Varela coscienza

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Francisco Varela
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La coscienza nelle neuroscienze
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L'argomento della nostra conversazione sarà la
coscienza nelle neuroscienze. Ci può delineare la
situazione del dibattito odierno su questo tema? (1)
Ci può dire quali sono le ipotesi dominanti sul tema
della coscienza oggi. (2)
Quali tecnologie hanno permesso i cambiamenti nella
sperimentazione avvenuti recentemente. Quali nuove
tecniche, in particolare, li hanno resi possibili? (3)
Qual è la sua posizione personale - che immagino
antiriduzionista - in questo dibattito? (4)
Lei parla di emergenza. Ci può spiegare meglio come
funziona questo concetto nelle neuroscienze? (5)
Accetta di definirsi olista? (6)
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Tuttavia è abbastanza diffusa l'idea che il compito
essenziale della scienza, di qualsiasi scienza, è di fare
previsioni, di prevedere i fenomeni. Lei è d'accordo?
Lei pensa che il suo approccio, che si basa sulla
nozione di emergenza e su altri concetti non
riduzionisti, può realmente aumentare la capacità o la
forza predittiva delle neuroscienze? In caso contrario,
questo potrebbe costituire un'obiezione al suo
approccio: si potrebbe sostenere che è più verisimile,
ma che forse non contiene in definitiva una capacità di
previsione più forte dell'approccio riduzionista. (7)
Ma si può veramente costruire un vivente, - dato che
un robot non è un vivente - si possono ricostruire
realmente degli organismi viventi a partire
dall'inorganico? (8)
Il costruttivismo è dunque una conferma del
determinismo più stretto, o al contrario fa posto, come
mi sembrava di aver capito all'inizio del suo discorso, a
una specie di indeterminismo evenemenziale? (9)
Lei ha detto di essere stato influenzato filosoficamente
dalla fenomenologia, ed ha accennato ad una specie di
va e vieni tra fenomenologia e neuroscienze. Ci può
spiegare meglio la sua storia intellettuale? (10)
Bisogna ricordare che Husserl ha scritto anche La crisi
delle scienze europee. Lei pensa che le scienze
europee possono superare la crisi denunciata da
Husserl. Lei pensa che il progetto delle neuroscienze
cognitive sia più forte? (11)
Allora Lei crede che c'è una rinascita della
fenomenologia anche nelle scienze? In quale dominio
scientifico si verifica, secondo Lei, questa rinascita o è
in qualche modo disseminata? (12)
Conversazione con Sergio Benvenuto
1. L'argomento della nostra conversazione sarà la
coscienza nelle neuroscienze. Ci può delineare la
situazione del dibattito odierno su questo tema?
Vorrei cominciare con una breve retrospettiva storica, che
secondo me è importante per capire quello che sta
succedendo. Lo studio della coscienza come oggetto di
scienza è collegato evidentemente con le neuroscienze
cognitive, come si dice oggi. È un tema che come una
malattia nevrotica è stato rimosso, è ritornato, è stato
rimosso una seconda volta e adesso ritorna di nuovo. Ci
sono periodi in cui viene messo completamente da parte e
altri in cui suscita una vera e propria infatuazione. All'inizio
del secolo è stato appunto una passione in Europa e in
America, soprattutto in Germania, ma anche in America
con William James, considerato che la psicologia, che a
quel tempo era l'equivalente delle neuroscienze, era
interessata essenzialmente al problema della coscienza. Ma
era anche in voga quello che si chiama oggi metodo in
prima persona, l'accesso fenomenologico, diretto,
introspettivo ai contenuti della mia propria esperienza. Si
può osservare che tra il 1890 e il 1930-1940 circa,
l'interesse per lo studio scientifico della coscienza per
ragioni diverse, che non avremo il tempo di sviluppare
oggi, ha subito un'eclisse e mentre dopo la Seconda Guerra
Mondiale la scienza europea è rimasta bloccata, per
riprendere negli Stati Uniti, negli Stati Uniti si è avuto il
ciclo inverso della rimozione totale del tema, ed è
cominciato il periodo del comportamentismo, il periodo
skinneriano, il periodo in cui solo oggetto di scienza era il
comportamento. Il comportamentismo - per il quale lo
studio scientifico della mente poteva prendere come
oggetto solo la manifestazione esterna del comportamento,
del movimento, la percezione, l'intensità della percezione
ecc. - ha segnato un'epoca, ha dominato per un lungo
periodo la psicologia certamente, ma anche lo studio dei
sistemi neuronali. Per un lungo periodo di tempo - dunque
non è stato un fatto episodico - il comportamentismo ha
costituito una specie di dogma, che ha dominato gli
ambienti scientifici degli Stati Uniti ed ha avuto un influsso
anche in Europa. È vero che ci sono sempre delle eccezioni
nella storia, ma adesso sto parlando delle tendenze
dominanti. Quello che ci interessa sapere è che negli anni
Sessanta, e all'inizio dei Settanta, comincia quella che si
chiama oggi retrospettivamente la rivoluzione cognitiva.
Che cos'è la rivoluzione cognitiva? La rivoluzione cognitiva
consiste nel dire che l'approccio puramente
comportamentista non sembra sufficiente a rendere conto
di tutto quello che si osserva nella vita degli animali e degli
uomini, e bisogna fare l'ipotesi - l'ipotesi cognitivista,
appunto - che da qualche parte ci siano strutture interne,
contenuti propri alla vita della mente, processi mentali non
riducibili a meri comportamenti, come la memoria, la
pianificazione, l'associazione, e via di seguito. Così è
cominciato negli anni Settanta con grande successo e un
rapido sviluppo il ritorno ai contenuti della mente
attraverso la nozione di "cognizione". Dal termine
"cognizione", che è diventato centrale a quel tempo stiamo parlando degli anni Settanta - ed è ancora oggi
molto molto importante, prendono nome le scienze
cognitive, in cui elementi provenienti dalla psicologia, dalla
linguistica, e beninteso dalle neuroscienze, concorrono alla
creazione di una disciplina che si sforza di studiare i
contenuti cognitivi in quanto tali. Anche qui ci sono molte
scuole, molte differenze, tendenze diverse: per esempio c'è
un approccio che considera la cognizione come un sistema
computazionale, come dei moduli computazionali; poi c'è
un approccio più dinamico che si chiama connessionismo.
Non intendo parlare di tutto questo. Resta comunque il
fatto che quando ho cominciato a lavorare come ricercatore
negli anni Settanta, quando ero attivo come ricercatore,
era permesso, anzi era al centro dell'interesse lo studio
della cognizione, mentre era vietato - dico bene: vietato -,
scorretto, in un certo senso, parlare di coscienza. La
coscienza restava come qualcosa di mistico, di pertinenza
dei filosofi, più che un tema scientifico. È stato necessario
attendere l'inizio degli anni Novanta, perché ancora una
volta, in questo ciclo maniaco-depressivo della storia della
scienza, tutt'a un tratto, per l'intervento di una serie di
fattori che si potrebbero eventualmente analizzare, si
facesse strada finalmente l'idea che si potevano
apprendere molte cose sulla cognizione: come nasce
un'idea di movimento, come si costruisce un ricordo, come
funziona l'emozione e così via, tutti i moduli in cui si
articola la vita cognitiva di un animale o di un essere
umano. E finalmente fa la sua comparsa qualcosa che
mancava ancora e che sta in relazione di prossimità
assoluta con la vita dell'uomo: la coscienza, il vissuto. È
nata allora quasi improvvisamente una nuova ondata di
quella che si chiama oggi scienza della coscienza. E tutt'a
un tratto è diventato accettabile, anzi auspicabile, parlare
di coscienza e chiedersi qual è l'apparato cognitivo che
rende possibile l'esistenza di un vissuto, l'esistenza di un
mondo fenomenico [phénoménal]. Beninteso si parla
sempre di animali - certi direbbero che [la coscienza] si
trova soltanto nell'uomo, altri direbbero che è presente
anche nei primati superiori. Ma, in tutti i casi, sotto
determinate condizioni, l'apparato cognitivo, di cui
sappiamo ormai parecchie cose, rende possibile
l'apparizione di questo fenomeno unico nell'universo che è
avere un vissuto, o per usare l'espressione del filosofo
americano Thomas Nagel, autore di un famoso articolo:
"Che effetto fa essere un pipistrello" (1974), potersi porre
la domanda "che cosa significa essere qualcuno?" e, per
implicazione, "che cosa vuol dire avere un'esperienza?". Da
questo momento comincia il gran boom della coscienza e
nel boom della coscienza c'è una fashion, una fascinazione
del mistero, per quello che è considerato lo zoccolo duro
nello studio della coscienza, che non consiste nello spiegare
un fenomeno o una capacità o un'abilità cognitiva qualsiasi,
considerata difficile, ma essenzialmente a portata di mano
per la ricerca scientifica. Il problema duro è: che cosa ci
permette di dire che c'è un'emergenza della coscienza? Che
cos'è la coscienza? Si vede bene che questo problema apre
tutta una serie di discussioni filosofiche estremamente
agitate, a volte addirittura violente. Si organizzano dei
convegni. Per esempio il mese di aprile sono stato invitato
a un grande congresso che costituisce un momento di
incontro, biennale, su questi problemi, all'Università di
Tucson in Arizona, sul tema "Verso una scienza della
coscienza", a cui hanno partecipato centomila persone e si
sono confrontate tutte le opzioni filosofiche in un dibattito
veramente assai largo.
Ma adesso vorrei passare a un altro capitolo.
2. Ci può dire quali sono le ipotesi dominanti sul
tema della coscienza oggi.
Anche se il panorama è assai vasto, si possono individuare
certe preferenze. Non è difficile immaginare le ipotesi
dominanti, perché negli scienziati, nei ricercatori continua a
prevalere uno spirito, una tendenza un po' riduzionista non lo dico in senso peggiorativo -, nel tentativo di
ricondurre il problema della coscienza a una spiegazione
puramente materialista. Questo è il programma delle
neuroscienze, anzi delle neuroscienze cognitive. Parlo di
neuroscienze cognitive perché non si tratta soltanto dello
studio del cervello, come nelle neuroscienze, ma dei nuovi
metodi di mappatura [imagerie] cerebrale. I nuovi metodi
per studiare il cervello in diretta nell'uomo, in maniera non
invasiva, permettono di porre questioni cognitive senza
toccare la persona e al tempo stesso di avere accesso ai
correlati neuronali. Dunque per la prima volta si può
mettere un uomo sulla macchina IRM funzionale, dirgli:
chiudi gli occhi e immagina il tuo cane che che passa per
strada e simultaneamente registrare l'attività [cerebrale],
vedere che risultato dà, e poi confrontarlo con il risultato
che si ottiene mostrandogli la fotografia del cane per
vedere che differenza c'è tra l'immaginare e il percepire.
Tali questioni, che fino a qualche anno fa non potevano né
meno essere poste, in quanto riguardano l'immaginazione
e la vita mentale, sono assai vicine all'esperienza vissuta.
3. Quali tecnologie hanno permesso i cambiamenti
nella sperimentazione avvenuti recentemente. Quali
nuove tecniche, in particolare, li hanno resi possibili?
Quando ci si riferisce a queste tecniche, in generale si
pensa a dei metodi di mappatura [imagerie] cerebrale,
capaci di prendere il cervello come un tutto e di usare
diversi tipi di segnali, che permettono di ricostruire
l'immagine di quello che avviene all'interno del cervello,
senza toccare la persona. Ce ne sono essenzialmente tre.
La prima, la più nuova è la risonanza magnetica, la IRM
[imagerie par résonance magnétique], e in particolare la
IRM funzionale, che ci mette in grado di misurare i
cambiamenti nell'alimentazione emodinamica delle diverse
parti del cervello, che si accendono nella realizzazione di un
compito. Si ottengono così le immagini che il pubblico ha
già potuto vedere: un cervello con piccole macchie di
colore, come un albero di Natale, che corrispondono per
esempio all'atto di alzare un braccio o di avere un ricordo.
Queste immagini erano impensabili fino a qualche anno fa.
Secondo metodo: abbiamo immagini un po' più pesanti,
immagini ottenute con un'emissione di positroni, iniettando
una sostanza che libera particelle radioattive. È come uno
scanner, di quelli che si usano per le analisi cliniche, che
serve a ricostruire l'emissione delle particelle e a restituire
un'immagine dell'attività del cervello. E infine, last but not
least, lo studio delle attività di superficie del cervello
dispone oggi di apparecchi per fare
magnetoencefalogrammi, che permettono di misurare i
minuscoli campi magnetici che si trovano alla superficie
della testa. Questi campi magnetici, estremamente precisi,
mediante un trattamento matematico dei dati, forniscono
un'immagine dinamica dei processi cerebrali, che possono
essere osservati da un'angolatura nuova. La combinazione
di questi tre sistemi, la magnetoencefalografia, il PET
[Positron Émission Tomographie] e l'IRM [Imagerie par
Résonance Magnétique], Mappatura di Risonanza
Magnetica, è l'insieme delle tecniche che rendono possibile
la nuova mappatura [imagerie] cerebrale. Evidentemente si
continuano a praticare le tecniche in uso già da lungo
tempo, come la registrazione delle cellule per cui si
inseriscono degli elettrodi all'interno del cranio. Questa è la
neuroscienza classica, che si avvale della neurochimica e
della neuroanatomia. Le nuove tecniche invece
appartengono alle neuroscienze cognitive, perché
permettono appunto di porre questioni propriamente
cognitive su un substrato neurologico o, più precisamente,
neuronale estremamente concreto. La distanza tra coloro
che lavoravano sul versante della psicologia e coloro che
lavoravano sul versante delle neuroscienze è molto
diminuita, è divenuta pressoché inesistente: si lavora
contemporaneamente sui due versanti. È questo uno dei
motivi per cui si assiste alla rinascita degli studi sulla
coscienza, ed è anche la ragione per cui le neuroscienze
hanno un ruolo centrale nei dibattiti sulla coscienza. Le
persone più influenti, le voci più ascoltate sono proprio
quelle come la mia e di molti altri che facciamo ricerche di
laboratorio, operando sulla base delle neuroscienze
cognitive, che sembrano fornire gli argomenti più diretti
per legare l'esperienza e la coscienza al loro substrato
biologico e cerebrale. Il problema è che la maggior parte
dei miei colleghi scienziati, come dicevo poco fa,
propendono per il programma riduzionista, e sono mossi
dal desiderio di trovare la coscienza da qualche parte, di
trovare i circuiti o il luogo della coscienza o, per usare la
parola-chiave, i correlati neuronali della coscienza - in
inglese the neuronal correlates of consciousness, per cui
viene universalmente usata l'abbreviazione NCC - sempre
in base alla speranza che i correlati neuronali della
coscienza siano a portata di mano e che, magari con un
duro lavoro, sia possibile trovarli. Per esempio uno
scienziato del più alto livello, come Sir Francis Crick,
premio Nobel, scopritore con Watson della struttura del
DNA, che ha dedicato una vita allo studio del cervello, è
convinto di aver identificato i circuiti responsabili dei
fenomeni di coscienza, e ha scritto un libro intitolato
L'ipotesi misteriosa, in cui si dice tra l'altro: abbiamo
scoperto che noi, con la nostra vita, la nostra esperienza,
non siamo che a bunch of neurones, un fascio di neuroni.
Ecco un pensiero decisamente riduzionista. Non sto
facendo una caricatura, riprendo le parole e le scelte di uno
scienziato di grande statura, non di un tizio qualsiasi che
non ha dato nessun contributo alla scienza. Dunque la
nozione di un correlato neuronale della coscienza è
veramente la posta in gioco essenziale. In che cosa
consistono i correlati neuronali della coscienza? Sono stati
trovati, o li dobbiamo ancora trovare? È possibile o
impossibile? Questo è il dibattito fondamentale.
4. Qual è la sua posizione personale - che immagino
antiriduzionista - in questo dibattito?
C'è una tendenza, un vettore riduzionista, in cui la nozione
di NCC occupa veramente la maggior parte dei dibattiti e
delle discussioni. Ma alcuni di noi - parlo a titolo personale,
ma evidentemente non sono solo, anche se siamo sempre
un po' in minoranza - pensano che la questione posta in
questi termini non ha soluzione, per la semplice ragione
che il vissuto in quanto tale è per principio logicamente ed
empiricamente irriducibile a una funzione neuronale. È
quello che si chiama il problema duro della coscienza. Ciò
che appartiene al vissuto ha uno statuto o una natura che
non è spiegabile in termini di sistema neuronale. Se ne può
trovare un correlato, ma questo correlato non cambia
assolutamente il fatto che il lato fenomenico [phénoménal]
resta quello che è, un'apparizione fenomenica
[phénoménal], un accesso fenomenico [phénoménal] alla
mia coscienza. Dunque bisogna mettere la discussione in
termini diversi, tenendo presente il fatto che il dibattito
sulla coscienza è cominciato e si è sviluppato per la
maggior parte negli Stati Uniti, dove la filosofia della
scienza dominante che si chiamaphilosophy of mind, è una
filosofia di tipo analitico, che si interessa essenzialmente a
dare buone definizioni delle categorie e degli oggetti,
mentre il mio background filosofico è piuttosto quello della
tradizione fenomenologica. Nella tradizione fenomenologica
il punto di partenza è la natura del vissuto e la spiegazione
materiale del mondo, la spiegazione delle relazioni tra
l'elemento fenomenico[le phénoménal] e il mondo. Non si
tratta in alcun modo di un tentativo di riduzione o di un
tentativo di dissolvere l'elemento fenomenico [le
phénoménal] nell'empirico, perché sarebbe un'impresa
destinata a fallire. Qual è l'alternativa? L'alternativa è in un
certo senso evidente - non direi banale, ma evidente - solo
che vi si rifletta adeguatamente. Perché? Perché quando
dico che la coscienza è il vissuto, non parlo di qualcosa che
esiste solo nella mia testa. Non posso mettermi alla ricerca
della coscienza a partire da un tratto di circuito cerebrale.
La coscienza non appartiene, per così dire, a un gruppo di
neuroni, appartiene a un organismo, appartiene a un
essere umano, a un'azione che si sta vivendo. Non è
proprio la stessa cosa. Che cosa vuol dire precisamente?
Vuol dire che non si può avere una nozione della coscienza
e della maniera in cui emerge, se non si prende in
considerazione il fatto che il fenomeno della coscienza
appare in un organismo ed è legato ad almeno tre cicli
permanenti di attività. In primo luogo è connesso in
permanenza con l'organismo. Si dimentica troppo
facilmente che il cervello non è un fascio di neuroni
sezionati in laboratorio, ma esiste all'interno di un
organismo impegnato essenzialmente nella propria
autoregolazione, nella nutrizione e nella conservazione di
sé, che ha fame e sete, che ha bisogno di rapporti sociali.
Alla base di tutto ciò che pertiene all'integrità degli
organismi, c'è infine il sentimento dell'esistenza, il
sentimento di esserci, di avere un corpo dotato di una
certa integrità, appunto. Per un aspetto essenziale la
coscienza rientra nell'attività permanente della vitalità
organismica che, muovendosi sullo sfondo del sentimento
di esistere, è continuamente permeata, attraversata, da
emozioni, sentimenti, bisogni, desideri. In secondo luogo è
evidentemente in collegamento [couplage] diretto col
mondo, o in interazione col mondo, attraverso tutta la
superficie sensorio-motrice. Io ho coscienza del bicchiere,
nel senso che, quando vedo il bicchiere, dico: ho coscienza
di questo bicchiere. Ma il bicchiere non è un'immagine nella
mia testa, di cui io debba prendere coscienza dall'interno,
Si è scoperto che il bicchiere - questa è buona
neuroscienza - è inseparabile dall'atto di
manipolarlo.L'azione e la percezione costituiscono un'unità
e il mondo non esiste, se non in questo ciclo, in questo
collegamento [couplage] permanente. Io amo dire che c'è
un'interazione col mondo e che il mondo emerge solo
grazie a questo collegamento [couplage] che è una fonte
permanente di senso. È un'evidenza veramente massiccia,
che si è costituita a partire dallo studio dei bambini, dalla
neurofisiologia della corteccia motoria e sensoriale, e via di
seguito. Ne potremmo parlare per diverse ore. Quando
parlo di contenuti di coscienza, e dico di vedere un
bicchiere, il volto di un amico, il cielo, non parlo di un tratto
di circuito [circuiterie] neuronale che capta un'informazione
dal mondo e ne fa un correlato della coscienza, sto
parlando di qualcosa che è necssariamente decentrato
[excentré], che non è nel cervello, ma nel ciclo, tra
l'esterno e l'interno, non esiste che nell'azione e nel ciclo,
nello stesso modo in cui il sentimento d'esistenza vive nel
ciclo tra l'apparato neuronale e il corpo. Ma c'è ancora una
terza dimensione, valida soprattutto per l'uomo - ma anche
per i primati superiori - il fatto di essere strutturalmente
concepiti per avere rapporti con i nostri congeneri, con
individui della stessa specie, l'abilità innata, di
un'importanza assolutamente centrale, che costituisce
l'empatia, di mettersi al posto dell'altro, di identificarsi con
l'altro. Il rapporto tra madre e bambino non è che una
faccenda di empatia. Non soltanto nell'infanzia, ma per
tutto il resto dell'esistenza, la vita, la vita mentale, la vita
della coscienza, la vita del linguaggio o la vita mediata dal
linguaggio, l'intero ciclo dell'interazione empatica
socialmente mediato, io non posso separarlo da ciò che
chiamo coscienza. Dunque ancora una volta non è
all'interno della mia testa che tutto questo si svolge, ma in
modo decentrato [excentré], nel ciclo. Il problema del
neuronal correlate of consciousness è mal posto, perché la
coscienza non è nella testa. Per esprimersi concisamente,
la coscienza è un'emergenza che richiede l'esistenza di
questi tre fenomeni, di questi tre cicli: con il corpo, con il
mondo e con gli altri. I fenomeni di coscienza possono
esistere solo nel ciclo, nel decentramento che esso
comporta. Qual è in tutto questo il ruolo del cervello?
Evidentemente il cervello ha un ruolo centrale, perché - la
cosa si può dire molto bene in inglese, con una espressione
difficile da tradurre - è the enabling condition, la condizione
di possibilità. Ripeto ancora una volta che la coscienza non è un
segmento di circuiti cerebrali, ma appartiene a un
organismo incessantemente coinvolto nei differenti cicli e
che quindi è un fenomeno eminentemente distribuito, che
non risiede solo nella testa. Il cervello da parte sua è
essenziale perché contiene le condizioni di possibilità
perché questo avvenga. È meraviglioso. La meraviglia del
cervello è che permette per esempio il coordinamento
sensorio-motore di tutta l'interazione, la regolazione
ormonale che assicura il mantenimento dell'integrità
corporea, e così via. Ma la nozione di neuronal correlates of
consciousness in quanto tale è, per usare le parole di Alfred
Norton Whitehead, "una concretizzazione inopportuna".
Non si può fare questa mossa senza escludere
simultaneamente molti fatti importanti. Dunque la mia è
una posizione antiriduzionista, ma al tempo stesso una
posizione assai meglio fondata.
Questo riguarda la nozione di ciclo, ma come la coscienza
emerga dal ciclo è una nozione assai fluida.
5. Lei parla di emergenza. Ci può spiegare meglio
come funziona questo concetto nelle neuroscienze?
Sì, certo. In effetti la nozione di emergenza in tutto quello
che ho detto e in tutto quello che penso riguardo a queste
cose - né sono solo a pensarlo - è una nozione
assolutamente centrale, in mancanza della quale si
continua a restare, come accade nella maggior parte dei
casi, in una visione dualista del genere body/mind, e non si
arriverà mai a comprendere come un'attività di tipo sia
cognitivo, sia cosciente possa essere collegata a una base
materiale, senza essere ridotta a un'influenza materiale,
come sia possibile un approccio non riduzionista alle basi
materiali [della coscienza]. Come dev'essere intesa al
nozione di emergenza? Ancora una volta bisogna gettare
uno sguardo sulla storia, perché si tratta di una nozione
che proviene dalla fisica, che, dall'inizio del secolo, si è
sviluppata assieme alla fisica. Proviene dall'osservazione
delle transizioni di fase o transizioni di stato o per dirlo più
chiaramente di come si passa da un livello locale a un
livello globale. Faccio un esempio banale. Sono in
circolazione [nell'atmosfera] innumerevoli particelle d'aria e
d'acqua e tutt'a un tratto per un fenomeno di
autoorganizzazione - questa è la parola chiave - diventano
un tornado, un oggetto che apparentemente non esiste,
non ha vera esistenza, perché esiste soltanto nelle relazioni
delle sue componenti molecolari. Nondimeno la sua
esistenza è comprovata dal fatto che distrugge tutto quello
che incontra sul suo passaggio. Dunque è un curioso
oggetto. La nozione di emergenza ha avuto molti sviluppi
teorici e in biologia si trova che i fenomeni di emergenza
sono assolutamente fondamentali. Perché? Perché ci
permettono di passare da un livello più basso a un livello
più alto, all'emergenza di un nuovo livello ontologico.
Quello che era un ammasso di cellule improvvisamente
diventa un organismo, quello che era un insieme di
individui può diventare un gruppo sociale, quello che era
un insieme di molecole può diventare una cellula. Dunque
la nozione di emergenza è essenzialmente la nozione che ci
sono in natura tutta una serie di processi, retti da regole
locali, con piccole interazioni locali, che messi in condizioni
appropriate, danno origine a un nuovo livello a cui bisogna
riconoscere una specifica identità. Qui la parola identità è
importante. Quando si parla di una certa identità cognitiva,
si pensa per esempio al fatto di un cane che si sposta, che
decide se andare a destra o a sinistra, che ha un certo
temperamento o un certo comportamento, una vita
individuale. Si può dire benissimo che questa è la vita
mentale, la vita cognitiva del cane: preferisce, sceglie, si
ricorda ecc. ecc. Dove ha origine tutto questo? Nella
visione delle neuroscienze l'origine è in quella serie di
interazioni, dunque nelle sue percezioni-azioni, nel
collegamento [couplage] con il mondo, che fa emergere il
livello transitorio di un aggregato, da una specie di
assemblaggio di tutti i moduli particolari che sono la
percezione in quanto tale, l'azione in quanto tale, ecc. ecc.
mettendoli insieme in una unità coordinata che sarebbe la
vita cognitiva del cane. Qui c'è un salto. Per noi è lo stesso.
La nostra identità in quanto individui è di una natura del
tutto peculiare. Da un lato si può dire che esiste. Mi
dicono: Buongiorno, Francesco, ed io sono capace di
rispondere, di avere delle relazioni con gli altri. Dunque c'è
una specie di interfaccia, di collegamento [couplage] col
mondo, che dà l'impressione di un certo livello di identità e
di esistenza. Ma al tempo stesso questo processo è di
natura tale che appunto, come in tutti i processi emergenti,
io non posso localizzare questa identità, non posso dire che
si trovi qui piuttosto che là, la sua esistenza non ha un
locus, non ha una collocazione spazio-temporale. È difficile
capire che si tratta di una identità puramente relazionale e
così nasce la tendenza a cercare i correlati neuronali della
coscienza, per trovarli nel neurone 25 o nel circuito 27. Ma
non è possibile, perché si tratta di una identità relazionale,
che esiste solo come pattern relazionale, ma è priva di
esistenza sostanziale e materiale. Il pensiero che tutto
quello che esiste deve avere esistenza sostanziale e
materiale è il modo di pensare più antico della tradizione
occidentale ed è molto difficile cambiarlo.
- Atomista, dunque?
Atomista se si vuole, ma soprattutto è un modo di vedere
che si trova alla radice della filosofia materialista. Il
fisicalismo più diffuso pretende che la sola esistenza è
quella materiale. Ora il fatto interessante è che proprio in
ambito scientifico e non filosofico, prima nella scienza e
solo in un secondo tempo in filosofia, è stata scoperta la
nozione di emergenza. Che si possano dire oggi molte
cose, che si possano impiantare anche delle equazioni su
queste transizioni da un livello all'altro, dal locale al
globale, per cui de facto la vita è qualcosa di troppo, una
maniera d'essere nella natura che non è sostanziale ma,
per così dire, virtuale - efficace ma virtuale - è una
rivoluzione scientifica della più grande importanza.
6. Accetta in questo caso di definirsi olista?
Il termine olista è superato, a mio avviso, perché risale
all'epoca in cui c'è stato lo scontro tra l'idea che si potesse
realizzare un programma riduzionista forte e una nozione
filosoficamente motivata dall'esigenza di reagire contro
quel programma. Qui non si tratta di olismo, ma di buona
scienza. Si tratta di osservare una gran quantità di processi
naturali, lo sviluppo e il funzionamento del cervello,
l'organizzazione del sistema immunitario, l'organizzazione
dei sistemi ecologici, che non possono essere capiti se non
si prende in considerazione la dialettica tra i due livelli, che
l'olismo non ha mai veramente compreso. Dunque il
termine olismo non è veramente appropriato. Quando parlo
di emergenza, parlo di qualcosa che è centrale nella ricerca
scientifica contemporanea, anche se molti non ne hanno
ancora colto l'importanza. È un problema assolutamente
essenziale - e con questo chiudo questo piccolo a parte
epistemologico - perché ciò che c'è di geniale nella nozione
di emergenza è che, se da un lato un gruppo di neuroni in
interazione con il mondo danno origine a una attività
cognitiva, dall'altro, come in tutti i processi di emergenza
naturale, una volta che ha avuto luogo l'emergenza di una
nuova identità, quell'identità ha degli effetti, ha delle
ricadute [causalité descendente] sulle componenti locali.
Che cosa vuol dire? Vuol dire che il concetto di emergenza
ci permette per la prima volta di pensare la causalità
mentale. Il mentale non è più un epifenomeno, non è più
una specie di fumo che esce dal cervello. Al contrario, si
può dimostrare scientificamente, logicamente e anche
matematicamente che l'esistenza, l'emergenza di uno stato
mentale, di uno stato di coscienza, può avere un'azione
diretta sulle componenti locali, cambiare gli stati di
emissione di un neurotrasmettitore, cambiare gli stati di
interazione sinaptica tra neuroni e così via. Questo vuol
dire che c'è un vero va-e-vieni tra ciò che emerge e le basi
che ne rendono possibile l'emergenza, che impone di fare
una descrizione completamente diversa del posto della
coscienza e della cognizione in generale - ma certamente
della coscienza - nell'universo, non come livello fluttuante,
ma come parte intrinseca della natura, come parte
intrinseca alla dinamica del mondo naturale. È questo che
mi piace e che ci fa avanzare rispetto alla perenne
ripetizione di un dualismo che non porta da nessuna parte,
senza dover ricorrere al riduzionismo, e senza che la
coscienza perda il suo statuto fenomenologico
[phénoménal], il suo statuto proprio.
7. Tuttavia è abbastanza diffusa l'idea che il compito
essenziale della scienza, di qualsiasi scienza, è di
fare previsioni, di prevedere i fenomeni. Lei è
d'accordo? Lei pensa che il suo approccio, che si basa
sulla nozione di emergenza e su altri concetti non
riduzionisti, può realmente aumentare la capacità o
la forza predittiva delle neuroscienze? In caso
contrario, questo potrebbe costituire un'obiezione al
suo approccio: si potrebbe sostenere che è più
verisimile, ma che forse non contiene in definitiva
una capacità di previsione più forte dell'approccio
riduzionista.
È giusto porre questa domanda e spesso viene posta. Ècco
come stanno le cose. Quando dominava il paradigma delle
scienze fisiche, veniva qualcuno in un congresso a dire: ho
una buona teoria per prevedere la traiettoria degli
elettroni. Gli veniva chiesto allora di fare una previsione, di
prevedere la traiettoria di un elettrone e mostrare di
conoscerne esattamente la posizione [in un dato
momento]. Eccellente metodo fondato sull'anticipazione e
la previsione. La fisica, con Einstein e la teoria della
relatività, lo ha sfruttato in modo geniale. Ma attenzione!
Sarebbe un riflesso puramente fisicalista pensare che
questo è il solo metodo con cui la scienza procede. Perché?
Perché appunto nel campo delle scienze della natura
diverse dalla fisica, per esempio nelle scienze del vivente,
non è questo che ci interessa. Poniamo che io dica: ho una
perfetta comprensione di come questo cane cammina. Che
interesse ha prevedere in che istante muoverà la zampa
destra, se nell'istante t o t1. Sembra qualcosa di
assolutamente banale. Qual è la prova che ho ragione, che
la mia teoria è buona? È il fatto che posso ricostruire un
cane capace di muoversi. Ci sono nella scienza due
approcci: l'approccio predittivo e quello che possiamo
chiamare l'approccio costruttivo. Per avere ragione dovete
essere in grado di costruire un apparecchio capace di
movimenti come quelli del cane. È qualcosa di assai più
convincente che anticipare il movimento della zampa
destra del cane. Questo è il punto: non bisogna
dimenticare che è questo il modo con cui procede oggi la
scienza. Si procede così nell'interfaccia tra le neuroscienze
e [le teorie del]l'intelligenza artificiale. L'intelligenza
artificiale è in gran parte la prova costruttiva delle teorie
nate nel campo delle neuroscienze: per esempio, fare dei
robots capaci di orientarsi in un mondo. Gli scienziati che
costruiscono questo tipo di automi si ispirano alla biologia,
ma la prova che la teoria è buona è che il robot cammina.
Non è interessante tanto prevedere il punto esatto in cui
effettuerà un certo movimento, quanto che la capacità
qualitativa di compierlo emerga e si manifesti. Dunque la
prova mediante l'emergenza, la prova dell'emergenza è la
costruzione, non la previsione.
8. Ma si può veramente costruire un vivente, - dato
che un robot non è un vivente - si possono ricostruire
realmente degli organismi viventi a partire
dall'inorganico?
Assolutamente sì. Ci siamo molto vicini, molto, molto
vicini, precisamente perché esistono teorie dell'emergenza
della cellula. Ci sono in questo campo risultati recenti
assolutamente straordinari, come la produzione di cellule di
sintesi, diverse dalle cellule storiche perché impiegano
componenti diverse. Per la stessa ragione si può tentare di
riprodurre tutto lo sviluppo di un animale multicellulare,
sulla base di cellule disaggregate. Se si ha una buona
teoria dell'emergenza, della forma di un embrione, la si
può applicare. È sempre esattamente lo stesso
ragionamento e dunque in questo tipo di prova non c'è
assolutamente meno rigore che nel vecchio tipo di prova
che è proprio della fisica. Dunque si tratta veramente di
cambiare campo.
9. Il costruttivismo è dunque una conferma del
determinismo più stretto, o al contrario fa posto,
come mi sembrava di aver capito all'inizio del suo
discorso, a una specie di indeterminismo
evenemenziale?
Tutto dipende da che cosa si intende con "determinismo".
Se "determinismo" vuol dire che si conoscono le leggi
fondamentali dell'universo, che ci permettono di
comprendere come certi fenomeni - tra cui mettiamo la
coscienza - emergano, allora sì effettivamente da questo
punto di vista si tratta di un approccio determinista. Ma
non è determinista nel senso laplaciano del termine,
perché la previsione non è interessante e né meno
possibile. Sono fenomeni complessi: la maggior parte dei
fenomeni emergenti sono detti "non lineari", perché
funzionano appunto su basi che non permettono la
previsione, sono di tipo caotico. In questi casi la previsione
in quanto tale non è interessante. Io non posso calcolare
quello che un dato individuo penserà in un istante
successivo, perché questo fa parte appunto della logica,
della legge di emergenza del suo pensiero.
10. Lei ha detto di essere stato influenzato
filosoficamente dalla fenomenologia, ed ha
accennato ad una specie di va e vieni tra
fenomenologia e neuroscienze. Ci può spiegare
meglio la sua storia intellettuale?
Sì. Evidentemente quando ci si interessa, come mi sono
interessato io, a questo genere di problemi, concernenti la
cognizione e la coscienza, si è sempre sostenuti anche da
un interesse filosofico. Assai presto ho subito una marcata
influenza della filosofia continentale e in grande misura
proprio della fenomenologia...
- ... per questo ha scelto di lavorare in Francia,
piuttosto che negli Stati Uniti o in Inghilterra?
Ci stavo arrivando. Dopo mi sono recato negli Stati Uniti
per completare la mia formazione e lavorando parecchi
anni in quel paese mi sono reso conto che l'orientamento
continentale o, se si preferisce, europeo, che avevo
appreso nella mia giovinezza, non era l'unico. Ho dovuto
iniziarmi a un approccio completamente diverso alla
filosofia, che gli americani chiamano philosophy of mind,
filosofia della mente, una filosofia di tipo francamente
analitico, improntata a uno spirito del tutto diverso, in
antagonismo, in guerra con la filosofia continentale. Ci è
voluto del tempo perché mi abituassi a questo tipo di
pensiero e, man mano che il tempo passava, mi sono reso
conto che quel tipo di filosofia non mi si addiceva affatto,
anche se a quel tempo era francamente dominante nel
campo delle scienze cognitive. I filosofi, i grandi filosofi,
che dominavano la scena, Daniel Dennett, John Searle,
venivano dalla tradizione della philosophy of mind, che a
me non diceva molto, anche perché ormai avevo deciso di
lasciare gli Stati Uniti per venire in Europa. Una volta
installato in Europa, mi sono accorto che era
effettivamente molto più interessante per me a livello dei
miei incontri, delle mie partnership, quella filosofia che non
avevo trovato negli Stati Uniti, dove lavoravo molto più
solo. C'era infatti in quel momento una vera rinascita della
fenomenologia. La fenomenologia era stata considerata per
anni dal pubblico - non certo dagli studiosi, ma dal pubblico
- come una filosofia che consisteva soprattutto nel
commento di testi specialistici, di libri polverosi, che
nessuno leggeva. Ma in realtà la fenomenologia è
soprattutto - a partire da Husserl, che ne è il fondatore uno stile di lavoro, una maniera di lavorare completamente
aperta a nuovi dati, a nuovi orientamenti. Bisogna sapere
che c'è tutta una nuova generazione, che prende la
fenomenologia come uno strumento di lavoro, per lo studio
di questioni cognitive ...
- ... nella scienza?
... nella scienza, appunto. Perché? Perché serve, è di aiuto.
Mi permetta di fare un esempio. Si parlava prima della
riconcettualizzazione della percezione, degli oggetti del
mondo. Fino a poco tempo fa si aveva un'idea
rappresentazionista della percezione. Là c'è il bicchiere e
dentro di me ho un'immagine. L'idea fondamentale che
attualmente abbiamo di questa esperienza è di una
inseparabilità dell'atto e della percezione. Adesso si scopre,
tra l'altro che Husserl e Merleau-Ponty hanno esaminato a
lungo questi argomenti e hanno estesamente tematizzato
l'inseparabilità di percezione e di azione. Se si legge, per
esempio, quello straordinario libro di Husserl che s'intitola
Ding und Raum, Cosa e spazio, dove descrive in tutti i
particolari il modo in cui le cinestesie del corpo vanno a
costituire un oggetto, si vede l'incredibile finezza
d'osservazione, propria del fenomenologo, con cui mostra
cose che oggi vengono confrontate - e concordano
perfettamente - con i risultati delle neuroscienze. Lo stesso
non si può dire dei filosofi analitici, che si sono formati su
un'analisi puramente esterna e non sono mai entrati in un
confronto diretto con i dati empirici. Ne consegue che c'è
sempre più la tendenza a fare della fenomenologia una
fonte di riflessione, tanto più se ci si interessa alla
coscienza, che è per così dire lo zoccolo duro della
fenomenologia, alla descrizione delle strutture della
coscienza, alla maniera in cui, con il metodo della riduzione
fenomenologica - che non ha niente a che vedere con il
riduzionismo fisicalistico -, con il metodo di osservazione e
di analisi fenomenologica, si può cogliere l'elemento
centrale nelle strutture dell'esperienza umana. Oggi nel
boom della coscienza, delle scienze della coscienza, c'è un
ritorno molto forte al metodo "in prima persona", che un
tempo si chiamava introspettivo, metodo capace di
prendere in considerazione i dati del vissuto personale, per
portare avanti un esperimento. È quello che si fa nei
laboratori. A chi ha questo tipo di interessi la
fenomenologia viene incontro in laboratorio come partner
naturale della sua ricerca.
11. Bisogna ricordare che Husserl ha scritto anche La
crisi delle scienze europee. Lei pensa che le scienze
europee possono superare la crisi denunciata da
Husserl. Lei pensa che il progetto delle neuroscienze
cognitive sia più forte?
Ascolti. Husserl è un pensatore multiforme e certe sue
opere sono state pubblicate solo recentemente. C'è ancora
una grande quantità di inediti, e secondo me, se si legge
un libro come Analisi delle sintesi passive, che è stato
pubblicato nel 1966, si può evitare di prendere alla lettera
il pessimismo dell'Husserl che scrive La crisi. Io non sono e lo stesso vale per la nuova generazione di coloro che si
interessano alla fenomenologia - un Husserl's scholar.
Husserl è un uomo che detto delle cose geniali, che fatto
dei lavori geniali, ma ci sono molte altre cose sue meno
interessanti. Non importa. Quello che importa è il suo stile,
l'impulso che ha impresso alla ricerca, a cui altri
contribuiscono. Dunque non si può essere d'accordo o in
disaccordo con tutto quello che ha detto, perché ha detto
tante di quelle cose che c'è spazio per l'uno e per l'altro
atteggiamento. Bisogna mettere da parte l'idea che i
filosofi siano monolitici. Secondo me filosofi come Husserl o
Merleau-Ponty devono darci delle ispirazioni per il nostro
lavoro.
12. Allora Lei crede che c'è una rinascita della
fenomenologia anche nelle scienze? In quale dominio
scientifico si verifica, secondo Lei, questa rinascita o
è in qualche modo disseminata?
Questo rinnovamento della fenomenologia, che si
interfaccia con la scienza, riguarda molti campi, ma in
modo prioritario il campo delle scienze cognitive e lo studio
della coscienza.
- Da per tutto?
Sia negli Stati Uniti che in Europa. Sono stati pubblicati
recentemente dei libri, si sono tenuti convegni e seminari a
Parigi, dunque c'è già una letteratura abbastanza
considerevole. La fenomenologia si interfaccia anche con la
matematica e la fisica matematica. È un fatto, in un certo
senso, comprensibile. Ma la sua penetrazione nell'universo
delle scienze cognitive è molto interessante, e sta
cambiando i dati del dibattito. Adesso nei convegni
americani si sente dire: bisognerebbe invitare anche
scienziati con un background fenomenologico. Si comincia
a capire che la filosofia della mente non è l'unica opzione, e
che la sua egemonia è stata scossa. È una cosa che fa
riflettere. I giovani sono sempre più interessati.
- Ci sono fenomenologi viventi a cui si sente vicino?
Sì, ce ne sono.
- Lei ha citato finora solo Husserl e Merleau-Ponty,
che sono ...
... dei classici.
- Potrebbe citarne qualcuno di più recente, di più
"cutting edge"?
Ce ne sono di molto noti come Eduard Marbach, in
Svizzera, di formazione husserliana, che si interessa molto
all'interfaccia e che ha scritto su questo tema un libro
molto interessanteintitolato Mental representations. Su
un'altra linea, di un'altra scuola è l'americano Hubert
Dreyfus, che ha avuto un grande successo per le critiche
che ha mosso, da un punto di vista fenomenologico, alle
scienze cognitive. Tra i giovani, c'è un tipo negli Stati Uniti
che mi sembra già molto importante. Si chiama Shaun
Gallagher, studioso sulla trentina, con una buona
formazione come fenomenologo e al tempo stesso come
filosofo analitico, che conosce molto bene il campo della
ricerca empirica ed è molto attivo. Un giovane filosofo
canadese con cui lavoro molto, Evan Thompson, ha anche
lui una doppia formazione, come fenomenologo e come
filosofo analitico, ma conosce anche i problemi della
scienza. Infine c'è un giovane filosofo danese molto
competente, Dan Zahavi.
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