Francisco Varela

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Francisco Varela
La coscienza nelle neuroscienze.
Conversazione con Sergio Benvenuto
(in www.emsf.rai.it, 7/1/2001)
1. L'argomento della nostra conversazione sarà la coscienza nelle neuroscienze.
Ci può delineare la situazione del dibattito odierno su questo tema?
Vorrei cominciare con una breve retrospettiva storica, che secondo me è importante
per capire quello che sta succedendo. Lo studio della coscienza come oggetto di
scienza è collegato evidentemente con le neuroscienze cognitive, come si dice oggi. È
un tema che come una malattia nevrotica è stato rimosso, è ritornato, è stato rimosso
una seconda volta e adesso ritorna di nuovo. Ci sono periodi in cui viene messo
completamente da parte e altri in cui suscita una vera e propria infatuazione.
All'inizio del secolo è stato appunto una passione in Europa e in America, soprattutto
in Germania, ma anche in America con William James, considerato che la psicologia,
che a quel tempo era l'equivalente delle neuroscienze, era interessata essenzialmente
al problema della coscienza. Ma era anche in voga quello che si chiama oggi metodo
in prima persona, l'accesso fenomenologico, diretto, introspettivo ai contenuti della
mia propria esperienza. Si può osservare che tra il 1890 e il 1930-1940 circa,
l'interesse per lo studio scientifico della coscienza per ragioni diverse, che non
avremo il tempo di sviluppare oggi, ha subito un'eclisse e mentre dopo la Seconda
Guerra Mondiale la scienza europea è rimasta bloccata, per riprendere negli Stati
Uniti, negli Stati Uniti si è avuto il ciclo inverso della rimozione totale del tema, ed è
cominciato il periodo del comportamentismo, il periodo skinneriano, il periodo in cui
solo oggetto di scienza era il comportamento. Il comportamentismo - per il quale lo
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studio scientifico della mente poteva prendere come oggetto solo la manifestazione
esterna del comportamento, del movimento, la percezione, l'intensità della percezione
ecc. - ha segnato un'epoca, ha dominato per un lungo periodo la psicologia
certamente, ma anche lo studio dei sistemi neuronali. Per un lungo periodo di tempo dunque non è stato un fatto episodico - il comportamentismo ha costituito una specie
di dogma, che ha dominato gli ambienti scientifici degli Stati Uniti ed ha avuto un
influsso anche in Europa. È vero che ci sono sempre delle eccezioni nella storia, ma
adesso sto parlando delle tendenze dominanti. Quello che ci interessa sapere è che
negli anni Sessanta, e all'inizio dei Settanta, comincia quella che si chiama oggi
retrospettivamente
la
rivoluzione
cognitiva.
Che cos'è la rivoluzione cognitiva? La rivoluzione cognitiva consiste nel dire che
l'approccio puramente comportamentista non sembra sufficiente a rendere conto di
tutto quello che si osserva nella vita degli animali e degli uomini, e bisogna fare
l'ipotesi - l'ipotesi cognitivista, appunto - che da qualche parte ci siano strutture
interne, contenuti propri alla vita della mente, processi mentali non riducibili a meri
comportamenti, come la memoria, la pianificazione, l'associazione, e via di seguito.
Così è cominciato negli anni Settanta con grande successo e un rapido sviluppo il
ritorno ai contenuti della mente attraverso la nozione di "cognizione". Dal termine
"cognizione", che è diventato centrale a quel tempo - stiamo parlando degli anni
Settanta - ed è ancora oggi molto molto importante, prendono nome le scienze
cognitive, in cui elementi provenienti dalla psicologia, dalla linguistica, e beninteso
dalle neuroscienze, concorrono alla creazione di una disciplina che si sforza di
studiare i contenuti cognitivi in quanto tali. Anche qui ci sono molte scuole, molte
differenze, tendenze diverse: per esempio c'è un approccio che considera la
cognizione come un sistema computazionale, come dei moduli computazionali; poi
c'è un approccio più dinamico che si chiama connessionismo. Non intendo parlare di
tutto questo. Resta comunque il fatto che quando ho cominciato a lavorare come
ricercatore negli anni Settanta, quando ero attivo come ricercatore, era permesso, anzi
era al centro dell'interesse lo studio della cognizione, mentre era vietato - dico bene:
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vietato -, scorretto, in un certo senso, parlare di coscienza. La coscienza restava come
qualcosa di mistico, di pertinenza dei filosofi, più che un tema scientifico. È stato
necessario attendere l'inizio degli anni Novanta, perché ancora una volta, in questo
ciclo maniaco-depressivo della storia della scienza, tutt'a un tratto, per l'intervento di
una serie di fattori che si potrebbero eventualmente analizzare, si facesse strada
finalmente l'idea che si potevano apprendere molte cose sulla cognizione: come nasce
un'idea di movimento, come si costruisce un ricordo, come funziona l'emozione e
così via, tutti i moduli in cui si articola la vita cognitiva di un animale o di un essere
umano. E finalmente fa la sua comparsa qualcosa che mancava ancora e che sta in
relazione di prossimità assoluta con la vita dell'uomo: la coscienza, il vissuto. È nata
allora quasi improvvisamente una nuova ondata di quella che si chiama oggi scienza
della coscienza. E tutt'a un tratto è diventato accettabile, anzi auspicabile, parlare di
coscienza e chiedersi qual è l'apparato cognitivo che rende possibile l'esistenza di un
vissuto, l'esistenza di un mondo fenomenico [phénoménal]. Beninteso si parla sempre
di animali - certi direbbero che [la coscienza] si trova soltanto nell'uomo, altri
direbbero che è presente anche nei primati superiori. Ma, in tutti i casi, sotto
determinate condizioni, l'apparato cognitivo, di cui sappiamo ormai parecchie cose,
rende possibile l'apparizione di questo fenomeno unico nell'universo che è avere un
vissuto, o per usare l'espressione del filosofo americano Thomas Nagel, autore di un
famoso articolo: "Che effetto fa essere un pipistrello" (1974), potersi porre la
domanda "che cosa significa essere qualcuno?" e, per implicazione, "che cosa vuol
dire avere un'esperienza?". Da questo momento comincia il gran boom della
coscienza e nel boom della coscienza c'è una fashion, una fascinazione del mistero,
per quello che è considerato lo zoccolo duro nello studio della coscienza, che non
consiste nello spiegare un fenomeno o una capacità o un'abilità cognitiva qualsiasi,
considerata difficile, ma essenzialmente a portata di mano per la ricerca scientifica. Il
problema duro è: che cosa ci permette di dire che c'è un'emergenza della coscienza?
Che cos'è la coscienza? Si vede bene che questo problema apre tutta una serie di
discussioni filosofiche estremamente agitate, a volte addirittura violente. Si
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organizzano dei convegni. Per esempio il mese di aprile sono stato invitato a un
grande congresso che costituisce un momento di incontro, biennale, su questi
problemi, all'Università di Tucson in Arizona, sul tema "Verso una scienza della
coscienza", a cui hanno partecipato centomila persone e si sono confrontate tutte le
opzioni
filosofiche
in
un
dibattito
veramente
assai
largo.
Ma adesso vorrei passare a un altro capitolo.
2. Ci può dire quali sono le ipotesi dominanti sul tema della coscienza oggi.
Anche se il panorama è assai vasto, si possono individuare certe preferenze. Non è
difficile immaginare le ipotesi dominanti, perché negli scienziati, nei ricercatori
continua a prevalere uno spirito, una tendenza un po' riduzionista - non lo dico in
senso peggiorativo -, nel tentativo di ricondurre il problema della coscienza a una
spiegazione puramente materialista. Questo è il programma delle neuroscienze, anzi
delle neuroscienze cognitive. Parlo di neuroscienze cognitive perché non si tratta
soltanto dello studio del cervello, come nelle neuroscienze, ma dei nuovi metodi di
mappatura [imagerie] cerebrale. I nuovi metodi per studiare il cervello in diretta
nell'uomo, in maniera non invasiva, permettono di porre questioni cognitive senza
toccare la persona e al tempo stesso di avere accesso ai correlati neuronali. Dunque
per la prima volta si può mettere un uomo sulla macchina IRM funzionale, dirgli:
chiudi gli occhi e immagina il tuo cane che che passa per strada e simultaneamente
registrare l'attività [cerebrale], vedere che risultato dà, e poi confrontarlo con il
risultato che si ottiene mostrandogli la fotografia del cane per vedere che differenza
c'è tra l'immaginare e il percepire. Tali questioni, che fino a qualche anno fa non
potevano né meno essere poste, in quanto riguardano l'immaginazione e la vita
mentale, sono assai vicine all'esperienza vissuta.
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3. Quali tecnologie hanno permesso i cambiamenti nella sperimentazione
avvenuti recentemente. Quali nuove tecniche, in particolare, li hanno resi
possibili?
Quando ci si riferisce a queste tecniche, in generale si pensa a dei metodi di
mappatura [imagerie] cerebrale, capaci di prendere il cervello come un tutto e di
usare diversi tipi di segnali, che permettono di ricostruire l'immagine di quello che
avviene all'interno del cervello, senza toccare la persona. Ce ne sono essenzialmente
tre. La prima, la più nuova è la risonanza magnetica, la IRM [imagerie par résonance
magnétique], e in particolare la IRM funzionale, che ci mette in grado di misurare i
cambiamenti nell'alimentazione emodinamica delle diverse parti del cervello, che si
accendono nella realizzazione di un compito. Si ottengono così le immagini che il
pubblico ha già potuto vedere: un cervello con piccole macchie di colore, come un
albero di Natale, che corrispondono per esempio all'atto di alzare un braccio o di
avere un ricordo. Queste immagini erano impensabili fino a qualche anno fa. Secondo
metodo: abbiamo immagini un po' più pesanti, immagini ottenute con un'emissione di
positroni, iniettando una sostanza che libera particelle radioattive. È come uno
scanner, di quelli che si usano per le analisi cliniche, che serve a ricostruire
l'emissione delle particelle e a restituire un'immagine dell'attività del cervello. E
infine, last but not least, lo studio delle attività di superficie del cervello dispone oggi
di apparecchi per fare magnetoencefalogrammi, che permettono di misurare i
minuscoli campi magnetici che si trovano alla superficie della testa. Questi campi
magnetici, estremamente precisi, mediante un trattamento matematico dei dati,
forniscono un'immagine dinamica dei processi cerebrali, che possono essere osservati
da
un'angolatura
nuova.
La
combinazione
di
questi
tre
sistemi,
la
magnetoencefalografia, il PET [Positron Émission Tomographie] e l'IRM [Imagerie
par Résonance Magnétique], Mappatura di Risonanza Magnetica, è l'insieme delle
tecniche che rendono possibile la nuova mappatura [imagerie] cerebrale.
Evidentemente si continuano a praticare le tecniche in uso già da lungo tempo, come
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la registrazione delle cellule per cui si inseriscono degli elettrodi all'interno del
cranio. Questa è la neuroscienza classica, che si avvale della neurochimica e della
neuroanatomia. Le nuove tecniche invece appartengono alle neuroscienze cognitive,
perché permettono appunto di porre questioni propriamente cognitive su un substrato
neurologico o, più precisamente, neuronale estremamente concreto. La distanza tra
coloro che lavoravano sul versante della psicologia e coloro che lavoravano sul
versante delle neuroscienze è molto diminuita, è divenuta pressoché inesistente: si
lavora contemporaneamente sui due versanti. È questo uno dei motivi per cui si
assiste alla rinascita degli studi sulla coscienza, ed è anche la ragione per cui le
neuroscienze hanno un ruolo centrale nei dibattiti sulla coscienza. Le persone più
influenti, le voci più ascoltate sono proprio quelle come la mia e di molti altri che
facciamo ricerche di laboratorio, operando sulla base delle neuroscienze cognitive,
che sembrano fornire gli argomenti più diretti per legare l'esperienza e la coscienza al
loro substrato biologico e cerebrale. Il problema è che la maggior parte dei miei
colleghi scienziati, come dicevo poco fa, propendono per il programma riduzionista,
e sono mossi dal desiderio di trovare la coscienza da qualche parte, di trovare i
circuiti o il luogo della coscienza o, per usare la parola-chiave, i correlati neuronali
della coscienza - in inglese the neuronal correlates of consciousness, per cui viene
universalmente usata l'abbreviazione NCC - sempre in base alla speranza che i
correlati neuronali della coscienza siano a portata di mano e che, magari con un duro
lavoro, sia possibile trovarli. Per esempio uno scienziato del più alto livello, come Sir
Francis Crick, premio Nobel, scopritore con Watson della struttura del DNA, che ha
dedicato una vita allo studio del cervello, è convinto di aver identificato i circuiti
responsabili dei fenomeni di coscienza, e ha scritto un libro intitolato L'ipotesi
misteriosa, in cui si dice tra l'altro: abbiamo scoperto che noi, con la nostra vita, la
nostra esperienza, non siamo che a bunch of neurones, un fascio di neuroni. Ecco un
pensiero decisamente riduzionista. Non sto facendo una caricatura, riprendo le parole
e le scelte di uno scienziato di grande statura, non di un tizio qualsiasi che non ha
dato nessun contributo alla scienza. Dunque la nozione di un correlato neuronale
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della coscienza è veramente la posta in gioco essenziale. In che cosa consistono i
correlati neuronali della coscienza? Sono stati trovati, o li dobbiamo ancora trovare?
È possibile o impossibile? Questo è il dibattito fondamentale.
4. Qual è la sua posizione personale - che immagino antiriduzionista - in questo
dibattito?
C'è una tendenza, un vettore riduzionista, in cui la nozione di NCC occupa veramente
la maggior parte dei dibattiti e delle discussioni. Ma alcuni di noi - parlo a titolo
personale, ma evidentemente non sono solo, anche se siamo sempre un po' in
minoranza - pensano che la questione posta in questi termini non ha soluzione, per la
semplice ragione che il vissuto in quanto tale è per principio logicamente ed
empiricamente irriducibile a una funzione neuronale. È quello che si chiama il
problema duro della coscienza. Ciò che appartiene al vissuto ha uno statuto o una
natura che non è spiegabile in termini di sistema neuronale. Se ne può trovare un
correlato, ma questo correlato non cambia assolutamente il fatto che il lato
fenomenico
[phénoménal]
resta
quello
che
è,
un'apparizione
fenomenica
[phénoménal], un accesso fenomenico [phénoménal] alla mia coscienza. Dunque
bisogna mettere la discussione in termini diversi, tenendo presente il fatto che il
dibattito sulla coscienza è cominciato e si è sviluppato per la maggior parte negli Stati
Uniti, dove la filosofia della scienza dominante che si chiamaphilosophy of mind, è
una filosofia di tipo analitico, che si interessa essenzialmente a dare buone definizioni
delle categorie e degli oggetti, mentre il mio background filosofico è piuttosto quello
della tradizione fenomenologica. Nella tradizione fenomenologica il punto di
partenza è la natura del vissuto e la spiegazione materiale del mondo, la spiegazione
delle relazioni tra l'elemento fenomenico[le phénoménal] e il mondo. Non si tratta in
alcun modo di un tentativo di riduzione o di un tentativo di dissolvere l'elemento
fenomenico [le phénoménal] nell'empirico, perché sarebbe un'impresa destinata a
fallire. Qual è l'alternativa? L'alternativa è in un certo senso evidente - non direi
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banale, ma evidente - solo che vi si rifletta adeguatamente. Perché? Perché quando
dico che la coscienza è il vissuto, non parlo di qualcosa che esiste solo nella mia
testa. Non posso mettermi alla ricerca della coscienza a partire da un tratto di circuito
cerebrale. La coscienza non appartiene, per così dire, a un gruppo di neuroni,
appartiene a un organismo, appartiene a un essere umano, a un'azione che si sta
vivendo. Non è proprio la stessa cosa. Che cosa vuol dire precisamente? Vuol dire
che non si può avere una nozione della coscienza e della maniera in cui emerge, se
non si prende in considerazione il fatto che il fenomeno della coscienza appare in un
organismo ed è legato ad almeno tre cicli permanenti di attività. In primo luogo è
connesso in permanenza con l'organismo. Si dimentica troppo facilmente che il
cervello non è un fascio di neuroni sezionati in laboratorio, ma esiste all'interno di un
organismo impegnato essenzialmente nella propria autoregolazione, nella nutrizione e
nella conservazione di sé, che ha fame e sete, che ha bisogno di rapporti sociali. Alla
base di tutto ciò che pertiene all'integrità degli organismi, c'è infine il sentimento
dell'esistenza, il sentimento di esserci, di avere un corpo dotato di una certa integrità,
appunto. Per un aspetto essenziale la coscienza rientra nell'attività permanente della
vitalità organismica che, muovendosi sullo sfondo del sentimento di esistere, è
continuamente permeata, attraversata, da emozioni, sentimenti, bisogni, desideri. In
secondo luogo è evidentemente in collegamento [couplage] diretto col mondo, o in
interazione col mondo, attraverso tutta la superficie sensorio-motrice. Io ho coscienza
del bicchiere, nel senso che, quando vedo il bicchiere, dico: ho coscienza di questo
bicchiere. Ma il bicchiere non è un'immagine nella mia testa, di cui io debba prendere
coscienza dall'interno, Si è scoperto che il bicchiere - questa è buona neuroscienza - è
inseparabile dall'atto di manipolarlo.L'azione e la percezione costituiscono un'unità e
il mondo non esiste, se non in questo ciclo, in questo collegamento [couplage]
permanente. Io amo dire che c'è un'interazione col mondo e che il mondo emerge solo
grazie a questo collegamento [couplage] che è una fonte permanente di senso. È
un'evidenza veramente massiccia, che si è costituita a partire dallo studio dei
bambini, dalla neurofisiologia della corteccia motoria e sensoriale, e via di seguito.
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Ne potremmo parlare per diverse ore. Quando parlo di contenuti di coscienza, e dico
di vedere un bicchiere, il volto di un amico, il cielo, non parlo di un tratto di circuito
[circuiterie] neuronale che capta un'informazione dal mondo e ne fa un correlato della
coscienza, sto parlando di qualcosa che è necssariamente decentrato [excentré], che
non è nel cervello, ma nel ciclo, tra l'esterno e l'interno, non esiste che nell'azione e
nel ciclo, nello stesso modo in cui il sentimento d'esistenza vive nel ciclo tra
l'apparato neuronale e il corpo. Ma c'è ancora una terza dimensione, valida soprattutto
per l'uomo - ma anche per i primati superiori - il fatto di essere strutturalmente
concepiti per avere rapporti con i nostri congeneri, con individui della stessa specie,
l'abilità innata, di un'importanza assolutamente centrale, che costituisce l'empatia, di
mettersi al posto dell'altro, di identificarsi con l'altro. Il rapporto tra madre e bambino
non è che una faccenda di empatia. Non soltanto nell'infanzia, ma per tutto il resto
dell'esistenza, la vita, la vita mentale, la vita della coscienza, la vita del linguaggio o
la vita mediata dal linguaggio, l'intero ciclo dell'interazione empatica socialmente
mediato, io non posso separarlo da ciò che chiamo coscienza. Dunque ancora una
volta non è all'interno della mia testa che tutto questo si svolge, ma in modo
decentrato [excentré], nel ciclo. Il problema del neuronal correlate of consciousness è
mal posto, perché la coscienza non è nella testa. Per esprimersi concisamente, la
coscienza è un'emergenza che richiede l'esistenza di questi tre fenomeni, di questi tre
cicli: con il corpo, con il mondo e con gli altri. I fenomeni di coscienza possono
esistere solo nel ciclo, nel decentramento che esso comporta. Qual è in tutto questo il
ruolo del cervello? Evidentemente il cervello ha un ruolo centrale, perché - la cosa si
può dire molto bene in inglese, con una espressione difficile da tradurre - è the
enabling
condition,
la
condizione
di
possibilità.
Ripeto ancora una volta che la coscienza non è un segmento di circuiti cerebrali, ma
appartiene a un organismo incessantemente coinvolto nei differenti cicli e che quindi
è un fenomeno eminentemente distribuito, che non risiede solo nella testa. Il cervello
da parte sua è essenziale perché contiene le condizioni di possibilità perché questo
avvenga. È meraviglioso. La meraviglia del cervello è che permette per esempio il
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coordinamento sensorio-motore di tutta l'interazione, la regolazione ormonale che
assicura il mantenimento dell'integrità corporea, e così via. Ma la nozione di neuronal
correlates of consciousness in quanto tale è, per usare le parole di Alfred Norton
Whitehead, "una concretizzazione inopportuna". Non si può fare questa mossa senza
escludere simultaneamente molti fatti importanti. Dunque la mia è una posizione
antiriduzionista, ma al tempo stesso una posizione assai meglio fondata.
Questo riguarda la nozione di ciclo, ma come la coscienza emerga dal ciclo è una
nozione assai fluida.
5. Lei parla di emergenza. Ci può spiegare meglio come funziona questo concetto
nelle neuroscienze?
Sì, certo. In effetti la nozione di emergenza in tutto quello che ho detto e in tutto
quello che penso riguardo a queste cose - né sono solo a pensarlo - è una nozione
assolutamente centrale, in mancanza della quale si continua a restare, come accade
nella maggior parte dei casi, in una visione dualista del genere body/mind, e non si
arriverà mai a comprendere come un'attività di tipo sia cognitivo, sia cosciente possa
essere collegata a una base materiale, senza essere ridotta a un'influenza materiale,
come sia possibile un approccio non riduzionista alle basi materiali [della coscienza].
Come dev'essere intesa al nozione di emergenza? Ancora una volta bisogna gettare
uno sguardo sulla storia, perché si tratta di una nozione che proviene dalla fisica, che,
dall'inizio del secolo, si è sviluppata assieme alla fisica. Proviene dall'osservazione
delle transizioni di fase o transizioni di stato o per dirlo più chiaramente di come si
passa da un livello locale a un livello globale. Faccio un esempio banale. Sono in
circolazione [nell'atmosfera] innumerevoli particelle d'aria e d'acqua e tutt'a un tratto
per un fenomeno di autoorganizzazione - questa è la parola chiave - diventano un
tornado, un oggetto che apparentemente non esiste, non ha vera esistenza, perché
esiste soltanto nelle relazioni delle sue componenti molecolari. Nondimeno la sua
esistenza è comprovata dal fatto che distrugge tutto quello che incontra sul suo
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passaggio. Dunque è un curioso oggetto. La nozione di emergenza ha avuto molti
sviluppi teorici e in biologia si trova che i fenomeni di emergenza sono assolutamente
fondamentali. Perché? Perché ci permettono di passare da un livello più basso a un
livello più alto, all'emergenza di un nuovo livello ontologico. Quello che era un
ammasso di cellule improvvisamente diventa un organismo, quello che era un
insieme di individui può diventare un gruppo sociale, quello che era un insieme di
molecole può diventare una cellula. Dunque la nozione di emergenza è
essenzialmente la nozione che ci sono in natura tutta una serie di processi, retti da
regole locali, con piccole interazioni locali, che messi in condizioni appropriate,
danno origine a un nuovo livello a cui bisogna riconoscere una specifica identità. Qui
la parola identità è importante. Quando si parla di una certa identità cognitiva, si
pensa per esempio al fatto di un cane che si sposta, che decide se andare a destra o a
sinistra, che ha un certo temperamento o un certo comportamento, una vita
individuale. Si può dire benissimo che questa è la vita mentale, la vita cognitiva del
cane: preferisce, sceglie, si ricorda ecc. ecc. Dove ha origine tutto questo? Nella
visione delle neuroscienze l'origine è in quella serie di interazioni, dunque nelle sue
percezioni-azioni, nel collegamento [couplage] con il mondo, che fa emergere il
livello transitorio di un aggregato, da una specie di assemblaggio di tutti i moduli
particolari che sono la percezione in quanto tale, l'azione in quanto tale, ecc. ecc.
mettendoli insieme in una unità coordinata che sarebbe la vita cognitiva del cane. Qui
c'è un salto. Per noi è lo stesso. La nostra identità in quanto individui è di una natura
del tutto peculiare. Da un lato si può dire che esiste. Mi dicono: Buongiorno,
Francesco, ed io sono capace di rispondere, di avere delle relazioni con gli altri.
Dunque c'è una specie di interfaccia, di collegamento [couplage] col mondo, che dà
l'impressione di un certo livello di identità e di esistenza. Ma al tempo stesso questo
processo è di natura tale che appunto, come in tutti i processi emergenti, io non posso
localizzare questa identità, non posso dire che si trovi qui piuttosto che là, la sua
esistenza non ha un locus, non ha una collocazione spazio-temporale. È difficile
capire che si tratta di una identità puramente relazionale e così nasce la tendenza a
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cercare i correlati neuronali della coscienza, per trovarli nel neurone 25 o nel circuito
27. Ma non è possibile, perché si tratta di una identità relazionale, che esiste solo
come pattern relazionale, ma è priva di esistenza sostanziale e materiale. Il pensiero
che tutto quello che esiste deve avere esistenza sostanziale e materiale è il modo di
pensare più antico della tradizione occidentale ed è molto difficile cambiarlo.
- Atomista, dunque?
Atomista se si vuole, ma soprattutto è un modo di vedere che si trova alla radice della
filosofia materialista. Il fisicalismo più diffuso pretende che la sola esistenza è quella
materiale. Ora il fatto interessante è che proprio in ambito scientifico e non filosofico,
prima nella scienza e solo in un secondo tempo in filosofia, è stata scoperta la
nozione di emergenza. Che si possano dire oggi molte cose, che si possano
impiantare anche delle equazioni su queste transizioni da un livello all'altro, dal
locale al globale, per cui de facto la vita è qualcosa di troppo, una maniera d'essere
nella natura che non è sostanziale ma, per così dire, virtuale - efficace ma virtuale - è
una rivoluzione scientifica della più grande importanza.
6. Accetta in questo caso di definirsi olista?
Il termine olista è superato, a mio avviso, perché risale all'epoca in cui c'è stato lo
scontro tra l'idea che si potesse realizzare un programma riduzionista forte e una
nozione filosoficamente motivata dall'esigenza di reagire contro quel programma.
Qui non si tratta di olismo, ma di buona scienza. Si tratta di osservare una gran
quantità di processi naturali, lo sviluppo e il funzionamento del cervello,
l'organizzazione del sistema immunitario, l'organizzazione dei sistemi ecologici, che
non possono essere capiti se non si prende in considerazione la dialettica tra i due
livelli, che l'olismo non ha mai veramente compreso. Dunque il termine olismo non è
veramente appropriato. Quando parlo di emergenza, parlo di qualcosa che è centrale
nella ricerca scientifica contemporanea, anche se molti non ne hanno ancora colto
l'importanza. È un problema assolutamente essenziale - e con questo chiudo questo
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piccolo a parte epistemologico - perché ciò che c'è di geniale nella nozione di
emergenza è che, se da un lato un gruppo di neuroni in interazione con il mondo
danno origine a una attività cognitiva, dall'altro, come in tutti i processi di emergenza
naturale, una volta che ha avuto luogo l'emergenza di una nuova identità,
quell'identità ha degli effetti, ha delle ricadute [causalité descendente] sulle
componenti locali. Che cosa vuol dire? Vuol dire che il concetto di emergenza ci
permette per la prima volta di pensare la causalità mentale. Il mentale non è più un
epifenomeno, non è più una specie di fumo che esce dal cervello. Al contrario, si può
dimostrare scientificamente, logicamente e anche matematicamente che l'esistenza,
l'emergenza di uno stato mentale, di uno stato di coscienza, può avere un'azione
diretta sulle componenti locali, cambiare gli stati di emissione di un
neurotrasmettitore, cambiare gli stati di interazione sinaptica tra neuroni e così via.
Questo vuol dire che c'è un vero va-e-vieni tra ciò che emerge e le basi che ne
rendono possibile l'emergenza, che impone di fare una descrizione completamente
diversa del posto della coscienza e della cognizione in generale - ma certamente della
coscienza - nell'universo, non come livello fluttuante, ma come parte intrinseca della
natura, come parte intrinseca alla dinamica del mondo naturale. È questo che mi piace
e che ci fa avanzare rispetto alla perenne ripetizione di un dualismo che non porta da
nessuna parte, senza dover ricorrere al riduzionismo, e senza che la coscienza perda il
suo statuto fenomenologico [phénoménal], il suo statuto proprio.
7. Tuttavia è abbastanza diffusa l'idea che il compito essenziale della scienza, di
qualsiasi scienza, è di fare previsioni, di prevedere i fenomeni. Lei è d'accordo?
Lei pensa che il suo approccio, che si basa sulla nozione di emergenza e su altri
concetti non riduzionisti, può realmente aumentare la capacità o la forza
predittiva delle neuroscienze? In caso contrario, questo potrebbe costituire
un'obiezione al suo approccio: si potrebbe sostenere che è più verisimile, ma che
forse non contiene in definitiva una capacità di previsione più forte
dell'approccio riduzionista.
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È giusto porre questa domanda e spesso viene posta. Ècco come stanno le cose.
Quando dominava il paradigma delle scienze fisiche, veniva qualcuno in un
congresso a dire: ho una buona teoria per prevedere la traiettoria degli elettroni. Gli
veniva chiesto allora di fare una previsione, di prevedere la traiettoria di un elettrone
e mostrare di conoscerne esattamente la posizione [in un dato momento]. Eccellente
metodo fondato sull'anticipazione e la previsione. La fisica, con Einstein e la teoria
della relatività, lo ha sfruttato in modo geniale. Ma attenzione! Sarebbe un riflesso
puramente fisicalista pensare che questo è il solo metodo con cui la scienza procede.
Perché? Perché appunto nel campo delle scienze della natura diverse dalla fisica, per
esempio nelle scienze del vivente, non è questo che ci interessa. Poniamo che io dica:
ho una perfetta comprensione di come questo cane cammina. Che interesse ha
prevedere in che istante muoverà la zampa destra, se nell'istante t o t1. Sembra
qualcosa di assolutamente banale. Qual è la prova che ho ragione, che la mia teoria è
buona? È il fatto che posso ricostruire un cane capace di muoversi. Ci sono nella
scienza due approcci: l'approccio predittivo e quello che possiamo chiamare
l'approccio costruttivo. Per avere ragione dovete essere in grado di costruire un
apparecchio capace di movimenti come quelli del cane. È qualcosa di assai più
convincente che anticipare il movimento della zampa destra del cane. Questo è il
punto: non bisogna dimenticare che è questo il modo con cui procede oggi la scienza.
Si procede così nell'interfaccia tra le neuroscienze e [le teorie del]l'intelligenza
artificiale. L'intelligenza artificiale è in gran parte la prova costruttiva delle teorie
nate nel campo delle neuroscienze: per esempio, fare dei robots capaci di orientarsi in
un mondo. Gli scienziati che costruiscono questo tipo di automi si ispirano alla
biologia, ma la prova che la teoria è buona è che il robot cammina. Non è interessante
tanto prevedere il punto esatto in cui effettuerà un certo movimento, quanto che la
capacità qualitativa di compierlo emerga e si manifesti. Dunque la prova mediante
l'emergenza, la prova dell'emergenza è la costruzione, non la previsione.
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8. Ma si può veramente costruire un vivente, - dato che un robot non è un
vivente - si possono ricostruire realmente degli organismi viventi a partire
dall'inorganico?
Assolutamente sì. Ci siamo molto vicini, molto, molto vicini, precisamente perché
esistono teorie dell'emergenza della cellula. Ci sono in questo campo risultati recenti
assolutamente straordinari, come la produzione di cellule di sintesi, diverse dalle
cellule storiche perché impiegano componenti diverse. Per la stessa ragione si può
tentare di riprodurre tutto lo sviluppo di un animale multicellulare, sulla base di
cellule disaggregate. Se si ha una buona teoria dell'emergenza, della forma di un
embrione, la si può applicare. È sempre esattamente lo stesso ragionamento e dunque
in questo tipo di prova non c'è assolutamente meno rigore che nel vecchio tipo di
prova che è proprio della fisica. Dunque si tratta veramente di cambiare campo.
9. Il costruttivismo è dunque una conferma del determinismo più stretto, o al
contrario fa posto, come mi sembrava di aver capito all'inizio del suo discorso, a
una specie di indeterminismo evenemenziale?
Tutto dipende da che cosa si intende con "determinismo". Se "determinismo" vuol
dire che si conoscono le leggi fondamentali dell'universo, che ci permettono di
comprendere come certi fenomeni - tra cui mettiamo la coscienza - emergano, allora
sì effettivamente da questo punto di vista si tratta di un approccio determinista. Ma
non è determinista nel senso laplaciano del termine, perché la previsione non è
interessante e né meno possibile. Sono fenomeni complessi: la maggior parte dei
fenomeni emergenti sono detti "non lineari", perché funzionano appunto su basi che
non permettono la previsione, sono di tipo caotico. In questi casi la previsione in
quanto tale non è interessante. Io non posso calcolare quello che un dato individuo
penserà in un istante successivo, perché questo fa parte appunto della logica, della
legge di emergenza del suo pensiero.
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10. Lei ha detto di essere stato influenzato filosoficamente dalla fenomenologia,
ed ha accennato ad una specie di va e vieni tra fenomenologia e neuroscienze. Ci
può spiegare meglio la sua storia intellettuale?
Sì. Evidentemente quando ci si interessa, come mi sono interessato io, a questo
genere di problemi, concernenti la cognizione e la coscienza, si è sempre sostenuti
anche da un interesse filosofico. Assai presto ho subito una marcata influenza della
filosofia continentale e in grande misura proprio della fenomenologia...
- ... per questo ha scelto di lavorare in Francia, piuttosto che negli Stati Uniti o in
Inghilterra?
Ci stavo arrivando. Dopo mi sono recato negli Stati Uniti per completare la mia
formazione e lavorando parecchi anni in quel paese mi sono reso conto che
l'orientamento continentale o, se si preferisce, europeo, che avevo appreso nella mia
giovinezza, non era l'unico. Ho dovuto iniziarmi a un approccio completamente
diverso alla filosofia, che gli americani chiamano philosophy of mind, filosofia della
mente, una filosofia di tipo francamente analitico, improntata a uno spirito del tutto
diverso, in antagonismo, in guerra con la filosofia continentale. Ci è voluto del tempo
perché mi abituassi a questo tipo di pensiero e, man mano che il tempo passava, mi
sono reso conto che quel tipo di filosofia non mi si addiceva affatto, anche se a quel
tempo era francamente dominante nel campo delle scienze cognitive. I filosofi, i
grandi filosofi, che dominavano la scena, Daniel Dennett, John Searle, venivano dalla
tradizione della philosophy of mind, che a me non diceva molto, anche perché ormai
avevo deciso di lasciare gli Stati Uniti per venire in Europa. Una volta installato in
Europa, mi sono accorto che era effettivamente molto più interessante per me a
livello dei miei incontri, delle mie partnership, quella filosofia che non avevo trovato
negli Stati Uniti, dove lavoravo molto più solo. C'era infatti in quel momento una
vera rinascita della fenomenologia. La fenomenologia era stata considerata per anni
dal pubblico - non certo dagli studiosi, ma dal pubblico - come una filosofia che
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consisteva soprattutto nel commento di testi specialistici, di libri polverosi, che
nessuno leggeva. Ma in realtà la fenomenologia è soprattutto - a partire da Husserl,
che ne è il fondatore - uno stile di lavoro, una maniera di lavorare completamente
aperta a nuovi dati, a nuovi orientamenti. Bisogna sapere che c'è tutta una nuova
generazione, che prende la fenomenologia come uno strumento di lavoro, per lo
studio di questioni cognitive ...
- ... nella scienza?
... nella scienza, appunto. Perché? Perché serve, è di aiuto. Mi permetta di fare un
esempio. Si parlava prima della riconcettualizzazione della percezione, degli oggetti
del mondo. Fino a poco tempo fa si aveva un'idea rappresentazionista della
percezione. Là c'è il bicchiere e dentro di me ho un'immagine. L'idea fondamentale
che attualmente abbiamo di questa esperienza è di una inseparabilità dell'atto e della
percezione. Adesso si scopre, tra l'altro che Husserl e Merleau-Ponty hanno
esaminato a lungo questi argomenti e hanno estesamente tematizzato l'inseparabilità
di percezione e di azione. Se si legge, per esempio, quello straordinario libro di
Husserl che s'intitola Ding und Raum, Cosa e spazio, dove descrive in tutti i
particolari il modo in cui le cinestesie del corpo vanno a costituire un oggetto, si vede
l'incredibile finezza d'osservazione, propria del fenomenologo, con cui mostra cose
che oggi vengono confrontate - e concordano perfettamente - con i risultati delle
neuroscienze. Lo stesso non si può dire dei filosofi analitici, che si sono formati su
un'analisi puramente esterna e non sono mai entrati in un confronto diretto con i dati
empirici. Ne consegue che c'è sempre più la tendenza a fare della fenomenologia una
fonte di riflessione, tanto più se ci si interessa alla coscienza, che è per così dire lo
zoccolo duro della fenomenologia, alla descrizione delle strutture della coscienza,
alla maniera in cui, con il metodo della riduzione fenomenologica - che non ha niente
a che vedere con il riduzionismo fisicalistico -, con il metodo di osservazione e di
analisi fenomenologica, si può cogliere l'elemento centrale nelle strutture
dell'esperienza umana. Oggi nel boom della coscienza, delle scienze della coscienza,
c'è un ritorno molto forte al metodo "in prima persona", che un tempo si chiamava
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introspettivo, metodo capace di prendere in considerazione i dati del vissuto
personale, per portare avanti un esperimento. È quello che si fa nei laboratori. A chi
ha questo tipo di interessi la fenomenologia viene incontro in laboratorio come
partner naturale della sua ricerca.
11. Bisogna ricordare che Husserl ha scritto anche La crisi delle scienze europee.
Lei pensa che le scienze europee possono superare la crisi denunciata da
Husserl. Lei pensa che il progetto delle neuroscienze cognitive sia più forte?
Ascolti. Husserl è un pensatore multiforme e certe sue opere sono state pubblicate
solo recentemente. C'è ancora una grande quantità di inediti, e secondo me, se si
legge un libro come Analisi delle sintesi passive, che è stato pubblicato nel 1966, si
può evitare di prendere alla lettera il pessimismo dell'Husserl che scrive La crisi. Io
non sono - e lo stesso vale per la nuova generazione di coloro che si interessano alla
fenomenologia - un Husserl's scholar. Husserl è un uomo che detto delle cose geniali,
che fatto dei lavori geniali, ma ci sono molte altre cose sue meno interessanti. Non
importa. Quello che importa è il suo stile, l'impulso che ha impresso alla ricerca, a cui
altri contribuiscono. Dunque non si può essere d'accordo o in disaccordo con tutto
quello che ha detto, perché ha detto tante di quelle cose che c'è spazio per l'uno e per
l'altro atteggiamento. Bisogna mettere da parte l'idea che i filosofi siano monolitici.
Secondo me filosofi come Husserl o Merleau-Ponty devono darci delle ispirazioni per
il nostro lavoro.
12. Allora Lei crede che c'è una rinascita della fenomenologia anche nelle
scienze? In quale dominio scientifico si verifica, secondo Lei, questa rinascita o è
in qualche modo disseminata?
Questo rinnovamento della fenomenologia, che si interfaccia con la scienza, riguarda
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molti campi, ma in modo prioritario il campo delle scienze cognitive e lo studio della
coscienza.
- Da per tutto?
Sia negli Stati Uniti che in Europa. Sono stati pubblicati recentemente dei libri, si
sono tenuti convegni e seminari a Parigi, dunque c'è già una letteratura abbastanza
considerevole. La fenomenologia si interfaccia anche con la matematica e la fisica
matematica. È un fatto, in un certo senso, comprensibile. Ma la sua penetrazione
nell'universo delle scienze cognitive è molto interessante, e sta cambiando i dati del
dibattito. Adesso nei convegni americani si sente dire: bisognerebbe invitare anche
scienziati con un background fenomenologico. Si comincia a capire che la filosofia
della mente non è l'unica opzione, e che la sua egemonia è stata scossa. È una cosa
che fa riflettere. I giovani sono sempre più interessati.
- Ci sono fenomenologi viventi a cui si sente vicino?
Sì, ce ne sono.
- Lei ha citato finora solo Husserl e Merleau-Ponty, che sono ...
... dei classici.
- Potrebbe citarne qualcuno di più recente, di più "cutting edge"?
- Ce ne sono di molto noti come Eduard Marbach, in Svizzera, di formazione
husserliana, che si interessa molto all'interfaccia e che ha scritto su questo tema un
libro molto interessanteintitolato Mental representations. Su un'altra linea, di un'altra
scuola è l'americano Hubert Dreyfus, che ha avuto un grande successo per le critiche
che ha mosso, da un punto di vista fenomenologico, alle scienze cognitive. Tra i
giovani, c'è un tipo negli Stati Uniti che mi sembra già molto importante. Si chiama
Shaun Gallagher, studioso sulla trentina, con una buona formazione come
fenomenologo e al tempo stesso come filosofo analitico, che conosce molto bene il
campo della ricerca empirica ed è molto attivo. Un giovane filosofo canadese con cui
lavoro molto, Evan Thompson, ha anche lui una doppia formazione, come
fenomenologo e come filosofo analitico, ma conosce anche i problemi della scienza.
Infine c'è un giovane filosofo danese molto competente, Dan Zahavi.
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