Solidarietà: determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune Maria Francesca Carnea L’uomo può costruire la società e «organizzare la terra senza Dio, ma senza Dio egli non può alla fine che organizzarla contro l’uomo. L’umanesimo esclusivo è un umanesimo inumano» (Populorum progressio, 42). L’uomo è persona, non soltanto homo faber o oeconomicus. Perciò, come spiegava la Populorum progressio, il vero sviluppo è il passaggio, per ciascuno e per tutti, da condizioni meno umane a condizioni più umane. Certamente, per raggiungere la propria pienezza la persona necessita di “avere” cose, ma queste non bastano, occorre anche la crescita interiore: culturale, morale, spirituale. «L’“avere” oggetti e beni non perfeziona di per sé il soggetto umano, se non contribuisce alla maturazione e all’arricchimento del suo “essere”, cioè alla realizzazione della vocazione umana in quanto tale» (Sollicitudo rei socialis, 28). L’essenziale è, pertanto, la realizzazione piena della persona, ossia “essere” di più, crescere in umanità senza lasciar fuori nessuna virtualità umana, e farlo in modo armonico. Non è questa, purtroppo, la mentalità più diffusa: le dottrine utilitaristiche misurano il progresso esclusivamente in termini immanenti e terreni. Tuttavia, le palesi contraddizioni che si osservano nel nostro mondo, mettono più di rilievo «l’intrinseca contraddizione di uno sviluppo limitato soltanto al lato economico. Esso subordina facilmente la persona umana e le sue necessità più profonde alle esigenze della pianificazione economica o del profitto esclusivo [...]. Quando gli individui e le comunità non vedono rispettate rigorosamente le esigenze morali, culturali e spirituali, fondate sulla dignità della persona e sull’identità propria di ciascuna comunità, a cominciare dalla famiglia, tutto il resto, disponibilità di beni, abbondanza di risorse tecniche applicate alla vita quotidiana, un certo livello di benessere materiale, risulterà insoddisfacente e, alla lunga, disprezzabile» (Srs, 33). Come ricordava Giovanni Paolo II durante il discorso alla CEPALC, 3 aprile1987: «Le origini morali della prosperità sono ben note nel corso della storia. Esse si collocano in una costellazione di virtù: laboriosità, competenza, ordine, onestà, iniziativa, sobrietà, risparmio, spirito di servizio, fedeltà alle promesse, audacia: insomma amore per il lavoro ben fatto. Nessun sistema o struttura sociale può risolvere, come per magia, il problema della povertà senza queste virtù; alla lunga, sia i programmi che il funzionamento delle istituzioni riflettono queste abitudini degli esseri umani, che si acquistano essenzialmente nel processo educativo dando vita ad una autentica cultura del lavoro». Ciò che si richiede per vivere armonicamente lo sviluppo trascendente e quello terreno dell’uomo è che ogni persona realizzi le proprie attività, incluse quelle socioeconomiche, in modo che raggiungano la loro pienezza di significato umano, d’accordo con il destino ultimo trascendente dell’uomo; e che le altre persone e la società abbiano la consapevolezza del valore e delle esigenze proprie di ciascun essere umano, e agiscano di conseguenza. Punto fermo di tali esigenze umane è la necessità di compartecipare nella produzione e nella fruizione dei beni umani. Ciò si realizza mediante il principio e la virtù della solidarietà. «Il mondo è malato», diceva Paolo VI (Populorum progressio, 66), e sembra che da allora si sia aggravata la malattia: basta pensare ai campi profughi, agli esiliati, alle discriminazioni razziali e religiose, alle aree dove è istituzionalizzato lo sfruttamento e la corruzione, ai posti di lavoro dove si ha l’impressione di essere usati come mezzi e ai luoghi dove l’umiliazione è divenuta sistema di vita, alle zone di fame, di siccità e di malattie endemiche: «Il panorama del mondo odierno, compreso quello economico, anziché rivelare preoccupazione per un vero sviluppo che conduca tutti verso una vita “più umana”, come auspicava l’enciclica Populorum Progressio, sembra destinato ad avviarci più rapidamente verso la morte» (Srs, 24). Ci si trova così di fronte a un tremendo paradosso: gli uomini sono consapevoli dei criteri del vero sviluppo, vogliono realizzare il bene ed evitare il male, posseggono, in quantità sufficiente, i mezzi tecnici per farlo; nondimeno il mondo continua ad essere malato, forse più di prima. Il paradosso richiede così una spiegazione che raggiunga la sorgente ultima dei mali nel mondo; richiede un’analisi che si occupi del nucleo più intimo del comportamento umano: l’analisi etica, che arriva alla stessa origine delle strutture ingiuste, che arriva cioè alla radice dell’agire immorale dell’uomo. Quando il concetto giuridico di solidarietà fu applicato alla vita sociale, lo si incorporò con una carica ideologica precisa: Comte ne fece il fondamento della sua sociologia positiva, e nelle attività economiche si prese come insegna di rivendicazioni sociali, per lo più violente. Tuttavia, la nozione di solidarietà riecheggia il senso etimologico: partecipare in solidum, e significa l’insieme di legami che uniscono gli uomini tra loro e li spingono all’aiuto reciproco. La solidarietà va vista come fine e criterio dell’organizzazione sociale, è uno dei principi fondamentali dell’insegnamento sociale cristiano. Non lo è, però, come un buon desiderio moralizzante, ma come una forte esigenza della natura umana: la persone è un essere per gli altri e può svilupparsi soltanto in una apertura oblativa al prossimo. La solidarietà, pertanto, cerca con ogni mezzo di promuovere l’inalienabile dignità di ogni uomo, qualunque sia il colore della sua pelle, il livello sociale cui appartiene, le idee politiche o religiose che professi, e di contribuire a che si sviluppi come persona; la solidarietà mira a che tutti gli uomini possano agire, nella società e nel lavoro, con la coscienza e la responsabilità proprie delle persone; ed è, pertanto, il dinamismo che vivifica e rende efficaci i meccanismi e le strutture socioeconomiche, non permettendo che si convertano in meccanismi perversi. Così, la solidarietà non deve confondersi con «un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno» (Srs 38). Ora, «L’esercizio della solidarietà all’interno di ogni società è valido, quando i suoi componenti si riconoscono tra di loro come persone» (Srs 39). Ciò implica superare le tendenze all’anonimato nei rapporti umani; convertire la “solitudine” in “solidarietà”, la “diffidenza” in “collaborazione”; promuovere la comprensione, la mutua fiducia, l’aiuto fraterno, l’amicizia, la disposizione a “perdersi” a favore dell’altro. http://comunicativaviva.blogspot.it/p/chi-sono.html https://www.facebook.com/pages/Maria-Francesca-Carnea/119855851522053