
trasformati nel paese più indebitato del
mondo e questa trasformazione è stata
giudicata da Kevin Phillips fin dal 1993 come
il segnale più evidente della senilità
dell’impero americano perchè «l’eccessiva
6
medi” era diventata la parola d’ordine della
stabilità politica.
La nuova forma che la composizione di classe
sta assumendo con questo strangolamento
economico dei ceti medi è quindi “a
clessidra” (geometricamente: due piramidi
unite per la punta) o piuttosto a caciocavallo
con al vertice quei superricchi con il loro
codazzo di clientes, in mezzo i ceti medi
superstiti che si stanno “snellendo” sempre
più e sul fondo una nuova ampia base di
lavoratori “usa e getta” (ma se si dice
“flessibili” sembra quasi un vanto). Però tutto
questo avviene solo al “centro” del sistema
capitalistico, perchè nella “periferia”, dove
adesso si producono i manufatti che si
consumano al “centro”, gli operai e le
fabbriche crescono col risultato (mai da
dimenticare!) che «la produzione materiale è
ben lontana dall’essere diventata una
irrilevante appendice finale del processo
produttivo,... anche se le fabbriche non sono
più a cinquecento metri da casa, ma a migliaia
di chilometri, in Cina, India o Brasile» (A.
Giannuli, op. cit., p. 183). Quindi resta un
proletariato mondiale ed una produzione che
non è mai stata di massa come adesso e che si
riversa al centro per incontrare l’equivalente
consumo di massa. Ma come si può garantire
una domanda monetaria adeguata se quei ceti
medi in caduta verso il basso della
composizione di classe vedono decurtati i loro
redditi? La soluzione trovata è stata quello del
credito indiscriminato al consumo da parte di
banche ed istituzioni finanziari compiacenti,
che però si è subito infranto precipitando la
forma americana del capitalismo verso quella
che, per dirla con Arrighi, è la sua crisi
terminale. Che è quella che stiamo vivendo e
che merita di essere seguita (ed interpretata)
con più attenzione.
Poi è arrivata la globalizzazione dei mercati e
la rivoluzione dei trasporti che hanno
consentito di delocalizzare le produzioni in
“periferia” per aggirare il maggior costo della
manodopera al “centro”, mentre i capitali in
esubero si sono indirizzati verso la
speculazione finanziaria che paga bene i
propri dipendenti, che però sono pochi. E
così, mentre c’era chi teorizzava l’ingresso in
uno stadio superiore del capitalismo che
abbandonava la fatica “sporca” del
proletariato per sostituirlo con il lavoro
immateriale di un improbabile cognitariato,
una piccola parte del ceto medio (funzionari
di banca e della politica, dell’informazione e
dell’intrattenimento) è stata promossa ad
“aristocrazia stipendiale” al servizio di una
classe di superricchi che nel mondo sarebbero
appena 6000 (giusti i calcoli di D. Rothkopf,
Superclass. La nuova élite globale e il mondo
che sta realizzando, Milano, 2008). E tutto il
resto? Per l’introdotta (ed in corso di
generalizzazione) precarietà d’occupazione
sta precipitando verso il basso, verso una
condizione di basse retribuzioni che riporta
alla luce «un modello sociale ferocemente
classista e profondamente gerarchico. La
disuguaglianza, prima proposta come
conseguenza spiacevole ma inevitabile della
selezione meritocratica del mercato, si
rovescia in valore auspicabile in sé, per il
quale gli uomini si dividono naturalmente in
classi e devono essere distinti tra ricchi e
potenti e poveri e ininfluenti, in quanto
sarebbe contro natura il contrario» (A.
Giannuli, 2012: la grande crisi, Milano,
2010, p. 191).
7
Nel mondo capovolto della sinistra di Giovanni Mazzetti (il manifesto 1.10.11)
La crisi globale rappresenta uno spartiacque che impone di cambiare se stessi. Questo dovrebbero
capire le forze politiche e i movimenti antagonisti Rileggendo Marx e Keynes
della crisi viene cancellata, appunto perché si
nega la necessità di cambiare se stessi, di
spingersi al di là dei limiti della cultura di cui
si è depositari.
Nello specifico l'errore sta nell'interpretare la
crisi come fenomeno determinato da un
impoverimento della società. Intendiamoci,
non è che un impoverimento non ci sia. Ma
esso è l'effetto della crisi, non ciò che la
causa. Quante volte negli ultimi decenni ho
sentito invece ripetere, da molti esponenti di
primo piano della sinistra, che ci troveremmo
nei guai perché «la spinta della società a
vivere al di sopra delle proprie possibilità
materiali»
avrebbe
comportato
un
depauperamento di cui oggi subiremmo le
conseguenze. Questa spiegazione, che
rappresenta un trascinamento inerziale di una
forma di cultura del mondo precapitalistico, fa
acqua da tutte le parti, anche se ai
conservatori fa gioco, perché consolida l'idea
che l'impoverimento sia solo un fenomeno
oggettivo, al quale dovremmo piegarci. E per
porvi rimedio dovremmo battere le strade che
loro hanno tracciato in passato (sacrifici per
gli investimenti accumulativi).
Per quale ragione le forze politiche e i
movimenti antagonisti sono incapaci, in una
fase di dissoluzione dell'avversario, di
costituirsi in alternativa sociale? Perché la
costruzione dell'alternativa ha poco a vedere
con la volontà e dipende soprattutto dalla
capacità. E questa, purtroppo, oggi manca.
Basta vedere quello che sta accadendo in
piena crisi. La crisi rinvia all'emergere di
difficoltà tali che si instaura uno spartiacque
tra il modo in cui la vita è andata avanti fino
al momento precedente e il modo in cui potrà
procedere dopo. Ma il prendere atto
dell'esistenza di difficoltà non comporta il
comprendere la radicalità del cambiamento
necessario, soprattutto perché non implica la
comprensione della natura e delle cause di ciò
che accade.
Se, invece di accodarsi a questo stantio luogo
comune, le persone che sentono il bisogno di
un cambiamento avessero ripreso una
spiegazione opposta fornita da Marx nel
Manifesto, che in molti hanno sbadatamente
letto, forse la situazione odierna sarebbe meno
desolante. Secondo Marx, infatti, «nelle crisi
scoppia un'epidemia sociale che in tutte le
epoche anteriori sarebbe apparsa un assurdo:
l'epidemia della sovrapproduzione. La società
si trova all'improvviso ricondotta ad uno stato
di momentanea barbarie; sembra che una
carestia, una guerra generale di sterminio le
abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza;
Le cose si complicano perché spesso gli
individui non sanno accettare che le difficoltà
possono avere una natura paradossale. Invece
di riconoscere che i problemi sopravvenuti
"parlano" contro (para) il comune sapere
(doxa) - che dunque va cambiato - pensano di
poter procedere inerzialmente sulla base della
cultura di cui sono depositari, credendo che
basti rimboccarsi le maniche, cioè agire come
sanno fare, ma con maggior determinazione.
In questo modo, però, la natura di spartiacque
8
l'industria, il commercio sembrano distrutti (E
che cos'è la chiusura di centinaia di fabbriche,
di decine di ospedali, di molte classi
scolastiche, la soppressione di servizi
ferroviari e di autobus, di mancati interventi
sulla viabilità urbana, se non un processo
distruttivo analogo alla guerra?) E perché?
Perchè la società possiede troppa civiltà,
troppi mezzi di sussistenza, troppa industria,
troppo commercio. ... I rapporti borghesi sono
diventati troppo angusti per poter contenere la
ricchezza da essi stessi prodotta». Per decenni
quasi nessuno, nel mondo capitalistico, ha
ripreso questa analisi in forme non
ideologiche e, al sopravvenire delle crisi, si è
agito, anche da parte dei governi
socialdemocratici, come si faceva nel mondo
medievale, con sacrifici, pregando e
procedendo a tagli della miserevole spesa
pubblica dell'epoca
La riuscita dell'azione umana sta in genere più
nella formulazione coerente dei problemi che
nella loro soluzione. Poiché la prima vincola
lo svolgimento verso la seconda, se il
problema è formulato male la soluzione
diventa impossibile. D'altra parte, la
formulazione appropriata del problema
richiede che si tenga conto della catena
causale che ha condotto all'emergere della
difficoltà riproduttiva. Se, ad esempio, si
ritiene che di fronte all'esplodere della
disoccupazione il problema stia nell'ultimo
anello della catena, si agirà, come si è fatto
negli ultimi decenni, a quel livello sostenendo
che si deve aumentare la flessibilità della
forza lavoro, che la si deve riqualificare con
programmi di formazione, che le si deve
imporre una diminuzione del suo costo, che le
si deve chiedere di lavorare più a lungo, ecc.
Se invece si colloca il problema al penultimo
anello della catena si sosterrà che occorre un
"piano del lavoro", perché le autorità non
farebbero abbastanza per stimolare la
creazione del lavoro. Per chi colloca la
formulazione del problema al terzultimo
anello della catena l'intervento ai due livelli
precedenti non basterebbe, perché il problema
non riguarderebbe né il comportamento degli
individui, né l'azione del governo. La
questione investirebbe piuttosto un oggettivo
processo di impoverimento, al quale
"mancando i soldi" si potrebbe porre rimedio
solo con tagli e sacrifici.
Si è dovuti arrivare ad una crisi epocale, come
quella che ha investito il mondo intero negli
anni Trenta, affinché qualcuno cominciasse a
recuperare un senso delle cose che muovesse
nella stessa direzione di quella di Marx.
Scrive infatti Keynes in quegli anni: «Se la
nostra povertà fosse dovuta ad una carestia, ad
un terremoto o ad una guerra - se ci
mancassero i beni materiali e le risorse per
produrli, non potremmo sperare di individuare
il percorso verso la prosperità altrimenti che
col duro lavoro, l'astinenza e l'innovazione.
Ma di fatto, i nostri guai sono di altra natura.
Derivano dal fallimento nelle costruzioni
immateriali della mente, nel funzionamento
delle motivazioni che ci spingono alle
decisioni e all'azione, necessarie per mettere
in moto le risorse e i mezzi tecnici di cui già
disponiamo».
Ma la critica sia di Marx che di Keynes a tutti
questi approcci è radicale. Scrisse infatti
Keynes nel momento in cui il terzo approccio
era prevalente: «Lungi dal garantire una
soluzione del problema, ogni sterlina
risparmiata sulla spesa pubblica non è altro
che un'occupazione cancellata», perché le
risorse ci sono, ma non si è capaci di farle
tornare nel circolo produttivo. In termini
ancora più espliciti, qualche mese dopo
ribadisce: «Una politica di tagli e sacrifici non
è
altro
che
una
campagna
per
l'intensificazione della disoccupazione».
In questi giorni sembra esserci una generale
convergenza, con la sinistra in prima fila, su
una politica che nega la natura paradossale
della crisi. Una politica che ricorda molto da
Le parole non sono identiche a quelle di
Marx, ma il senso è esattamente lo stesso: non
sappiamo più appropriarci produttivamente
dell'abbondante ricchezza di cui disponiamo,
perché le mediazioni sociali - corrispondenti
alla nostra individualità - che sostengono il
processo grazie al quale essa potrebbe tornare
nel circolo produttivo non sono all'altezza dei
problemi emersi.
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vicino la trappola in cui precipitò il mondo
negli anni Trenta. La motivazione per
assumerla è che ce lo chiede l'Europa e lo
impongono le cosiddette società di rating,
delle quali, per giudizio unanime, dovremmo
riconquistare la fiducia.
baratro e le istituzioni politiche combinano
guai. Se la sinistra non tiene a mente queste
verità storica, e non impara ad essere più
problematica, sobbarcandosi l'onere di
comprendere la sua impotenza, cancella la
natura radicale della crisi e finisce col
muoversi in un mondo capovolto, senza
neppure accorgersene.
Ma non è la prima volta che gli organismi
finanziari fanno precipitare la società nel
'NOI IL DEBITO NON LO PAGHIAMO': Documento finale dell'assemblea del 1°
ottobre a Roma, teatro Ambra Jovinelli
costruire uno spazio politico pubblico nel
quale si riconoscono tutte e tutti coloro che
non vogliono più pagare i costi di una crisi
provocata e gestita dai ricchi e dal grande
capitale finanziario e vogliono invece
rivendicare sicurezza, futuro, diritti, reddito,
lavoro, uguaglianza e democrazia.
Vogliamo partire dai cinque punti attorno ai
quali è stata convocata questa assemblea:
1.
Non pagare il debito, far pagare i
ricchi e gli evasori fiscali, nazionalizzare le
banche.
2.
No alle spese militari e cessazione di
ogni missione di guerra, no alla corruzione
e ai privilegi di casta.
Noi partecipanti all’assemblea del 1° ottobre a
Roma: “Noi il debito non lo paghiamo.
Dobbiamo
fermarli”
ci
assumiamo
l’impegno di costruire un percorso comune.
3.
Giustizia per il mondo del lavoro.
Basta con la precarietà. Siamo contro
l'accordo del 28 giugno e l'articolo 8 della
manovra finanziaria.
Tale percorso ha lo scopo di affermare nel
nostro paese uno spazio politico pubblico, che
oggi viene negato dalla sostanziale
convergenza, sia del governo sia delle
principali forze di opposizione, nell’accettare
i diktat della Banca Europea, del Fondo
Monetario Internazionale, della Confindustria
e della speculazione finanziaria. Vogliamo
costruire uno spazio politico pubblico, che
rifiuti le politiche e gli accordi di
concertazione e patto sociale, che distruggono
i diritti sociali e del lavoro. Vogliamo
4. Per l’ambiente, i beni comuni, lo stato
sociale. Per il diritto allo studio nella scuola
pubblica.
5.
Una rivoluzione per la democrazia.
Uguale libertà per le donne. Parità di
diritti per i migranti. Nessun limite alla
libertà della rete. Il vincolo europeo deve
essere sottoposto al nostro voto.
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Ci impegniamo a portare i temi affrontati in
questa assemblea diffusamente in tutto il
territorio nazionale, costruendo un movimento
radicato e partecipato. Così pure vogliamo
approfondire i singoli punti della piattaforma
con apposite iniziative e con la costruzione di
comitati locali aperti alle firmatarie e ai
firmatari e a chi condivide il nostro appello.
Intendiamo organizzare una petizione di
massa sul diritto a votare sul vincolo europeo.
Nel mese di dicembre, a conclusione di
questo percorso a cui siamo tutti impegnati a
dare
il
massimo
di diffusione e
partecipazione, verrà convocata una nuova
assemblea nazionale, che raccoglierà tutti i
risultati e le proposte del percorso e che
definirà la piattaforma, le modalità di
continuità dell’iniziativa, le mobilitazioni e
anche eventuali proposte di mobilitazione e di
lotta.
Intendiamo costruire un fronte comune di
tutte e tutti coloro che oggi rifiutano sia le
politiche del governo Berlusconi, sia i diktat
del governo unico delle banche. Diciamo no
al vincolo europeo che uccide la nostra
democrazia. Chi non è disposto a rinviare al
mittente la lettera della Banca Europea non
sta con noi. Questo fronte comune non ha
scopo elettorale, ma vuole intervenire in
maniera indipendente nella vita sociale e
politica del paese, per rivendicare una reale
alternativa alle politiche del liberismo e del
capitalismo finanziario. Questo fronte comune
vuole favorire tutte le iniziative di
mobilitazione, di lotta, di autorganizzazione
che contrastano le politiche economiche
liberiste. Questo percorso si inserisce nel
contesto dei movimenti che, in diversi paesi
europei e con differenti modalità e percorsi,
contestano le politiche di austerità e la
legittimità del pagamento debito a banche e
imprese.
Su queste basi i partecipanti all’assemblea
saranno presenti attivamente anche alla
grande manifestazione del 15 ottobre a Roma
sotto lo striscione “Noi il debito non lo
paghiamo”.
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