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DIALOGO CON FINKIELKRAUT
Mario Tancredi
per
L’ ILLUMINISMO PROSSIMO VENTURO
(da le “Lezioni” su “Noi, i Moderni” pubblicate su “Il Foglio” nel dicembre 2005)
DIALOGO CON FINKIELKRAUT
Nel leggere le ‘lezioni’ di Finkielkraut, pubblicate dal quotidiano “Il Foglio” alla fine del 2005 (27;
28; 29; 30 dicembre) ho provato un grande piacere fatto sia di conoscenza, sia di introspezione. Nel
leggere sentivo come di conversare con l’autore per ampliare le sue tesi o discostarmene. Mi piace
qui riportare un tale ipotetico dialogo.
Tancredi: parto dalla fine delle sue lezioni. Lei sostiene che la civiltà dell’Illuminismo ci ha
condizionato alla “repulsione nei confronti dell’oscurità”. Ma lei rileva anche che
l’esuberanza stanca e in alcuni abitanti del pianeta illuminato provoca un “desiderio
dettato dalla stanchezza... il desiderio imprevedibile di salvare l’oscurità per restituire
alla notte parte del suo potere” che faccia “da contrappeso al giorno senza fine della
frenesia artificialista e alla sua promessa di felicità”. In questa visione, forse pessimistica,
io vorrei rilanciare puntando su una nuova luce invece che sull’oscurità, su un nuovo
Illuminismo non più alla luce della sola Ragione, che ha fatto lo Sviluppo scientifico e
tecnologico dello stare bene materiale, ma alla luce della Consapevolezza per portare in
conto anche l’elemento umano con le sue problematiche. Perché lo Sviluppo sia anche
Progresso - nei suoi aspetti di cultura, relazioni sociali, modi di vita e consapevolezza che consenta un sentirsi bene, o perlomeno meglio. In ciò recuperando anche la frattura
tra Occidente e Oriente: non a caso, in Oriente, viene definito “Illuminato” colui che ha
raggiunto un alto livello di consapevolezza. Quella stanchezza, di cui ha detto, e gli
orrori del passato che hanno accompagnato la corsa verso la Modernità sono, forse,
frutto dell’aver fatto perno sulla sola Ragione, sullo star bene materiale. Per meglio
chiarire e prima di proseguire sento necessaria una premessa per definire cosa intendo
per consapevolezza. Perché nelle culture attuali (tranne la Buddhista) è solo una parola e
non ancora un valore, un paradigma che presuppone ricerca, Lavoro, coinvolgimento.
Per consapevolezza intendo, allora e mutuando le parole di Carl Rogers, “come
un’illuminazione di ciò che avviene all’interno dell’individuo” che ha la capacità di non
frapporre “barriere, né inibizioni che impediscano l’esperienza piena di qualsiasi cosa sia
presente nell’organismo”. La ricerca e il laborioso Lavoro di sviluppo della
consapevolezza sta nell’osservare e sciogliere quelle “barriere e inibizioni”. A seguire
ed importante, sta lo sviluppo della capacità di fare distacco, cioè il non restare travolti
da emozioni e pensieri spiacevoli, giudizi, critiche, conflitti etc., cioè da quelli che
possiamo definire come ‘stati negativi’, per riuscire ad osservarli da una certa distanza.
Magari molto piccola all’inizio, ma via via sempre maggiore per disidentificarsi da quel
sentire 1 negativo che, molto spesso, è solo un’eredità del passato. Quando non c’è
consapevolezza pretendiamo e reagiamo (attaccando o fuggendo o chiudendoci) e
inevitabilmente diventa scontro, esplicito o sotterraneo, con gli altri e con se stessi, a
livello di conflitto interno. Ed è scontro non soltanto a livello individuale tra partner (una
separazione ogni quattro minuti), amici, colleghi etc. ma anche a livello sociale tra
civiltà, religioni, etnie, genitori e figli e così via. Ognuna della parti con la preliminare
pretesa di essere nella ‘verità’ e volerla imporre all’altra con l’aspettativa e convinzione
di soddisfare così i propri bisogni, ottenendo invece l’effetto contrario di aggravarli ed
esasperare lo scontro. Si inneggia al ‘dialogo’ che rimane, però, solo una parola, solo
un’aspirazione perché non può iniziare se prima non c’è consapevolezza. Perché la
consapevolezza, come la scienza, rimette continuamente in discussione le sue ‘verità’ e
rimane aperta alle verifiche. E, proprio per questo, non ci sono mai state guerre in nome
della scienza. In termini pratici e per dire della mia esperienza personale, il Lavoro dello
sviluppo di consapevolezza mi ha portato, tra l’altro, all’autenticità, al senso di libertà
1
Per brevità, qui e nel seguito, quando uso la parola “sentire” voglio intendere quello emozionale e non il sinonimo di
“ascoltare”.
1
interiore, alla tolleranza, alla maggiore partecipazione. Ancora più importante per me è
stato il recupero di quella parte di energia vitale, entusiasmo, creatività prima bloccata
sotto il ‘coperchio’ delle mie barriere ed inibizioni. Cambiamenti personali, certamente,
che però si riverberano anche sul sociale di cui faccio parte, influenzandolo nel
rimodellare abitudini, costumi, capacità, ovvero cultura sociale. E allora mi chiedo “cosa
succederebbe e quale Progresso si avrebbe in una società di Cittadini un po’ più
consapevoli e responsabili nei confronti della Comunità??”. E uso la C maiuscola per
questi Cittadini, immaginandoli finalmente non più sudditi che, per come li descrive
Galli della Loggia (Corsera; 3/8/2005), formano: “un Paese bambino inguaribilmente
maleducato e fazioso…che pensa infantilmente…che vuole continuare a non farsi mai
l’esame di coscienza per credersi esente da ogni responsabilità per i mali del Paese”.
Vorrei allora esplorare con lei questa terza via ripercorrendo la filosofia della Storia per
verificare quanto il paradigma della consapevolezza possa evitare le disillusioni del
passato ed aiutarci nel Progresso (che non è lo Sviluppo finora inseguito) perché, come
ha scritto la sensibilità di una donna, Thubten Chodron, “sono convinta che la continuità
di una specie non sia assicurata dalla sopravvivenza dei più forti, ma dalla sopravvivenza
dei consapevoli”...
Finkielkraut: “Volenti o nolenti, siamo determinati dal Descartes non letto” scrive Hans Jonas.
Questa determinazione è proprio l’argomento primo del mio corso. Ai miei allievi
cerco di insegnare non la filosofia, ma la loro filosofia. In che cosa ci determina
Descartes?
T: mi sembra che lei stia dicendo due cose che mi aprono il cuore. La prima è l’aiutare i suoi
studenti a scoprire la loro filosofia, ovvero, per dirla nei miei termini, a sviluppare la loro
consapevolezza. La seconda, strettamente legata alla prima, è il rendersi conto di quanto siamo
determinati e condizionati dalla cultura in cui siamo cresciuti, ammantata di principi “con la
catena della logica al collo” come lei riporta di Barbey d’Aurevilly, e da cui è difficile uscire,
almeno finché non interviene la stanchezza, di cui si diceva, o la devianza o, meglio ancora, la
consapevolezza...
F: non vi è dubbio che regni la razionalità, ma è diventato difficile opporre i calcoli della ragione
alle tenebre della superstizione senza controllo della procedura razionale, perché i progressi
scatenati dalla ragione non sono ragionevoli…
T: e, infatti, non è con la ragione che ci si può opporre alle tenebre, ma con la luce della
consapevolezza che si avvale dell’intelligenza che è altra cosa rispetto alla razionalità...
F: alle domande poste dall’intelligenza di sua propria iniziativa, secondo il suo progetto o i suoi
piani, e alle quali intima al mondo di rispondere, ho preferito le questioni poste dal mondo e
imposte a un’intelligenza che non ne sopporta…
T: ok, ancora una volta mi fa piacere la sua strategia culturale. Vorrei solo aggiungere che è solo
attraverso la consapevolezza che l’intelligenza può rispondere alle “questioni poste dal mondo”
invece di intimare “al mondo di rispondere”2 ...
F: il 13 agosto 1977 Roland Barthes nota sul suo diario: “D’improvviso il fatto di non essere
moderno mi è diventato indifferente”… Escludeva ciò che egli stesso amava; i suoi valori
proclamati condannavano alcune sue inclinazioni profonde...
T: appunto! Gli è che la realtà non è duale, come pretende di imporre la razionalizzazione portando
al conflitto tra “i valori proclamati” e le “inclinazioni profonde”. È, per Barthes, l’inizio della
consapevolezza che guarda alla realtà fatta di opposti sempre compresenti, in misura variabile
2
Qui e nel seguito, quel che riporto tra virgolette (doppie) corrisponde a brani che, ove non ripresi da quel che
Finkielkraut ha appena espresso nell’intervento che precede, sono reperiti nel testo delle sue Lezioni.
2
nel tempo. E la strada della consapevolezza porta al palazzo della saggezza, della libertà
interiore...
F: da quando è moderno, l’uomo non ha abbandonato il concetto di natura umana per concepirsi e
definirsi come libertà? L’uomo moderno, in quanto moderno, fa la sua prima e superba
apparizione, nel 1482. Nell’ “Oratio de hominis dignitate” di Pico della Mirandola. Un
magnifico discorso che inizia con un racconto, e non è un racconto qualsiasi, perché è quello
della Genesi... Adamo… È una creatura che, a differenza di tutte la altre, crea se stessa, si plasma
da sola, perché non vi è alcuna autorità, trascendenza, istanza superiore che gli impedisca di
lanciarsi alla conquista degli attributi divini dell’onniscienza e dell’onnipotenza...
T: ecco l’equivoco: ” lanciarsi alla conquista” e dilatare il proprio Ego, all’insegna del
perseguimento di libertà, onniscienza e onnipotenza invece che della saggezza perseguita dagli
Antichi...
F: dove sta la verità? La risposta la darà Franceso Bacone nel “Novum Organum” circa 150 anni
dopo Pico della Mirandola: la verità è figlia del Tempo, non dell’Autorità. Poiché la dignità
dell’uomo… ha il dovere di andare sempre più avanti e di superare se stesso… Il prestigio e la
presa degli Antichi lascia dunque posto al fascino del movimento. Chi non si muove, in realtà, si
trascina, perde tempo, guarda dietro di sé credendo di esistere, ma in realtà è in ritardo sulla vita...
T: giusto il movimento, ma qual è la bussola? Dove va questo movimento libero e soggettivo?
Verso l’isolamento e il narcisismo, lasciato a se stesso, o verso la maggiore consapevolezza,
recuperando anziché rinnegare gli Antichi?? Questo fermento è il passaggio da infanzia
(dipendenza, superstizione etc.) all’adolescenza (il plasmarsi da soli attraverso arte e virtù), ma
la direzione di marcia dovrebbe essere verso la maturità dell’Adulto, la saggezza, la phronesis, in
ciò recuperando anche gli Antichi...
F: ”la salvezza si conquista in terra, appartiene solo all’uomo e grazie all’uomo, e l’arte è una
meditazione della vita, non della morte” (Sartre). La meditazione della morte specula sulla vita
futura. La meditazione della vita, invece, si dedica interamente all’hic et nunc… Dunque Sartre,
aderendo al presente, scrivendo deliberatamente ed esclusivamente per la sua epoca, sceglie la
modernità, vale a dire il momentaneo contro ogni forma di eternità, posterità inclusa...
T: è sano questo volersi affrancare dall’autorità e dalla tutela per crescere. In termini di filogenesi (e
il ’68 ne amplificherà la richiesta) corrisponde a quel che, in termini ontogenetici, è
l’affrancamento dall’autorità della famiglia/padre/madre dell’adolescente, per cercare il vero se
stesso tendendo alla libertà. Gli è che, ed è il problema a venire, gli ‘occhiali’ con cui si guarda a
tutto questo sono quelli della razionalità, scienza, tecnica e non anche quelli degli Antichi con
l’attenzione alla saggezza, ovvero alla consapevolezza. Ed è anche evolutivo spostare la
centratura sul processo, il movimento, in una continua ricerca, invece che la struttura, l’esistente.
Il problema rimane, però, sempre lo stesso: sull’onda dell’entusiasmo di affrancarsi non ci si
pongono domande sulla direzione di marcia, sui veri e più profondi bisogni umani. Movimento e
libertà, ma senza consapevolezza di quel che deve essere coinvolto nella ricerca e in che
direzione canalizzare...
F: quando le cose vanno male, la filosofia della Storia, che non può più prendersela con Dio, scopre
la figura decisiva degli altri, gli uomini che impediscono il Bene voluto dagli uomini, vale a dire
gli avversari, i nemici...
T: ed è, però e ancora, la reazione del bambino ovvero dell’uomo immaturo che, come il bambino,
si aspetta che il Bene venga sempre dall’esterno, dagli altri senza volersi far carico delle sue
responsabilità. Perché non c’è ancora sviluppo di consapevolezza. È scontro invece che
incontro...
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F: facendo della libertà il segno distintivo dell’umanità, l’umanesimo pone gli uomini in condizione
di uguaglianza… Nasce così l’identificazione tra il Bene, l’eguaglianza e il movimento...
T: nel perseguimento ingenuo e romantico del “regno umano” non ancora definito in obiettivi,
problemi e linee di sviluppo, si finisce nel velleitarismo dell’eguaglianza che suona bene
romanticamente, ma è senza consapevolezza dei bisogni umani e dei danni connessi
all’eguaglianza. L’eguaglianza ha solo valore di strumento (come rivolta contro il Padre,
l’Autorità, la gerarchia, il superego) e non di fine. È funzionale all’acquisizione di autonomia,
ma questa autonomia deve proseguire in crescita che porta a riconsiderare l’ideologia
dell’eguaglianza. Eguaglianza era strumento di lotta ‘allora’ contro l’autoritarismo oppressivo,
ma non va più bene ‘ora’, una volta raggiunta la democrazia, e andrebbe sostituita con l’equità
che meglio riconosce i fondamentali bisogni dell’uomo non solo di appartenenza, ma anche di
riconoscimento. Altrimenti l’uguaglianza,come scrive lei, “genera i propri mostri”...
F: qualche settimana prima di aver dato un licenziamento senza preavviso al superego moderno,…
Barthes ha smesso di dirsi moderno e di fare la spola tra i suoi criteri e i suoi gusti, quando ha
visto morire la madre. “Di colpo, non essere moderno mi è diventato indifferente”. In lui il
diverso atteggiamento nasce non da una riflessione dottrinale, ma da un semplice avvenimento...
T: nel contestare l’Autorità e la dipendenza del passato (Superego) si crea un’altra Autorità (la
contro Autorità) e cioè la Modernità (che crea un altro diverso Superego antidipendente, ma
sempre Superego) senza riuscire ad imboccare la strada della consapevolezza che esce
dall’altalena tra i poli dipendenza-antidipendenza. E in Barthes, infatti, la fine dell’altalena, del
“fare la spola” avviene non attraverso il razionalismo, la “riflessione dottrinale” e duale, ma la
realtà, l’atto, l’esperienza che fa il sentire profondo attraverso cui solo si cresce...
F: il Moderno va avanti, il sopravvissuto guarda indietro. L’uno è progetto, l’altro è rimpianto…
Barthes ritrova Holderlin e Sade che in effetti, nella prefazione ai “Crimes de l’amour” scrive:
“L’uomo è soggetto a due debolezze che dipendono e caratterizzano la sua esistenza. Ha sempre
bisogno di pregare, ha sempre bisogno di amare; e questa è la base di tutti i romanzi...
T: il “progetto” rimanda alla testa, al pensiero (ideologia, razionalizzazione) che è fuga dal sentire
che, invece, permette il “rimpianto” che si collega al cuore e apre alla consapevolezza che non è
sopravvivere, ma vivere nell’armonia. L’essere soli e con la paura è la realtà. E dunque amiamo
(per la solitudine) e preghiamo (per la paura), ma la consapevolezza ci fa diventare amici della
nostra solitudine e paura per poterci convivere serenamente e andare avanti vivendo senza
barriere né inibizioni che portano alla nevrosi e alla dilatazione dell’ego ...
F: ma c’è voluta la prova del lutto perché l’artista prometeico venisse detronizzato da un’altra
immagine e da un altro itinerario: quelli cioè dell’uomo attratto dal regno delle ombre. Orfeo
sfida gli inferi perché ha perso Euridice...
T: e gli Antichi (Orfeo ed Euridice) già stavano sulla strada del “regno umano” mentre li si è voluti
sorpassare per inseguire l’Ego prometeico senza, o meglio ricusando l’esplorazione delle proprie
parti oscure. È solo attraversando l’Inferno che Dante raggiunge il Paradiso nella sua “Divina
Commedia” e quel che sembrava una tragedia finisce per apparire come una commedia...
F: ”ciò che ho perduto non è una Figura (La Madre), ma un essere; e non un essere, ma una qualità
(un’anima); non l’indispensabile, ma l’insostituibile” (Barthes)...
T: il percorso di crescita (consapevolezza) è ritrovare dentro di sé la Madre, la qualità (un’anima)
nel viaggio di Orfeo negli Inferi...
F: ”Mamma” è una coccola. Con “Mamma” al posto di “Madre” l’anonimato del cuore prende il
sopravvento su quello della struttura... il privato fa il suo coming out, il neutro scompare dal
mondo. La terminologia corrente si spoglia dei vocaboli austeri, e il sogno moderno di affrancare
l’umanità da ogni protocollo si realizza nella forma radiosa di una generale intimità...
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T: si comincia a ‘curare’ la solitudine e la paura con l’intimità invece che con l’ideologia. L’intimità
che si può sviluppare solo nel “privato”...
F: gli Antichi, secondo Foucault, creavano il Saggio, capace di accettare la propria morte. I Moderni
creano il tipo d’uomo capace di sopportare la morte degli altri, in nome della Storia...
T: nei Moderni c’è la fuga nell’ideologia-testa-pensiero, in nome della Storia, del pubblico con la
sopportazione o, ancora peggio, l’esorcizzazione della morte, laddove gli Antichi cercavano la
saggezza con l’accettazione della morte, salvaguardando il privato insieme al pubblico...
F: il dono delle lacrime: l’espressione, umile e sublime, arriva a noi dalla tradizione mistica del
cattolicesimo, in cui piangere era considerato una grazia… ”una carisma dello Spirito santo” (il
filosofo Jean-Louis Chrètien), un beneficio che libera la vita umana dal suo egoismo… ”Chi non
piange non vede”, dice Victor Hugo, e Michelet precisa: chi non piange vede solo i grandi
singoli collettivi dei Tempi moderni, vale a dire dell’epoca del movimento: la Storia, il Progresso,
la Rivoluzione…
T: le lacrime permettono infatti di scendere dal collettivo, dall’ideologia, dal pubblico e accedere al
privato, alle parti più profonde di noi e, per e attraverso esse, all’amore, al cuore, all’intimità...
F: a percepire l’umanità come un tutto, si fa economia della morte. Mentre la morte esiste… in
realtà la Ragione non assolve il suo compito: pretende di essere lucidissima, ma perde di vista
l’essenziale. Insomma, l’aridità del cuore, oltrechè immorale, è anche inesatta… Noi facciamo
parte di una maestosa totalità generatrice di secoli, che però viene spezzata da ogni morte
individuale. C’è Prometeo e c’è Orfeo. C’è il processo e l’abisso… Moderni e mortali, siamo
lacerati tra la Storia alla Hegel e la Storia alla Michelet… (per arrivare a concepire) la Storia
come una protesta di amore (Barthes in “La chambre claire”)… così i sacerdoti della Ragione
hanno dimostrato di essere senza pietà… e inumani in nome dei diritti dell’umanità sofferente.
L’accesso alla singolarità consentito dal dono della lacrime, per loro era precluso dai singhiozzi
versati sugli archetipi… sono diventati assassini e hanno scatenato un disastro senza pari.
Disastro che oggi scuote (o dovrebbe scuotere) la fede moderna...
T: mi piace questa sottile distinzione tra l’umanità come concetto, “un tutto” che permette la
razionalizzazione in termini di “la Storia, il Progresso, la Rivoluzione” rimuovendo la
consapevolezza della morte, da una parte, e “la pluralità umana” fatta di singoli per cui “la morte
esiste”, dall’altra. Ne deriva il paradosso dei Moderni di essere “senza pietà … e inumani” in
nome “dell’umanità sofferente”. Gli è che si può amare il singolo e non l’archetipo...
F: ”Là dove si leva l’alba del Bene, muoiono vecchi e bambini, e corre il sangue” dice Ikonnikov, il
personaggio secondario ma essenziale di “Vita e Destino” che nel suo paese ha visto agire “la
forza implacabile dell’idea di bene sociale”...
T: per correre dietro al Bene sociale si massacra il bene individuale...
F: nel gennaio 1977… 241 intellettuali cechi distribuiscono una petizione indirizzata al potere
comunista dell’epoca per invitarlo a rispettare gli impegni internazionali da esso assunti in
materia di diritti dell’uomo… (accordi di Helsinki di 2 anni prima)…
T: si parla e straparla di diritti che permettano la libertà e la crescita della persona, ma il sistema di
potere non ha nessun interesse, anzi...
F: comunque una cosa è sicura: il 1977 segna una svolta. Da allora in poi, la messa in ordine
marxista del corso del mondo non solo cade in discredito presso molti intellettuali occidentali,
ma viene soprattutto tacciata di obsolescenza. Un’altra epopea ne prende il posto. Un’altra
“grande narrazione” (Jean Francois Lyotard) esercita il suo ascendente: è quella che Tocqueville
racconta nella “Democratie en Amerique”… Il motore della storia non è più la lotta di classe, ma
quello che Tocqueville chiama, pieno di terrore e ammirazione, lo “sviluppo graduale
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dell’eguaglianza delle condizioni”… Quello che un tempo dipendeva dalla natura, ora dipende
dalle convenzioni… Quello che è potrebbe essere altrimenti… “I servi non sono solo uguali tra
loro; essi, in qualche modo, si può dire che siano uguali ai loro padroni”… ”A ogni momento il
servo può diventare padrone e aspira a diventarlo… Non che siano per natura inferiori l’uno
all’altro; lo diventano per effetto del contratto. Entro questi limiti uno è servo, l’altro padrone; al
di fuori sono due cittadini, due uomini”...
T: e Tocqueville introduce una nuova sega mentale ideologica... quella dell’eguaglianza che, come
già rilevato, ha solo valore strumentale. Non c’è famiglia o, più in generale, Comunità sana se
accanto ai diritti, all’uguaglianza portati dal codice materno, non si affiancano i doveri, la
responsabilità, la meritocrazia portati dal codice paterno. Altrimenti, sulla base della sola
uguaglianza, tutto si livella sulla mediocrità, perché si mortificano e deprimono le energie di chi,
capace di promuovere sviluppo della Comunità, non si vede riconosciuto e premiato. Ecco che,
alla luce della consapevolezza, c’è da rivedere qualcosa nella gestione del sociale. Altrimenti,
come scrive lei, “è come andare verso la morte. La morte (che) non fa alcuna differenza”...
F: un secolo e mezzo dopo Tocqueville, il risultato è davanti ai nostri occhi: la frattura economica
non è stata riassorbita, le differenze di reddito tra dirigenti e impiegati sono addirittura
vertiginose, ma come dice Renaud Camus, bisogna essere sordi, ciechi e affetti da amnesia per
credere che ci sia ancora una frattura sociale. Le barriere hanno ceduto: regna
l’indifferenziazione… lo stesso uomo democratico… strappa il velo alle convenzioni e si
esprime con la stessa disinvoltura, con la stessa sciatteria di linguaggio… 1977:
improvvisamente è diventato moderno sostenere il movimento democratico verso l’equivalenza
generalizzata della “pratiche culturali”...
T: e così invece di andare verso la democrazia e la tolleranza e la cooperazione che la
consapevolezza può dare, si va verso l’indifferenziazione sociale fatta di sciatteria
nell’equivalenza delle “pratiche culturali”...
F: i Moderni una volta esaltavano le masse e denigravano la cultura di massa… Moderno era il
discorso che ricordava la dura realtà della divisione sociale e lasciava sentire il rumore della
battaglia a un pubblico immerso nell’ipnosi del divertimento planetario… Basta una piccola
inoculazione critica per proteggere il sistema dal rischio di una sovversione generalizzata...
Morale? Nel migliore dei mondi possibili, tutto va per il meglio. Attraverso il vaccino e qualche
altra figura, di cui alla fine delle “Mythologies” Barthes fornisce il catalogo, l’idea di
cambiamento viene surrettiziamente espulsa dalle coscienze…
T: il sistema di potere non ha nessun interesse, anzi proprio non vuole, una crescita sociale, uno
sviluppo di consapevolezza. Cerca sempre di proteggersi dal “rischio di una sovversione
generalizzata” senza però rendersi conto che va verso il caos e l’ingovernabilità sull’onda della
sola attenzione e soddisfazione dei diritti rivendicati senza sollecitare e promuovere una
consapevolezza che porti in conto anche i doveri, le responsabilità. Ormai le elezioni si vincono
per un pugno di voti e le piazze si riempiono continuamente di gente che protesta contro i
governanti in carica. Sono sintomi della ingovernabilità prossima ventura...
F: niente di obbligatorio, tutto è opzionale ormai … Il consumatore dunque non è l’uomo alienato,
condizionato o “unidimensionale” per riprendere la formula di Herbert Marcuse; è invece un
centro decisionale permanente, un soggetto aperto e mobile che non si determina più in funzione
di una legittimità collettiva anteriore, ma solo in funzione dei suoi moti della ragione e del
cuore… (il sociologo Gilles Lipovetsky)… non bisogna deplorare lo spreco e l’obsolescenza
generalizzata, ma solo celebrarli, risponde il sociologo, anche e soprattutto quando toccano la
sfera intellettuale: “Le tecniche promozionali… mettono in circolazione le autorità intellettuali,
moltiplicano riferimenti, nomi e celebrità… rendendo equivalenti paccottiglie e capolavoro, cose
serie e facete… s’innesca un processo sistematico di desacralizzazione e rotazione accelerata di
opere e autori”. Rendiamo grazie al vortice pubblicitario: anziché imporsi dall’esterno, sotto
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forma di un’autorità trascendente, anche la cultura diventa, come tutto il resto, oggetto di
consumo… ”In questo senso, conclude Lipovetsky, il marketing del pensiero compie un lavoro
democratico: anche se consacra regolarmente personaggi da avanspettacolo, dissolve le figure
assolute del sapere e gli atteggiamenti di riverenza immutabile, a vantaggio di uno spazio di
interrogazione sicuramente più confuso, ma più largo, più mobile, meno ortodosso”. A moderno,
moderno e mezzo. La società dei consumi priva l’individuo della libera disposizione di se stesso,
dichiarano gli archeo-Moderni, gli impedisce di inventarsi da solo, blocca con le sue
rappresentazioni, le sue immagini, i suoi miraggi, i suoi sortilegi, la dinamica egalitaria della
storia. I neo-Moderni, invece, si entusiasmano per le virtù laiche e sono grati alla società dei
consumi che porta avanti, tra frizzi e lazzi, la grande traiettoria profanatrice della
secolarizzazione e della democratizzazione. Né gli uni né gli altri, però prestano ascolto al
vocabolario che adoperano. È stata Hannah Arendt a prendere la parola per quello che è, e a
cogliere il consumismo come un’attività culinaria. Consumare vuol dire ingurgitare…
Bombardandoci di artifici e inculcandoci falsi bisogni, il consumismo ci allontana sempre di più
dalla vita naturale… quello che teme Hannah Arendt è che il tempo libero finisca per regnare
sovrano sulla sfera della libertà…
T: tutta apparenza, dunque. In realtà si coltiva l’adattamento degli individui sventolando cazzate e
imbrogliando nel far apparire che sono tutti saggi e autonomi (“uomo... soggetto aperto e
mobile… che si determina solo in funzione dei suoi moti della ragione e del cuore”) con
l’equivalenza di “paccottiglie e capolavoro”. Gli è che il consumismo fa apparenza di
democrazia, spruzza democrazia e se ne va tralasciando di affrontare i problemi nella loro vera
essenza. Nella realtà e con l’illusione di democrazia, rende gli individui dei sonnambuli, dei
‘drogati’ che perdono di vista l’essenza dei problemi. Restano bambini con i loro capricci, le loro
pretese nobilitati come “moti della ragione e del cuore”. Come sostengono gli archeo-Moderni. E
così pure Hannah Arendt ci fa intravedere come l’ubriacatura consumistica distoglie da sé,
spinge l’attenzione verso l’esterno, l’immagine senza poter mai avviare un’attenzione verso
l’interno, un’introspezione che possa condurre a una consapevolezza e libertà interiore senza
farsi abbindolare dal collocare la libertà nello scegliere tra consumi o tempo libero...
F: Tocqueville …era angosciato dal vedere la passione del benessere impadronirsi dell’uomo
moderno fino a fargli dimenticare l’esistenza delle altre aspirazioni. Il processo democratico è in
marcia, diceva, ma verso dove?…
T: Tocqueville era giustamente angosciato. L’unico, forse, che si ponesse un problema di direzione
di marcia e di integrazione consapevole...
F: a ispirare o orientare la rilettura entusiasta e univoca di Tocqueville, è stata la risonanza del
dissenso nei paesi dell’altra Europa, come si è detto. E, a ben guardare, in Tocqueville, in
Hannah Arendt, e nei dissidenti più convinti si esprime la stessa inquietudine e la stessa critica.
In “Potere dei senza potere” testo fondatore scritto nel 1978, Vaclav Havel, per esempio, mette
in guardia i potenziali lettori dalla tentazione di contrapporre il mondo libero e il blocco
sovietico come due entità non solo antagoniste, ma imparagonabili… Sostenendo con forza che
“il sistema post-totalitario si è sviluppato sul terreno dell’incontro storico della dittatura con la
società dei consumi”, Havel istituisce un rapporto tra il generale adattarsi della vita alla
menzogna e la “capacità di rinunciare a qualsiasi senso superiore davanti alle lusinghe
superficiali della società moderna”… A causare il vuoto e il grigiore della vita, dice insomma
l’intellettuale perseguitato, non è solo l’assillo del Potere, la censura, il controllo politico,
un’ideologia soffocata e le violazioni dei diritti dell’uomo, ma la vita in sé e per sé, la vita come
orizzonte vitale unico, la vita coi suoi cicli, la vita indaffarata degli uomini “che girano in
continuazione su se stessi per procurarsi piccoli e volgari piaceri di cui riempire l’animo”, come
dice Tocqueville alla fine del suo grande saggio…
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T: ecco come, senza bussole e all’insegna del perseguimento del meglio, della ‘felicità’, si arriva al
“vuoto e grigiore della vita”, da una parte, ed alla nevrosi degli uomini “che girano in
continuazione su se stessi”, dall’altra,...
F: Hannah Arendt insiste in continuazione nella sua opera sul legame tra creazione del nuovo e
conservazione del mondo…..”La scuola dev’essere conservatrice proprio per preservare ciò che
di nuovo e rivoluzionario c’è in ogni bambino”. All’emancipazione non si accede seguendo
solamente la freccia del tempo, ma per mezzo di una deviazione fra i segni di umanità depositati
nelle opere di cultura. Andando a scuola da Cicerone non si impara ad essere Cicerone, ma a
essere se stessi, dicevano già i maestri del Rinascimento. E questo vale per ogni bambino,
aggiunge Hannah Arendt…
T: come Winnicot sostiene che per fare il genitore ‘giusto’ bisogna dare al figlio la ‘giusta’ dose di
frustrazione, così la scuola conservatrice può consentire al bambino di cercare il nuovo e
rivoluzionario, fare “deviazione”...
F: il termine moderno dunque ricopre due distinte attese, e bisogna indagare questo dualismo. Per
farlo partirò da Pèguy, che più di ogni altro autore prima o dopo di lui, è stato rigorosamente
moderno e perdutamente antimoderno. Pèguy ha fatto il suo ingresso nella politica e nella
letteratura prendendo sul serio l’idea moderna di eguaglianza…- nessun uomo è per natura
diverso o inferiore a un altro -… Così Pèguy è talmente attratto dalla novità moderna, che...
sceglie spontaneamente la forma dell’utopia. Ma il nuovo di cui Pèguy si innamora esplorandone
le ultime possibilità, ha come caratteristica non la cancellazione delle tracce dell’Antico, ma la
pluralità attuale di quelle tracce; non l’abrogazione del passato, ma l’aspetto retroattivo della
rivoluzione egalitaria. Per usare le parole di Michelet, uno dei grandi ispiratori di Pèguy, la città
da cui nessuno deve essere esiliato è “una città comune tra i vivi e i morti”. Però i conti non
tornano, constata nel 1897 Pèguy, che diventa socialista perché non tutti i membri della specie
umana hanno diritto di cittadinanza. Il che vuol dire, per prima cosa, che il socialismo per lui non
è un coronamento, un punto di arrivo, un’apoteosi, ma una premessa. Non è nemmeno
un’ambizione materialistica per l’umanità, ma la rivolta contro la condanna di una parte
dell’umanità a una vita esclusivamente materiale: “Fino a quando i miserabili non sono tolti dalla
miseria, i problemi della città non si pongono; togliere senza eccezione i miserabili dalla miseria
è il dovere da compiere, senza il quale non possiamo nemmeno prendere in esame quale sia il
primo dovere sociale”. Il vero scandalo per Pèguy è la miseria, non la povertà. La vita economica
del povero è assicurata: è vero che non accede a un certo numero di comodità, ma è libero… I
miserabili, invece, non si dimenticano mai di se stessi. Vietata ogni trascendenza per loro.
Reclusa ogni tradizione. Girano a vuoto nella gabbia del bisogno… Aprire, e se necessario
forzare, quella porta affinché nessuno sia mantenuto in esilio nella miseria: ecco la missione che
sollecita Pèguy. In realtà egli non aderisce a una promessa di abbondanza (“Quando un uomo è
provvisto del necessario, del necessario vero, il pane e il libro, poco importa a noi la
distribuzione del lusso”) ma a una promessa di memoria e una promessa di cittadinanza. Non
fornisce la soluzione definitiva del problema umano; rivendica l’accesso di tutti alla condizione
umana e ai suoi problemi insolubili… ”Man mano che la rivoluzione sociale affrancherà
l’umanità dalle servitù economiche, gli uomini esploderanno in variazioni inattese”… Eppure
Pèguy è tanto antimoderno quanto lo è Barrès per esempio, o persino Drumont. Lui però, da
parte sua, non si stanca mai di denunciare, non l’idea moderna dell’uguale, ma il dogma
moderno del progresso… Sotto i colpi dello scandalo (Dreyfus), crolla il piano di un graduale
trasferimento all’uomo degli attributi divini di onniscienza e onnipotenza… La caratteristica dei
Moderni, dice ancora Pèguy, è che fanno i furbi. Sanno su cosa poter contare…
T: Pèguy mi sembra fornisca un esempio di fantasia romantica e velleitaria contrapposta alla realtà
non studiata nelle sue problematiche umane reali e pratiche. Immaginando uomini consapevoli
capaci di accontentarsi “del necessario, del necessario vero, il pane e il libro” e non uomini
inconsapevoli, ammaliati dal consumismo. Senza dire del sogno romantico moderno
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dell’eguaglianza che discende dal solo codice materno e porta, come già rilevato, al livellamento
sulla mediocrità. Solo alla fine prende coscienza del non poter ‘progettare’ su un uomo con
“attributi divini di onniscienza e onnipotenza” ma che “la caratteristica del Moderni è che sono
furbi”. Dalla giusta “eguaglianza delle condizioni” di ispirazione americana, si torna a parlare e
si continuerà a ribattere su eguaglianza tout-court che senza equità eleva la furbizia a valore... E
gli uomini “esploderanno in variazioni inattese” non solo e tanto quando “la rivoluzione sociale
affrancherà l’umanità dalle servitù economiche”, ma soprattutto quando saranno più consapevoli,
con maggiore libertà interiore che permetta loro di uscire dal sonnambulismo e attualizzare le
potenzialità creative bloccate dalle barriere ed inibizioni dell’inconsapevolezza. Ed è per questo
che il Sistema di Potere non ha nessun interesse ad una crescita generalizzata di consapevolezza...
(SECONDA LEZIONE)
F: la cultura (Hannah Arendt) deriva da colere che rinvia al “commercio dell’uomo con la natura”…
la cultura è innanzitutto l’agricoltura… un campo, per quanto fertile, non può essere produttivo
senza cultura, e lo stesso vale per l’anima senza educazione… la cultura dell’anima però è la
filosofia... la filosofia è la risposta alla domanda “che cos’è?”. Finchè il Bene si identificava
nella tradizione o nel costume, la domanda non si poneva… Ma la ricerca delle cose prime
richiede una lunga preparazione. Impossibile bruciare le tappe ed essere di colpo filosofi…
T: questo è parlare di consapevolezza. Ma diventare consapevoli è processo lungo ed è “impossibile
bruciare le tappe”, ma se mai si parte ci sarà un ‘troppo tardi’...
F: libero dalla fatica e dai travagli di una vita di lavoro, l’uomo conosce il piacere di pensare…
Aristotele ne la “Metafisica” spiega che “tutti i bisogni, o quasi, erano già soddisfatti, riguardo
alla comodità e persino ai piaceri della vita, quando sopravvenne il pensiero di questo genere di
ricerca”…
T: infatti. Per la ricerca di consapevolezza bisogna prima essere affrancati dalla troppa pressione dei
bisogni materiali...
F: il primato della contemplazione disinteressata ha dato spazio ai giorni nostri a tutt’altra accezione
del liberalismo… la libertà è il diritto occuparsi tranquillamente (e febbrilmente) degli affari
propri, non la possibilità di distaccarsene per progredire nella ricerca della verità… il regime
liberale nel quale viviamo conosce solo l’utile… la nobiltà del vivere bene viene ridotta alla
passione universale del benessere...
T: e così, anziché elevarsi verso la consapevolezza si cade nella nevrosi in cui si cerca di distrarsi
con gli “affari propri”, “l’utile” e qualsiasi altro modo pur di non sentire il senso di vuoto e
l’isolamento nella propria vita, non attraversare gli inferi...
F: la distinzione tra Lettere e Scienze... è vecchia quanto l’occidente greco-romano: da un lato, le
regole del linguaggio; dall’altro, i teoremi matematici. Anche per gli Antichi esistevano due
culture. Ma non erano in contrapposizione, bensì successione... non la violenza disgiuntiva del
“o...o”... ma una sapiente e rigorosa gradualità che, secondo il “De magistero” di Sant’Agostino,
doveva condurre lo spirito “a amare l’ardore e lo splendore di quel mondo lontano in cui sta la
vita felice”…
T: tutto per stimolare e sviluppare intelletto e razionalità senza integrare il ‘sentire’ e la ricerca di sé,
il “cognosce te ipsum” degli Antichi. Eppure si pensava che questo, anziché fare l’uomo a una
dimensione, portasse a “la vita felice” (Sant’Agostino)...
F: dalle cose terrestri alle realtà immateriali – era questa la strada… Per questo, lo studio delle
discipline liberali non per un fine in sé, ma per i Greci e i Romani costituiva una propedeutica
alla filosofia… permetteva alla teologia di presentarsi non come un’antiscienza o come
un’antifilosofia, ma come la scienza sacra, la scienza suprema...
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T: era sì la “strada” ma con quali strumenti, mezzi?? La razionalità?? E così nasce la teologia come
“scienza suprema”...
F: se vuole contemplare il vero in tutto il suo splendore, il filosofo in effetti deve mettere
imperativamente a tacere i borborigmi del suo stomaco, e rifiutare la testimonianza dei sensi…
In quella che viene scambiata per la morte, egli vede la vita liberata dalla sua prigione di carne e
restituita finalmente a se stessa…
T: così il filosofo, paradossalmente, diventa tutta ‘mente’ perdendo il ‘sentire’, il contatto e “la
testimonianza dei sensi” attraverso cui, invece, si fa strada la consapevolezza per arrivare alla
vera atarassia perseguita dal filosofo...
F: (il filosofo) ha un solo desiderio: liberarsi dal corpo. Perché il corpo la turba (l’anima), la
ingombra, l’inganna… Impossibile, nell’unione col corpo, conoscere qualcosa in modo puro. Il
filosofo quindi accetta il divorzio finale tanto più che filosofare significa imparare a divorziare...
T: quella di liberarsi del corpo per liberarsi dai turbamenti è la via facile. Il difficile è passare
attraverso i turbamenti, il sentire, gli inferi per arrivare a fare distanza, osservarli con il distacco
consapevole che non è più travolto dai turbamenti fino a conoscere in modo più “puro”. È questo
il vero filosofo che “impara a divorziare”, cioè fare distacco...
F: Montaigne risponde che... “il giusto studio della vita consiste nel sapersi regolare, nel
comportarsi bene, e sopportarsi”… per il quale (il filosofo) si tratta non di esercitarsi a morire,
ma di “sapere godere lealmente del suo essere”… ”Vogliono uscire da se stessi e sfuggire
all’uomo. È una follia…”...
T: ecco, infatti, che Montaigne è più sulla strada della consapevolezza come supporto alla filosofia,
alla vita, con il piacere dell’essere. Altrimenti il filosofo non è altro che un altro tipo di nevrotico
che tenta l’impossibile ‘fuggire’ da se stesso...
F: (Montaigne) dà alle arti liberali tutt’altro senso. Queste discipline infatti non hanno più il
compito di liberare progressivamente gli uomini dal mondo umano, ma di liberarlo proprio per
questo mondo… ciò che si scopre oltre la sfera dell’utile non è lo spettacolo divino del cosmo o
la gloria invisibile del divino, ma “la forma intera dell’umana condizione”...
T: mi piace sentire questo. Fa per me anche la differenza tra filosofia (liberazione dal mondo umano)
e consapevolezza (liberarsi per questo mondo)...
F: con Galileo “l’universo è scritto nella lingua matematica… senza... è un vano errare in un oscuro
labirinto”... e non può esservi metodo o certezza se non là dove l’oggetto viene trattato in
funzione di principi matematici… la letteratura evolve nel mondo illusorio in cui la terra è un
suolo e il sole vi tramonta. Riferisce fedelmente tutto ciò che vede, e ciò che le appare, ma
l’apparenza non è la verità… ”e tutto il resto è letteratura”… usare la parola “poesia” nel senso
di inezia, elucubrazione o assurdità…
T: la consapevolezza non può venire dalla matematica. C’è l’esaltazione maniacale di vedere nella
scienza, nella matematica la soluzione di tutti i problemi sia tecnici, sia umani o, meglio, di
guardare ai soli problemi tecnici con la implicita convinzione che i problemi umani saranno
assorbiti dai successi della scienza, della matematica, in ciò dando poco valore e credito a
letteratura e poesia. Senza la consapevolezza che ci si trova di fronte a due campi distinti e
interagenti: quello operativo/razionale e quello esistenziale/relazionale, ambedue necessari, per
cui non vale l’o/o ma l’e/e. Per fare un esempio banale, se devo far passare un tavolo attraverso
una porta è necessario il giudizio sulla larghezza della porta e del tavolo. In questo caso è bene
stare nel giudizio, nel razionale. Il razionale, e per esso il giudizio, non funziona, invece, nel
campo esistenziale/relazionale: se si giudicano gli amici in quel che fanno/sono, cercando di far
in modo che si adeguino ai propri desideri, si andrà incontro a dei problemi. Una più chiara ed
accettata distinzione tra linguaggio e campo operativo/razionale ed esistenziale/relazionale
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farebbe cadere la polemica tra scienza e umanesimo, tra economia e religione (che contesta
l’efficienza, l’organizzazione etc. che appartengono al piano operativo/razionale) a vantaggio di
una convivenza e integrazione, con reciproco rispetto. In altre parole e in metafora, la
matematica non ha niente a che fare con la poesia e viceversa, ognuna avendo le sue ragioni di
esistere e necessità senza dover entrare in contrapposizione. C’è bisogno di entrambe, così come
della testa e del cuore, del maschile e del femminile. I confini tra il tempo dell’intimità e il tempo
degli affari erano e sono, invece, molto spesso confusi e le due aree confluiscono l’una
nell’altra...
F: “Il fine della filosofia non era più la contemplazione disinteressata dell’eterno, ma il sollievo alla
condizione umana” (Leo Strauss). Cartesio si mise a studiare il “grande libro del mondo”…
utilizzando il resto della sua giovinezza a viaggiare, osservare… altri costumi… e prendere atto
di quanto fosse legato, nella sua stessa tradizione, al condizionamento o al pregiudizio…
“riformare i miei pensieri e costruire su un fondo che sia completamente mio”...
T: ed è, infatti, così che la filosofia si avvicina alla consapevolezza...
F: se prestiamo fede a Pascal, gli uomini sono infelici perché sono agitati e se per causa di questa
agitazione si espongono ai pericoli e alle fatiche, lo fanno solo per evitare di guardare in faccia la
loro condizione. Conosciamo la conclusione di Pascal: “tutto il malessere dell’uomo viene da
una sola cosa, che è di non saper stare nel riposo in una stanza”...
T: Pascal ha la prima intuizione della nevrosi. Evviva!! Ma nessuno lo segue e approfondisce...
F: piano piano, l’idea che la razionalità scientifica rappresentasse la forma più elevata e più perfetta
della ragione, si impose in ogni campo… allo stesso modo il pensiero politico moderno affrontò
la questione dello Stato a partire dalle modalità elementari (e definite in maniera univoca) della
natura umana…
T: e quali erano le “modalità elementari (e definite in maniera univoca) della natura umana”??
Nulla si dice, nulla si ricerca e, se del caso, alla luce della razionalità che non è lo strumento
adatto per quanto ho esposto prima...
F: per Burke, insomma, quando la ragione si esprime in prima persona – Io penso! – non è la
ragione a parlare, ma è l’io che delira scambiando se stesso per la ragione… ha consumato, per la
massima disgrazia degli uomini, il divorzio tra il razionale e il ragionevole, tra la perizia e
l’esperienza, tra l’azione metodica e la saggezza pratica. C’è tutto da temere, in effetti, da una
intelligenza libera da ogni scrupolo di prudenza, che… si affida solo ai propri ragionamenti...
T: ed ecco come dalla ragione si può facilmente scivolare nell’Ego. Pascal aveva intravisto la
nevrosi, Burke intuisce l’Ego... Ancora evviva, ma nessuno ascolta e approfondisce...
F: contro questa sfrontatezza imperturbabile… Burke rivendica una saggezza più ampia, più dolce,
più umile, che anziché imbavagliarla presta ascolto alla voce dei morti...
T: ecco che Burke tenta di rivendicare una ricerca di saggezza e per essa di consapevolezza... Unico
nella moltitudine??? E, se del caso, quali strumenti per arrivare ad un tale obiettivo??...
F: alla chiarezza del concetto, il romanticismo contrappone l’introspezione, i mezzi toni, le
contraddizioni della presenza umana. La realtà, dice il romanticismo, trascende l’intellegibilità...
T: e sono i bistrattati romantici che cominciano a gettare i primi semi per un possibile sviluppo di
consapevolezza...
F: in genere si dice, a giusto titolo, che la caratteristica dei Tempi moderni è l’umanesimo. Dio si
allontana, si nasconde, si dilegua, il posto suo viene preso dall’Uomo. L’antropologia soppianta
la teologia… Non c’è un umanesimo ma tre: quello galileiano-cartesiano; l’umanesimo classico;
l’umanesimo romantico… mentre nel regno del primo umanesimo, il tempo e la luce si
proiettano in avanti, negli altri due si alleano con le tenebre. Nella sua celebre conferenza del
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1959, Charles Percy Snow ha preso atto del conflitto degli umanesimi. Ha descritto infatti da un
lato i letterati che, sposando l’umanesimo classico e l’umanesimo romantico, non guardavano al
progresso, dall’altro gli scienziati… portati “a cercare soluzioni e a credere che esistono, sino a
prova contraria”. I primi deploravano l’involgarimento del mondo, i secondi partecipavano con
fierezza al grande progetto di rendersi “padroni e possessori della natura” per alleviare la
condizione umana...
T: quanta inconsapevolezza e paradosso c’è nel sostenere che, “a giusto titolo, la caratteristica dei
Tempi moderni è l’umanesimo” senza voler considerare l’uomo con le sue problematiche
esistenziali, ridotto a homo oeconomicus, oggetto consumatore!! E come se per alleviare la
condizione umana bastassero la tecnologia e qualche pillola che rendano l’uomo “padrone e
possessore della natura”, senza risolvere certo il malessere della sua anima...
F: il mondo non è niente di più di ciò che dice la scienza. Gli enunciati scientifici… descrivono il
reale; gli enunciati metafisici e teologici, come quelli poetici, esprimono un’emozione… i
metafisici si inebriano di parole come “Incondizionato”… ”essere dell’essente”… ”Spirito
assoluto, “Essenza”… ”Io”, “Non io” etc. immaginano di misurare un campo in cui c’è del vero
e del falso. E invece perdono se stessi, si raccontano delle favole, si fanno illusioni: di fatto, non
si dicono nulla… Artisti mancati, filosofi scadenti, i metafisici niente hanno di vero..(Carnap)…
La filosofia non ha nulla da aggiungere alla conoscenza… in mancanza di uno strumento di
analisi adatto, pullulano gli pseudoproblemi, i falsi enunciati, la zizzania…
T: come se le emozioni non fossero anch’esse realtà e non favola. Il giorno in cui si potessero
‘misurare’ diventerebbero realtà?? Nessuno ha ancora fatto la ‘mappa’ dell’anima e provato a
fare ‘logica’ anche in questo campo per trovare la ‘verità’, appunto, e solo perché manca “uno
strumento di analisi adatto”...
F: l’Europa, per il fondatore della fenomenologia, (il filosofo Edmund Husserl) è molto di più che
uno spazio geografico, una realtà storica, una comunità di destino. È una figura dello spirito, nata
in Grecia tra il VII e il VI secolo avanti Cristo. È lì, in quella nazione, che verso il mondo esterno
venne alla luce un atteggiamento di tipo nuovo: la filosofia o il movimento dell’anima attraverso
il quale gli uomini si sottraggono al potere dell’abitudine e pongono la domanda: “Che cos’è…”
T: altro, dunque, che radici giudaico-cristiane su cui tanto si dibatte per la compilazione della
Costituzione europea!! L’anima nasce in Grecia che era protesa alla ricerca della consapevolezza,
del senso della vita più di quanto non lo siano i giudaici-cristiani che si affidano anzitutto al
dogma...
F: fu allora, spiega in sostanza Husserl, che si poté stabilire un nuovo regime di verità: “Una verità
che vale allo stesso identico modo per tutti coloro che non sono accecati dalla tradizione” prese il
posto della verità quotidiana incatenata alla tradizione, indistinguibile dal costume. Ed è questo
ad aver lanciato l’Europa, a farla accedere alla “dignità di un’umanità capace di compiti infiniti”:
l’emergere miracoloso del pensiero interrogativo...
T: Husserl intravede, attraverso la filosofia e l’emergere miracoloso del pensiero interrogativo, la
strada verso la consapevolezza per arrivare alla “verità che vale allo stesso identico modo per
tutti coloro che non sono accecati dalla tradizione”. Coloro che arrivano a rendersi conto e
liberarsi dei ‘condizionamenti’ senza rimanerne “accecati”...
F: ma quella stessa umanità adesso, secondo Husserl, sta attraversando una crisi forse terminale:
minaccia di sparire, dopo essere diventata sempre più estranea alla propria essenza. Nel 1935, un
tale pessimismo non ha nulla di straordinario. Tutti hanno paura. Il mondo intero è preoccupato.
L’Europa trabocca di profeti di sventura. Parlare di crisi è corrente, addirittura banale. Lo è assai
meno, invece, andare a cercare l’origine dell’abbandono da parte dell’Europa della propria figura
spirituale nel pensiero inaugurale dei Tempi moderni, lo stesso pensiero che ha reso possibile la
concezione scientifica del mondo. Husserl in realtà risale a Galileo, mostrando come la
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rivoluzione galileiana di cui il Circolo di Vienna rivendica l’eredità, non si collega alla vittoria
della scienza sull’ignoranza, l’illusione o il pregiudizio. Ma realizza quella “sostituzione
attraverso la quale il mondo matematico delle idealità viene preso per l’unico mondo reale”...
T: e la crisi, con il pessimismo del 1935, sono analoghi a quelli di oggi in cui ancora non ci si pone
il problema che già nel 1935 aveva intravisto Huserl, cioè l’aver assunto la razionalizzazione
come unico ‘metodo’, “il mondo matematico…per l’unico mondo reale” che va bene per la
scienza ma, sul piano esistenziale ed umano, costituisce un meccanismo di difesa e nasconde il
mondo-della-vita di Husserl, il mondo reale, come già osservato,...
F: il gesto di Galileo… è un gesto che rivela e nasconde allo stesso tempo: “rivela la natura
matematica, l’idea metodica, aprendo la strada all’infinità delle scoperte..”. Ma
contemporaneamente nasconde “il mondo realmente dato nell’intuizione, realmente sentito e
percepibile, entro il quale si svolge in pratica tutta la nostra vita” (Husserl)... Questa decisione ha
fatto sì che “noi scambiassimo il metodo per il vero Essere”…
T: Husserl comincia ad accorgersi che la sola Ragione lascia fuori qualcosa che, alla fine, fa la
pratica della nostra vita… “il mondo realmente dato nell’intuizione, realmente sentito e
percepibile, entro il quale si svolge in pratica tutta la nostra vita”. E così abbiamo elevato il
metodo ad assoluto fino a “scambiare il metodo per il vero Essere”. C’è dunque bisogno di un
altro Metodo per il campo che ho definito esistenziale/relazionale, diverso, seppure interagente,
dal Metodo Galileiano rivolto al campo operativo/razionale del Fare, dell’agire...
F: Heiddeger, che di Husserl fu allievo e collaboratore, … riconosce come lui che siamo entrati
nell’epoca della concezione scientifica del mondo… si preoccupa di un mondo in cui questa
concezione possa regnare in modo assoluto… Scambiare un metodo per il vero Essere… La
scienza galileiana, in altri termini, ribalta la priorità ontologica dei Greci: non regola il suo
progetto sulle possibilità della natura, regola la potenza della natura sulla costruzione in
progetto… (Kant già prima)...
T: i Moderni “scambiano un metodo per il vero Essere” ubriacati dall’euforia del dominio sulla
natura. Come se anche l’Essere potesse essere trattato alla stregua di un oggetto, una macchina...
F: questa messa in mora che la ragione rivolge al reale, Heiddeger propone di chiamarla Gestell…
mettere in evidenza, braccare, preporre… “Esistono dunque due tipi di pensiero, ognuno dei
quali è legittimo e necessario al tempo stesso. Il pensiero che calcola e il pensiero che medita”…
E comunque non bisogna credere che Heiddeger riservi il pensiero meditante a una piccola e
sdegnosa aristocrazia degli spiriti. Quel pensiero che richiede tanti sforzi e molte cure delicate è
tanto raro quanto i gesti più semplici e la lunga pazienza necessaria ai vecchi mestieri di una
volta… Non riusciamo più a cogliere quelle “non cose” molli e fluide che sono le immagini sullo
schermo televisivo, i dati conservati nei computer, i microfilm, gli ologrammi e i programmi…
T: comincia ad intravedersi la distinzione, di cui dicevo prima tra pensiero operativo/razionale ed
esistenziale/relazionale. Il pensiero operativo (il mercato) “che calcola” e il pensiero esistenziale
(relazionale) “che medita”. Entrambi con pari dignità... Non solo l’hard (le cose, collegate al fare)
ma anche il soft (le “non cose”, collegate al sentire)... riconoscendo la ‘saggezza’ dei “vecchi
mestieri di una volta”. Heiddeger vede la differenza tra il calcolare/ragionare e il
sentire/comunicare e dunque la necessità di perseguire la ‘felicità’ integrando l’hard (delle ‘cose’,
governate dalla Ragione) con il soft (delle ‘non cose’, delle emozioni, governate dalla
Consapevolezza). Con l’attenzione non solo allo ‘stare bene’ (Ragione), ma anche al ‘sentirsi
bene’ (Consapevolezza)...
F: “L’uomo per come è finora ha agito troppo e troppo poco ha pensato”, dichiarava Heiddeger…ha
salutato lo sforzo del nazionalsocialismo di sottrarre l’Europa alla morsa di quelle due versioni
concorrenti della “sinistra frenesia della tecnica scatenata e dell’organizzazione senza radici
dell’uomo normalizzato” che ai suoi occhi America e Russia rappresentavano all’epoca...
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T: l’uomo non solo ha troppo poco pensato, ma soprattutto ha considerato l’uomo come ‘oggetto’
prevedibile e governabile all’insegna della sola Ragione...
F: quello che accade alla letteratura, con l’erosione della tradizione poetica, accade anche
all’umanità risponde, in sostanza, Yves Bonnefoy… da quando il cartesianesimo ha preso
possesso delle coscienze, la poesia è stata disinnescata, il che non vuol dire soppressa, ma chiusa
nella prigione dorata dell’estetica… Hanno elaborato, intrepidi, i territori del sogno,
dell’immaginazione, della sensibilità, il che voleva dire che pure per loro non vi era più alcun
territorio della realtà che sfuggisse alla quantità e alla misura… ”lo scopo di una poesia in cui
appaiono parole come ‘nuvola’ e ‘raggio di sole’ non è quello di informarci su fatti metereologici,
ma di esprimere emozioni e suscitarne in noi di analoghe” (Carnap)… non informare non vuol
dire rinchiudersi in se stessi… ma fornire un tipo di conoscenza diversa dall’informazione...
(“C’è un concetto di un passo che avanza nella notte, di un grido, di una pietra che cade in un
cespuglio? Dell’impressione che fa una casa vuota?”, domanda Bonnefoy)…
T: disinnescare la poesia, e per essa meditazione e ricerca introspettiva, a vantaggio di quantità e
misura, equivale a credere che la matematica possa ricomprendere anche la poesia, la Ragione
possa condensare in sé anche l’anima. Come se l’uomo non avesse bisogno, anche e soprattutto,
di Bellezza oltre che di Ragione. Come se la ‘felicità’ si declinasse in teoremi e non in
emozioni... come se la produzione, unico oggetto del desiderio, non dipendesse pure e molto, dal
come si sente l’uomo produttore...
F: il disprezzo di C.P. Snow per la nostalgia estetizzante dei letterati si fondava ancora sulla
promessa di un miglioramento continuo. Ma il Metodo che sosteneva quella promessa, ora sente
la minaccia che incombe sulla biosfera, misura l’estensione del saccheggio, conta e calcola le
diverse forme di inquinamento... “Forse”, scrive Bonnefoy, “si riuscirà a comprendere che è la
società oggi ad essere causa del mondo, e a poter decidere se lasciare o meno un po’ di vita sul
globo terrestre disastrato dai nostri eccessi e dalla nostra follia”...
T: finalmente finisce il mito che il Progresso risolverà tutto avendo chiamato Progresso quel che è
solo Sviluppo e può anche arrivare a minacciare il Progresso con la follia per non aver incluso
nel Progresso anche la saggezza, lo sviluppo della Consapevolezza...
F: nel 1986 Milan Kundera (“L’Arte del romanzo”) ….riandando alle radici delle cose, vedeva in
Cervantes il cofondatore, con Cartesio, dei tempi moderni, l’epoca in cui il Dio cristiano perde il
suo potere sul destino dell’uomo. Ma l’emancipazione nei confronti del dogma religioso,
secondo Kundera, aveva preso contemporaneamente due strade distinte … se Cartesio pone
l’uomo nel mondo come soggetto sovrano, Cervantes, da parte sua, lo detronizza in modo
discreto… lo spirito del romanzo si ingegna a far rincretinire il principio della ragione. Il suo
dominio, infatti, è l’imponderabile, la sfumatura, la parte di verità che schiaccia inevitabilmente
ogni certezza trionfante…..”Proprio come Penelope, scrive Kundera in modo magnifico, lo
spirito del romanzo scuce la trama ordita la sera prima da teologi, filosofi e dotti”…
T: Kundera si accorge del paradosso dei tempi moderni di voler condurre l’uomo verso la ‘felicità’
all’interno della razionalizzazione che va bene per la scienza, ma nel mondo-della-vita, per dirla
con Husserl, nelle relazioni tra le persone, è un meccanismo di difesa che fa estraniazione e
impedisce l’intimità. Dunque ben lontana dal poter condurre alla ‘felicità’. È solo attraverso la
consapevolezza che si può affrontare la complessità e detronizzare la razionalizzazione...
F: nel 1963, quattro anni dopo la fragorosa conferenza di Cambridge, il fisico e romanziere Charles
Percy Snow ritorna sul tema ultrasensibile delle due culture. Tenendo ferma la tesi delle tribù
nemiche (“Tra gli scienziati e gli intellettuali letterati non esiste in pratica dialogo possibile.
Invece di considerarsi colleghi, nutrono gli uni per gli alti una sorta di larvata ostilità”), Snow
contesta, in quel supplemento, la validità della cifra due… si rimprovera di aver trascurato, o per
lo meno sottovalutato, l’esistenza di un terzo gruppo, gli “intellettuali che svolgono la loro
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attività in discipline tanto varie quanto la storia sociale, la sociologia, la demografia, le scienze
politiche, le scienze economiche, la psicologia etc.”. Tutti settori di ricerca con un punto comune,
osserva Snow: “si riferiscono al modo in cui gli esseri umani vivono o hanno vissuto e lo fanno
lavorando sulla base non di supposizioni gratuite, ma di fatti precisi”, Per il cuore
dell’universitario preso dal panico questa terza cultura in espansione è un balsamo, che lo rimette
in forma, gli restituisce la speranza di veder colmato il fossato e porre fine a una polemica, che,
prevede lui, affronterà i problemi trattati sinora dai letterati con la coerenza e l’oggettività
praticate dagli scienziati… Il progresso delle scienze umane annuncia la buona novella della
riconciliazione di tutte le intelligenze sui valori di metodo e di progresso… la terza cultura ha
cambiato il paesaggio intellettuale da cima a fondo…
T: si comincia a intravedere una “terza cultura” che aiuti ad affrontare la complessità con metodo
(nuovo e altro) senza farsi catturare dall’allora attuale metodo (la razionalizzazione) per rendere
possibile un percorso verso la consapevolezza. Viene chiarita la differenza e la necessaria
integrazione del linguaggio operativo/razionale ed esistenziale/relazionale, che citavo prima,
nella visione di una ‘terza via’, forse uscendo, una buona volta, dall’ostilità tra scienziati e
intellettuali per considerarsi colleghi, come auspicava Snow...
F: nel 1871, l’antropologo Taylor presentava la cultura come “quel complesso tutto che comprende
la conoscenza, la fede, l’arte, la morale, il diritto, i costumi e le altre capacità o abitudini
acquisite dall’uomo in quanto membro della società”. Un secolo più tardi, il sociologo francese
Bardieu rilanciava ”….la struttura e la funzione di questa cultura non possono essere dedotte da
alcun principio universale, fisico, biologico, non essendo unite da alcuna specie di relazione
interna alla ‘natura delle cose’ o a una ‘natura umana’”. Ogni società umana, a meno che non sia
disumanizzata, appartiene a una cultura. Poiché tutte le culture sono parimenti “arbitrarie”,
nessuna può valere per l’intera umanità…..Così, le due grandi tradizioni filosofiche del XX
secolo convergono, nel XXI secolo, verso la rinuncia alla pretesa di svelare l’Essere vero e verso
l’affermazione postmoderna dell’illimitata plasticità di uomini e cose...
T: ed eccoci al problema dello ‘scontro’ possibile di culture o civiltà, nessuna delle quali, si dice,
può valere per l’intera umanità, all’insegna di una nuova ‘distrazione’ dal problema di fondo,
quella del multiculturalismo o relativismo culturale. È alla luce della consapevolezza che si può
trovare quel che può valere per l’intera umanità. La consapevolezza sola può fare da collante nel
tentativo di “svelare l’Essere vero” e armonizzare “l’illimitata plasticità di uomini e cose”.
Perché non è che “ogni società appartiene a una cultura”, ma che ogni società elabora una sua
cultura. È la cultura ad essere espressione di una società e non viceversa...
F: l’apologia del pluralismo è figlia della contestazione romantica dell’Illuminismo. Ma è figliola
prodiga… Se non esistono altro che costruzioni sociali, perché mai privilegiare una rispetto
all’altra?…
T: se il problema di fondo diventasse chiaro si potrebbe privilegiare quella cultura che fa e/o
promuove consapevolezza...
F: quello che conta è il cambiamento. I romantici prendono partito per ciò che cade; i postmoderni
per ciò che fa cadere. I primi piangono, gli altri sghignazzano… Il pensiero postmoderno
delegittima sia l’idea del progresso sia la virtù della prudenza. Conta sul fluire, senza
preoccuparsi della sua destinazione. Destituisce il senso a beneficio della metamorfosi. Vuole il
cambiamento di per sé...
T: senza direzionare il cambiamento verso la consapevolezza?? Senza fare differenza tra
consapevolezza e caos?? È facile seguire il flusso, non prendersi responsabilità e rischiare, non
gestire. Solo che la naturale conseguenza, i risultati di una non gestione, sono senza dubbio
peggiori di quelli di qualsiasi gestione...
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F: omologa senza farsi pregare le infinite malleabilità e mobilità dell’essere. Anithing goes.
Qualunque cosa va, dice lui (Bardieu) sorridendo. E il sorriso democratico suona la campana a
morto della cultura generale….non c’è più una cultura generale, ma un’abbondanza di identità
particolari collegate attraverso la comune cultura degli apparecchi, delle norme, delle regole,
delle operazioni in vigore nell’universo della tecnica e del mercato. Il nostro tempo sostituisce
quell’ascensione senza fine che è la “cultura animi” con l’orizzontalità a perdita di vista delle
“pratiche culturali”...
T: e qui sta l’irresponsabilità dei postmoderni che abdicano a favore della tecnica e del mercato
rinunziando alla universalità di una “cultura animi”. Come se non ci fosse una sola scienza ma
tante scienze. È solo attraverso la consapevolezza che si può, come per la scienza, perseguire,
anche nel campo delle culture, un’universalità. La “cultura degli apparecchi” non è cultura per
definizione (si veda Taylor, che lei ha citato, per una definizione più pregnante di cultura). Una
definizione di cultura che mi piace per la sua sintesi e pregnanza profonda è: “quel che faccio e
come lo faccio quando non ci penso” che rimanda al proprio modo di Essere, nulla avendo a che
fare con i nozionismi e, a maggior ragione, con gli “apparecchi”...
F: C.P.Snow aveva ragione di pensare che la guerra delle due culture stesse per arrivare all’epilogo.
Ma aveva torto di rallegrarsene. L’epilogo, infatti, non consiste in una cultura che la vince
sull’altra, ma nel culturale che vince tutto, inghiotte tutto, e fa un unico impasto indifferenziato
del qui e altrove, del dentro e del fuori, dello spontaneo e del rozzo, del brutto e del bello, del
luogo comune e del pensiero, del triviale e del raro, gettando nell’oblio, rubandogli il nome, il
doppio lavoro di formazione di sé e di delucidazione dell’essere per dirigere il quale scienziati e
letterati, ancora ieri, litigavano furiosamente...
T: dalla descrizione del ‘miscuglio’ che legittima la postmodernità appare evidente l’assurdo. È
forse arrivato il momento di tornare a “litigare furiosamente” alla luce della consapevolezza.
Altrimenti il ‘miscuglio’ e la legittimazione di tutto portano solo a degrado, caos e
ingovernabilità, senza nessun “lavoro di formazione di sé e di delucidazione dell’essere”...
(TERZA LEZIONE)
F: ai Greci noi siamo debitori di una pratica della storia come ricerca e rapporto obiettivo delle
verità di fatto… Non dobbiamo dimenticare… la teoria delle razze sviluppata da Esiodo… e
infine venne l’età del ferro di cui Esiodo si duole di essere contemporaneo. Tipico di questa
razza, infatti, è vivere il proprio tempo nel dolore: “non smetteranno mai di soffrire di fatica e di
miseria durante il giorno, e di essere consumati dalle dure angosce che gli dei invieranno loro
durante la notte”. Ma per questa infelicità perpetua, Esiodo ha un rimedio: l’obbedienza ai cicli
naturali, la ripetizione monotona e pacifica del lavoro dei campi. Nel pensiero ellenistico il ciclo
è il rimedio al tragico…
T: Esiodo intravede il rimedio alla sofferenza della vita,da una parte, nella “ripetizione monotona”
che è una specie di meditazione o preghiera che distrae e, dall’altra, nel lavoro reso centrale nella
propria vita che è un po’ la nevrosi, ancora utile a distrarre. Strumenti utili a temperare la
sofferenza umana, ma non ad affrontarla per creare distacco e riuscire anche a non autoinfliggersela (cfr. Buddhismo). Allora come oggi gli uomini “non smetteranno mai di soffrire”,
ma oggi il possibile rimedio di base può stare nello sviluppo di consapevolezza che libera
psicologicamente e operativamente dallo stress nevrotico e conflittuale verso il lavoro ed i dogmi
della religione. La consapevolezza che aiuta a ridurre la sofferenza a vantaggio di un maggior
piacere di esistere...
F: Sant’Agostino suddivideva la storia terrena in sei epoche, ciascuna delle quali corrispondeva,
secondo lui,… a un’età nella vita degli individui: da Adamo a Noè, l’epoca è quella della prima
infanzia, da Noè ad Abramo, è quella dell’infanzia; la terza, da Abramo a Davide, l’adolescenza;
la quarta, da Davide alla cattività di Babilonia, è quella della giovinezza; la quinta, da Babilonia
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alla nascita di Cristo, è quella della maturità; infine, la sesta epoca, che inizia con l’avvento di
Cristo, durerà sino alla fine dei tempi, sino alla venuta del Signore e della Domenica…
T: Sant’Agostino intuisce già il parallelo tra ontogenesi e filogenesi ovvero, come si dice, che
‘l’ontogenesi ricapitola la filogenesi’. Resta però solo nella tassonomia descrittiva senza indurre
il processo di maturazione che, così come avviene nell’individuo, si verifica anche nell’umanità
come specie (che non resterà dunque uguale “sino alla fine dei tempi”) con la necessità di essere
direzionato e accompagnato, abbandonando il rinunciatario e pericoloso “Anithing goes.
Qualunque cosa va bene” di Bardieu, che lei citava prima...
F: e Sant’Agostino… afferma che la religione vera non è solidale con alcuna forma transitoria della
politica… l’amore di sé che giunge fino al disprezzo di Dio ha costruito la città terrestre, l’amore
di Dio che conduce al disprezzo di sé ha costruito la città celeste. Vanitas da un lato, veritas
dall’altro...
T: è la dicotomia religione-politica vista come dicotomia ego (vanitas)-verità (veritas). Nella
crescita in Consapevolezza l’ego si scioglie e non c’è più disprezzo né di Dio, né di sé o degli
altri. Diventa veritas senza vanitas...
F: l’uomo cercando la conoscenza invita la natura al tribunale della ragione. La scienza interpretata
propter potentiam vede assegnarsi nuovi fini: migliorare l’esistenza, dominare la natura,
controllare periodicamente le condizioni della vita umana… Agli occhi degli Antichi, dirà Hegel,
l’essere è sostanzialmente immutabile e il filosofo può in ogni momento partecipare della sua
verità. Per i Moderni, invece, l’essere è temporale, si viene a creare nel corso della storia e lo
stesso filosofo è figlio del proprio tempo...
T: ma, in tutto questo cercare, non c’è nessuno che si ponga il problema della conoscenza
dell’Essere, e per esso dell’essere umano il quale, come ben dicevano gli Antichi, è
sostanzialmente immutabile e dunque indagabile e conoscibile. E, secondo questa tesi, i Moderni
sono pericolosamente fuori strada con il loro relativismo...
F: nei primi anni del XIX secolo c’è un fatto nuovo che colpisce le menti e rafforza la certezza di
abitare un segmento di tempo chiaramente distinto da tutti quelli precedenti: è l’industria, o
meglio l’applicazione delle scienze all’organizzazione del lavoro… la rivoluzione industriale
sembra dar vita a una società fondata non più sulla conquista, ma sullo sfruttamento delle risorse
naturali… Mentre il calendario segnala l’ingresso nel XXI secolo e nel terzo millennio, la storia
registra la rivoluzione politica costituita dalla caduta del comunismo e dalla rivoluzione tecnica
delle biotecnologie e del multimediale. Così Michel Seres, il nostro Auguste Comte, vede
Mercurio succedere a Prometeo, la messaggistica alla metallurgia e l’universo ‘informazionale’
complesso e volatile a quello ‘trasformazionale’ dell’industria…
T: i Moderni sempre accecati dallo Sviluppo (che non è Progresso) a dal fare, nel suo cambiamento
da ‘trasformazionale’ a ‘informazionale’, danno una bella rappresentazione della Nevrosi, con
l’uomo sempre in fuga da se stesso, dal suo vero Essere, per non voler affrontare gli inferi, il
senso di vuoto e solitudine...
F: il liberalismo ha cercato, per le leggi di cui gli uomini hanno bisogno per vivere insieme, un
punto di appoggio non in cielo – luogo delle polemiche inesorabili – ma in terra… ”Gli Antichi”,
sostiene... Benjamin Constant, “definiscono la libertà come partecipazione attiva e costante alla
vita pubblica. La libertà di noi altri Moderni, invece, consiste nel godere in pace
dell’indipendenza privata”… bisogna costruire una società in cui gli individui possano godere di
una perfetta indipendenza per tutto ciò che riguarda le loro occupazioni, le loro imprese, le loro
attività. E di questa società, il XIX secolo individualista e industriale offre testimonianza...
T: ci si preoccupa della sola libertà materiale anche se l’uomo rimane, in realtà, psicologicamente
prigioniero delle sue nevrosi e meccanismi di difesa. Gli Antichi, nel promuovere più la
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comunità che l’individuo, facevano più igiene mentale. Anche la storia degli intellettuali (come
filogenesi), con le loro elaborazioni, è ricapitolata dall’ontogenesi: si passa dalla dipendenza
infantile degli Antichi alla controdipendenza adolescenziale dei Moderni senza ancora
intravedere la maturità dell’Adulto con la sua interdipendenza e tornare al ‘noi’ della comunità
uscendo dalla sofferenza dell’isolamento individualista e alienante dell’ ‘io’...
F: eppure, più la società s’imborghesisce, meno ama se stessa… Rara è la magnanimità, mentre la
paura della morte violenta è universale… la divisione del lavoro, che è il segreto della ricchezza,
aggrava l’ineguaglianza tra gli uomini e questa ineguaglianza non ha più una sua legittimità
come in passato. Da qui lo scontento, il senso di qualcosa di inconciliabile. E quella capacità
unica, come sottolineava benissimo Francios Furet, di “produrre figli e adulti che detestano il
regime sociale e politico in cui sono nati, odiano l’aria che respirano nel momento stesso in cui
vivono grazie ad essa, senza averne mai conosciuta un’altra”. Il socialismo dunque risponde al
liberalismo, Karl Marx risponde a Benjamin Constant…
T: ed ecco, infatti e per quel che dicevo prima, la società alienata e malata, incapace di “amare se
stessa”, di magnanimità, con un senso di “scontento... di qualcosa di inconciliabile”, invece che
la sognata e ciecamente perseguita ‘felicità’ degli Illuministi o “ la creazione del benessere e
della benevolenza” del socialismo (Marx)...
F: la grande mutazione di cui noi siamo ancora gli eredi: la sostituzione dell’antitesi del Bene e del
Male con quella del progressista e del conservatore, o del progressista e del reazionario. Questi
due modi di pensare la storia, di sentirla e di agire in seno ad essa, si scontrano per tutto il XIX
secolo, con un sicuro vantaggio per l’ottimismo di Victor Hugo:.. ”il XIX secolo è grande, ma il
XX sarà felice… non si dovrà più temere come oggi una conquista, un’invasione, una rivalità tra
nazioni a mano armata… e il patibolo e la spada e tutti i brigantaggi del caso nella foresta degli
avvenimenti. Si potrebbe persino dire: non ci saranno più avvenimenti. Si sarà felici”… Già si
credeva di più al Progresso che alla Bibbia e quel Vangelo sembrava dimostrato in modo
inconfutabile dalle meraviglie che venivano rinnovate in continuazione grazie alla scienza e alla
tecnica...
T: ancora e sempre dominati dal razionalismo che separa in opposti senza nessuna consapevolezza e
presa in conto dei fattori umani, della realtà umana, al di là della natura da dominare con la
scienza e la tecnica. La realtà che, peraltro, non è fatta di opposti e antitesi, frutto soltanto del
pensiero duale della Ragione, ma contiene sempre gli opposti, in misura variabile nel tempo,
come già rilevato,...
F: la fine del XIX secolo… conobbe la competizione tra le grandi potenze. Queste ultime all’epoca
praticano una politica attiva di espansione coloniale… tutti i continenti, salvo l’Europa e
l’America, vennero suddivisi in territori posti sotto la diretta o indiretta autorità di un pugno di
Stati, in particolare la Gran Bretagna, la Francia, la Germania, l’Italia, i Paesi Bassi, il Belgio, gli
Stati Uniti e il Giappone… I paesi capitalisti andavano a cercare lontano sia i nuovi mercati per i
loro prodotti sia le materie prime per fabbricarli… È stato il Kaiser, che nel 1890, cercava per il
suo paese “un posto al sole”. Per realizzare la sua ambizione, la Germania, qualche anno dopo,
decideva di dotarsi di una potenza da guerra marina. A quel punto era naturale che l’Inghilterra,
sentendosi minacciata da questa decisione, si riavvicinasse alla Francia e l’Europa finisse per
ritrovarsi divisa in due blocchi ostili: la Triplice alleanza (Austria-Ungheria, Germania, Italia) e
l’Intesa (Francia, Inghilterra, Russia). Così erano poste le condizioni della guerra… la Prima
guerra mondiale era diventata ineluttabile. Era una fatalità con un’aria di dèjà vu. “Omero è
nuovo stamattina e nulla è più vecchio del giornale di oggi”, dice Pèguy. E nel 1917 Albert
Thibaudet, che fu contemporaneo di Pèguy, ma sopravvisse alla Grande Guerra, constatava la
straordinaria attualità di Tucidide, lo storico del V secolo a.C… ”Tucidide ha capito – scriveva
Thibaudet – che la guerra del Peloponneso era inesorabilmente nata dalla rivalità presente tra due
sistemi di alleanze, e le sue cause profonde, le vere radici di quella guerra, non si potevano
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studiare se non attraverso la genesi di quei due sistemi”. E Tucidide a giusto titolo poteva
definire la sua opera ”un tesoro per sempre piuttosto che una produzione di apparato per un
pubblico del momento”, dato che il 1914 replica il 431 a.C., e il conflitto europeo replica la
guerra tra le città-stato greche. “Sono due guerre che vengono fatte con lo stesso mezzo al quale
si era creduto di ricorrere come a un espediente per evitare la guerra: e cioè le alleanze…..Dal
giorno in cui le grandi potenze dell’Europa si sono trovate divise tra l’Intesa e la Triplice, era
inevitabile che un conflitto locale sfociasse in una conflagrazione generale”…
T: la rivoluzione industriale conteneva in sé le premesse per le guerre: perché aveva bisogno di
espandersi (per mercati e materie prime) e, in ragione di questo, creare delle alleanze. Le
alleanze predispongono più facilmente alla guerra che non il far da soli. Ci si sente più
spalleggiati e forti ed è così più facile che si entri in reazione. Per cui era inconsapevolezza il
credere che le alleanze evitassero la guerra...
F: contro Hugo, ma anche contro Marx, contro Hegel che vede in ogni individuo il “figlio del
proprio tempo” e contro l’apologia romantica delle storie particolari, Thibaudet pensa come
Tucidide che le sua storia della guerra del Peloponneso permetta una chiara conoscenza del
passato e anche dell’avvenire, in quanto l’uno e l’altro sono sottoposti alle leggi della natura
umana….Ne fa lettura esistenziale, e non documentaria. Il testo di Tucidide lo prende sul serio.
Non ne diventa lo storico, ma ne è il contemporaneo. Ne accetta l’insegnamento e lo conferma...
T: Thibaudet fornisce un esempio di consapevolezza maggiore dei relativisti e dei romantici
centrando l’attenzione sulle “leggi della natura umana”. E, a parer mio, gli storici si limitano a
fare i documentaristi, invece che, insieme ad antropologi e psicologi, dedurre dalla storia le
“leggi della natura umana” per fare consapevolezza...
F: il 29 e il 30 settembre 1938, si tenne a Monaco una conferenza che riuniva i capi dei governi di
Germania (Hitler), Italia (Mussolini), Francia (Deladier), e Gran Bretagna (Chamberlain)… Il 13
settembre a Norimberga, Hitler decideva non più l’autonomia degli abitanti di lingua tedesca, ma
l’annessione pura e semplice del paese dei Sudeti. A quel punto la Cecoslovacchia fece appello
ai suoi alleati… Da qui la conferenza di Monaco e il suo risultato: la Cecoslovacchia dovette
accettare, nell’interesse della pace, un’amputazione del suo territorio… Così la storia, maestra di
vita, ha distolto la vita da quello stesso avvenimento che avrebbe dovuto aiutarla ad affrontare…
Gli Antichi però tutto questo lo sapevano. Tant’è vero che accanto alla ragione teorica che
discetta sul necessario, hanno elaborato una teoria della ragione pratica o anzi della saggezza
pratica, l’attitudine a giudicare le vicende umane, o secondo l’espressione di Paul Ricoeur, “quel
discernimento, quel colpo d’occhio puntato, in situazione di incertezza, sull’azione che
conviene”. Gli Antichi la chiamano phronesis (prudenza)... la storia, nel senso che ci hanno
trasmesso gli Antichi, funziona come un indice della permanenza della natura umana e che gli
innumerevoli racconti che costituiscono la raccolta di fiabe dell’umanità possono servire come
prove per alcuni insegnamenti politici, giuridici o morali…
T: dunque la storia, considerata maestra di vita, lungi dal disinnescarla, ha alimentato la guerra. E
allora non la storia “maestra di vita” ma la consapevolezza. Perché Hitler era diverso da
Guglielmo II e la prudenza (phronesis) non basta perché ci vuole di più per essere saggezza. Ci
vuole consapevolezza della natura umana, che ha “permanenza” pur nella storia variabile (cfr. la
raccolta di fiabe che restano sempre valide), e in base alla quale conquistare “quel discernimento,
quel colpo d’occhio puntato, in situazione di incertezza, sull’azione che conviene”...
F: nel mondo delle cose umane, variabili e suscettibili di decisione, dice Aristotele, non è possibile
raggiungere lo stesso grado di precisione che si ha nelle scienze matematiche... il sogno di una
scienza della pratica assilla la modernità. I tempi bui del XX secolo forniscono una smentita
fatale a questo sogno e fanno di noi, nostro malgrado, i contemporanei di Aristotele: “Si può
essere dotati di sophia e privi di phronesis”...
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T: nossignore. È solo perché non ci siamo ancora arrivati e non c’è tensione di intenti e convergenze
di discipline per arrivarci. La sophia non basta e nemmeno se c’è la phronesis...
F: la guerra del 1914 fu la prima guerra democratica e industriale nella storia dell’umanità. Per la
prima volta, la mobilitazione è generale e riguarda tutti. La guerra coinvolge i cittadini come non
era mai successo prima… E i motivi di tale adesione non sono solo ideologici. Ma sono legati al
fatto che l’homo oeconomicus non è tutto l’uomo, che il ‘ciascuno per sé di una società destinata
alla produzione e al consumo è fonte di frustrazione quanto di liberazione, e che l’essere… vuole
anche un po’ di avventura, di tensione, di cerimoniale, di comunità umana. “A dire il vero”,
scrive per esempio Stefa Zwig, “… c’era qualcosa di grandioso, di travolgente e persino di
seducente, nella leva di massa, alla quale era difficile resistere… Centinaia di migliaia di uomini
sentivano come non mai quel che avrebbero dovuto sentire meglio in tempo di pace, e cioè sino a
che punto erano solidali… sentivano che stavano vivendo una pagina nella storia universale…
ognuno di essi era chiamato a gettare il suo infimo io in quella massa ardente per depurarsi di
ogni egoismo… una debordante sensazione di fratellanza. Sconosciuti si palavano per strada,
gente che per anni s’era evitata si stringeva la mano, ovunque si vedevano visi animati...
T: ecco come il Sistema di Potere ha tutto l’interesse a mantenere il popolo nell’inconsapevolezza e
reprimere l’espressione e gestione del soft, delle “non cose”, del sentire. Così tutta la parte
emozionale repressa può essere mobilizzata e utilizzata ‘romanticamente’ per fare guerra. Né più
né meno di quel che fa ora il fondamentalismo islamico. Senza consapevolezza non c’è pace. È
grottesco e drammatico che la “depurazione da ogni egoismo” debba avvenire con la guerra e
attraverso il sapore della morte e non con la consapevolezza e attraverso il sapore della vita. E
questo irrazionale e inconsapevole collegamento tra la guerra, la rivoluzione, insomma la
violenza, e la fratellanza non finisce per alimentare, da parte di alcuni molti purtroppo, un alone
di romanticismo intorno al terrorismo creando terreno di cultura per la spirale della violenza??
F: non era più l’uomo isolato di una volta… e la sua persona… acquistava un senso… l’impiegato,
il calzolaio avevano d’improvviso un’altra prospettiva, una prospettiva romantica nella loro vita,
potevano diventare eroi… fusi in un grande corpo ardente di entusiasmo. Cresciuti in un’erra di
sicurezza, provavano tutti nostalgia per l’insolito, per i grandi rischi...
T: il paradosso di acquisire il proprio senso (di sé) non attraverso la consapevolezza e nella pace,
ma nella guerra con “una prospettiva romantica nella loro vita”. Il paradosso di dover cercare la
morte per sentire la vita e non il più sano e saggio educarsi alla vita...
F: la mobilitazione generale, prima di apparire come la mostruosa invasione della vita da parte della
Storia, è accolta come una rottura provvidenziale dell’anomia, della noia, delle deboli intensità e
della socievolezza dispersiva... attraverso la moderna istituzione del servizio militare
obbligatorio. Inoltre l’individuo non paga più la sua libertà col prezzo terribile dell’isolamento...
T: è pazzesco che la “mostruosità” della guerra, del massacro, venga vista e sentita come uscita
dall’isolamento dei tempi Moderni e possibilità di non pagare più “la libertà col prezzo terribile
dell’isolamento”, “dell’anomia, della noia”. L’isolamento si può affrontare con qualcosa che sa
di vita e non di morte, ovvero attraverso la consapevolezza che fa il senso di comunità...
F: la concorrenza di tutti con tutti lascia spazio alla fratellanza nazionale... L’egoismo calcolatore è
superato dalla solidarietà in atto della preparazione alla battaglia. Insomma il sogno eroico e
l’ebbrezza comunitaria...
T: “l’egoismo calcolatore” della “concorrenza di tutti con tutti” può essere temperato più sanamente
dalla consapevolezza (che comporta il senso di comunità e fratellanza nell’essere) che non dalla
“preparazione alla battaglia” che dia “l’ebbrezza comunitaria”...
F: ed è il progetto filosofico di una finale identità tra il reale e il razionale che spiega il fascino
duraturo esercitato dallo Stato Sovietico ben oltre le proprie frontiere…
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T: e già in questo, per quanto già detto, lo Stato Sovietico nasce obsoleto...
F: nel lungo periodo del Medio Evo cristiano, l’ineguaglianza sociale non era giudicata in
contraddizione con l’esistenza di un’anima immortale comune a tutti gli uomini… diceva Isidoro
di Siviglia “... Dio il giusto stabilisce nell’esistenza degli uomini una discriminazione, rendendo
gli uni schiavi, gli altri padroni, affinché la libertà di agire male sia limitata dalla forza del
dominante. Se infatti tutti fossero senza timore, come potrebbe il male essere punito?”. La
Caduta, in altre parole, aveva a tal punto corrotto l’animo umano che la subordinazione dei molti
ai pochi era necessaria alla coesione stessa della società. Impugnando questa sentenza, i Tempi
moderni possono essere definiti come l’indebolirsi progressivo della dottrina della Caduta sullo
spirito umano. Moderna è l’epoca che… pensa, come scrive Cioran, che il tempo contenga in
potenza la risposta a tutte le domande e il rimedio a tutti i mali… È Rousseau… a compiere il
passo decisivo, contrapponendo al peccato originale l’affermazione della bontà originale
dell’uomo. Il che significa che il male è sociale, dipende dalla società… Quanto al socialismo,
come si è visto, nasce nel XIX secolo dalla constatazione che la società borghese, egalitaria per
principio, attraverso la divisione del lavoro produce ineguaglianza. Criticando la società moderna
in nome dei suoi stessi principi, il socialismo vuole portare a compimento la rivoluzione
democratica: distruggere la borghesia, dopo aver abolito feudalità e monarchia…
T: dalla legittimazione Medioevale del potere gerarchico ”necessario alla coesione stessa della
società” si è passati alla sua giusta delegittimazione da parte dei Tempi moderni senza però un
progetto, una saggezza preveggente che evitasse di imboccare la strada verso il probabile caos
irresponsabile e l’isolamento sociale attraverso una crescita di consapevolezza che
accompagnasse la crescita di libertà ed eguaglianza. Semplicemente fidando, invece e con una
ingenuità rassegnata e impotente, che lo scorrere del tempo ponga “rimedio a tutti i mali” o
fidando nella innata “bontà originale” dell’Uomo e colpevolizzando la società da correggere
attraverso la Rivoluzione (francese prima e russa dopo). I Moderni, insomma, che finiscono per
diventare sognatori velleitari, rassegnati e impotenti…
F: era inevitabile che una politica assoluta sprofondasse nel dogmatismo e nella persecuzione.
Sfruttamento, ineguaglianza e Male non sono avversari legittimi. Il XX secolo, quindi, sarebbe
stato la realizzazione, trasformata in un incubo, dei sogni dei secoli precedenti, il teatro dei
disastri dell’utopia...
T: ecco che, senza consapevolezza, si passa dai sogni agli incubi e viceversa, all’insegna delle
utopie…
F: quando Marx e Engels parlano di distruzione, non pensano agli uomini, ma alle istituzioni o ai
modi di produrre: il “sistema” capitalistico o la “dittatura” della borghesia… S’inaugura così
l’epoca della subordinazione al militare da parte dell’intellettuale: “Quante divisioni ha il
Papa?”… Lenin ha introdotto la violenza... tipica della guerra totale, nella conflittualità del
tempo di pace. In altre parole, la rivoluzione nasce dalla stessa guerra che denuncia. È vero che
ha come sola ambizione la pace definitiva, ma l’unico mezzo che concepisce per raggiungere il
suo ideale è l’annientamento del nemico…
T: siamo nel paradosso inconsapevole di cercare la pace attraverso la guerra o la conflittualità
(come, nelle relazioni interpersonali, c’è, molto spesso, il pretendere l’amore attraverso la
reazione e l’attacco colpevolizzante). Come se Kant non avesse già scritto, come lei riporta, che
non si “poteva arrivare ad un’ostilità troppo grande tale da rendere impossibile la fiducia
reciproca al momento di concludere la pace”. Dunque non si voleva arrivare ad una pace ma ad
una sottomissione. Il che è un altro paradosso di inconsapevolezza nel pensare alla pace in
termini di sottomissione ovvero di implicita perpetuazione dello scontro...
F: alleanza tra passioni elementari e freddezza tecnica; disprezzo d’acciaio per i pianti, gli scrupoli e
i discorsi dell’anima bella… fascino del potere e della volontà una; primato della forza sulle
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forme… scissione antagonistica in legge dell’essere; soggiogamento della complessità delle cose
al “o lui o io”… la prima guerra mondiale non solo ha messo l’Europa a ferro e fuoco, ma ha
anche trasformato il ferro e il fuoco in un valore europeo...
T: siamo nell’inconsapevolezza totale che fa il disprezzo delle parti vulnerabili, fragili e timorose
della natura umana, da una parte, e l’esaltazione del Super-Io e dell’insofferenza, rabbia,
dall’altra, senza poter arrivare ad un equilibrio dell’essere. Scissione, schizofrenia diventano la
naturale conseguenza, senza via di uscita per la pace, l’armonia, la “promessa di felicità”, sempre
inseguite e mai perseguite con cognizione di causa e consapevolezza...
F: i sopravvissuti sono in stato precario... testimoniano per un’umanità inghiottita e depongono a
favore della fragilità dell’umano… Il filosofo Emanuel Lavinas coglie splendidamente: “... La
libertà umana è per essenza non eroica…”...
T: ecco finalmente l’acquisizione culturale da fare e che finalmente emerge, invece di volerla
esorcizzare con il culto della forza, immortalità, violenza, eroismo…
F: il termine “intellettuale... appare nel 1821 in uno scritto di Saint Simon: “Invito gli intellettuali
positivi a unirsi, a riunire le forze per sferrare un attacco generale e definitivo contro i pregiudizi,
dando inizio all’organizzazione del sistema industriale...”
T: ecco che c’è una parziale presa di coscienza sul da fare (gli intellettuali contro i pregiudizi) ma
che si perde dietro la “organizzazione del sistema industriale”...
F: il direttore della “Revue des deux mondes” Ferdinand Brunetière, fustiga con parole assassine,
l’arroganza degli intellettuali, facendosi beffe della loro ignoranza: “Il solo fatto che di recente si
sia creato il termine ‘intellettuale’ per indicare come una sorta di casta nobiliare di gente che
vive nei laboratori e nelle biblioteche... una delle più ridicole bizzarrie del nostro tempo, voglio
dire la pretesa di innalzare scrittori, uomini di cultura, professori al rango di superuomini”… Il
rimprovero sferzante, è sopravvissuto all’affare Dreyfus. Ed è sicuro che è destinato a seguire,
come un’ombra, l’intellettuale delle società democratiche, gratificandone le uscite col sarcasmo.
Infatti se tutti gli uomini sono uguali… che cosa abilita ancora l’intellettuale… a dispensare
ricette e farci continuamente la lezione?…”. “Gli intellettuali non fanno altro che sragionare
autorevolmente sulle questioni di loro incompetenza”, scriveva Brunetière all’inizio del secolo
scorso, e Règis Debrais, alla soglia del nostro aggiunge: “Conosco storici, demografi, matematici,
linguisti, archeologi. Sono mestieri che si imparano, si trasmettono, si migliorano. Non conosco
nessuno di ‘professione: intellettuale’, salvo battezzare come mestiere uno che sbraita abbastanza
flemmatico, a metà strada tra lo scrittore e il giornalista, con meno stile e immaginazione del
primo (che esigono un grande lavoro) e senza le camicie bagnate del secondo sul terreno (che
esigono anche dispendio di energia e meticolosità)”. Conclusione di Règis Debray: “Propongo
che fra intellettuali non si parli più dell’’intellettuale”. I dreyfusardi però non si sono lasciati
smontare dall’obiezione democratica di Brunetière. Hanno risposto a botta pronta e nei termini
stessi della democrazia. Durkheim per esempio: “Se questi ultimi tempi, un certo numero di
artisti, ma soprattutto di persone colte… intendono esercitare tutto il loro diritto di uomo, e
mantenere in proprio possesso una vicenda che compete alla sola ragione. È vero che rispetto al
resto della società si sono mostrati più gelosi di questo diritto; ma l’hanno fatto solo perché, in
virtù delle loro abitudini professionali, se la prendono a cuore. Abituati alla pratica del metodo
scientifico a trattenere il loro giudizio finché non sono stati edotti, è naturale che cedano meno
facilmente alla foga popolare e al prestigio dell’autorità”...
T: si è contro gli intellettuali senza valutarne il valore nel contribuire a migliorare prese di coscienza,
consapevolezza. Perché per fare consapevolezza serve anzitutto intelligenza che non è di tutti
(nell’eguaglianza) e dunque è velleitario e pericoloso il “tutti uguali” tout-court senza specificare
in cosa uguali. Forse che uno alto è uguale ad uno basso? Uno intelligente ad uno stupido? Gli
intellettuali, infatti, possono essere funzionali all’acquisizione di consapevolezza perché “cedono
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meno facilmente alla foga popolare e al prestigio dell’autorità” (Durkheim) ovvero al
condizionamento sociale. Come, a livello del singolo, serve intelligenza per fare ricerca e
consapevolezza, così, a livello sociale, servono gli intellettuali per lo stesso fine. Certamente
intellettuali aperti alla interdisciplinarità e non con “quella forma di disprezzo culturale tipica
degli intellettuali che provengono dalle classi ‘bene’ della società” (E. Morin, “I miei demoni”;
Moltemi; Roma, 1999, p. 17). Intellettuali capaci di promuovere quella che Morin definisce
democrazia cognitiva, offrendo a tutti la possibilità di attingere ai vari sapere perché gli individui
possano diventare protagonisti e Cittadini, non più sudditi, capaci di scegliere e agire con
consapevolezza…
F: la democrazia moderna si fonda sull’autonomia, vale a dire la facoltà di pensare, di agire e
giudicare con la propria testa. Questa autonomia è tipica dell’uomo. Dunque gli intellettuali non
ne hanno il monopolio. Essi però sono particolarmente sensibili a ogni forma che può assumere
la decadenza o la messa i questione di quell’autonomia, nella misura in cui ne fanno essi stessi
uso nella loro attività...
T: e dunque la funzione e il merito degli intellettuali per salvaguardare l’intelligenza sociale ovvero
l’autonomia. Anche e soprattutto perché la consapevolezza come “la democrazia si fonda
sull’autonomia, vale a dire la facoltà di pensare, di agire e giudicare con la propria testa”...
F: eppure, quella forma di impegno nella vita pubblica da parte degli intellettuali chiude l’epoca
inaugurata nel XVIII secolo, che secondo Paul Bènichou corrisponde alla consacrazione dello
scrittore. In effetti è proprio ai tempi dell’Illuminismo che la figura ideale dell’uomo di lettere
appare in tutto il suo prestigio. Chi è costui? È un uomo, dice La Harpe, la cui principale
professione consiste nel coltivare la ragione per aggiungerne a quella altrui. Si produce così una
sorta di passaggio dei poteri dalla casta ecclesiale alla corporazione pensante. Nasce un nuovo
clero… Viceversa nel XX secolo, gli intellettuali non pretendono più di esercitare il governo
dell’opinione. Intervengono, lanciano petizioni, battono la piazza come non mai, ma non si
vogliono più bene e non perdono occasione per farlo sapere. È la rivoluzione del 1917 a
innescare la crisi fatale... L’ideale universale si realizza nella storia, e i maestri di verità e di
giustizia non si reclutano più nelle aule di studio… Come ha colto bene Denis Collet,
l’intellettuale comincia, in questo modo, la sua lunga e dolorosa carriera di spossessato:
l’essenziale avviene altrove… Non deve più guidare, rimproverare, o promettere, deve solo
rendersi utile. Essere efficace e smettere di fare l’apostolo, servire umilmente gli operai e non
guidarli, deve “essere una voce fra le tante e non la voce dello spirito”, come dice Paul Nizan in
“Les Chiens de garde”. A questo ultimatum hanno resistito solo Thomas Mann; Hannah Arendt,
Albert Camus e pochi altri, ma la loro resistenza è rimasta sempre minoritaria. Piuttosto, a dare
al XX secolo la sua impronta è lo sforzo indefesso, compiuto dagli intellettuali per abbandonare
il partito dei padroni e schierarsi con quello dei servi, uscendo da quella che ormai viene
chiamata la torre d’avorio. La teoria si scrive nella prassi e la prassi si concepisce solo come
battaglia. In un mondo dominato dal paradigma della guerra, l’intellettuale non deve più portare
la ragion di Stato e il principio di autorità di fronte al tribunale della Ragione. È lui che deve
comparire di fronte al tribunale della Storia universale… È l’intellettuale che deve rispondere dei
propri privilegi… del suo imborghesimento… della sua oggettiva complicità con la classe
dominante… Se la prende a cuore, tra sé e sé si vergogna di essere solo un combattente di
cartapesta in un mondo insanguinato. Certo agisce, attacca, denuncia, accusa; eppure il sospetto
lo tormenta e lo sfida a non aver mai compiuto il passo dell’azione vera, vale a dire violenta… il
suo destino resta la commedia, perché, per essere sicuro dell’autenticità delle sue scelte, gli
manca l’investitura dello scontro mortale. E nessuno spasima per battersi il petto, per braccare in
sé l’impostura con più accanimento di Jean Paul Sartre, l’autore di “Les Mots”… Secolo del
masochismo degli intellettuali, non della loro apoteosi…
T: il “mondo dominato dal paradigma della guerra” evidenzia solo un mondo con poca intelligenza
(filogenetica) e che perciò rifiuta o processa gli intellettuali “la cui principale professione
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consiste nel coltivare la ragione (intelligenza) per aggiungerne a quella altrui”. Se il sociale, il
mondo non accetta l’autorevolezza dell’intellettuale, utile a salvaguardare la specie, gli
intellettuali saranno sempre messi da parte rendendo difficile lo sviluppo di consapevolezza.
Finché il paradigma della consapevolezza non sostituirà quello della guerra e il ‘fammi vedere
cosa sai fare’ non si trasformerà nel ‘fammi vedere cosa sei’ Quel che di importante c’è da porre
come condizione agli intellettuali è di essere interdisciplinari, orientati alla consapevolezza e
non alla sola ragione perché anche la ragione può produrre mostri, come si è visto. In questa
confusione intellettualistica brillano emblematicamente le resistenze di Thomas Mann, Hannah
Arendt, Albert Camus e pochi altri...
F: nessuna simpatia, nessuna affinità, nessuna inclinazione sfugge alla politica appena ci si
rappresenti la politica, alla maniera di Sartre, come “la lotta che gli uomini combattono contro il
male”. Emmanuel Bert ha visto questa meccanica infernale prendere progressivamente piede
nella Parigi degli anni 30: “Bolscevismo, fascismo, freudismo, cubismo, espressionismo,
populismo, tutto quanto rientrava nei molti cassetti di una tradizione rassicurante… Era
comodissimo potersi dire a vicenda: ‘io sono questo, tu sei quest’altro’, ‘vecchio anarchico,
vecchio comunista, vecchio socialista, vecchio radicale, caro vecchio reazionario’. Non aveva
conseguenze e soddisfaceva il gusto dell’uniforme. Quindi si prendeva posizione, senza rendersi
conto che invece erano le posizioni ad aver preso voi”. E in questo impercettibile ribaltamento
Berl vede riflettersi l’intera catastrofe del XX secolo…
T: e perché non rappresentarsi la politica come perseguimento di consapevolezza che ricomprende
la gestione del ‘male’, ma esce dalla logica della ragione con i suoi termini di “contro” e “lotta”
che discendono ancora dal “paradigma della guerra”?? Gli intellettuali, purtroppo, perdono la
loro ‘missione’ di lievito sociale verso una consapevolezza e sembrano smarriti, incapaci di
vedere lontano. Preferiscono perdersi nel chiacchiericcio indossando le più varie “uniformi” e
ruoli (“erano le posizioni ad aver preso voi”) senza saper vedere e prevedere “l’intera catastrofe
del XX secolo”. Incapaci di ‘vedere’ si adattano, chi qui, chi là, nei ruoli che riescono più
congeniali. Rimanendo dietro al romanticismo dell’uomo che lotta contro il male. Ma quale male?
Un male intellettualizzato dalle più varie prospettive razionali e ideali senza nessun
approfondimento della realtà dell’umano, del mondo-della-vita come sosteneva Husserl...
F: ma se vogliamo davvero uscire dall’epoca della radicalità, non possiamo rimettere l’intellettuale
sul trono, come se nulla fosse. Il XX secolo, infatti, privandolo della sua aura, ha anche
compromesso alcuni principi che egli invocava, facendo apparire ciò che di mortalmente
contraddittorio aveva quel suo bell’ideale. Rileggiamo Victor Hugo, lo scrittore che con più
scalpore ha indossato la corona dell’intellettuale: “L’intera eloquenza umana in tutte le
assemblee di tutti i popoli e di tutti i tempi si può riassumere così: la contesa del diritto contro la
legge. Questa contesa, e qui sta l’intero fenomeno del progresso, tende sempre più a diminuire. Il
giorno in cui finirà, la civiltà toccherà il suo apogeo, e avverrà la congiunzione tra il dover essere
e l’essere… fine delle calamità, fine delle catastrofi… non avremo più dispute, finzioni,
parassitismi… non si faranno più leggi, le si constaterà; le leggi saranno assiomi; due più due fa
quattro non si mette ai voti; il binomio di Newton non dipende da una maggioranza; c’è una
geometria sociale… Grazie all’istruzione che avrà preso il posto della guerra, il suffragio
universale arriverà a un tale grado di discernimento che saprà scegliere le intelligenze; e per
parlamento avremo il concilio permanente delle intelligenze”… L’oracolo si è sbagliato due
volte: noi non abbiamo doppiato il capo delle tempeste, e non abbiamo sostituito le battaglie con
le scoperte scientifiche, e nemmeno gli assassini coi lavoratori. Abbiamo avuto invece catastrofi
a catena, la conoscenza messa al servizio del massacro e gli omicidi al lavoro. Ma il XX secolo
non si è solo contentato di smentire l’ingenuo ottimismo di Victor Hugo, ha anche rivelato
l’incompatibilità di fondo tra libertà degli uomini e sovranità della scienza. Sin dal 1920, solo tre
anni dopo la rivoluzione d’ottobre, in un romanzo di anticipazione politica che ispirerà sia “Il
Migliore dei mondi”, sia “1984”, lo scrittore russo Zamjatin metteva in scena la grande apoteosi
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finale della Ragione, con tutte le sue conseguenze… Ogni cosa è chiara e distinta. Rettilinea.
Prevedibile. Calcolabile. La geometria sociale ha posto fine all’evidenza dell’autorità con
l’autorità dell’evidenza; la legge scientifica ha soppiantato la legge divina, la legge morale e la
legge penale. Il sole della conoscenza ha dissipato le opacità, soppresso le contraddizioni,
illuminato, nei minimi recessi, il foro interiore dell’uomo… i nomi propri sono diventati numeri.
Una volta risolto il problema della fame, lo Stato unico ha condotto una campagna contro l’altro
sovrano del mondo, l’Amore. E questo fomite di disordini, lunatico e crudele, ha potuto essere
messo in condizione di non nuocere. Non col divieto, la censura, la sorveglianza, la repressione
del desiderio e del sentimento, come succedeva una volta, bensì con la liberazione del bisogno
sessuale. L’ordine dell’appagamento programmato ha prevalso sul disordine amoroso. In effetti,
una lex sexualis stabilisce: “Qualunque numero ha diritto di utilizzare qualunque altro numero a
fini sessuali”... Là dove c’era eros, è subentrato il sesso e la felicità così ha trionfato sull’evento.
Numero inopinatamente sentimentale, l’eroe di “Noi altri” insorge contro la vita
matematicamente perfetta dello Stato unico. Ma dopo un’operazione che lo guarisce
dall’immaginazione, perde la partita…
T: istruzione, conoscenza, sempre alla luce della Ragione ed elevate a rimedio universale, non sono
utili a comprendere l’uomo e fare consapevolezza e poter “illuminare” e gestire “il foro interiore
dell’uomo”. Se si sostituissero le parole “istruzione” e “conoscenza” con “consapevolezza” forse
l’ipotesi di Hugo potrebbe restare valida e “cogliere nel segno”. Non è infatti la conoscenza, ma
la consapevolezza che “illumina” “il foro interiore dell’uomo”. Con la differenza che la
consapevolezza non mette l’Amore “in condizione di non nuocere” ma lo sa coltivare e rendere
funzionale all’individuo e alla comunità. Ad esempio, come scrive il Dalai Lama (“L’arte della
felicità” con Howard C. Cutter; Mondadori; 2001, p. 179) “La consapevolezza del nostro dolore
e delle nostre pene ci aiuta a maturare l’empatia, la capacità di metterci in relazione con i
sentimenti e le sofferenze altrui. Ciò rafforza il senso di compassione per gli altri”. E tutto questo
può succedere mentre si apprezza la vita senza doversi trovare di fronte alla morte, alla guerra...
F: il XX secolo ci obbliga a distinguere con cura ciò che l’Illuminismo credeva di poter confondere:
l’autonomia e il controllo. In realtà l’uomo è sempre gli uomini. “La pluralità”, ricorda Hannah
Arendt, “è la legge della terra”. Il che vuol dire che… il potere di intraprendere coesiste con
l’incapacità di dirigere o di prevedere tutte le conseguenze dell’azione intrapresa. L’Illuminismo
dunque brilla di splendore ingannevole. Noi siamo esseri di ragione, ma non per questo viviamo
sotto il sole della ragione. La meteo della nostra condizione, dice Kundera in modo profondo, è
la nebbia: “Nebbia, non oscurità. Nell’oscurità, non si vede niente, si è ciechi, in balia del buio,
non si è liberi. Nella nebbia invece si è liberi, ma è di quella libertà di chi si trova appunto nella
nebbia, di chi vede a cinquanta metri di distanza, riesce a distinguere con precisione i tratti del
suo interlocutore, riesce a godere la bellezza degli alberi che costeggiano il cammino e persino
osservare cosa succede lì vicino e reagire”. E l’intellettuale non fa eccezione. Anche lui avanza
nella nebbia come tutti gli altri. Ma per deformazione professionale è costantemente tentato di
dimenticarlo. Da qui l’attrazione che nutre per le antitesi smaglianti dell’epoca della radicalità...
T: se “l’Illuminismo dunque brilla di splendore ingannevole” non c’è forse bisogno di un nuovo
Illuminismo alla luce della consapevolezza (per gestire il soft, il sentire dell’uomo) invece che
della sola ragione (per gestire l’hard, la scienza e la tecnologia)? Per focalizzarsi anche sul
‘sentirsi bene’ (psicologico) oltre che sul solo ‘stare bene’(materiale)? Per avere meno nebbia e
riuscire a vedere un po’ più lontano? Per poter intraprendere e anche saper prevedere “le
conseguenze dell’azione intrapresa”??...
F: trarre una lezione… non vuol dire tornare in modo puro e semplice ai principi dell’Illuminismo,
ma tenere a mente, come suggeriva Marleau Ponty nel 1947,… quel “problema che l’Europa
sospetta sin dall’epoca dei Greci: la condizione umana non è forse quella per la quale non esiste
una buona soluzione? Ogni azione non ci spinge forse in un gioco che non possiamo controllare
del tutto? Non c’è una sorta di maleficio nel vivere insieme?”… ”. L’Europeo del XIX secolo- ha
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scritto Claude Levi Strass –si è proclamato superiore al resto del mondo per via della macchina a
vapore e qualche altra prodezza tecnica di cui si poteva vantare”… All’Europa industriosa il
colonialismo è apparso non come il mezzo per assoggettare i popoli lontani, ma come lo
strumento per aiutarli a colmare un ritardo… riunire l’umanità sotto la bandiera del progresso,
accelerare il cammino di tutti verso istruzione e benessere...
T: la “buona soluzione” per la “condizione umana” non è che “non esista” ma che ancora non si è
cercato e trovato il Metodo per la condizione umana così come l’Illuminismo (Galileo ante
litteram) aveva trovato il Metodo per le ‘cose’ (che non sono l’uomo). La consapevolezza, a
fianco della ragione (per le ‘cose’) potrebbe essere lo strumento, il nuovo Metodo perché non ci
sia “una sorta di maleficio nel vivere insieme” e renda possibile, con la contemplazione e
accettazione della morte e per essa della precarietà umana, quel senso di comunità, fratellanza,
solidarietà che, ironia della sorte, la Grande guerra aveva portato alla luce. Con il paradosso di
una ‘umanità’ che emergeva a fronte della morte e non nella vita quotidiana. Perché non c’è
consapevolezza di restare prigionieri dell’ego (che si scioglie solo di fronte alla paura)
autocondannandosi all’infelicità a dispetto della felicità tanto cercata e profetizzata. Appunto per
ignoranza, inconsapevolezza della condizione umana, a soluzione dei cui problemi venivano
semplicemente e presuntuosamente invocati “istruzione e benessere” per aiutare i popoli lontani
a “colmare un ritardo”...
F: ma in questo modo si dimentica che per più di un millennio, dal primo sbarco dei Mori in Spagna
al secondo assedio di Vienna da parte dei Turchi nel 1863, l’Europa ha vissuto sotto la minaccia
dell’islam… Come mostra Bernard Lewis, è la battaglia contro l’invasore ad aver spinto gli
Europei oltre le loro frontiere… Lo slancio della riconquista sfocia così nella fondazione degli
imperi. Ma nel 1760, la popolazione di quegli imperi conta appena ventisette milioni di abitanti.
Nel 1913 sono centocinquanta milioni, ed è quasi un quarto della superficie del globo che allora
si trova ad essere distribuita tra le Potenze europee… ”La politica coloniale è figlia della politica
industriale (ricerca di materie prime e sbocchi di mercato). Ed è anche indissolubilmente legata,
da un rapporto di filiazione, all’Illuminismo. Infatti, ai quattro angoli del globo persegue la lotta
contro la barbarie, l’oppressione e l’oscurantismo… Jules Ferry definisce l’azione colonizzatrice
come un’opera di emancipazione (corsivo mio)...
T: le ideologie, figlie della ragione e dell’Illuminismo, vedono solo il macro, i sistemi con gli
‘occhiali’ della lotta a “la barbarie, l’oppressione e l’oscurantismo” senza porsi nessuna domanda
e ricerca sulla natura dell’uomo (tranne forse il considerarlo oeconomicus) fino a definire
“l’azione colonizzatrice come un’opera di emancipazione” e come se l’Europa fosse nel
Progresso e non nel solo cieco Sviluppo...
F: quando all’inizio del XX secolo, la Germania decise di sfidare la Gran Bretagna sul terreno del
controllo dei mari, vennero alle prese solo due gruppi di potenze. La guerra scoppiò e all’Europa,
dopo quattro anni di devastazioni, fu ingiunto dagli Stati Uniti, nuovo attore diplomatico, di
rompere con l’equilibrio delle forze e cambiare la regola del gioco mondiale... l’epoca delle
conquiste è tramontata, disse in sostanza, il presidente Wilson. “E’ giunto il momento di
applicare il diritto dei popoli a disporre di se stessi” e instaurare un ordine di cose in cui le
questioni pertinenti sarebbero state le seguenti: E’ bene? E’ giusto? E’ nell’interesse
dell’umanità? La salvaguardia della pace non sarebbe più risultata dall’aritmetica tradizionale
delle forze, ma da un consenso mondiale sostenuto da un meccanismo di polizia. Alle ingegnose
costruzioni del pensiero politico europeo per mettere l’egoismo dell’uomo al servizio di un bene
superiore, Wilson opponeva il concetto di sicurezza collettiva… Nessuna ipocrisia in
quest’irruzione di idealismo. Gli Americani, depositari dei principi dell’indipendenza individuale
e dell’eguaglianza delle condizioni, hanno sempre unito un’attrazione di tipo estetico verso i
monumenti del Vecchio Continente a una repulsione di tipo etico-politico nei confronti delle sue
tradizioni, il suo formalismo, la superiore eredità. In un magnifico romanzo epistolare intitolato
“Il punto di vista” e pubblicato nel 1882, Henry James passa in rassegna tutte le opinioni
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possibili sui rapporti tra i due occidenti. E al personaggio americano più imbevuto delle qualità
della propria nazione, Marcellus Cockrell, fa dire: “Sono arrivato a una semplice convinzione:
mi sono tolto l’Europa di dosso. L’ampiezza e la freschezza del mondo americano, il buon senso
e il buon carattere della popolazione mi consolano dell’assenza di cattedrali e di Tiziano... Le
loro grosse armate pompose che sfilano in stupidi ranghi… sembrano un gioco d’infanzia... lo
spettacolo di una schiera di alteri potentati che considerano il loro popolo come una proprietà
personale… Una volta capito che le grandi questioni dell’avvenire sono quelle sociali, che il
mondo è trascinato verso la democrazia da una possente marea, e il nostro paese rappresenta la
massima ribalta in cui mettere in scena questo dramma, i sudditi europei alla moda appaiono
meschini e provinciali”… se Wilson ha preferito entrare in guerra… se egli ha rotto con
l’isolazionismo di Marcellus Cockrell, non è solo per vincere la Germania, ma perché togliere
l’Europa di dosso all’Europa, cambiando una volta per tutte il suo modo di pensare, gli è
sembrato conforme alla vocazione democratica americana. L’Europa però aveva la pelle dura…
la Francia non aveva voglia di messianesimo… voleva lo smembramento della Germania, in
nome dell’equilibrio delle forze. Ottenne invece il territorio del vecchio Reich… Risultato:
“Troppo lieve per quel che essa aveva di duro” secondo la formula di Bainville, la pace elaborata
dalla vecchia Europa e dalla giovane America creava le condizioni di un nuovo scontro. E questo
secondo conflitto mise fine, una volta per tutte, alla supremazia europea. L’armistizio del giugno
1940 aveva fornito la prova che le potenze coloniali non erano invincibili e quand’anche
vincessero non erano le più forti. All’esaurimento materiale si aggiungeva così la vulnerabilità
ideologica… Questa Europa in congedo non poteva consolarsi dicendosi che restava il centro del
mondo. Accanto alla potente America e alla Russia sovietica che aveva avuto un ruolo decisivo
nella vittoria, ormai l’Europa contava poco o niente...
T: l’Europa che aveva lanciato l’Illuminismo era già vecchia dopo poco, di fronte agli americani
che ne notavano il “formalismo”, gli “alteri potentati che considerano il loro popolo come una
proprietà personale” e diventavano consapevoli che “le grandi questioni dell’avvenire sono
quelle sociali” mentre “i sudditi europei alla moda appaiono meschini e provinciali” in “un gioco
d’infanzia”. E il presidente Wilson si pone domande (è bene, giusto, nell’interesse dell’umanità?)
ed obiettivi (la sicurezza collettiva) che hanno il sapore della consapevolezza che sola può
‘curare’ la “vulnerabilità ideologica” in cui è finita l’Europa che “contava poco o niente”...
F: dopo la caduta del muro di Berlino… il messianesimo democratico ha trovato diritto di
cittadinanza nella retorica americana… Il sogno di un nuovo ordine mondiale trovò un
prolungamento filosofico nelle tesi di Francis Fukuyama sulla fine della storia. La democrazia,
alleata all’economia di mercato aveva sconfitto tutti i suoi avversari… Più tardi ci si è resi conto
che le cose non sono così semplici, ma ciò è accaduto solo quando la contestazione
dell’Occidente ha cominciato a prendere una piega sorprendente. I popoli del terzo mondo hanno
davvero scommesso sulla fierezza di essere se stessi… Anziché opporsi all’arroganza prometeica
della civiltà occidentale, la rivendicazione identitaria ha finito per rivoltarsi contro i valori critici
dell’Occidente, e cioè l’attitudine a mettersi in questione o (per dirla con le parole di Leszek
Kolakowski) a “non sussistere nella sufficienza e nella sua eterna certezza”. Come osserva
Samuel Huntington, l’autore di “Scontro di civiltà”, in molti casi si è scelta la strada della
modernizzazione senza occidentalizzazione. La Cina, per esempio, evitando la democrazia grazie
all’alleanza di confucianesimo e competitività, ma anche l’islamismo radicale che si sforza di
combinare il rifiuto dell’Illuminismo e le tecniche di punta… Che sia un medico, un informatico,
un agronomo, un biologo o un ricercatore di alto livello, la sua fede intransigente e la minuzia
dei rituali si combinano col controllo delle tecniche più sofisticate. Risponde con l’alleanza del
Dogma e del Metodo a una modernità occidentale che è nata dalla loro rottura…
T: ecco che alla apparente “fine della Storia” i nodi vengono finalmente al pettine e ci si accorge
che “le cose non sono così semplici”. Lo Sviluppo scambiato per Progresso ha fatto lo stupore di
vedere, al di fuori dell’Occidente, la modernizzazione (sviluppo) senza occidentalizzazione
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(democrazia): l’Islam “risponde con l’alleanza del Dogma e del Metodo a una modernità
occidentale che è nata dalla loro rottura”. Perché l’Illuminismo non ha promosso
Consapevolezza ma solo Ragione cui si può contrapporre un’altra Ragione (es. islamica)
restando, in definitiva, nei Dogmi e nella contrapposizione a livello culturale senza dover
rifiutare la modernità, in termini di scienza e tecnologie. È solo attraverso la consapevolezza che
si può uscire dai dogmi e se l’Occidente si fosse posto nei confronti del resto del mondo alla luce
della Consapevolezza e non della sola Ragione avrebbe potuto far crollare un altro muro di
Berlino, questa volta nell’Islam. A possibile riprova di ciò sta un articolo di Khaled al-Berry
(riportato dal Corriere della Sera del 26/7/2005) che dopo essere stato reclutato dalla scuola del
terrore l’ha abbandonata divenendo scrittore3. Scrive Khaled al-Berry: “la vera questione era
‘sono capace di sacrificarmi o no?’, non ‘sto per fare una cosa giusta o sbagliata?’… Non appena
misi le mie idee di fronte a me… tutto mi fu chiaro. È qualcosa nella quale non posso
immaginare di aver creduto”. È la consapevolezza, dunque, che lo ha portato su altre strade...
F: l’ipotesi sviluppata da Huntington in un libro dal titolo ingannevole, che non è bellicoso, ma
isolazionista e raccomanda all’Occidente di evitare la guerra culturale, smettendo di
immischiarsi negli affari altrui… ”La prima regola della pace in un mondo multipolare e con più
civiltà è l’astensione”. I grandi principi non si possono esportare...
T: la consapevolezza non alimenta guerra così come non lo fa la scienza, per quanto dicevo in
apertura. E dunque è alla luce della consapevolezza che possono essere ricomposte le
opposizioni razionali o teologiche. La consapevolezza che permetta di gestire la propria paura in
modo maturo e non attraverso una religione. È la consapevolezza, prima di tutti, il grande
principio da esportare e condividere! L’astensionismo di Huntington è ancora un non gestire che,
come già rilevato, produce risultati peggiori di qualsiasi gestione...
F: l’11 settembre 2001 ha annientato in un colpo solo la geografia dell’isolazionismo. Resta da
sapere se l’America, rispondendo alla sfida della modernizzazione senza occidentalizzazione,
attraverso quello che Pierre Hassner chiama “il Wilsonismo in stivali”, aprirà una capitolo
inedito della storia o se descriverà una nuova figura dell’impero...
T: i nodi continuano a venire al pettine finché le soluzioni rifuggono dalla luce della
consapevolezza. Anche l’isolazionismo non funziona, sia che si estrinsechi in un tranquillo non
partecipare, sia che conduca ad “una nuova figura dell’impero”...
F: il conservatore... Il XX secolo, esacerbando la passione rivoluzionaria, ha fatto del cambiamento
il modo privilegiato dell’azione politica al punto da dimenticare che… ”nella vita degli uomini,
non ci sono mai stati e ci saranno miglioramenti che non siano stati pagati al prezzo del
deterioramento e di altri mali” (Leszek Kolakowski)...
T: Kolakowski scopre quello che per un consapevole è l’acqua calda. E cioè che nulla è gratis e va
sempre fatto un bilancio consapevole di pro e contro, vantaggi/svantaggi, costi/ricavi...
F: all’ottimismo democratico della rivoluzione, egli contrappone un amore malinconico per ciò che
esiste e per le vecchie tradizioni malferme… difende la fedeltà… trova sempre troppo caro il
prezzo da pagare per il cosiddetto progresso. In secondo luogo, il conservatore rifiuta di
concedere alla ragione una fiducia senza riserve. I Lumi che abbattono la superstizione: è un
intreccio che gli pare troppo sommario per spiegare i fenomeni umani. Tutto ciò che non è
razionalmente comprensibile non dipende necessariamente dall’ignoranza o dall’oscurantismo.
Detto altrimenti il conservatore percepisce come una minaccia l’approccio tecnico al mondo
simbolico. “Egli – scrive Kolakowski – crede fermamente che noi non sappiamo se varie forme
tradizionali della vita sociale – come i rituali familiari, la nazione, le comunità religiose –
servano a rendere tollerabile o addirittura possibile la vita in società. Tuttavia, non vi è ragione di
3
In Italia ha pubblicato “La Terra è più bella del paradiso”; Bompiani, Mi, 2002.
28
credere che, distruggendole, denunciandone il carattere irrazionale, aumenteremmo le nostre
possibilità di felicità, di pace, di sicurezza e di libertà…”
T: Kolakowski è consapevole che con la sola Ragione non si risolve tutto, in particolare “i fenomeni
umani” e che è “una minaccia l’approccio tecnico al mondo simbolico” perché “tutto ciò che non
è razionalmente comprensibile non dipende necessariamente dall’ignoranza o dall’oscurantismo”.
Ma non si rende conto che quel “che non è razionalmente comprensibile” dipende proprio da
quell’ignoranza e quell’oscurantismo che fanno la inconsapevolezza...
F: ad alcuni aspetti della miseria umana si può rimediare, ma una parte della nostra miseria è
incurabile...
T: certamente vero, ma la consapevolezza permetterebbe di ridurre la parte incurabile. Ad esempio
la sofferenza auto-indotta da masturbazioni psicologiche, ovvero da quel che i Buddhisti
chiamano “la seconda freccia” che intensifica la sofferenza: la ‘prima freccia’ che dà sofferenza
è la pura e semplice frustrazione, la seconda è costituita dai pensieri, dal rimuginio che si fa su se
stessi procurandosi ulteriore sofferenza...
F: è impossibile nel 1978 non concedere al liberale che nelle comunità umane è frenata l’iniziativa
individuale ed è annullata la concorrenza in nome dell’ideale dell’eguaglianza, domina la
stagnazione e imperversa il risentimento. L’eguaglianza quindi non può essere un fine in sé, ma è
solo un mezzo: “La lotta per una maggiore eguaglianza non ha senso se si traduce solo
nell’umiliazione dei privilegiati e non nell’elevazione di chi vive in condizioni di sfavore. La
perfetta eguaglianza è un ideale che si rivolta contro se stesso”...
T: è senza consapevolezza che ci si lascia irretire dal romantico ideale di eguaglianza che, infatti,
“si rivolta contro se stesso” livellando tutto sulla mediocrità, come ho già rilevato. Perché con la
consapevolezza che tra i bisogni umani non c’è solo quello di appartenenza, meglio soddisfatto
dall’idea di eguaglianza, ma anche quello di riconoscimento che esige il vedersi distinto dalla
massa, è facile prevedere il declino e la mediocrità di una società che celebri la sola eguaglianza...
F: giustificare con la sconfitta del comunismo la generalizzazione dei principi dell’economia
all’insieme delle attività umane significa non aver saputo trarre alcuna lezione dal XX secolo...
T: e ancora non si trae la lezione che “all’insieme della attività umane” si può badare solo attraverso
la consapevolezza...
F: così siamo arrivati all’epoca dei premi di disobbedienza. Oramai, non c’è nulla di più corteggiato
dello scandalo, nulla di più borghese che la bohème, nulla di più ricercato che la trasgressione...
T: e così, senza consapevolezza che guidi la crescita, ci si avvia tranquillamente, ripeto ancora una
vota, verso il caos e l’ingovernabilità e la violenza...
F: nell’innovazione non si celebra la vittoria sul pregiudizio, ma un’inedita configurazione in un
mondo in cui non vi è più alcuna forma che possa pretendere di incarnare i Lumi della ragione.
Quanti oggi sostengono il partito del movimento perpetuo, pensano, come pure il conservatore,
che nulla sfugga alla giurisdizione della Storia, che non vi sia un al di là rispetto alla saggezza
del tempo… la storia non insegna altro che l’infinita molteplicità degli schemi percettivi, dei
supporti dello scambio, dei valori e delle pratiche umane… Se ormai la verità non corrisponde
altro che a una varietà di costumi, per quale ragione non dovremmo aggrapparci a quelli nostri?
La preminenza che l’Occidente moderno riconosce al libro e alla famiglia nucleare non si trova
né in altre epoche né in altre latitudini. Tempo e spazio snaturalizzano questi vincoli spirituali,
privandoli impietosamente della loro pretesa di universalità... Invece di sprofondare nella
nostalgia, vale a dire nella preferenza culturale, perché non tentare una nuova avventura? Perché
no? È la risposta laconica e disinvolta che l’Internazionale del XXI secolo fornisce alle
incessanti proposte che la tecnica le rivolge… E l’Occidente risponde con la liquidazione della
sua eredità alla sfida tecnospirituale che gli viene lanciata. I conservatori sono scomparsi.
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Sbaglieremmo tuttavia se da tale scomparsa inferissimo la morte del conformismo e l’abbandono
delle scene da parte dei fautori dello status quo, i quali invece, si danno da fare e trionfano.
Cos’altro è, infatti, oggigiorno lo status quo se non la perpetua mobilità? Il progresso non è più
uno strappo alla tradizione, ma la nostra stessa tradizione… vive la sua vita, automatica e
autonoma. Non è più controllato, ma compulsivo. Non è più prometeico, ma irreprimibile… Si
può persino dire che in un mondo destinato all’innovazione e all’interazione continue, agire
davvero contro l’ordine istituito vorrebbe dire non scagliarsi a testa bassa, ma rallentare, fare un
passo laterale... staccare la spina. Oggi però chi parla di staccare la spina?… Chi scuote l’inerzia
dell’attivismo?… chi cita Walter Benjamin per dire che la rivoluzione non è la locomotiva della
storia, ma la mano della specie umana “che tira il campanello di allarme” sul treno della storia
partito verso la direzione sbagliata? Oramai, si tratti dell’informatica o delle biotecnologie, la
parola rivoluzione si usa solo per indicare il nostro destino...
T: la saggezza del tempo nel senso che, a furia di sbattere la faccia sul muro dei propri errori di
inconsapevolezza, il tempo fa pulizia degli errori?? Se “i Lumi della ragione” non sono stati
sufficienti non v’è ragione, appunto, per lasciar andare tutto “alla saggezza del tempo” con un
atteggiamento di impotenza rinunciataria. Piuttosto la ricerca deve esplorare altre strade per la
migliore consapevolezza dei fenomeni umani. Per cercare un filo conduttore nella “infinita
molteplicità degli schemi percettivi, dei supporti dello scambio, dei valori e delle pratiche
umane”. Per “tentare una nuova avventura” che, se una lezione deve essere tratta, non può certo
avvenire sul piano della tecnica, essere una “sfida tecnospirituale”, ma dovrebbe riguardare il
campo dei fenomeni umani in termini di sviluppo di consapevolezza. E il primo passo sarebbe
davvero “rallentare, fare un passo laterale …staccare la spina” per una nuova partenza e una
rivoluzione che però non va nella direzione “dell’informatica o delle biotecnologie”, della
tecnica...
(QUARTA LEZIONE)
F: l’uomo di cui parla Victor Hugo... è l’uomo moderno… che replica al limite scavalcandolo...
Interpretare il “Conosci te stesso” come un invito all’introspezione significa commettere un
anacronismo, un controsenso moderno… Sino a Socrate e Platone, quella formula non ha mai
significato altro che questo: “Conosci i tuoi limiti; sappi di essere un mortale, e non un dio”.
Anche la leggenda di Prometeo, che piace tanto ai Moderni, in origine, non illustra l’intrepida
grandezza del superamento o della trasgressione, ma i misfatti dovuti alla mancanza di misura...
T: nel pur lodevole slancio verso l’iniziativa, l’affrancamento dai limiti, lo sviluppo, i Moderni sono
incorsi nell’errore di mettere da parte e non insieme l’introspezione, il senso della misura, il
“Conosci te stesso”. È stata come un’ubriacatura alla luce della sola Ragione, lodevole per un
verso, ma pericolosa, per un altro, per la crisi e i misfatti legati alla ‘ignoranza’ dei fattori umani.
E proprio la consapevolezza di questa ignoranza avrebbe dovuto, almeno e anzitutto, salvare il
“conosci te stesso” degli Antichi...
F: Zeus per vendicarsi (di Prometeo che lo aveva ingannato per favorire gli uomini) ordina a Efesto
di... formare… un bel corpo di vergine piacente… Hermes però le mette dentro al cuore la
menzogna e la furbizia. E Zeus offre agli uomini “quel dono con cui tutti si compiaceranno di
circondare di amore la propria disgrazia” (Esiodo, VII secolo a.c.). Nelle “Opere e i giorni”,
Esiodo completa il mito. Racconta che Zeus invia Pandora (letteralmente il regalo di tutti) a
Epimeteo (colui che pensa a scoppio ritardato, con il senno di poi). Epitemeo, dimenticando
l’ordine di suo fratello Prometeo di non ricevere alcun regalo da Zeus, sedotto dalla bellezza di
Pandora, la fa sua. “Ma c’era un vaso che conteneva tutti i mali”. Appena è distesa per terra,
Pandora, divorata dalla curiosità, apre il vaso e tutti i mali si riversano sull’umanità. “Solo la
speranza resta nel vaso, dentro la sua prigione infrangibile”, aggiunge Esiodo, “e non vola fuori,
solo perché Pandora ha rimesso il coperchio, per volere di Zeus”. La leggenda, a questo stadio,
ha un significato opposto a quello che farà di Prometeo il personaggio emblemetico del mondo
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moderno. Esiodo vuole mettere gli uomini in guardia contro la ubris (la tracotanza).
Sottolineando come la Speranza, e solo la Speranza, sia rimasta nel vaso, egli parla dei mali
come se fossero inerenti alla condizione umana. Altra grande ricorrenza del mito: il “Prometeo
incatenato” di Eschilo… Prometeo... consegna agli uomini tutte le arti e le scienze… Con la
tragedia, quindi, l’orgoglio e l’insubordinazione diventano gli attributi di Prometeo. Ma
attraverso questa storia Eschilo celebra non tanto la rivolta in sé quanto la scuola dolorosa
attraverso la quale… si arriva alla moderazione e al ritegno che ovunque sono virtù, persino in
cielo… Come dire, la giustizia alla quale gli uomini aspirano non è una forza che esiste
all’esterno di essi: sta a loro farla nascere con un lento apprendistato dei limiti e della misura…
Alla condanna di ogni forma di ubris da parte dell’uomo greco e all’elogio concomitante della
riserva, del pudore, della modestia… corrisponde nell’uomo cristiano il dogma del peccato
originale… L’uomo dunque non è il redentore di se stesso. Da quando Dio si è fatto uomo per
salvare il genere umano, la Speranza è uscita dal vaso, come ha scritto giustamente Leszek
Kolakowski: “… la macchia del peccato originale grava su di noi in maniera irrimediabile e noi
non possiamo mondarci da questa macchia se non riceviamo un aiuto esterno”. La virtù greca di
moderazione non sopporta eccezioni: vale per gli dei come per gli uomini. Viceversa, con la
virtù cristiana dell’umiltà, l’uomo prende coscienza della propria debolezza e caducità, si spoglia
di tutto ciò di cui lo copre l’orgoglio… Il nostro Prometeo… dà orgogliosamente congedo alle
due morali… Il Prometeo... è l’Uomo che all’alba dei Tempi moderni ha deciso di prendere in
mano il proprio destino… ha dato a se stesso mandato di “produrre invenzioni capaci, in una
certa misura, di vincere e dominare le fatalità e le miserie dell’umanità” (Francia
Bacon)… ”L’uomo dà l’assalto all’infinito”, scrive Victor Hugo...
T: una lunga storia articolata e, per alcuni versi, contraddittoria per arrivare a quel che la
consapevolezza fornisce immediatamente: il senso profondo e radicato della precarietà,
vulnerabilità, fragilità umana, spogliandosi dall’orgoglio e dall’ego, sapendo “di essere un
mortale e non un dio”. I greci e i cristiani si muovevano lungo un tale percorso. I Moderni, nella
pur lodevole ricerca di autonomia, sono passati, per inconsapevolezza, alla posizione opposta. Se
i greci e i cristiani restavano nella dipendenza dell’infanzia, da cui è pur necessario uscire per
crescere, i Moderni sono passati alla contro-dipendenza adolescenziale senza la consapevolezza
che questa è solo una fase della crescita per arrivare alla maturità dell’Adulto. E continuano a
voler celebrare la contro-dipendenza rivoluzionaria senza rendersi conto che la crescita richiede
altre tappe, ancora di là da venire finché ci sarà inconsapevolezza. In altre parole l’Uomo
moderno da un lato vuole giustamente crescere, non essere più bambino sottomesso,
affrancandosi dall’autorità degli Dei del Dogma e della fatalità, ma, come l’adolescente, si lascia
trascinare dall’orgoglio, passione perdendo, o meglio non ancora imboccando, la strada per
diventare Adulto consapevole che integra l’autonomia nella saggezza degli Antichi fondata su
moderazione, ritegno, umiltà, rispetto...
F: andiamo avanti, sempre più avanti. Replichiamo al limite scavalcandolo automaticamente…
Dove sta oggi il nostro destino?… In ciò che ci viene dato come impossibile o nell’impossibilità
di fermarci, di fare il punto e persino di rallentare? Il nostro slancio è arrivato a un punto di non
ritorno...
T: ecco che con l’Illuminismo si è voluti uscire dai vecchi ‘automatismi’, condizionamenti ma
rischiamo di restare catturati dai nuovi ‘automatismi’ dell’andare avanti, “sempre più avanti.
Replichiamo al limite scavalcandolo automaticamente”. Automaticamente, appunto, ovvero
catturati da un nuovo condizionamento, automatismo. È allora venuto veramente il momento di
“fare il punto”, alla luce della consapevolezza, per uscire dagli automatismi inconsapevoli ed
evitare di arrivare, se ancora possibile, “a un punto di non ritorno”...
F: di tutte le pratiche umane, ce n’è una che replica letteralmente al limite scavalcandolo, e che fa
del superamento una frontiera sempre spostata in avanti: lo sport… insegna a “impegnarsi ad
andare oltre” (de Coubertin)… Una scuola in cui è in gioco la formazione dell’uomo prometeico,
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lo sviluppo dello spirito d’impresa, l’iniziazione alla conquista, all’esplorazione, alla voglia di
andare sempre oltre, l’educazione al domino di sé e al dominio dell’universo… Luogo della
liberazione controllata delle emozioni, lo sport coniuga risparmio e dispendio, come nessun’altra
attività umana… prepara a superare i limiti con l’esercizio della libertà entro i limiti della
regola… i Greci vivevano in un mondo chiuso nel quale bisognava realizzare se stessi, mentre lo
sport moderno mette in atto e in scena l’inestinguibile aspirazione a superare se stessi. L’ideale
antico era la proporzione, l’armonia, l’equilibrio, la giusta misura: l’uomo non era tenuto ad
affrancarsi dalle regole naturali, ma a realizzare se stesso. Viceversa lo sport moderno celebra il
culto della performance… Ma ciò che de Coubertin non poteva prevedere, e che coglie noi stessi
impreparati, è la virata del più nel troppo… Eravamo attrezzati e programmati per ammirare la
meraviglia inesauribile dell’impossibile divenuto possibile. Ed ecco che la stessa meraviglia
adesso ci fa paura, nostro malgrado… Dopo l’epoca della perfettibilità viene quella della fuga in
avanti…Il sogno volge all’incubo… C’è un problema che ci ossessiona e ci vieta di avere un
rapporto innocente con lo spettacolo sportivo: il doping… Non si è più sicuri che vinca il
migliore. La vittoria forse va al meglio dopato… E non è tutto. L’ingegneria genetica allarga
vertiginosamente il campo del doping… Fabbricazione di atleti e non più trucchi estemporanei,
puntuali infrazioni all’etica sportiva… In quel che si modifica e si altera da parte dell’uomo
ormai bisogna calcolare anche la materia vivente...
T: e così nella cultura dei Moderni ci si viene a trovare nella contraddizione dei valori
dell’eguaglianza e della performance. Come si conciliano? Si genera una confusione
schizofrenogena nella mente sociale anche con la sofisticazione del considerare la performance
dell’Uomo prometeico archetipo e l’eguaglianza degli uomini individui. E può essere mai che i
Moderni debbano riscoprire i valori degli Antichi (precarietà, realizzazione di se stessi,
moderazione, misura, introspezione, meditazione etc.) solo quando gli viene diagnosticato un
tumore o nella disgrazia?...
F: all’inizio di un secolo che, tutto sta ad indicare, sarà quello delle bio e nano tecnologie… il
verme del postumano sta già nel frutto dell’umanesimo… nel 1486 Pico della Mirandola mette in
bocca al Creatore: “A te, Adamo, non ho assegnato un posto determinato, né un aspetto e
neanche una dote particolare, e ciò affinché sia tu stesso a volere, a conquistare e a possedere da
solo il tuo posto, il tuo aspetto e le tue doti… Ma tu che non hai alcun limite come confine, tu
definirai te stesso secondo il tuo arbitrio… Potrai degenerare in forme inferiori, come quelle
bestiali, oppure, rigenerato, potrai raggiungere le forme superiori e divine...”
T: ecco che si mostra il processo di crescita a partire dall’identità ‘data’ (per censo, classe sociale
etc.) a quella ‘comprata’ (per i mezzi di cui si può disporre e l’immagine che si può mostrare)
fino a quella ‘creata’ (per introspezione, consapevolezza). Si tratta di avere, con consapevolezza,
ben presente il bivio: tra “degenerare in forme inferiori” ed elevarsi verso “forme superiori e
divine”...
F: in pochi decenni, è scomparsa una civiltà millenaria e i contadini hanno recuperato il ritardo…
Coltivare una volta significava prendersi cura della natura; adesso invece vuol dire instaurare un
universo funzionale, meccanizzato e malleabile… La natura si ritira dalle campagne, scrive
Dominique Bourg..”... non vi è nulla che si faccia senza calcolo. Non c’è più l’immediata e
spontanea comprensione delle cose..”… E la conversione delle campagne al progetto
indissolubilmente tecnico ed etico della modernità, sembrava tanto più indispensabile e persino
urgente… ” Tra l’uomo e la terra esiste il legame di una legge naturale. Non esiste contratto
sociale”, diceva per esempio Jules Le Roy Ladurie, che fu ministro dell’Agricoltura del primo
governo di Vichy, e spiegava: “Tra il proletariato e il suo datore di lavoro, così come tra il
funzionario e lo Stato, esistono invece legami contrattuali, convenzioni collettive particolari,
discusse, concertate e modificabili a seconda degli interessi, o anche uno statuto”… Per tutti fu
un punto d’onore cambiare d’appartenenza, abitare la società e non più la terra… È reale solo ciò
che è quantificabile, ciò che viene espresso in numeri…
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T: la perdita del contatto con la natura, il proprio corpo, la legge naturale, ovvero l’esasperato
ricorrere alla razionalità, ha fatto perdere di vista la realtà, i limiti (considerati solo per superarli)
riducendo lo scambio a forme contrattuali ed ha portato all’alienazione, alla solitudine, alla noia...
F: se si continua a far in modo che l’umanità si appropri della Creazione, è per farla finita coi
capricci e la durezza di quello che l’impotenza umana, sin dalla notte dei tempi, chiama in
alternanza caso o destino… C’è un’artificialità scatenata all’origine della contaminazione delle
mucche da encefalopatia spongiforme bovina… Un pericolo nato dall’attivismo umano… un
cataclisma che non deriva dalla natura, ma dalla sua illimitata umanizzazione: è quello che
Victor Hugo non poteva prevedere…
T: l’uomo, partito con l’aspirazione a liberarsi dall’impotenza di fronte al “caso o destino” per
essere artefice della sua ‘felicità’, immaginata da Victor Hugo, ha finito per creare, lui stesso,
altri casi o destini di cui rimane vittima, così come prima. Con la differenza che ora si è anche
caricato di alienazione, isolamento, solitudine, depressione...
F: sin dal 1620, Francis Bacon (filosofo) nel “Novum Organum”, aveva elevato l’ambizione a virtù
contro la dottrina cristiana dell’umiltà e l’ideale greco della misura… tre gradi di
ambizione… ”Il primo comprende gli uomini avidi di accrescere il proprio potere… è il genere
più comune e più vile. Il secondo comprende quanti si sforzano di accrescere il potere e l’impero
della loro patria… un genere di ambizione che mostra più dignità ma non meno avidità del primo.
Che però un uomo s’industri a restaurare e accrescere il potere e l’impero dello stesso genere
umano sull’universo è di sicuro un’ambizione più saggia e nobile delle altre…
T: sotto c’è sempre l’Ego con la sua smania di potere, per essere Dio egli stesso fino ad arrivare,
però e ripeto, a caos e ingovernabilità. Viviamo immersi nella cultura del narcisismo
(Christopher Lash: “La cultura del narcisismo”; Bompiani; Milano, 1981) in cui un ego dilatato
è strenuamente proteso al successo rapido, coltiva l’immagine, venera l’apparenza, la visibilità e,
con la bramosia di avvicinarsi all’onnipotenza, innalza torri sempre più alte che richiamano in
prospettiva la leggenda e l’esito della Torre di Babele: il caos, l’ingovernabilità. Quando
recupereremo l’orizzonte della saggezza e del “cognosce te ipsum” degli Antichi?? ...
F: perfettamente in linea con Bacone, Hugo glorificava il dominio dell’uomo sulle cose, ma
rifiutava di accordare il monopolio della saggezza a questa grandiosa ambizione, e vedeva di
buon occhio che andasse a sbattere contro le nuvole. La realtà irriducibile insomma s’incaricava
di ricordare a quanti fossero stati tentati di far la voce grossa che tra benessere e vivere bene la
differenza era essenziale e abissale. “L’Eden è morale, non materiale. Essere liberi e giusti
dipende da noi. La serenità è interiore. La nostra primavera perpetua sta dentro di noi”… Come
potremmo coltivare la serenità interiore, nella fortezza del nostro foro interiore, se fuori di noi
tutto ci compromette e tutto dipende in qualche modo da noi stessi, persino il tempo che fa,
persino i capricci del cielo?...
T: ecco che appare la differenza tra bene-stare (definito erroneamente “benessere”) e bene-essere
(definito “vivere bene”), tra stare bene e sentirsi bene, e rimanda al “dentro di noi”. Ovvero
mostra la direzione, la bussola da seguire per lo sviluppo di consapevolezza imparando a
“coltivare la serenità interiore” non in funzione del “fuori di noi” e, anche, perché il “fuori di
noi” non venga compromesso...
F: Prometeo non se ne capacita. Era incantato dai giganteschi processi compiuti nel costituire una
nuova genesi all’insegna dell’efficacia e della produttività… I suoi portavoce, come il filosofo
Francois Dagone, dichiaravano con euforica enfasi: “Ormai instauriamo e provochiamo la natura
(…) Il fare prende il posto dell’essere…
T: è ancora la pericolosa maniacalità dell’Ego...
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F: il potere di realizzazione di cui si credeva investito viene in un certo senso smentito dal suo
stesso esercizio. La sua opera, infatti, consiste nell’aver messo in moto processi di cui non tiene
più sotto controllo né lo svolgimento, né i risultati… E’ abbastanza edotto di scienza per
sostituire il fare all’essere, e però, come l’apprendista stregone di un’altra poesia di Goethe,
ignora la formula della metamorfosi retroattiva che gli permetterebbe di fermare la tempesta
scatenata dalla sua lotta e spaventosa imprudenza…
T: e puntualmente si ripete la storia dell’apprendista stregone se l’Ego prende il posto della
Consapevolezza...
F: lui che sistematicamente replicava al limite scavalcandolo… deve adottare il comportamento
opposto. Replicare col limite allo scavalcamento, moderando il proprio dinamismo, diventare
saggio… e inopinatamente adesso a trovarsi all’ordine del giorno è la trasgressione della
trasgressione, la rivoluzione della rivoluzione… E per assolverlo non può fare affidamento sulla
saggezza di un tempo. Non era facile essere saggi, ma la saggezza aveva potenti alleati
naturali… Prometeo… suo malgrado e controvoglia, si vede ormai minacciato dalle proprie
imprese più che dalla barbarie degli elementi… La paura è buona consigliera… il Principio
Speranza cede il passo al principio di precauzione, vale a dire, alla messa in pratica della tesi
secondo la quale ”…l’adozione di misure effettive e proporzionate che mirano a prevenire un
rischio di danno grave e irreversibile all’ambiente a un costo economicamente accettabile” (Hans
Jonas). Le visioni di Victor Hugo non fanno più sognare le Cassandre che siamo diventati
controvoglia... facendo appello non più a strumenti magici ma alla ragione per dominare ogni
cosa, la tecnica aveva finito per incantare gli uomini. Ma adesso che l’incertezza si annida nel
cuore stesso delle nostre conoscenze e del nostro potere, siamo noi stessi a uscire fuori
dall’incantesimo... eravamo così fieri di operare con metodo, adesso ci vediamo ingiungere di
agire con prudenza...
T: arriva il dietro-front! Ecco che finalmente, la forza degli eventi impone la saggezza invece della
frenesia nevrotica ed euforica dei megalomani narcisisti… L’orgoglio e la sfida adolescenziali
portano alla distruzione e auto-distruzione. L’esperienza fa sorgere il dubbio che diventa
‘precettore’ insieme alla curiosità e la paura è buona consigliera. In altre parole forse si comincia
ad uscire dalla nevrosi e prendere contatto con il sistema limbico o inconscio, con le parti più
profonde della natura umana...
F: la riabilitazione della paura ha provocato una valanga di obiezioni e rimproveri. Che cosa c’è
infatti di meno entusiasmante dell’apologia dell’immobilismo e dell’invito alla pusillanimità! E
anche di meno filosofico! La paura non è il nemico intimo della riflessione? La superstizione non
fiorisce sul terreno del terrore?... ”Sapere aude!”. Abbi il coraggio di far uso della ragione: era
questo il motto dell’Illuminismo, ricorda Kant. Il panico inibisce, il terrore paralizza e invoca
protezione…
T: si pone, dopo l’orgoglio e la sfida adolescenziali, la necessità di imboccare la strada della
Consapevolezza per poter crescere e diventare Adulti, non solo anagraficamente, e convivere con
la paura, continuando a far uso della Ragione, ma senza più nevrosi e megalomania...
F: tutti gli animi valorosi… denunciano il carattere regressivo del principio di precauzione, e come
il filosofo Michel Onfray, oppongono una “euristica dell’audacia” all’infantile euristica della
paura. Eppure, a guardare le cose da vicino, si tratta di un falso processo…
T: no, non è questa la strada. Vorrebbe dire insistere nell’inconsapevolezza e nevrosi e, infatti,
sarebbe un “falso processo”…
F: quando Jonas dice che “timore e paura fanno ormai parte dell’esperienza del sapere, gettando
un’ombra sull’audacia che ad essa appartiene”, non vuole in alcun modo richiamare all’ordine
l’indagine intellettuale. Né oscurantista, né reazionario… Jonas non vuole spegnere la luce… ha
in mente una paura pensante che squarcia come un lampo di temporale il destino che il progresso
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ci sta preparando… un altro tipo di paura. Non più la paura dell’incontrollabile... bensì un timore
viscerale e ossessivo della morte… all’inizio del XV secolo in “Il Lavoratore di Boemia”, un
poema di Johannes von Tepel, detto anche Johannes von Saaz, due personaggi si affrontano: un
contadino che ha appena perso l’amata moglie e la Morte che gliel’ha portata via. Come tutti gli
afflitti, il contadino piange. Ma nelle sue lacrime c’è tanta collera quanto dolore. Il dispiacere, ed
è un fatto inaudito, si esprime subito in forma di requisitoria…
T: Jonas intravede, con consapevolezza, il superamento dell’audacia adolescenziale nell’esperienza
matura del sapere che integra la ricerca con la prudenza, il pensiero con il sentire,… la Ragione
con la Consapevolezza senza voler più esorcizzare nevroticamente la Morte…
F: quel contadino dimenticato è il grande antenato dei Moderni: il nostro mondo deriva dal suo
furore, siamo noi gli eredi del suo lutto impossibile. Con lui, la disgrazia viene dichiarata
illegittima, la sofferenza non è più un’espiazione, ma uno scandalo. Nulla, né la speranza di una
ricompensa futura, né l’idea di un peccato originale, né il culto della realtà eterna, può togliere
alla morte il suo dardo velenoso. Non vi è riparazione, né compenso, né giustificazione; non c’è
altro essere che un’esistenza precaria e corruttibile… Non è più Orfeo che, col suo canto, si
prende carico della scomparsa di Euridice, ma l’attivismo di Prometeo e il rifiuto radicale da
parte sua di quella parte di fatalità che l’esistenza comporta... la criminalizzazione della morte da
parte del contadino di Boemia inaugura l’epoca in cui la longevità detronizza l’eternità, il medico
che dà sollievo prende il posto del prete che dà salvezza, un’epoca in cui, per dirlo in una parola,
la salute si sostituisce alla salvezza come obiettivo umano prioritario… è il sogno della salute
perfetta… E ormai, come nota il neurologo Laura Bossi, nelle sua “Histoire neturelle de l’ame”,
“è impossibile dichiarare su un certificato di morte che qualcuno sia morto di vecchiaia. Bisogna
indicare per forza una causa: arresto cardiaco, embolia polmonare, incidente vaso-cerebrale. Ed è
il cattivo funzionamento di un organo, l’incidente ‘meccanico’ a essere considerato il
responsabile del naufragio finale. Tutte pratiche rivelatrici dell’inconscia speranza che un giorno
si possa ‘riparare’ tutto”…
T: è il voler esorcizzare la Morte, controllare la Vita, che porta alla nevrosi e all’autodistruzione
cercando scampo nel culto della salute, nel “sogno della salute perfetta”. La Consapevolezza,
nell’accettare la morte senza rimanere catturata dal furore prometeico della sua esorcizzazione,
né esserne paralizzata o destabilizzata, può continuare a pensare, sentire, agire rispettando la
Natura…
F: Prometeo è diventato il campo di battaglia. Due sono le paure che gli fanno battere il cuore e se
ne contendono aspramente la direzione spirituale. La prima lo scongiura di fermarsi, di andare
piano, di lasciar respirare la terra; la seconda lo esorta ad andare avanti a testa bassa. La prima
vorrebbe restringere i suoi poteri; la seconda allargarli. La prima che ingiunge di essere
ragionevole, la seconda di razionalizzare il mondo fino alla morte della morte. La prima si
appella alla legge per porre dei limiti, la seconda invoca la vita contro la legge. La prima parla il
linguaggio del diritto e della responsabilità; la seconda, il linguaggio della rivendicazione e
denuncia come una violazione dei diritti dell’uomo ogni tentativo di ricorrere al diritto per tenere
a bada gli eccessi…
T: è, nella seconda, con l’esplosione del meccanismo di difesa della razionalizzazione, che si fa
follia e si alimentano pretese, capricci, eccessi rivendicandoli come “diritti dell’uomo”. È solo
nevrosi maniacale…
F: insomma ad impedire la conversione di Prometeo in agente della natura, come auspica Jonas, è
l’invincibile tendenza al benessere e la promessa di immortalità che la scienza veicola.
Conclusione: se vogliamo resistere alle febbri della mancanza del limite, l’euristica della paura
non basta, bisogna anche, in un certo senso, fare pace con la morte… La morte non appare più
come una necessità che fa parte della natura del vivente, ma come un difetto organico evitabile,
suscettibile, almeno in principio, di essere oggetto di trattamento e dunque della possibilità di
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venir differito a lungo. Così appagare la nostalgia dell’umanità per l’eterno sembra a portata di
mano. E per la prima volta, dobbiamo porci seriamente la domanda: in quale misura è
desiderabile tutto ciò? E in quale misura lo è per l’individuo? E in quale misura lo è per la specie?
La specie non vi troverebbe alcun vantaggio, perché il continuo succedersi delle generazioni è un
bene per l’umanità... La natalità, continua l’autore del “Principio di responsabilità” (Hans Jonas)
nel solco dell’amica Hannah Arendt, garantisce “che ci sarà sempre chi vedrà il mondo per la
prima volta, che vedrà le cose con occhi nuovi, si meraviglierà quando altri saranno intorpiditi
dall’abitudine, debutterà là dove altri saranno arrivati”. Senza l’accumulazione di esperienze,
l’umanità sarebbe stagnante. Anche l’umanità, però, per evitare di sprofondare nell’abitudine e
nella noia, ha bisogno di ciò che l’esperienza distrugge e non può mai riconquistare: lo stupore,
l’inizio assoluto, la curiosità ingenua del bambino di fronte alla realtà… E quest’assalto contro la
necessità ultima appaga l’individuo solo in apparenza: costui ci perde pure, afferma Jonas,
convinto com’è sulla scia di Tocqueville, “che sarà sempre difficile far vivere bene un uomo che
non vuole morire”. Il suo articolo “Del fardello e della grazia di essere mortale”, s’apre sul verso
di un salmo: “insegnaci a contare i giorni, affinché noi possiamo acquisire un cuore saggio”…
solo questo anacronistico memento mori è in grado di guarirci, noi moderni, dal nostro
risentimento contro il dato di natura. Dove si radica, infatti, l’ambizione delirante di pervenire a
un controllo assoluto delle condizioni di vita… se non nella stupenda rivolta del contadino di
Boemia: “o morte siate vilipesa! Sprofondate nell’iniquità!....”
T: e così la Scienza si oppone, come la Chiesa, all’apertura verso la Consapevolezza, alla
“conversione di Prometeo in agente della natura”. È solo la Consapevolezza che permette la
convivenza con la paura/precarietà e l’accettazione, il “far pace con la morte”. Ed è curioso come
sia la Scienza, sia la Chiesa osteggino il cammino verso la Consapevolezza: la prima nella follia
egoica di immortalità, la seconda nel ponderato calcolo di potere. È solo la Consapevolezza che
può sia mediare la lotta tra Scienza e Chiesa, sia togliere all’una e all’altra gli strumenti di
perseguimento del potere senza mai elevare la saggezza a valore ed obiettivo. La quale saggezza,
invece e subito, fa intravedere, come sostiene l’illuminato Jonas, che nell’inseguire ”la promessa
di immortalità che la scienza veicola”, l’umanità diventerebbe ben presto e paradossalmente
stagnante (con il paradosso di arrivare, con l’idea dell’eterno sviluppo, alla stagnazione). È,
dunque, solo la Consapevolezza che può permettere di uscire da illusioni, pretese, capricci,
delirio, aberrazioni razionalistiche etc. per crescere, smettere di essere i bambini che ancora
siamo, e finalmente renderci conto che si sta solo fuggendo dalla paura, carichi di risentimento,
lungo sentieri che, sembrano promettere benessere e ‘felicità’, ma danno risultati esattamente
contrari a quelli sperati e promessi...
F: certo non è l’uomo a far tremare la terra. Ma a prestar fede a Jean Jaques Rousseau, non è
nemmeno Dio, né Satana , né la natura imprevedibile a trasformare il terremoto di Lisbona in
una catastrofe omicida: è la civiltà… Là dove Voltaire denuncia l’inspiegabile e la sconsolata
volontà di trovare una spiegazione, Rousseau vede invece il segno dell’uomo snaturato. Una
situazione che Hans Jonas riassume così: “La frontiera tra ‘Stato’ (polis) e ‘natura’ è stata abolita:
la polis, che anticamente era un’isola umana all’interno del mondo non umano, si estende ormai
alla totalità della natura terrestre, usurpandone il posto. La differenza tra l’artificiale e il naturale
è scomparsa, il naturale è stato inghiottito dalla sfera dell’artificiale” … L’uomo, a quel punto,
siede da solo sul banco degli accusati del male che avviene sulla Terra. Ed ecco che noi
volterriani, a poco a poco, siamo divenuti rousseauiani…
T: Rousseau ‘vede’, meglio di Voltaire, i danni collaterali dell’entusiasmo volterriano di inseguire
la ‘felicità’ dando l’assalto alla natura invadendola di artificialità e causando il ‘male’... E così,
“a poco a poco, i volterriani diventano rousseauiani”, e forse si comincia a crescere alla luce
della Consapevolezza…
F: nel 1977, poco più di cinque secoli dopo “Il Contadino di Boemia” e a due secoli di distanza dal
“Poema sul disastro di Lisbona” (Voltaire), appariva in Germania, “Marzo” di Fritz Zorn. Zorn,
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vale a dire “collera” era lo pseudonimo scelto dall’autore, erede di una facoltosa famiglia
svizzera, morto a trentadue anni di cancro, qualche giorno prima dell’uscita del libro, che
iniziava così: “Sono giovane e ricco e colto; e sono infelice, nevrotico e solo. Provengo da una
delle migliori famiglie della riva destra di Zurigo, altrimenti detta riva dorata. Ho ricevuto
un’educazione borghese e per tutta la vita sono stato bravo. La mia famiglia è passabilmente
degenerata, ed è sicuramente per questo che mi porto dietro un’eredità pesante, e sono rovinato
dal mio ambiente. Naturalmente ho anche il cancro, com’era da aspettarsi da quello che ho
appena detto”. Il libro intero è l’esplorazione, l’approfondimento e la rivendicazione di quel
“naturalmente”. Il cancro di Fritz Zorn non è una cosa che arriva non si sa da dove e non si sa
come. È ambientato su Marte, cioè su un pianeta retto dal dio della guerra. Non è né inaspettato,
né assurdo, è semplicemente logico. Secondo l’autore rappresenta la violenza della società
borghese, “quel Moloch che divora i suoi figli”... ”Sono cresciuto nel migliore dei mondi
possibili, il più sano, più armonioso, più sterile e più falso di tutti; oggi mi ritrovo davanti un
cumulo di macerie..”
T: ecco il pregnante esempio di come lo ‘stare bene’, inseguito come ‘felicità’ prossima ventura
(Voltaire) non faccia il ‘sentirsi bene’. Ovvero la inconsapevole mancanza di attenzione al
mondo-della-vita (Husserl) ambienta tutto “su Marte, cioè sul pianeta retto dal dio della guerra”.
E così nevrosi, cancro, aids, depressione, isolamento e via dicendo sono espressione del
cosiddetto progresso. Non a caso l’Organizzazione Mondiale della Sanità prevede che la
depressione sarà la seconda causa di malattia nel 2020…
F: con l’aiuto del progresso, le catastrofi hanno smesso di essere uno scandalo metafisico (Voltaire)
per diventare col passare del tempo uno scandalo quasi interamente politico (Rousseau)… Più si
estendono le conquiste della civiltà – “questo vasto artefatto dell’intelligenza umana” – e più
aumentano i danni per causa altrui… Per dirlo in altre parole: una volta il pericolo veniva
dall’esterno in forma di alea, di colpo del destino, poi, all’apogeo dell’ottimismo prometeico,
veniva in forma di evento statistico da tenere sotto controllo attraverso le prevenzioni. I due
fenomeni non sono scomparsi, ma oggi i rischi maggiori vengono dal di dentro: il più delle volte
come prodotti derivati delle nostre azioni, delle nostre decisioni, dei nostri calcoli. Rischi
tecnologici, rischi alimentari, rischi sanitari: la nostra società si mette in pericolo da sola… Non
basta non aver fatto apposta quel che si è fatto per esserne assolti…
T: e i rischi, nel loro venire “dal di dentro”, pongono sempre più pressante il problema di uno
sviluppo di Consapevolezza che, appunto, tiene conto del “di dentro” e può evitare il “non aver
fatto apposta” perché si tiene conto anche dell’elemento umano, “delle nostre azioni, delle nostre
decisioni, dei nostri calcoli” ovvero del mondo-della-vita con gli effetti negativi che può
produrre se non c’è consapevolezza...
F: tra macchine e aule di tribunali, noi siamo gli infaticabili servitori del perché. “Questo termine
interrogativo scaccia davanti a lui il pensiero rappresentativo, facendolo passare da una ragione
all’altra” dice Heiddeger magnificamente. “Il perché non dà tregua… e la trascina (la scienza)
talmente lontano che essa corre il rischio di andare un giorno troppo lontano”...
T: tutto questo finché l’inseguimento dei perché riguarderà l’esterno con il rischio, sempre
incombente, del disastro. Se il perché cominciasse a riguardare il sé, l’interno (cfr. gli Antichi) si
potrebbe inseguire la saggezza invece che il calcolo…
F: per scongiurare tale rischio e allentare la morsa del “perché” in modo che “resti qualcosa come il
dato”, secondo la bella espressione di Elizabeth de Fontenay, bisognerebbe avere la risorsa o la
virtù – per dirlo con una parola fuori moda di cui sentiamo la mancanza – di sottrarsi
all’alternativa tra i due principi di ragione…: e cioè il computo che afferma la calcolabilità di
ogni cosa e l’imputazione che cerca un colpevole ogni volta che il calcolo è in difetto...
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T: e, ossessionati dalla Ragione, non facciamo che coltivare i nostri condizionamenti, pregiudizi,
convinzioni etc. assunti come ‘verità’ sul “come dovrebbe essere” producendo malessere a noi
stessi (si veda la vita e il romanzo di Fritz Zorn, da lei riportato) e agli altri…
F: si tratta insomma di trasferire all’umanità una responsabilità nuova, ma questa paradossale
responsabilità post-prometeica consiste nel rimettere l’umanità in balia della notte. E la nostalgia
che traspare da questa rivendicazione non è la nostalgia del luogo natale, ma la nostalgia
dell’altrove, il lutto del fuori e dell’essere senza l’uomo...
T: non così: la responsabilità post-prometeica è quella di guidare verso la Consapevolezza che sta
all’opposto del “rimettere l’umanità in balia della notte”. E non “l’essere senza l’uomo”, ma
l’essere nell’uomo che fa “il lutto del fuori” per entrare nel dentro. Alla luce non più e solo della
Ragione, ma, anzitutto, della Consapevolezza...
F: noi tutti ormai siamo gli eredi, i beneficiari e i continuatori della civiltà dell’Illuminismo,
ovverosia della repulsione nei confronti dell’oscurità. Ma l’esuberanza stanca e in alcuni abitanti
del pianeta illuminato provoca la strana sensazione di essere depredati dell’indisponibile. Da
questa spoliazione, dall’esperienza stessa di questa privazione, nasce l’idea insolita e il desiderio
imprevedibile di salvare l’oscurità per restituire alla notte parte del suo potere. Tutto il problema
è sapere se questo desiderio dettato dalla stanchezza potrà mai servire da contrappeso al giorno
senza fine della frenesia artificialista e alla sua promessa di felicità...
T: mi ritrovo perfettamente nella rappresentazione delle illusioni, dei pericoli e del disagio che ha
dato dei Moderni, nella sua articolata dissertazione. L’esito prevedibile di tale disagio, come ho
anticipato, è il caos e l’ingovernabilità, a livello sociale. A livello individuale, come sostiene
Lowen, è depressione o violenza, quest’ultima come antidoto alle tendenze depressive. E la
violenza mi sembra stia pericolosamente crescendo, per quel che ne leggo nella cronaca, in
particolare e preoccupantemente, tra i giovani. L’aspetto della violenza, poi, richiama facilmente
il fenomeno del terrorismo che sembra aver acceso la terza guerra mondiale. E però mi sento più
ottimista di quanto non senta di lei. Per non scivolare nella rassegnazione, nel cinismo, nella non
partecipazione, nell’opportunismo e così via. Perché tutto questo equivarrebbe ad inibire le
nostre parti positive, l’energia vitale, l’entusiasmo. E l’inibizione, come sostiene Laborit, è fonte
di abbattimento/depressione e ci ritroveremmo in un circolo vizioso. Preferisco l’azione, la lotta,
il movimento, il progetto con ancora la ottimistica speranza che un mondo migliore sia possibile
quando si riuscisse ad istituzionalizzare una generalizzata educazione alla consapevolezza. È
stato il mio percorso individuale, ontogenetico, e mi ha restituito, come già anticipato, energie
vitali ed entusiasmo precedentemente bloccati nei conflitti interni. E non potrebbe la filogenesi,
il processo evolutivo della specie, seguire lo stesso percorso?? Potrebbe, quella che stiamo
attraversando, essere una crisi di crescita?? Non si tratta, allora, di rientrare nell’oscurità e
“restituire alla notte parte del suo potere”, ma andare avanti, verso una luce nuova, un nuovo
Illuminismo. Non più alla luce della sola Ragione con la “frenesia artificialista e la sua promessa
di felicità”, ma alla luce della Consapevolezza che faccia intravedere altri percorsi di crescita e
integrazione, guardando all’uomo, all’essere dell’uomo e non più e solo alle ‘cose’, alla
tecnologia. Perché lo “stare bene” (materiale), che abbiamo inseguito finora, si possa integrare
con un “sentirsi bene” (psicologico) che superi la “sensazione di essere depredati
dell’indisponibile”, della “spoliazione... privazione”. Sono stato molto contento e arricchito per
questo scambio e con gratitudine la saluto cordialmente.
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