Periodico informativo in rete su iniziative, interventi, saggi a cura dell’Associazione Culturale Punto Rosso Massa Carrara – www.puntorosso.it e-mail: [email protected] - 6 Ottobre 2011 _____________________________________________________________ Sommario Nota a questo numero dedicato alla crisi economica globale Locandina iniziativa “La Crisi sistemica Globale” La finanza è il segnale dell’“autunno” di Giorgio Gattei Nel mondo capovolto della sinistra di Giovanni Mazzetti 'NOI IL DEBITO NON LO PAGHIAMO': Documento finale pag. 1 pag. 2 pag. 3 pag. 8 pag. 10 Nota a questo numero dedicato alla crisi economica globale Proseguono le iniziative organizzate da Punto Rosso sulla crisi economica. Con questi incontri si vuole fornire elementi e strumenti critici per combattere la campagna martellante voluta dai governi europei, dalle banche, dai mass media che vorrebbero farci intendere che quanto sta accadendo sia un accidente naturale a cui non si può fare nulla, e bere turandosi il naso l’amara medicina. La ricetta è appunto la stessa che ha prodotto la crisi: ulteriore povertà, precarizzazione del lavoro, libertà di licenziamento, eliminazione dei diritti sociali, privatizzazione dei beni comuni e di tutto ciò sia in odor di pubblico, mentre lor signori e le banche ingrassano. Il primo incontro organizzato il 7 novembre 2009 con la presentazione del libro Il capitalismo e la crisi Interpretati attraverso gli scritti di Marx di Vladimiro Giacchè. Il secondo incontro. dal titolo Il significato della crisi economica e suoi possibili effetti, si è tenuto il 12 novembre 2010 con la partecipazione di Giovanni Mazzetti. Il terzo incontro si terrà Venerdì 14 ottobre 2011 (vedi locandina) dal titolo La crisi sistemica globale, con Giorgio Gattei. Di seguito riportiamo due articoli di Giorgio Gattei e di Giovanni Mazzetti che potranno essere utili per l’iniziativa del 14 ottobre prossimo. Buona lettura e soprattutto partecipate numerosi alla prossima iniziativa. 1 2 La finanza è il segnale dell’“autunno di Giorgio Gattei (www.sinistrainrete.it) 1. Lo scambio capitalistico D–M–D’ (con D’>D) può presentarsi in tre modi: come capitale commerciale con cui si comperano merci a buon mercato per rivenderle più care giusto uno scambio a valori non equivalen ti (quello che uno guadagna, l’altro lo perde): D<M<D’; come capitale industriale con cui si comperano mezzi di produzione e forzalavoro per produrre merci poi vendute ad un valore superiore del valore anticipato per l’aggiunta del plusvalore ottenuto mediante lo sfruttamento del lavoro salariato: D=M...Produzione...M’=D’; infine come capitale finanziario, con cui si prestano denari per riceverli alla scadenza, senza nemmeno bisogno di transitare per le merci, maggiorati dell’interesse, così che lo scambio è di nuovo a valori non equivalenti: D<D’. Come si vede è soltanto il capitale industriale a rispettare la regola dell’equivalenza degli scambi, il che vuol dire che entrambe le parti implicate ci guadagnano perchè nuova ricchezza è creata, mentre nel capitale commerciale e finanziario ci scambi appena la ricchezza esistente. Ora il grande storico economico Fernando Braudel ha notato che quando una nazione capitalistica egemone arriva a farsi dominare dalla dimensione finanziaria, essa ha raggiunto la propria maturità e si prepara ad entrare nella stagione dell’autunno. Ciò è successo al capitalismo olandese all’inizio del Settecento, al capitalismo britannico tra Otto e Novecento e adesso a quello americano. A proseguire il discorso è intervenuto Giovanni Arrighi con il suo Lungo XX secolo (Milano, 1999) introducendo l’idea del ciclo sistemico d’accumulazione vissuto dal “centro” capitalistico egemone che si compone one di una fase di espansione produttiva e poi di una fase di espansione finanziaria. Una nazione arriva a porsi come luogo capitalistico centrale quando è in grado di concentrare su di sé una potenza economica e militare sufficiente a coinvolgere il resto del mondo (la “periferia”) in una strategia di sviluppo basata su di una divisione del lavoro condivisa. Durante questa fase di espansione produttiva il “centro” crea manufatti che esporta verso la periferia, che in cambio cede materie prime. L’espansione finanziaria subentra invece quando al “centro” l’investimento dei capitali si sposta dalla produzione industriale all’attività speculativa, ossia alla compravendita di titoli e quant’altro allo scopo di guadagnare, in Borsa e non più in fabbrica, invece del profitto le più comode rendite finanziarie. Questo era già stato riconosciuto da Marx: «con l’accrescimento della ricchezza materiale si accresce la classe dei capitalisti monetari, aumenta da un lato il numero e la ricchezza dei capitalisti che si ritirano, dei rentiers, e in secondo luogo viene stimolato lo sviluppo del sistema creditizio e si accresce quindi il numero dei banchieri, di coloro che danno il denaro a prestito, dei finanzieri ecc.» (Il capitale. Libro terzo, Roma, 1965, p. 599). Nel concreto, per Arrighi il passaggio dalla produzione del profitto al guadagno dell’interesse è indicato da una crisi-spia (avvenuta nel 1870-73 per la Gran Bretagna, nel 1971-73 per gli Stati Uniti) che «segna un punto di svolta, un momento cruciale di scelta, in cui l’agente dominante dei processi sistemici di accumulazione del capitale palesa, mediante lo spostamento, un giudizio negativo sulla possibilità di continuare a trarre profitto dal reinvestimento dei capitali eccedenti nell’espansione materiale dell’economia-mondo e, insieme, un giudizio positivo sulla possibilità di prolungare nel tempo e nello spazio la sua leadership/dominio grazie ad una maggiore specializzazione nell’alta finanza» (Il lungo 3 XX secolo, cit., p. 283). Ma perchè c’è convenienza allo spostamento? Dipende dal confronto tra il profitto del produrre e il guadagno della finanza: quando il secondo supera il primo perchè i profitti sono caduti (ad es. per la pressione salariale dei lavoratori) oppure perchè l’interesse è aumentato (per es. per decisione dell’autorità monetaria), allora «un numero crescente di organizzazioni capitalistiche si asterrà dal reinvestire i profitti nell’ulteriore espansione dello scambio di merci e le loro eccedenze monetarie saranno dirottate dalle transazioni in merci a quelle monetarie» (idem, p. 302). Ne risulta che a guadagnarci non sono più tanto i capitani d’industria, ma quella «aristocrazia finanziaria» già descritta da Lenin nell’Imperialismo come fase suprema del capitalismo che finisce per dividere il mondo «in un piccolo gruppo di Stati usurai e in una immensa massa di Stati debitori». Gran Bretagna vanno negli Stati Uniti. In tal modo Marx completa ciò che è insito nell’idea di autunno di Braudel: l’autunno diventa primavera in qualche altro luogo» (G. Arrighi, The winding paths of capital, “New Left Review”, 2009). 2. Con la sconfitta definitiva di Napoleone a Waterloo si sono poste le condizioni per l’affermazione della egemonia del capitalismo britannico sul pianeta. Essa è stata però materialmente sostenuta dalle due innovazioni della rivoluzione industriale e del mercato mondiale. Con la prima si tagliavano radicalmente i costi di produzione delle merci mediante sostituzione della fatica dell’uomo (e degli animali) con il “lavoro” delle macchine; con il secondo il mondo è stato ridotto ad unità degli scambi con Londra che diventata non solo la capitale della “fabbrica del mondo”, ma anche il luogo di coniazione della moneta universale: la sterlina a contenuto aureo. Di tanto doppio risultato è stato consapevole Karl Marx che nel 1858 segnalava come «il compito proprio della società borghese è quello di creare il mercato mondiale, almeno nelle sue grandi linee, e una produzione basata sulle sue fondamenta» (India Cina Russia, Milano, 1960, p. 413), mentre Frederick Engels ex post ha dettagliato: «questo mercato mondiale consisteva allora di una serie di paesi ancora prevalentemente o esclusivamente agricoli, raggruppati intorno ad un grande centro industriale: l’Inghilterra. Quest’ultima consumava la maggior parte dei loro prodotti greggi eccedenti e in cambio provvedeva alla maggior parte del loro fabbisogno in prodotti industriali. Nessuna meraviglia, quindi, se il progresso industriale dell’Inghilterra fu grandioso ed eccezionale» (Prefazione 1892 a La situazione della classe operaia in Inghilterra, Roma, 1992, pp. 28-29). E’ovvio che col passaggio al capitalismo finanziario ci siano ancora occasioni di guadagno. Eppure questo è il segnale del tramonto dell’egemonia di quel “centro” capitalistico, perché l’espansione finanziaria non è mai «l’espressione di una soluzione durevole della crisi sistemica sottostante. Al contrario, essa è sempre stata il preludio ad un aggravamento della crisi e alla definitiva sostituzione del regime di accumulazione ancora dominante con uno nuovo» (idem, p. 283). A decidere il trapasso definitivo occorre però una crisi terminale che traslochi geograficamente il “centro” capitalistico in altro luogo, come è accaduto durante la Grande Crisi del 1929-33 con il trasferimento dell’egemonia da Lombard Street (Londra) a Wall Street (New York). Così per Arrighi, se è «cruciale l’idea di Braudel dell’“autunno” come fase conclusiva di un processo di direzione nell’accumulazione, da quella materiale a quella finanziaria fino all’emergenza di un’altra guida, lo è pure l’idea di Marx che l’autunno di uno stato che sperimenta l’espansione finanziaria è anche la primavera di un altro luogo: i surplus che si accumulano a Venezia vanno in Olanda; quelli che si accumulano in Olanda vanno in Gran Bretagna; e quelli che si accumulano in La “crisi-spia” del 1873 doveva però spingere l’accumulazione del capitale britannico verso l’investimento finanziario, convertendo gli industriali a quel gioco di Borsa in cui «i borghesi non sfruttano gli operai, ma si sfruttano fra di loro» (F. Engels, in K. Marx, F. Engels. Lettere gennaio 1893-luglio 1895, 4 vol. 50, Roma, 1977, p. 17). Così la Gran Bretagna entrava nella sua stagione dell’autunno, come spiegava Engels nel 1894 nelle Considerazioni supplementari al terzo libro del Capitale: «dopo la crisi del 1866 l’accumulazione si è sviluppata con una rapidità sempre crescente, ed in modo tale che in nessun paese industriale, ed in Inghilterra meno che altrove, l’ampliamento della produzione ha potuto seguire quello che dell’accumulazione... Si è così accresciuto il numero dei rentiers, della gente che era sazia della continua tensione degli affari, che non desiderava dunque che divertirsi od occupare dei posti poco faticosi di direttori o di membri dei consiglio di amministrazione di società» (F. Engels in K. Marx, Il capitale. Libro terzo, pp. 48-49). Ma se la Gran Bretagna si “finanziarizzava”, già premevano sulla scena del mondo altri pretendenti come «la Francia, la Germania e soprattutto l’America che... spezzano progressivamente il monopolio industriale dell’Inghilterra. La loro industria è giovane rispetto a quella inglese, ma cresce con una rapidità maggiore di quella» (F. Engels, Prefazione 1892, cit., p. 31). Così quando Engels visitò gli Stati Uniti nel 1888, non ci mise molto a capire che lì sarebbe finito il “centro” del capitale: gli USA sarebbero diventati «il più grande stato del XX secolo» e New York la futura «metropoli della produzione capitalistica» (cit. in G. Mayer, Friedrich Engels. La vita e l’opera, Torino, 1969, p. 289). Sarebbe stata «una svolta che stupirà il mondo intero. Se gli americani incominciano, lo faranno con un’energia e una violenza a paragone delle quali noi in Europa saremo come bambini» (in K. Marx, F. Engels, Lettere gennaio 1891dicembre 1892, vol. 49, Roma, 1982, p. 325). sulla società affluente: il primo motore è stata una combinazione di produzione e consumo e, per competere, altri stati hanno dovuto muoversi verso il consumo di massa». Vero: è stata proprio la società dei consumi sulla base della produzione fordista a costituire la “cifra” della egemonia capitalistica americana sul mondo nel Novecento. E dire che gli Stati Uniti avevano cominciato come un classico paese di “periferia” che esportava materie prime ed importava manufatti. Solo a seguito della Grande Guerra, in cui non furono direttamente coinvolti, sono riusciti a mutare la loro posizione mettendosi ad esportare manufatti per i paesi belligeranti che pagavano con moneta aurea, così che al termine del conflitto si sono ritrovati possessori di consistenti riserve di oro. La seconda guerra mondiale ha ripetuto il processo e quando nel 1944 la Gran Bretagna, economicamente esaurita, ha dovuto cedere la supremazia monetaria internazionale, è stato il dollaro, convertibile in oro a cambio fisso, a sostituirsi alla sterlina quale moneta universale (con grande disappunto di John Maynard Keynes che ne morì). Ma c’era pure da ricostruire l’Europa e quale migliore occasione di servirsi proprio dei dollari, generosamente concessi dal Piano Marshall, per indurre gli europei in miseria ad acquistare le merci americane esuberanti? D’altra parte la presenza, dietro la “cortina di ferro”, di un antagonista sistemico come l’Unione Sovietica li costringeva ad abbandonare le rivalità imperialistiche che avevano insanguinato la prima metà del Novecento ed a ripararsi sotto l’unico ombrello (anche atomico) americano, assegnando così agli Stati Uniti quella posizione di superimperialismo che Kautsky aveva ritenuto possibile e Lenin no (ma Lenin aveva scritto prima della nascita dell’URSS). 3. Ha sintetizzato Peter Taylor (Forum on Hegemony and social change, “Mershon International Studies Review”, 1994, n. 38, p. 364) che «i britannici hanno creato il primo stato industriale come officina del mondo. Il primo motore è stata la produzione e l’esportazione nel mercato mondiale e, per competere, altri stati hanno dovuto industrializzarsi. Gli americani hanno creato il primo stato delle grandi imprese basato Giovanni Arrighi conclude il suo Lungo XX secolo con la descrizione del ciclo di vita del capitalismo americano. Esso è stato inaugurato con l’imposizione a tutto il “mondo libero” (come si autodefiniva) di un modello di “New Deal planetario” che apriva le porte alla piena occupazione e al consumo 5 di massa, in alternativa vincente verso quei movimenti politico-sociali che si richiamavano invece al comunismo. La liquidità monetaria necessaria ai maggiori scambi internazionali era peraltro assicurata dalle esigenze militari americane e, siccome il governo di Washington «operava come banca centrale mondiale estremamente permissiva, l’espansione del commercio e della produzione mondiali avvenne a ritmi senza precedenti» (idem, p. 388). E’ solo con la prolungata e costosa guerra del Vietnam che si è rotto il meccanismo: quando i dollari emessi per finanziarla hanno preso a superare di gran lunga le riserve auree poste a garanzia, di fronte al rischio di insolvenza non c’è stato altro rimedi (nel 1971) che togliere quella convertibilità dei dollari in oro decisa a Bretton Woods. Ma a far data sulla crisi-spia dell’egemonia americana vale anche la quasi contemporanea decisione di passare dal cambio fisso tra le monete al regime dei cambi flessibili, così che «da quel momento in poi è stato il mercato ad assumere il controllo del processo che fissava i prezzi delle monete nazionali l’una rispetto all’altra e rispetto all’oro» (idem, p. 392). Si inaugurava in questa maniera il grande gioco della speculazione finanziaria attorno al valore, sia pure virtuale, del dollaro rispetto ad ogni altra moneta e che continua tuttora con la sola differenza che l’euro ha preso il posto del marco e lo yuan si sta affacciando sulla scena. attenzione verso la finanza e la tolleranza nei confronti del debito sono tipiche delle grandi potenze economiche nel corso delle ultime fasi del loro dominio. Esse ne preannunciano il declino economico». Siccome «solo un piccolo gruppo di popolazione nazionale può ripartirsi i profitti della borsa e dell’intermediazione finanziaria», è storicamente accertato che «la finanza non può alimentare una vasta classe media» e per questo col passaggio alla finanza «le società con ampi ceti medi perdono qualcosa di vitale e di unico. Proprio ciò che alcuni temono si stia nuovamente verificando negli Stati Uniti alla fine del XX secolo» (cit. in Arrighi, p. 411). 4. Ma qui necessita un approfondimento. Ciò che di vitale e dinamico si perde col passaggio alla finanza è, per usare una immagine ad effetto, la “pancia” della composizione di classe. La quale nel Novecento non aveva più quella forma a piramide con poca alta borghesia al vertice, la piccola borghesia nel mezzo e tanto proletariato sul fondo che era stata propria del capitalismo britannico. Invece il capitalismo fordista (o “americano” che dir si voglia) l’ha trasformata in una trottola (geometricamente: due piramidi unite per la base) con al centro una nuova e consistente “classe media” fatta di lavoratori autonomi e liberi professionisti, tecnici, impiegati e burocrati che si sono resi necessari per assicurare il consumo di massa adeguato ad una produzione diventata anch’essa di massa. E’ stata questa la realtà (e non soltanto il mito) che ha permesso l’esportabilità planetaria dell’american way of life: la casa di proprietà con giardino prospiciente, l’automobile in garage, gli elettrodomestici in ogni stanza, i figli all’università, le vacanze al mare o in montagna e la pensione al termine dell’età lavorativa. Con una ricaduta anche politica, perché «il ruolo politico della middle class, con il dispiegarsi del progresso materiale, è stato soprattutto quello di contenere la spinta sovversiva della classe operaia» (M. Gaggi e E. Narduzzi, La fine del ceto medio, Torino, 2006, p. 8), così che la “conquista dei ceti Ma come rendere appetibile una moneta di carta senza più un contenuto metallico alle spalle? E’ stato questo il “miracolo” della reaganomics con la sua politica degli alti tassi d’interesse, così che i dollari che si guadagnavano ad esportare manufatti negli USA (come avevano preso fare l’Europa e l’Estremo Oriente) venivano prontamente restituiti al governo di Washington in cambio dei suoi più che redditizi Buoni del Tesoro. Così facendo gli Stati Uniti si sono trasformati nel paese più indebitato del mondo e questa trasformazione è stata giudicata da Kevin Phillips fin dal 1993 come il segnale più evidente della senilità dell’impero americano perchè «l’eccessiva 6 medi” era diventata la parola d’ordine della stabilità politica. La nuova forma che la composizione di classe sta assumendo con questo strangolamento economico dei ceti medi è quindi “a clessidra” (geometricamente: due piramidi unite per la punta) o piuttosto a caciocavallo con al vertice quei superricchi con il loro codazzo di clientes, in mezzo i ceti medi superstiti che si stanno “snellendo” sempre più e sul fondo una nuova ampia base di lavoratori “usa e getta” (ma se si dice “flessibili” sembra quasi un vanto). Però tutto questo avviene solo al “centro” del sistema capitalistico, perchè nella “periferia”, dove adesso si producono i manufatti che si consumano al “centro”, gli operai e le fabbriche crescono col risultato (mai da dimenticare!) che «la produzione materiale è ben lontana dall’essere diventata una irrilevante appendice finale del processo produttivo,... anche se le fabbriche non sono più a cinquecento metri da casa, ma a migliaia di chilometri, in Cina, India o Brasile» (A. Giannuli, op. cit., p. 183). Quindi resta un proletariato mondiale ed una produzione che non è mai stata di massa come adesso e che si riversa al centro per incontrare l’equivalente consumo di massa. Ma come si può garantire una domanda monetaria adeguata se quei ceti medi in caduta verso il basso della composizione di classe vedono decurtati i loro redditi? La soluzione trovata è stata quello del credito indiscriminato al consumo da parte di banche ed istituzioni finanziari compiacenti, che però si è subito infranto precipitando la forma americana del capitalismo verso quella che, per dirla con Arrighi, è la sua crisi terminale. Che è quella che stiamo vivendo e che merita di essere seguita (ed interpretata) con più attenzione. Poi è arrivata la globalizzazione dei mercati e la rivoluzione dei trasporti che hanno consentito di delocalizzare le produzioni in “periferia” per aggirare il maggior costo della manodopera al “centro”, mentre i capitali in esubero si sono indirizzati verso la speculazione finanziaria che paga bene i propri dipendenti, che però sono pochi. E così, mentre c’era chi teorizzava l’ingresso in uno stadio superiore del capitalismo che abbandonava la fatica “sporca” del proletariato per sostituirlo con il lavoro immateriale di un improbabile cognitariato, una piccola parte del ceto medio (funzionari di banca e della politica, dell’informazione e dell’intrattenimento) è stata promossa ad “aristocrazia stipendiale” al servizio di una classe di superricchi che nel mondo sarebbero appena 6000 (giusti i calcoli di D. Rothkopf, Superclass. La nuova élite globale e il mondo che sta realizzando, Milano, 2008). E tutto il resto? Per l’introdotta (ed in corso di generalizzazione) precarietà d’occupazione sta precipitando verso il basso, verso una condizione di basse retribuzioni che riporta alla luce «un modello sociale ferocemente classista e profondamente gerarchico. La disuguaglianza, prima proposta come conseguenza spiacevole ma inevitabile della selezione meritocratica del mercato, si rovescia in valore auspicabile in sé, per il quale gli uomini si dividono naturalmente in classi e devono essere distinti tra ricchi e potenti e poveri e ininfluenti, in quanto sarebbe contro natura il contrario» (A. Giannuli, 2012: la grande crisi, Milano, 2010, p. 191). 7 Nel mondo capovolto della sinistra di Giovanni Mazzetti (il manifesto 1.10.11) La crisi globale rappresenta uno spartiacque che impone di cambiare se stessi. Questo dovrebbero capire le forze politiche e i movimenti antagonisti Rileggendo Marx e Keynes della crisi viene cancellata, appunto perché si nega la necessità di cambiare se stessi, di spingersi al di là dei limiti della cultura di cui si è depositari. Nello specifico l'errore sta nell'interpretare la crisi come fenomeno determinato da un impoverimento della società. Intendiamoci, non è che un impoverimento non ci sia. Ma esso è l'effetto della crisi, non ciò che la causa. Quante volte negli ultimi decenni ho sentito invece ripetere, da molti esponenti di primo piano della sinistra, che ci troveremmo nei guai perché «la spinta della società a vivere al di sopra delle proprie possibilità materiali» avrebbe comportato un depauperamento di cui oggi subiremmo le conseguenze. Questa spiegazione, che rappresenta un trascinamento inerziale di una forma di cultura del mondo precapitalistico, fa acqua da tutte le parti, anche se ai conservatori fa gioco, perché consolida l'idea che l'impoverimento sia solo un fenomeno oggettivo, al quale dovremmo piegarci. E per porvi rimedio dovremmo battere le strade che loro hanno tracciato in passato (sacrifici per gli investimenti accumulativi). Per quale ragione le forze politiche e i movimenti antagonisti sono incapaci, in una fase di dissoluzione dell'avversario, di costituirsi in alternativa sociale? Perché la costruzione dell'alternativa ha poco a vedere con la volontà e dipende soprattutto dalla capacità. E questa, purtroppo, oggi manca. Basta vedere quello che sta accadendo in piena crisi. La crisi rinvia all'emergere di difficoltà tali che si instaura uno spartiacque tra il modo in cui la vita è andata avanti fino al momento precedente e il modo in cui potrà procedere dopo. Ma il prendere atto dell'esistenza di difficoltà non comporta il comprendere la radicalità del cambiamento necessario, soprattutto perché non implica la comprensione della natura e delle cause di ciò che accade. Se, invece di accodarsi a questo stantio luogo comune, le persone che sentono il bisogno di un cambiamento avessero ripreso una spiegazione opposta fornita da Marx nel Manifesto, che in molti hanno sbadatamente letto, forse la situazione odierna sarebbe meno desolante. Secondo Marx, infatti, «nelle crisi scoppia un'epidemia sociale che in tutte le epoche anteriori sarebbe apparsa un assurdo: l'epidemia della sovrapproduzione. La società si trova all'improvviso ricondotta ad uno stato di momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; Le cose si complicano perché spesso gli individui non sanno accettare che le difficoltà possono avere una natura paradossale. Invece di riconoscere che i problemi sopravvenuti "parlano" contro (para) il comune sapere (doxa) - che dunque va cambiato - pensano di poter procedere inerzialmente sulla base della cultura di cui sono depositari, credendo che basti rimboccarsi le maniche, cioè agire come sanno fare, ma con maggior determinazione. In questo modo, però, la natura di spartiacque 8 l'industria, il commercio sembrano distrutti (E che cos'è la chiusura di centinaia di fabbriche, di decine di ospedali, di molte classi scolastiche, la soppressione di servizi ferroviari e di autobus, di mancati interventi sulla viabilità urbana, se non un processo distruttivo analogo alla guerra?) E perché? Perchè la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. ... I rapporti borghesi sono diventati troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta». Per decenni quasi nessuno, nel mondo capitalistico, ha ripreso questa analisi in forme non ideologiche e, al sopravvenire delle crisi, si è agito, anche da parte dei governi socialdemocratici, come si faceva nel mondo medievale, con sacrifici, pregando e procedendo a tagli della miserevole spesa pubblica dell'epoca La riuscita dell'azione umana sta in genere più nella formulazione coerente dei problemi che nella loro soluzione. Poiché la prima vincola lo svolgimento verso la seconda, se il problema è formulato male la soluzione diventa impossibile. D'altra parte, la formulazione appropriata del problema richiede che si tenga conto della catena causale che ha condotto all'emergere della difficoltà riproduttiva. Se, ad esempio, si ritiene che di fronte all'esplodere della disoccupazione il problema stia nell'ultimo anello della catena, si agirà, come si è fatto negli ultimi decenni, a quel livello sostenendo che si deve aumentare la flessibilità della forza lavoro, che la si deve riqualificare con programmi di formazione, che le si deve imporre una diminuzione del suo costo, che le si deve chiedere di lavorare più a lungo, ecc. Se invece si colloca il problema al penultimo anello della catena si sosterrà che occorre un "piano del lavoro", perché le autorità non farebbero abbastanza per stimolare la creazione del lavoro. Per chi colloca la formulazione del problema al terzultimo anello della catena l'intervento ai due livelli precedenti non basterebbe, perché il problema non riguarderebbe né il comportamento degli individui, né l'azione del governo. La questione investirebbe piuttosto un oggettivo processo di impoverimento, al quale "mancando i soldi" si potrebbe porre rimedio solo con tagli e sacrifici. Si è dovuti arrivare ad una crisi epocale, come quella che ha investito il mondo intero negli anni Trenta, affinché qualcuno cominciasse a recuperare un senso delle cose che muovesse nella stessa direzione di quella di Marx. Scrive infatti Keynes in quegli anni: «Se la nostra povertà fosse dovuta ad una carestia, ad un terremoto o ad una guerra - se ci mancassero i beni materiali e le risorse per produrli, non potremmo sperare di individuare il percorso verso la prosperità altrimenti che col duro lavoro, l'astinenza e l'innovazione. Ma di fatto, i nostri guai sono di altra natura. Derivano dal fallimento nelle costruzioni immateriali della mente, nel funzionamento delle motivazioni che ci spingono alle decisioni e all'azione, necessarie per mettere in moto le risorse e i mezzi tecnici di cui già disponiamo». Ma la critica sia di Marx che di Keynes a tutti questi approcci è radicale. Scrisse infatti Keynes nel momento in cui il terzo approccio era prevalente: «Lungi dal garantire una soluzione del problema, ogni sterlina risparmiata sulla spesa pubblica non è altro che un'occupazione cancellata», perché le risorse ci sono, ma non si è capaci di farle tornare nel circolo produttivo. In termini ancora più espliciti, qualche mese dopo ribadisce: «Una politica di tagli e sacrifici non è altro che una campagna per l'intensificazione della disoccupazione». In questi giorni sembra esserci una generale convergenza, con la sinistra in prima fila, su una politica che nega la natura paradossale della crisi. Una politica che ricorda molto da Le parole non sono identiche a quelle di Marx, ma il senso è esattamente lo stesso: non sappiamo più appropriarci produttivamente dell'abbondante ricchezza di cui disponiamo, perché le mediazioni sociali - corrispondenti alla nostra individualità - che sostengono il processo grazie al quale essa potrebbe tornare nel circolo produttivo non sono all'altezza dei problemi emersi. 9 vicino la trappola in cui precipitò il mondo negli anni Trenta. La motivazione per assumerla è che ce lo chiede l'Europa e lo impongono le cosiddette società di rating, delle quali, per giudizio unanime, dovremmo riconquistare la fiducia. baratro e le istituzioni politiche combinano guai. Se la sinistra non tiene a mente queste verità storica, e non impara ad essere più problematica, sobbarcandosi l'onere di comprendere la sua impotenza, cancella la natura radicale della crisi e finisce col muoversi in un mondo capovolto, senza neppure accorgersene. Ma non è la prima volta che gli organismi finanziari fanno precipitare la società nel 'NOI IL DEBITO NON LO PAGHIAMO': Documento finale dell'assemblea del 1° ottobre a Roma, teatro Ambra Jovinelli costruire uno spazio politico pubblico nel quale si riconoscono tutte e tutti coloro che non vogliono più pagare i costi di una crisi provocata e gestita dai ricchi e dal grande capitale finanziario e vogliono invece rivendicare sicurezza, futuro, diritti, reddito, lavoro, uguaglianza e democrazia. Vogliamo partire dai cinque punti attorno ai quali è stata convocata questa assemblea: 1. Non pagare il debito, far pagare i ricchi e gli evasori fiscali, nazionalizzare le banche. 2. No alle spese militari e cessazione di ogni missione di guerra, no alla corruzione e ai privilegi di casta. Noi partecipanti all’assemblea del 1° ottobre a Roma: “Noi il debito non lo paghiamo. Dobbiamo fermarli” ci assumiamo l’impegno di costruire un percorso comune. 3. Giustizia per il mondo del lavoro. Basta con la precarietà. Siamo contro l'accordo del 28 giugno e l'articolo 8 della manovra finanziaria. Tale percorso ha lo scopo di affermare nel nostro paese uno spazio politico pubblico, che oggi viene negato dalla sostanziale convergenza, sia del governo sia delle principali forze di opposizione, nell’accettare i diktat della Banca Europea, del Fondo Monetario Internazionale, della Confindustria e della speculazione finanziaria. Vogliamo costruire uno spazio politico pubblico, che rifiuti le politiche e gli accordi di concertazione e patto sociale, che distruggono i diritti sociali e del lavoro. Vogliamo 4. Per l’ambiente, i beni comuni, lo stato sociale. Per il diritto allo studio nella scuola pubblica. 5. Una rivoluzione per la democrazia. Uguale libertà per le donne. Parità di diritti per i migranti. Nessun limite alla libertà della rete. Il vincolo europeo deve essere sottoposto al nostro voto. 10 Ci impegniamo a portare i temi affrontati in questa assemblea diffusamente in tutto il territorio nazionale, costruendo un movimento radicato e partecipato. Così pure vogliamo approfondire i singoli punti della piattaforma con apposite iniziative e con la costruzione di comitati locali aperti alle firmatarie e ai firmatari e a chi condivide il nostro appello. Intendiamo organizzare una petizione di massa sul diritto a votare sul vincolo europeo. Nel mese di dicembre, a conclusione di questo percorso a cui siamo tutti impegnati a dare il massimo di diffusione e partecipazione, verrà convocata una nuova assemblea nazionale, che raccoglierà tutti i risultati e le proposte del percorso e che definirà la piattaforma, le modalità di continuità dell’iniziativa, le mobilitazioni e anche eventuali proposte di mobilitazione e di lotta. Intendiamo costruire un fronte comune di tutte e tutti coloro che oggi rifiutano sia le politiche del governo Berlusconi, sia i diktat del governo unico delle banche. Diciamo no al vincolo europeo che uccide la nostra democrazia. Chi non è disposto a rinviare al mittente la lettera della Banca Europea non sta con noi. Questo fronte comune non ha scopo elettorale, ma vuole intervenire in maniera indipendente nella vita sociale e politica del paese, per rivendicare una reale alternativa alle politiche del liberismo e del capitalismo finanziario. Questo fronte comune vuole favorire tutte le iniziative di mobilitazione, di lotta, di autorganizzazione che contrastano le politiche economiche liberiste. Questo percorso si inserisce nel contesto dei movimenti che, in diversi paesi europei e con differenti modalità e percorsi, contestano le politiche di austerità e la legittimità del pagamento debito a banche e imprese. Su queste basi i partecipanti all’assemblea saranno presenti attivamente anche alla grande manifestazione del 15 ottobre a Roma sotto lo striscione “Noi il debito non lo paghiamo”. 11