Gottlob Frege da Senso e riferimento

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Gottlob Frege
da Senso e riferimento
(§§ 1,3,5)
Pubblicato nel 1892 sulla rivista «Zeitschrift fu Philosophie und philosophische Kritik» («Rivista di filosofia e di critica
filosofica»), il saggio di Frege su Senso e riferimento è ormai un classico, un punto di riferimento costante nelle indagini
moderne sulla dimensione semantica del linguaggio. Qui sono riportati i paragrafI in cui Frege distingue tra senso e
riferimento, mostrando che cosa si debba intendere per senso e per riferimento, dapprima in relazione ai nomi e poi in
relazione agli enunciati. Nel contesto di questa analisi, Frege mette anche in rilievo le differenze che sussistono tra il
contenuto oggettivo dei pensieri, da cui proviene il senso degli enunciati, e le rappresentazioni mentali, puramente
individuali e mutevoli.
I nomi
L'analisi dell'uguaglianza ci conduce su alcuni problemi che si connettono a essa e sono ben
difficili a risolversi. Dobbiamo vedere nell'uguaglianza un rapporto? E precisamente di che tipo?
Un rapporto fra oggetti ovvero un rapporto fra nomi (o segni) di oggetti?
In un precedente lavoro1 mi ero pronunciato in favore di questa ultima soluzione (che
l'uguaglianza sia un rapporto fra nomi). Ecco il principale motivo che sembra militare in favore
di essa: a = a e a = b sono palesemente due enunciati di valore conoscitivo diverso, poiché a =
a vale a priori e deve chiamarsi, secondo Kant, analitico, mentre enunciati della forma a = b
contengono spesso ampliamenti notevoli della nostra conoscenza e non sempre possono
venire fondati a priori2. (Per esempio la scoperta che ogni mattina non sorge un nuovo sole, ma
sempre il medesimo, è stata senza dubbio una delle più feconde dell'astronomia; e oggi ancora
il riconoscere che in diverse osservazioni abbiamo a che fare con lo stesso piccolo pianeta o
con la stessa cometa è talvolta tutt'altro che facile.) Orbene: se volessimo vedere
nell'uguaglianza un rapporto effettivo, non fra i nomi «a» e «b», ma fra gli oggetti da essi
designati, scomparirebbe ovviamente ogni diversità fra i due enunciati «a = a» e «a = b», nel
caso – ben inteso – che l'oggetto a sia proprio uguale all'oggetto b. In tal caso infatti
l'uguaglianza esprimerebbe un rapporto di un oggetto con se stesso e precisamente un
rapporto sui generis in cui ogni cosa sta con sé medesima, ma nessuna con un'altra 3.
Ciò che si vuol dire con l’enunciato «a = b» sembra dunque essere questo: che i segni (o
nomi) «a» e «b» significano la stessa cosa. L'uguaglianza parlerebbe proprio di tali segni,
affermerebbe un rapporto fra essi (e non fra gli oggetti).
Il rapporto di uguaglianza sussisterebbe però fra due nomi o segni diversi solo in quanto
essi denominano o designano qualcosa. Sarebbe cioè un rapporto che dipende dalla
connessione di ognuno dei due segni con il medesimo oggetto designato. È chiaro tuttavia che,
se fosse proprio così, il rapporto di uguaglianza risulterebbe per sua natura qualcosa di
arbitrario: non si può invero proibire a nessuno di assumere a suo arbitrio per segno di un
oggetto un qualsiasi altro oggetto e evento. Dunque, se fosse vero che il rapporto di
uguaglianza dipende soltanto da quella connessione, l'asserto «a = b» riguarderebbe, non la
cosa stessa, ma soltanto il modo di scegliere i nostri segni; non potrebbe quindi esprimere
Si tratta dell'ldeografìa, pubblicata nel 1879. Il problema di partenza è tipico delle indagini sui
fondamenti della matematica: quale valore conoscitivo ha l'uguaglianza, che riveste ruolo
centrale nelle equazioni? In via preliminare si tratta di determinare se la relazione di
uguaglianza intercorre tra oggetti o tra nomi. Frege opta per il rapporto tra nomi e fornisce
un'argomentazione a favore di questa scelta.
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Questi ultimi corrispondono agli enunciati sintetici, di cui aveva parlato Kant: in essi, il
predicato aggiunge qualcosa rispetto a ciò che è contenuto nel soggetto e questa aggiunta,
dovuta all'esperienza, incrementa le nostre conoscenze. L’enunciato analitico a = a vale invece
in tutti i casi, indipendentemente da qualsiasi esperienza, ma non accresce le nostre
conoscenze.
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Il ragionamento di Frege procede per assurdo, cioè assume come premessa la tesi contraria a
ciò che egli intende dimostrare. Ammettiamo che l'uguaglianza a = b sia un rapporto fra oggetti;
in tal caso, l'oggetto a sarà uguale all'oggetto b e, quindi, l’enunciato a = b sarà del tutto
equivalente ad a = a. Di conseguenza, l'uguaglianza esprimerebbe sempre e soltanto un
rapporto di un oggetto con se stesso, ossia si ridurrebbe sempre e soltanto a quella che è
chiamata tautologia. Occorre, allora, riconoscere che l'uguaglianza a = b intercorre non tra
oggetti. ma tra segni e nomi diversi (appunto a e b). i quali però si riferiscono entrambi allo
stesso oggetto. Il fatto di riferirsi allo stesso oggetto equivale, per Frege, ad avere lo stesso
riferimento.
1
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alcuna conoscenza. Sta invece il fatto che, in molti casi, con l’enunciato «a = b» noi vogliamo
esprimere proprio una conoscenza4.
Se il segno a si distinguesse dal segno b soltanto come oggetto (e cioè – nel presente caso
– per il fatto che le due lettere a e b hanno materialmente una forma diversa), e non si
distinguesse invece in quanto segno (cioè per il modo in cui le due lettere a e b designano un
determinato oggetto), è chiaro che il valore conoscitivo dell’enunciato «a = b» dovrebbe
risultare essenzialmente identico al valore dell’enunciato «a = a» (sempre – ben inteso –
nell'ipotesi che a sia davvero eguale a b)5.
I due valori degli enunciati «a = a» e «a = b» possono risultare diversi unicamente nel caso
che la differenza del segno rispecchi un'effettiva diversità nel modo di designare l'oggetto.
Come ciò possa accadere, ce lo spiegherà il seguente esempio. Siano r, s, t le tre mediane di
un triangolo. Il punto di incontro delle prime due coincide, com’è noto, con il punto di incontro
della seconda con la terza. Abbiamo qui pertanto due nomi diversi che indicano lo stesso
oggetto: «punto di incontro di r ed s» e «punto di incontro di s e t». Tali nomi (mentre ci
designano lo stesso oggetto) indicano anche il modo particolare con cui questo oggetto ci vien
dato, e di conseguenza l’enunciato contiene un'effettiva conoscenza 6.
Ci troviamo dunque indotti a concludere che, pensando a un segno (sia esso un nome, o un
nesso di più parole, o una semplice lettera), dovremo collegare a esso due cose distinte: e cioè,
non soltanto l'oggetto designato, che si chiamerà «riferimento di quel segno», ma anche il
«senso del segno», che denota il modo come quell'oggetto ci viene dato 7. Per esempio, nel
caso anzidetto delle mediane r, s, t, il riferimento dell'espressione «punto di incontro di r ed s» è
identico a quello dell'espressione «punto di incontro di s e t»: il loro senso invece è diverso.
Dopo aver mostrato che l'uguaglianza non può essere un rapporto tra oggetti, Frege chiarisce
che essa non può neppure essere un rapporto tra segni qualsiasi. Se così fosse, i segni
potrebbero essere scelti arbitrariamente, assegnando a una cosa un nome piuttosto che un
altro, e quindi l'uguaglianza, come già nell'ipotesi precedente, non esprimerebbe alcuna
conoscenza. Ciò che Frege intende salvaguardare è il valore conoscitivo dell'uguaglianza: essa
indica l'acquisizione di una nuova conoscenza, come mostra l'esempio della scoperta che il
sole che sorge ogni mattina è sempre lo stesso. Proprio in quanto esprime l'acquisizione di una
nuova conoscenza, l'uguaglianza a = b si differenzia da a = a.
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I segni a e b possono essere intesi come entità materiali, tracciate sulla carta: in quanto tali,
risultano avere una forma diversa. Ma per Frege non è questa la differenza rilevante. Ciò che
conta è, invece, il modo diverso in cui a e b, che compaiono nell'uguaglianza, si riferiscono allo
stesso oggetto. Poco dopo, Frege chiamerà riferimento il riferimento dei due segni, o nomi,
allo stesso oggetto e senso il modo diverso in cui essi designano questo stesso oggetto. A suo
avviso, solo riconoscendo questa distinzione, è possibile salvaguardare il valore conoscitivo
dell'uguaglianza.
6
In questa figura
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O è il punto di incontro sia di r e s, sia di s e t. Nel caso che si sappia soltanto che O è il punto
di incontro delle prime due rette, arrivare a conoscere che è il punto di incontro anche delle
altre due, ossia stabilire che si tratta sempre dello stesso punto è acquisire una nuova
conoscenza. Ciò equivale a rendersi conto che le due espressioni «punto di incontro di r e s» e
«punto di incontro di s e t» si riferiscono allo stesso oggetto, cioè O, e quindi hanno lo stesso
riferimento, pur avendo un senso diverso, in quanto modi diversi di designare questo stesso
oggetto. Dello stesso tenore è l'esempio successivo riguardante la scoperta dell'uguaglianza
della stella della sera e della stella del mattino, in precedenza ritenute diverse.
7
Un oggetto non ci viene mai dato direttamente, ma sempre attraverso un senso, ossia
attraverso la mediazione di segni: il rapporto tra senso e riferimento, anche nel caso più
semplice dei nomi propri, non è mai totalmente trasparente, in quanto il contesto in cui una
parola è usata esplicita soltanto una parte degli innumerevoli sensi di essa. Per esempio, «il tuo
libro è giallo» esprime solo uno dei molti concetti sotto cui può cadere l'oggetto denotato
dall'espressione «il tuo libro». Solo dal contesto, ossia dal concetto, è possibile passare al
riferimento del nome proprio: il riferimento è il termine di una ricerca, che conduce a scoprire
qual è l'oggetto designato attraverso il senso. Per Frege è questo ciò che è importante ai fini del
sapere.
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Analogamente per le espressioni «stella della sera» e «stella del mattino»: esse designano
l'identica stella e perciò hanno il medesimo riferimento, ma hanno invece, com' è ovvio, un
senso diverso.
Si ricava da quel che ho detto finora, che per «segno» o «nome» io intendo qui una
qualunque indicazione la quale compia l'ufficio di un nome proprio, il cui riferimento cioè sia un
oggetto determinato (ove si intenda la parola «oggetto» nel modo più ampio). L'indicazione di
un singolo oggetto può anche consistere di più parole o altri segni. Per brevità la chiameremo
sempre «nome proprio». […]
Le rappresentazioni
Dal riferimento e dal senso di un segno va poi tenuta ben distinta la rappresentazione che lo
accompagna. Se il riferimento di un segno è un oggetto percepibile coi sensi, la
rappresentazione che ho di esso è invece una mia immagine, originatasi dal ricordo sia delle
impressioni sensoriali da me provate sia delle attività, tanto interne quanto esterne, da me
esercitate. Questa immagine è spesso mescolata a sentimenti; la chiarezza delle singole parti è
diversa e fluttuante. Al medesimo senso non si collega sempre la medesima rappresentazione,
neanche nella stessa persona. Essa è poi eminentemente soggettiva variando da uomo a
uomo. Per esempio un pittore, un cavallerizzo, uno zoologo collegheranno, con tutta
probabilità, rappresentazioni assai diverse al nome «Bucefalo». Questo fatto distingue in modo
essenziale la rappresentazione, non solo dal riferimento, ma anche dal senso di un segno; il
senso non costituisce invero, come l'immagine anzidetta, qualcosa di inscindibile dal singolo
individuo, ma può formare il possesso comune di molti. Che sia così, ce lo prova l'esistenza di
un patrimonio di pensieri comuni all'umanità, patrimonio che essa trasmette di generazione in
generazione8. Sarebbe quindi poco opportuno designare col medesimo nome di
«rappresentazione» una cosa che risulta così profondamente diversa da essa.
Mentre non vi è alcuna incertezza nel parlare sic et sempliciter del senso di un segno, non si
può invece parlare – per quel che abbiamo spiegato – di una rappresentazione (rigorosamente
intesa) senza precisare a chi appartenne e in quale istante gli appartenne. Si obietterà forse:
come alla stessa parola l'uno collega una rappresentazione e l'altro un'altra, così può anche
darsi che l'uno le connetta un senso e l'altro uno diverso. In questo caso però la differenza
consiste solo nel modo di attuare questa connessione. Ciò non impedisce che entrambi
afferrino il medesimo senso; mentre è impossibile, che essi abbiano la stessa
rappresentazione. Si duo idem faciunt, non est idem. Se due si rappresentano la stessa cosa,
cìascuno ha tuttavia la propria rappresentazione. Certamente talvolta è possibile stabilire
alcune distinzioni fra le rappresantazioni dei diversi uomini, e persino fra le loro sensazioni; non
è però possibile un esatto confronto fra di esse, non potendosi avere contemporaneamente
queste rappresentazioni nella stessa coscienza.
Il riferimento di un nome proprio è l'oggetto che noi indichiamo con esso; la
rappresentazione che ne abbiamo è invece completamente soggettiva. Fra l'uno e l'altra sta il
senso, che non è più soggettivo come la rappresentazione, ma non coincide nemmeno con
l'oggetto stesso. […]
Gli enunciati assertori
Finora abbiamo trattato soltanto del senso e del riferimento di quei segni (parole, espressioni)
che chiamammo nomi propri. Ora ci poniamo invece questo nuovo problema: che cosa sono il
senso ed il riferimento di un intero enunciato assertorio? 9
Per Frege il senso ha un carattere oggettivo: esso si differenzia nettamente dalle
rappresentazioni. che sono soggettive e private. ossia in linea di principio incomunicabili. Se è
possibile comunicarlo, esso appartiene non a un singolo individuo isolato, ma al patrimonio di
pensieri comuni all'umanità. Mentre una rappresentazione comporta sempre il riferimento a chi
l'ha avuta e al momento in cui l'ha avuta, del senso si può parlare come di qualcosa che è
indipendente dal fatto di essere pensato da qualcuno in particolare. Con queste considerazioni,
Frege respinge ogni posizione solipsistica.
9
Propriamente, secondo Frege. il senso degli stessi nomi propri si costituisce in base a nessi
enunciativi, ossia non è pienamente individuabile al di fuori dei contesti enunciativi in cui i nomi
propri ricorrono. Di qui, l'importanza di analizzare in che cosa consistano il senso e il riferimento
di un enunciato.
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Un enunciato siffatto contiene, com' è noto, un pensiero 10; bisognerà quindi stabilire innanzi
tutto se questo pensiero debba venir considerato come senso o come riferimento del relativo
enunciato.
A tale scopo cominciamo a supporre che l’enunciato abbia un riferimento, e sostituiamo in
esso, al posto di una parola, un'altra con lo stesso riferimento ma con senso diverso; questa
sostituzione non può certo influire sul riferimento dell’enunciato. Orbene: che è accaduto,
invece, del pensiero contenuto nell’enunciato? Si vede subito che esso è modificato. (Per
esempio, il pensiero dell’enunciato «La stella del mattino è un corpo illuminato dal Sole» è
diverso da quello dell’enunciato «La stella della sera è un corpo illuminato dal Sole». Tant'è
vero che un individuo il quale non sapesse che la stella del mattino coincide con quella della
sera, potrebbe ritenere vero il pensiero del primo e falso quello del secondo.) Dunque il
pensiero di un enunciato non può costituire il suo riferimento; piuttosto dovremo vedere in esso
il senso dell’enunciato considerato11.
Ma che cosa sarà allora il suo riferimento? E anzi: abbiamo il diritto di porre questa
domanda, oppure dobbiamo invece ammettere che un enunciato, inteso come un tutto unico,
può possedere un senso ma non mai un riferimento?
Qualunque sia la nostra risposta, c'è da attendersi senza dubbio che – analogamente ai
nomi – esistano anche degli enunciati forniti di senso ma non di riferimento. Tali saranno per
esempio gli enunciati che contengono un nome proprio privo di riferimento. Così l'asserto
«Ulisse fu sbarcato in Itaca mentre dormiva profondamente» ha palesemente un senso, ma è
dubbio che abbia un riferimento, perché è dubbio che ne abbia uno il termine «Ulìsse» che fa
parte dell’enunciato12. Comunque è certo che, se qualcuno ritiene seriamente vero o falso
l’enunciato, egli ammetterà che il nome «Ulisse» abbia, non solo un senso, ma proprio un
riferimento; è infatti al riferimento di questo nome che egli attribuisce o non attribuisce il
predicato cui fa cenno l’enunciato. Chi non ammette l’esistenza di tale riferimento, non può
attribuirgli o negargli alcunché. Se invece qualcuno vuole fermarsi al pensiero dell’enunciato
anzidetto, sarà per lui superfluo indagare circa il riferimento delle parti che lo costituiscono; per
il senso di un enunciato può infatti interessare soltanto il senso delle sue parti. Che il nome
«Ulisse» abbia o no un riferimento, non muta il pensiero contenuto nell'asserto di poco fa. Se
noi ci preoccupiamo del riferimento di qualche parte di un enunciato, questo prova che
riconosciamo, e anzi esigiamo, in generale, un riferimento per l'intero enunciato.
In nota Frege precisa: «col termine 'pensiero' intendo non l'atto soggettivo del pensiero, ma il
suo contenuto oggettivo che può costituire il possesso comune di molti». Un pensiero è sempre
pensiero di qualcosa e l'espressione linguistica di un pensiero è l’enunciato, il quale «può
essere vero o falso, solo nel caso in cui sia l'espressione di un pensiero», dice Frege in seguito.
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Due parole aventi lo stesso riferimento, ossia riferentisi allo stesso oggetto, possono essere
sostituite in uno stesso enunciato, senza che ciò modifichi il riferimento dell’enunciato. Così, se
nell’enunciato «la stella del mattino è un corpo illuminato dal sole» sostituisco «la stella del
mattino» con «la stella della sera», il riferimento non muta, dal momento che le due
espressioni, «la stella del mattino» e «la stella della sera», si riferiscono allo stesso oggetto e,
quindi, hanno lo stesso riferimento. È possibile, tuttavia, che qualcuno – prima che si scoprisse
che sono la stessa stella – le considerasse come entità diverse e, quindi, concludesse che delle
due enunciati in cui ricorrono come soggetto «la stella del mattino» e «la stella della sera» solo
uno è vero e l'altro è falso. Ciò vuoi dire, secondo Frege, che il contenuto di pensiero dei due
enunciati in questione – a differenza del riferimento, che è lo stesso – non è lo stesso, ossia i
due enunciati hanno un senso diverso.
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Il nome proprio «Ulìsse» non ha riferimento, in quanto non si riferisce a un oggetto esistente,
e si può pertanto concludere che difficilmente ha riferimento un enunciato di cui esso faccia
parte. Se è così, di tale enunciato non si può dire che sia vero o falso, perché ciò
comporterebbe che il nome «Ulìsse» ricorrente in essa abbia non solo un senso, ma anche un
riferimento. Ciò vorrebbe dire assumere che è esistito un uomo di nome «Ulisse» che ha fatto
le cose che Omero gli attribuisce. Ma per il senso dell’enunciato concernente Ulisse è rilevante
il senso delle parti che costituiscono tale enunciato. Ciò vuoi dire che il pensiero espresso in
tale enunciato può essere espresso indipendentemente dal fatto che Ulisse sia esistito o no: in
ogni caso. il senso non cambia. D'altra parte, secondo Frege, il pensiero contenuto in un
enunciato perde parte del suo valore, se qualche parte di esso non ha riferimento. Con ciò
Frege intende dire che noi siamo interessati in prima istanza al valore di verità di un enunciato
e ciò richiede che noi ne indaghiamo il riferimento: il riferimento di un enunciato risiede nel suo
valore di verità.
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Il pensiero contenuto in un enunciato perde subito una parte del suo valore, se constatiamo
che una sua parte manca di riferimento. È dunque molto giusto che noi non ci accontentiamo
del senso di un enunciato ma ne cerchiamo il riferimento.
Per qual motivo vogliamo che ogni nome proprio possegga, non soltanto un senso, ma
anche un riferimento? Per qual motivo non ci basta il pensiero? Perché ciò che ci interessa è il
valore di verità dei nostri enunciati; se viene a mancare quest'interesse preminente per la
verità, cessa senz'altro quell'insufficienza del pensiero. E ciò si verifica in alcuni casi; per
esempio, quando ascoltiamo la lettura di un componimento epico, noi siamo esclusivamente
attratti, oltre che dalle melodie della lingua, dal senso degli enunciati e dalle immagini e dai
sentimenti da esse suscitate in noi. Col problema della verità noi perderemmo la gioia artistica
e trasformeremmo la poesia in una ricerca scientifica. Perciò, fin quando rimaniamo nel campo
dell'arte, poco ci importa se il nome «Ulìsse» abbia o no un riferimento 13.
Ciò che ci fa avanzare dal senso al riferimento è la ricerca della verità.
Si è visto che dobbiamo cercare un riferimento per un enunciato, ogniqualvolta ci
interessiamo del riferimento delle sue singole parti; e questo accade quando, e soltanto
quando, sorge in noi il problema del suo valore di verità.
Eccoci dunque indotti a vedere il riferimento di un enunciato nel suo valore di verità. Per
valore di verità di un enunciato, io intendo la circostanza che esso sia vera o falsa. Altri valori di
verità, oltre questi due, non ve ne sono; per semplicità essi verranno chiamati senz'altro il Vero
e il Falso.
Esercizi
1. Considera la prima parte dello scritto, individuando con precisione i diversi momenti del
ragionamento, e in particolare: a) la posizione del problema, b) i tentitivi di soluzione, c) la
conclusione ritenuta accettabile. Evidenzia queste parti scomponendo il brano in piccoli
paragrafi, facendoli precedere da adeguati titoli.
2. Fornisci qualche esempio della tesi secondo cui ad un medesimo senso possono
corrispondere più segni, e ad un medesimo riferimento possono corrispondere più sensi.
L'esperienza estetica di un'opera d'arte è interessata soltanto al senso di ciò che essa
esprime. non al suo riferimento e al suo corrispondente valore di verità. Per il lettore di un'opera
d'arte come l'Odissea è irrilevante che Ulisse sia realmente esistito e non si pone dunque il
problema se gli enunciati su Ulisse, che essa contiene, abbiano riferimento: ciò che conta è il
senso di esse. Il problema del valore di verità e, quindi, del riferimento è, invece, al centro di
ogni esperienza conoscitiva. La descrizione dell'acquisizione di conoscenza come passaggio
dal senso al riferimento è connessa all'attribuzione di una posizione privilegiata agli enunciati
assertori, di cui si può appunto dire che sono veri o falsi.
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